1900. Inizia il secolo
di Emilio Gentile1. All’alba di un secolo mondiale
Siamo agli inizi del XX secolo. Siamo nell’anno 1900 o, se preferite, siamo nell’anno
1901. Questa precisazione potrebbe sembrare ovvia, se non fosse che alcuni storici
sostengono che il Novecento è iniziato nel 1870, mentre altri storici sostengono che
il secolo chiamato Novecento è iniziato nel 1914.
Un secolo si compone di cento anni, questa è la classificazione convenzionale, così
come è convenzionale il sistema metrico decimale. Non c’è un metro lungo e un metro
breve. Per convenzione un secolo corrisponde a un periodo di cento anni: così è nella
lingua inglese century o nella lingua tedesca Jahrhundert. Ma nei paesi di predominante religione cattolica, il significato di secolo può essere
anche ‘epoca’: in questo caso possiamo dire che un’epoca comincia prima o dopo l’inizio
convenzionale del secolo. Ma in questo caso, se diciamo che il XX secolo inizia nel
1870 o nel 1914, commettiamo uno di quei gravi delitti di cui noi storici spesso ci
macchiamo: la prevaricazione sui posteri. Vale a dire che a noi non interessa se i
contemporanei hanno celebrato, come inizio del XX secolo, l’anno in cui loro sono
stati protagonisti del passaggio da un secolo all’altro: sono gli storici a decidere
quando inizia un secolo. E allora, per rimanere nella scia degli storici che decidono
quando inizia il XX secolo, diremo che il XX secolo è iniziato nel 1776, con la Rivoluzione
americana, perché oggi viviamo nel 2008, e lo Stato egemone nel mondo sono gli Stati
Uniti. Abbiamo così un lunghissimo secolo bicentenario dominato dalla storia americana.
Per evitare di rimanere prigionieri della elastica variabilità della dimensione di
un secolo, atteniamoci alla scansione convenzionale. Il Novecento inizia nel 1900
o nel 1901. Accettando questa convezione, ci atteniamo a un dovere degli storici:
non prevaricare sugli esseri umani del passato e ascoltare innanzitutto la loro voce.
Essi hanno molto da dire sull’inizio del XX secolo. Mai in altre epoche i testimoni
di un passaggio di secolo si sono così impegnati a riflettere sul significato di questo
passaggio, come coloro che hanno vissuto la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.
Per seguirmi in questo tentativo di ascoltare le voci del passato, invece di prevaricarle
con le nostre interpretazioni, occorre fare uno sforzo: dimenticare di essere nati
nel Novecento e fingere di non sapere già che cosa è stato il XX secolo.
Immaginiamo di essere agli inizi del Novecento. Alle spalle abbiamo l’Ottocento, davanti
a noi abbiamo un nuovo secolo di cui non sappiamo nulla. Siamo a Parigi nell’aprile
1900. Si inaugura l’Esposizione Universale. Le esposizioni universali sono un’invenzione
dell’Ottocento per celebrare le conquiste della modernità. La prima, in Europa, è
organizzata a Londra nel 1851. Parigi ha celebrato nel 1889 il centenario della Rivoluzione
francese con una esposizione universale simboleggiata dalla Torre Eiffel per glorificare
l’era del ferro e dell’acciaio. Allora fece scandalo, oggi, aprile 1900, è divenuta
simbolo di Parigi. Un’altra importantissima esposizione universale si era svolta a
Chicago nel 1892, per celebrare il quarto centenario della scoperta dell’America.
Le esposizioni universali sono la celebrazione del ‘nuovo’. Colombo ha scoperto un
nuovo mondo, la Rivoluzione francese ha iniziato un nuovo mondo. Alla chiusura dell’esposizione
del 1889 la Francia prende l’impegno di salutare l’inizio del XX secolo con un’altra
esposizione universale, ancora più grandiosa, per offrire la testimonianza visibile
dei grandi progressi che erano stati fatti nel corso dell’Ottocento.
The Wonderful Century, il secolo delle meraviglie, così si intitola un libro del biologo darwinista Alfred
Russel Wallace, pubblicato nel 1899. Nulla di quello che si scopre, che si conquista
nel corso del XIX secolo ha precedenti nella storia umana. «Senza precedenti»: è la
formula che accompagna ogni commento alle conquiste della modernità avvenute nel corso
dell’Ottocento. Il poeta francese Charles Péguy ha detto: «In questi ultimi trent’anni
abbiamo visto e vissuto prodigi tali che non hanno riscontro in nessun’altra epoca
della storia umana fin dalla nascita di Cristo».
Le rivoluzioni economiche, politiche, sociali, tecnologiche, dei trasporti che si
compiono nel corso dell’Ottocento, e soprattutto nella seconda parte, hanno cambiato
radicalmente la storia dell’umanità, come mai è accaduto in nessuna delle rivoluzioni
precedenti. E questa consapevolezza è nei contemporanei. La nuova divinità che è esaltata
nell’esposizione di Parigi è l’elettricità. Il principale palazzo dell’esposizione
è il Palazzo della elettricità: una nuova energia, misteriosa, che cambia completamente
il senso della vita perché materialmente e simbolicamente rappresenta il trionfo della
luce sulle tenebre, della scienza sull’ignoranza, del progresso sulla miseria. Come
persone che vivono il passaggio del secolo, dobbiamo sentire l’entusiasmo, l’emozione,
lo stupore, la vertigine dei contemporanei, quando di notte hanno visto illuminarsi
le loro strade e piazze. È importante che noi immaginiamo di sentire queste stesse
emozioni così come le sentivano quanti vivevano con entusiasmo l’avanzata di un progresso
tecnico senza precedenti, che ha reso il mondo più piccolo. I contemporanei del 1900
sanno già che sta iniziando un secolo ‘mondiale’, perché il mondo è diventato più
piccolo grazie ai trasporti più veloci per mare e per terra. Grazie al telegrafo e
al telefono, tutto ora può essere ricevuto simultaneamente in pochissimo tempo. E
se Jules Verne aveva immaginato il giro del mondo in ottanta giorni, per celebrare
l’inizio di un nuovo secolo ci sono degli avventurosi che lo fanno in sessanta giorni,
in cinquanta giorni, e già pensano a quando potranno compierlo in un solo giorno.
C’è un enorme entusiasmo per il progresso, che non è soltanto conquista tecnologica,
ma è il nuovo senso della vita di una umanità che sta uscendo dalla barbarie della
miseria e dalla minaccia quotidiana della morte. Il ministro Alexander Millerand,
inaugurando l’Esposizione Universale di Parigi, annuncia: «Mentre crescono all’infinito
l’intensità e la potenza della vita, la stessa morte indietreggia davanti alla marcia
vittoriosa dello spirito umano, il male afferrato alle sue origini, isolato cede ed
ecco che compare all’orizzonte l’epoca felice nella quale le epidemie che devastavano
le città e decimavano i popoli non saranno più che dei ricordi spaventosi, come le
leggende del passato».
La popolazione cresce rapidamente. L’Europa ha più che raddoppiato in un secolo la
sua popolazione, da 180 milioni a circa 400 milioni. Le città in cui viviamo si affollano
continuamente: non è un fatto astratto, statistico, è un fatto materiale. I nostri
spazi si restringono, anche se le città si allargano. La folla. La massa. È in questo
periodo, fine Ottocento, inizi Novecento, che si comincia a parlare di questa nuova
protagonista della storia: il potere non è più dei sovrani, ma è del popolo, non il
popolo astratto degli ideologi, ma un popolo fisicamente presente attorno a noi, come
folla e come massa. Le città con oltre 100.000 abitanti si moltiplicano, il fenomeno
dell’urbanizzazione diventa l’espressione simbolica, per tutti più evidente, di un
radicale cambiamento del senso della vita per una umanità che per millenni aveva vissuto
di caccia, di pesca e di agricoltura, isolata nei propri villaggi, ignara del mondo
oltre l’orizzonte del proprio villaggio, e che ora comincia a vivere in città, nelle
città delle industrie, dei trasporti rapidi e delle rapide comunicazioni.
È un cambiamento radicale. L’entusiasmo per il progresso fa pensare che si possa sconfiggere
anche la morte. Se la popolazione italiana, quella europea e anche quella mondiale,
crescono in maniera vertiginosa, non è solo perché si prolifica di più, ma perché
si muore di meno, e si muore di meno perché le scoperte scientifiche, la medicina,
l’igiene diventano le nuove divinità che scacciano la morte, sconfiggono la morte.
Queste nuove divinità vengono celebrate raffigurandole nello stile dell’art nouveau, lo stile di astrazione floreale che esalta il senso primaverile della vita. È lo
stile gioioso col quale sono decorati gli ingressi alla metropolitana di Parigi, inaugurata
in occasione dell’Esposizione Universale per un percorso iniziale di 13 chilometri.
È il senso entusiasta del nuovo che esalta la nascita del nuovo secolo. L’aggettivo
‘nuovo’ lo si ritrova ovunque, nelle arti, nella letteratura, nella scienza, nella
tecnologia, nella medicina, nella moda. Nuovo significa moderno, la modernità è la
novità e il nuovo senso della vita e del mondo.
L’uomo moderno vince la natura con il treno, con la macchina a motore a scoppio, con
la nave a vapore. Attraverso queste nuove forze motrici sono abolite le distanze e
il pianeta è unificato. Ecco perché si crede, agli inizi di questo secolo, che sarà
il secolo del progresso per l’unificazione dell’umanità, per la pace dell’umanità.
Nel 1899 si è riunita la prima Conferenza dell’Aia per discutere sulla possibilità
di una pace universale. E colui che ha preso l’iniziativa è Nicola II, zar di tutte
le Russie. Ha letto i sei enormi volumi sulla guerra futura, scritti dal finanziere
polacco Ivan Bloch.
Sono volumi che analizzano tutte le armi moderne, mettono in rapporto la possibilità
della guerra con le risorse economiche, con le conoscenze mediche e così via. Bloch
conclude che una guerra futura sarà di grandi dimensioni e di grandi orrori, e non
avrà né vincitori né vinti, ma sarà un disastro universale. Sarà una guerra lunga,
logorante, combattuta in trincee, con milioni di morti, senza nessun risultato positivo
per l’umanità. E dunque, poiché una guerra futura sarebbe così mostruosa, la guerra
futura non ci sarà, perché non ci può essere gente così insana da scatenare questo
mostro.
Si inneggia alla pace, all’inizio del Novecento. E tutti in Europa deprecano la brutalità
della guerra che la Gran Bretagna sta conducendo contro le piccole repubbliche dei
Boeri nell’Africa del Sud. E invece applaudono all’unione delle forze europee che,
insieme agli Stati Uniti e al Giappone, hanno posto fine alla violenta rivolta dei
Boxers in Cina contro gli stranieri. La concordia delle grandi potenze sarà una garanzia
di pace nel mondo. Si costruiscono armi da guerra sempre più potenti, affinché il
rischio di una guerra fra le grandi potenze sia sempre più lontano. Si prepara la
guerra perché si vuole la pace. L’industriale Nobel ha deciso che uno dei premi da
lui istituiti per celebrare le conquiste dell’umanità deve essere dedicato alla pace.
Il Premio Nobel per la pace è conferito nel 1907 all’italiano Teodoro Moneta.
È diffusa l’idea, all’inizio del nuovo secolo, che il progresso continuerà senza ostacoli.
È diffusa la fiducia che il secolo appena iniziato sia una nuova primavera per l’umanità,
alla quale seguirà una rigogliosa estate di pace e prosperità. Allora tutti si abbracceranno,
tutti si ameranno, non ci saranno più ingiustizie, non ci saranno più disuguaglianze
sociali, il progresso della conoscenza risolverà tutte le miserie e l’intelligenza
degli uomini razionali – tali devono essere soprattutto coloro che guidano i popoli
– impediranno al mostruoso armamentario di guerra, che l’ingegno ha scoperto, di mettersi
in opera e di distruggere l’umanità e il mondo in cui viviamo.
Mi guardo intorno, all’inizio del Novecento. Ovunque ci sono teste coronate: re, regine
e imperatori. Viviamo in una Europa monarchica, con solo tre repubbliche: la Repubblica
francese, la Repubblica svizzera e la Repubblica di San Marino. Interamente repubblicano
è solo il continente americano, dagli Stati Uniti alla Terra del Fuoco. Nel 1901 muore
la regina Vittoria. Il suo regno ha fatto epoca. L’imperatrice delle Indie è simbolo
della dedizione coniugale, della virtù, della moralità, della rispettabilità borghese.
È l’etica borghese che finalmente prevale sui libertini aristocratici. È una forza
morale che l’Ottocento lascia al Novecento, tenendo saldi i pilastri della moralità,
della rispettabilità, dell’amore per il lavoro, per il risparmio, per la famiglia.
Il progresso non potrà che essere inevitabile.
C’è questa speranza anche in Italia, all’inizio del nuovo secolo. È diventata uno
Stato nazionale unificato solo da quarant’anni, con tutte le sue miserie, con tutti
i suoi difetti, con tutti i suoi ritardi, ma ha già compiuto enormi progressi, è diventata
una grande potenza, la più piccola fra le grandi potenze, ma alleata con grandi potenze
e corteggiata da altre grandi potenze.
2. Il futuro di una modernità ambigua
Il Novecento inizia nel 1900, è vero, ma del Novecento si parla già molto, mentre
l’Ottocento sta finendo. Nel 1894 a Boston viene creato il Twentieth Century Club.
Negli anni Novanta, una casa editrice americana pubblica una collana narrativa di
167 volumi intitolata «Twentieth Century Series». Un altro editore pubblica 60 volumi
della «Twentieth Century Library». C’è una collana di medicina pratica in 21 volumi
intitolata «Twentieth Century Practice». E ci sono anche i «Twentieth Century Textbooks».
Il secolo che si chiude alla fine dell’Ottocento sembra ansioso di anticipare la nascita
del XX secolo. Eppure non tutti condividono questa immagine solare e floreale del
nuovo secolo.
La civiltà europea ha conquistato il mondo e lo domina. L’Africa le appartiene, quasi
tutta l’Oceania le appartiene, gran parte dell’Asia le appartiene. E nel nuovo mondo
vivono e dominano ovunque i discendenti dell’Europa, gli ‘Europeidi’ come potremmo
chiamarli. Nessuna civiltà nella storia è stata mai mondiale come lo è la civiltà
europea. L’Europa è il centro del mondo. Gli Europei e gli Europeidi dominano il mondo,
lo controllano, lo trasformano in nome della civiltà e del progresso. L’Europa che
domina il mondo ha fede nel progresso.
Eppure, dietro le immagini vivaci ed esuberanti di primaverile bellezza e freschezza
dei manifesti vistosamente colorati delle pubblicità, che gioiosamente esaltano il
progresso, c’è un timore oscuro che questa rigogliosa espansione della civiltà europea
possa essere il fiore sgargiante di una pianta che sta per iniziare a morire. Perché
questo è il destino delle civiltà. Gli Europei hanno appreso dalla storia che le civiltà
sono mortali. Forse l’apogeo della civiltà è l’inizio della sua decadenza.
Uno dei libri di maggior successo, alla fine dell’Ottocento, ha un titolo sinistro:
Degenerazione. L’autore è un medico, Max Nordau, un ebreo impegnato nel movimento sionista da poco
fondato per assicurare agli Ebrei, dispersi nel mondo e perseguitati dai movimenti
e dai governanti antisemiti, una propria patria. Il suo libro, tradotto in varie lingue,
è una spietata diagnosi dei mali che la modernità ha prodotto con la tumultuosa trasformazione
del mondo in cui viviamo: una nevrotica frenesia, che insidia la salute dell’uomo
moderno facendo già apparire in lui i sintomi della degenerazione. La paura della
degenerazione è una ossessione che convive con l’entusiasmo per il progresso, e comincia
a circondarlo di pessimismo.
L’Ottocento che finisce sembra lasciare in eredità al Novecento che nasce il germe
della degenerazione. Fin de siècle, l’espressione coniata alla fine dell’Ottocento, è diventata sinonimo di un’incombente
catastrofe che non può non investire una società che ha raggiunto i limiti della sua
espansione.
Il Novecento inizia con previsioni sul futuro dell’Europa che non incoraggiano l’ottimismo
del progresso e le speranze di una pace universale. Un medico e antropologo italiano
molto noto nel mondo per i suoi studi sulla criminalità, Cesare Lombroso, commenta
con pessimismo l’inizio del nuovo secolo, in un articolo pubblicato nel febbraio 1901:
«Noi assistemmo veramente in quest’ultimo ventennio ad un’era di politica assolutamente
barbara; e, più triste anche a dirsi, la barbarie e la violenza partirono dai popoli
più civili... noi vediamo scatenarsi la violenza bestiale della guerra da un punto
all’altro del globo, nell’Africa, nelle Filippine, nella Cina e per parte di paesi
e di popoli che si credono civili». L’anno dopo, il direttore di una influente rivista,
«The Review of Reviews», l’inglese William T. Stead, pubblica un saggio, in cui denuncia
la prossima americanizzazione del globo e del vecchio continente. La sua previsione
suscita molte discussioni in Europa. Illustri intellettuali intervengono per sostenere
la necessità di una coalizione di Stati europei per salvare l’Europa e il globo dall’americanizzazione.
Nello stesso anno, uno studente di ingegneria austriaco di 22 anni, Robert Musil,
copia nel suo diario le considerazioni sulla ambigua condizione esistenziale dell’uomo
moderno scritte da Nietzsche due anni prima: «L’innocenza tra contrari, questa ‘buona
coscienza’ nella menzogna è piuttosto moderna, con essa quasi si definisce la modernità.
L’uomo moderno rappresenta biologicamente una contraddizione di valori, ha il piede
in due staffe, dice nello stesso tempo sì e no, noi tutti portiamo incarnati, a nostra
insaputa e nostro malgrado, valori, parole, formule morali di origine antitetica,
siamo dal punto di vista fisiologico falsi».
Nello stesso periodo, un altro giovane di 20 anni, Benito Mussolini, che va girovagando
per la Svizzera da emigrante, ma facendo soprattutto l’agitatore socialista rivoluzionario,
scrive le sue considerazioni sul
grande dualismo in cui si dibatte la coscienza moderna [...] questa dipende da non
aver ancora radicate convinzioni nell’animo da opporre all’ambiente corrotto e alle
vecchie consuetudini [...]: l’anima collettiva non è ancora interamente formata e
si dibatte fra il vecchio e il nuovo, fra gli ideali moderni e le credenze antiche.
Ma se si può spiegare l’incertezza come proveniente dalla stessa arduità dei problemi,
non si può che deplorare la viltà frutto del compromesso e della transazione con le
idee professate.
Cosa hanno in comune questi due giovani che riflettono sulla condizione dell’uomo
moderno? Sono entrambi lettori di Nietzsche, il filosofo solitario citato dallo studente
austriaco. Nietzsche ha bruciato la sua mente in un’intensa e appassionata riflessione
impegnata a mettere a nudo, con spietata gaiezza, l’anima dell’uomo moderno. E ha
vissuto gli ultimi anni della sua vita ammutolito nella follia, dopo aver abbracciato
un cavallo in piazza Carlo Alberto a Torino e aver scritto lettere in cui annunciava
di essere Dio, Dioniso e l’Anticristo. Come se la visione dell’uomo moderno nella
sua nudità gli avesse annientato il cervello. Il filosofo ammutolito dalla follia
– o dalla sapienza? – muore il 25 agosto 1900. Quasi una coincidenza simbolica con
l’inizio del Novecento.
Nel 1900 è pubblicato a Vienna il libro di un medico, Sigmund Freud, che si intitola
L’interpretazione dei sogni. In realtà è stato stampato nel dicembre 1899, ma l’editore ha forse pensato più
efficace apporre la data del 1900. Anche questa, forse, una coincidenza simbolica.
Il libro non ha alcuna fortuna. Sembra che ci siano voluti sette anni per venderne
ottocento copie. Il dottor Freud è un medico umanista e razionalista, che tuttavia,
con le sue indagini di psicoanalisi, ha messo a nudo l’uomo moderno molto più di quanto
non abbia fatto il filosofo impazzito. Il medico viennese rivela che l’uomo moderno
prodotto dall’Occidente, l’uomo razionale che si considera padrone del mondo e di
se stesso, in realtà è una fragile creatura: la sua razionalità, entro lui stesso,
convive con una potenza irrazionale e incosciente, che lo domina, lo sovrasta, lo
condiziona in tutto quel che fa e che pensa.
La condizione dell’uomo moderno costruttore della più razionalista delle civiltà umane
è un’esistenza dominata da forze irrazionali che vivono nella sua stessa personalità.
La razionalità della quale tanto si vanta l’Ottocento come la grande conquista dell’uomo
moderno, non è altro che una pellicola sottilissima su un vulcano in continua eruzione.
Tutte le conquiste della razionalità moderna sono un edificio precario perché le sue
fondamenta poggiano sulla tellurica irrazionalità dell’uomo.
Anche Nietzsche era giunto ad avere una visione dell’uomo moderno: «La disgregazione,
e quindi l’incertezza, è propria di quest’epoca, nulla poggia su una solida base e
su una fede dura, si vive per il domani, perché il postdomani è dubbio. Tutto è sdrucciolevole
e pericoloso sul nostro cammino e il ghiaccio che ancora ci sostiene è diventato così
sottile e noi tutti sentiamo il caldo soffio del vento del disgelo. Qui dove ancora
noi camminiamo, fra poco più nessuno potrà camminare».
Il medico psicanalista e il filosofo del superuomo non sono gli unici a percepire
la modernità come un’epoca profondamente ambigua: la modernità ha certamente creato
una nuova civiltà rigogliosa e potente, ma potenti sono anche le forze negative che
la stessa modernità sta generando. Non esigua la schiera dei pensatori che prevedono
per l’uomo moderno del Novecento un cammino tutt’altro che pacifico.
Nel 1898 uno dei più noti sociologi italiani del momento, Guglielmo Ferrero, ha fatto
un annuncio inquietante:
È facile capire che la civiltà moderna si avvicina, attraverso le incertezze della
nostra età, al momento di uno sforzo terribile e che sarà, per l’avvenire nostro di
molti secoli, decisivo... Si avvicina, insomma, uno di quei momenti della storia che
si potrebbero chiamare di ebollizione; nei quali, come l’acqua posta sopra la fiamma,
la massa degli esseri umani, prima appena agitata da un tremolio impercettibile, si
rimescola a un tratto da capo a fondo. Chi può dire quanto dolore, quante vite umane
precocemente spente costerà alle nazioni civili questa crisi terribile? Quanti uomini
dovranno soffrire sofferenze infinite e anche morire, violentemente o lentamente nelle
imprese di emigrazione, nelle guerre, nelle rivoluzioni, nelle carceri, nello sforzo
sovrumano del pensiero teso convulsamente alla lotta, nel cozzo di passioni diventate
frenetiche.
Un celeberrimo scrittore di fantascienza, H.G. Wells, ha lugubri pensieri sul futuro
della democrazia. Scrive nel 1901: «La fine della democrazia sarà inevitabile, l’inevitabile
risultato delle nuove forze sociali, industriali ed educative, le quali sono ora in
azione; la democrazia perirà nella guerra, che è il suo inevitabile corollario». E
un sociologo italiano che insegna in Svizzera, a Losanna, e scrive spesso su giornali
italiani non conformisti, Vilfredo Pareto, concorda con lo scrittore inglese: «la
società europea cammina a precipizio verso un reggimento di demagogia autoritaria».
Questa è la situazione all’inizio del Novecento, come la percepiscono, con animo contrastante
fra entusiasmo e timore, i testimoni del passaggio del secolo. Noi siamo in Italia.
E l’Italia è il paese in cui tutto ciò che abbiamo visto diagnosticato per l’Europa
e per la civiltà occidentale è presente. È presente l’avanzata del progresso, esaltata
nei manifesti che annunciano le prime gare automobilistiche, il traforo del Sempione
e le Mostre dell’igiene. Vengono pubblicizzate le biciclette, mezzo di emancipazione
per la donna. Grazie alle società ciclistiche femminili, il femminismo fa più strada.
Ma questa Italia che partecipa interamente alla euforia della nuova primaverile nascita
del XX secolo, vive contemporaneamente tutto il lato oscuro dei foschi presentimenti.
Il secolo appena concluso è finito fra tumulti, massacri, tentativi reazionari. Il
secolo nuovo è iniziato da sette mesi, ed ecco, un nuovo evento potrebbe rigettare
il paese nel caos.
3. È morto il re, viva il re
Il 29 luglio 1900 un anarchico uccide il re Umberto I in visita a Monza. Perché lo
ha assassinato? In fondo era chiamato ‘il re buono’. Si vede che la bontà non paga.
Era chiamato ‘il re buono’, ma aveva conferito una medaglia al generale che a Milano,
nel 1898, aveva dato l’ordine di far fuoco sulla folla che protestava per la fame.
Le vittime furono centinaia. Ma questo eccidio di folla inerme era l’epilogo di quasi
un decennio di vita italiana di governi precari, di corruzione politica e di scandali,
come lo scandalo della Banca Romana, in cui erano coinvolti due presidenti del Consiglio,
Giovanni Giolitti e Francesco Crispi. Dopo gli scandali, le avventure coloniali finite
disastrosamente, nel 1896, quando l’esercito etiope fa strage dell’esercito italiano.
Il fautore dell’impresa, il presidente Crispi, è costretto finalmente a lasciare il
potere, ma nonostante tutto, negli ultimi due o tre anni del secolo che è appena finito,
in Italia si cerca di attuare un progetto di restaurazione autoritaria, per togliere
il potere al Parlamento e restituirlo al re.
Il tentativo fallisce perché i liberali di sinistra, i democratici e i socialisti
fanno ostruzionismo e bloccano i progetti per mettere il Parlamento a tacere. Umberto
I, che aveva sostenuto questo tipo di politica, paga anche per questo.
C’è il pericolo che il paese ritorni sulla strada di una politica autoritaria e reazionaria?
Il nuovo re, Vittorio Emanuele III, prende un’altra strada. Ha 31 anni, era in mare,
in crociera nel Mediterraneo, quando ha appreso la notizia della morte del padre;
tornato in Italia, attraversa in treno tutta la penisola, dal Sud al Nord, per raggiungerlo
a Monza.
Il nuovo re è un giovane piuttosto scettico, piuttosto freddo, è stato educato rigidamente.
Forse il fatto di non avere una statura regale gli ha creato un certo complesso di
inferiorità. Forse avrebbe preferito non fare il re. Ma l’assassinio del padre lo
costringe a salire al trono. E lo fa con alto senso della dignità regale. È un re
che non ama i fasti del potere come il padre, e si trova a governare il paese dopo
uno dei periodi più turbolenti, più tempestosi, più gravi della storia dell’Italia
unita: una enorme responsabilità. Ma non nutre foschi progetti reazionari per vendicare
la morte del padre. Anzi, gode fama di essere democratico, la stampa internazionale
lo presenta come un re di sinistra, un re liberale, un re democratico.
Per saperne di più su di lui e sull’Italia all’inizio del Novecento, leggiamo un libro
appena uscito, fresco di stampa, non è sfogliato, si intitola L’Italia d’oggi. Gli autori sono due inglesi, Bolton King e Thomas Okey. È stato pubblicato da una
casa editrice che ha appena un anno di vita: Gius. Laterza e Figli Tipografi-Editori-Librai.
Leggiamo l’Avvertenza. È scritta da un giovane studioso che ha superato da poco trent’anni,
ma è già un nome affermato nel mondo della cultura. Si chiama Benedetto Croce, è un
napoletano che ha scritto di letteratura, di storia, di teatri, di economia, di filosofia.
Non possiamo chiamarlo professore perché non insegna nell’università e neppure in
un liceo. Non possiamo neppure chiamarlo dottor Croce, perché non ha mai preso una
laurea. È un autodidatta di genio, con una cultura superiore alla cultura di molti
professori universitari, ed è a suo modo un rivoluzionario della cultura che si diverte
a polemizzare con i professori universitari.
È il signor Croce che ha consigliato a Giuseppe Laterza, il neonato editore, di pubblicare
questo libro sull’Italia. «Il bravo editore Laterza – scrive nell’Avvertenza – mi
si rivolse per suggerimenti e consigli su opere da pubblicare, io non esitai a proporgli
in prima linea questa che il lettore ha innanzi». Croce scrive che apprezza molto
questo libro perché scritto con stile sobrio e virile, presenta cose e non frasi,
e può essere un antidoto contro lo scoraggiamento e il pessimismo. Mi accingo subito
a leggere questo libro per capire cosa potrà accadere in Italia con il nuovo re, e
con tutti i guai che ci siamo tirati dietro dall’ultimo periodo dell’Ottocento.
Il primo capitolo: «La politica e gli uomini politici».
Uno dei primi fatti che fermano l’osservatore della vita italiana è la confusione
e la decadenza dei vecchi partiti politici [...]. L’azione loro sembra poco meglio
di una interessata lotta per raggiungere cariche pubbliche e di una cieca resistenza
a forze che non sanno comprendere e assimilare e pertanto temono. Tutto ciò era molto
differente una generazione addietro. La politica italiana si è annebbiata: niente
lo mostra in modo più penoso della differenza che corre fra la Destra e la Sinistra
di oggi rispetto agli uomini politici che governarono l’Italia nuova nei suoi primi
tempi.
Ho appena cominciato a leggere e ho compreso subito che gli autori, come ha avvertito
Croce, non hanno scritto una geremiade sui guai dell’Italia. Al contrario, dopo aver
descritto spietatamente tutti i mali di cui soffre questa nazione, tuttavia scrivono:
Del presente re Vittorio Emanuele III è troppo presto per dir molto. Ma quel poco
che è conosciuto, torna in gran parte a suo favore. Egli è stato accuratamente, anche
troppo accuratamente, educato, e un tempo soffrì del troppo studiare. [...] Ma, se
[la monarchia] si mette contro il progresso, se parteggia per la reazione, per le
gravose spese militari e per una politica estera di avventure, allora è condannata,
forse in un avvenire non lontano.
4. Il decennio giolittiano: una democrazia empirica
Vittorio Emanuele III, salito al trono, decide subito di non voler correre avventure
reazionarie, di abbandonare la politica perseguita nell’ultimo decennio, che è impersonata
da una singolare ed eminente figura della politica liberale italiana, Sidney Sonnino.
Basta guardare un suo ritratto e si prova soggezione: è un uomo severissimo, austero.
Ha uno splendido castello sul mare, e lo ha battezzato il Romito: lì si ritira, solo,
a studiare e a meditare sull’Italia, guardando il mare. Non è un reazionario, ma un
liberale conservatore, e uno studioso di grandissima competenza, che sa organizzare,
teoricamente, grandi progetti di riforma. Dopo l’assassinio del re, ha scritto un
grosso saggio, come è suo costume, intitolato Quid agendum?, che facciamo? E lui dice che bisogna fare una politica di riforme, riforma tributaria,
riforma del Mezzogiorno, riforma della politica.
Al suo piano di riforme risponde modestamente, con poche parole, in un articolo su
«La Stampa», un altro esponente della politica italiana più giovane di Sonnino, Giovanni
Giolitti, che era stato già presidente del Consiglio dal 1892 al 1893 ed era stato
coinvolto, come ho già ricordato, nello scandalo della Banca Romana. Per un po’ si
era assentato dalla politica. Poi fu assolto da tutto, aspettò il suo tempo. E questo
venne dopo l’assassinio del re. Giolitti è tornato al governo nel 1901, grazie al
coraggio del nuovo re di dare corso a una nuova politica liberale, come è chiamata.
I principali interpreti del nuovo corso liberale sono il presidente del Consiglio
Zanardelli e Giolitti, come ministro dell’Interno, poi dal 1903 Giolitti come presidente
del Consiglio. Anch’egli è una figura austera, molto alto, un montanaro piemontese
che amava camminare. Usava recarsi a piedi dalla sua abitazione a Roma, in via Cavour
71, fino a Palazzo Braschi, che era la sede del suo ufficio.
Giolitti rimane al potere quasi ininterrottamente dal 1903 al 1914. È il più lungo
periodo di governo sotto un solo uomo nella storia della democrazia parlamentare italiana.
Per un decennio Giolitti è il dominatore della politica italiana. È perciò importante
capire le sue idee politiche per capire il suo stile di governo. Molti lo accusarono,
nel 1892, quando diventò per la prima volta presidente del Consiglio, e continueranno
a farlo per tutto il decennio dei suoi governi, di essere un burocrate senza cultura,
soltanto ambizioso e avido di potere. Giolitti in effetti non ha scritto saggi politici,
non ha composto piani di riforme. Scrive pochi articoli per i giornali. Per il resto,
tutto ciò che scrive sono i suoi discorsi, parlamentari ed extraparlamentari, e le
lettere ai familiari, nelle quali rivela talvolta le sue idee sull’uomo e sulla politica,
che non può manifestare pubblicamente. Come in questa lettera alla figlia, del 1896:
Mettiti in capo questo, figlia mia, che gli uomini sono quello che sono in tutti i
tempi e in tutti i luoghi, con i loro vizi, i loro difetti, le loro passioni, le loro
debolezze e il Governo deve mirare a correggere, a migliorare, ma anch’esso è composto
di uomini, e l’uomo perfetto non esiste. Un Governo è il portatore di secoli di storia
e la peggiore di tutte le Costituzioni sarebbe quella che venisse studiata in base
a principi astratti e non fosse adattata in tutto e per tutto alle condizioni del
paese. Il sarto che ha da vestire un gobbo, se non tiene conto della gobba non riesce.
Io non sono conservatore, tutt’altro, vedo troppo chiaro quanto vi è di brutto e di
spregevole nell’andamento attuale della politica italiana, ma non voglio aiutare chi
ci porterebbe a cose peggiori. Purtroppo non vi è una scelta fra il bene e il male,
ma fra mali diversi, e questo è il lato triste della politica. E ricorda che per dare
un giudizio bisogna considerare le cose come sono, non come dovrebbero essere.
Questa è la filosofia politica dell’uomo che dominerà la politica italiana per oltre
dieci anni, e che non fa assolutamente sfoggio né di retorica né di cultura; quando
viene accusato di fare una politica empirica, lui risponde: «Certo, è proprio una
politica empirica, se per empirismo si intende tener conto dei fatti, tener conto
delle condizioni reali del paese e delle popolazioni in mezzo alle quali si vive il
sistema sperimentale che consiste nel tener conto dei fatti e procedere a misura che
si può, senza grave pericolo, è il più sicuro ed anzi il solo possibile».
Giolitti è un convinto liberale, anche se un liberale empirico. Egli vuole rafforzare
la monarchia, ma è convinto che i metodi autoritari la indeboliscono. Per difendere
le istituzioni, sostiene apertamente Giolitti, lo Stato non deve parteggiare nei conflitti
di lavoro, non si può reprimere quello che lui chiama il ‘quarto stato’ che avanza
e che fa parte della nazione. Una delle sue prime iniziative, quella che crea più
proteste da parte della classe politica, è il fatto di non far più intervenire la
forza pubblica nei conflitti di lavoro, ma solo quando è minacciato l’ordine pubblico.
Un senatore di Mantova gli dice: «Presidente, onorevole, l’altro giorno ho dovuto
spingere l’aratro». E Giolitti, secco: «Ha fatto bene, senatore Arrivabene, così si
renderà conto delle condizioni in cui vivono i suoi contadini e aumenterà le loro
paghe». Questo è Giolitti. Ed è convinto che una monarchia nata dai plebisciti non
possa governare che con i plebisciti. E questa sarà la sua direttiva per tutto il
periodo che lo vede dominatore della politica italiana.
È un periodo in cui assistiamo al progresso della società italiana, al cambiamento.
C’è chi protesta, ma grazie alla politica di Giolitti il Partito socialista, che era
stato represso da Crispi e dai suoi successori, può liberamente riprendere la sua
azione di lotta e di organizzazione. In questo periodo c’è una esplosione di scioperi
nelle campagne, ci sono ancora quelli che i socialisti chiamano ‘eccidi proletari’,
cioè la forza pubblica che per difendere l’ordine interviene e a volte uccide, ma
non è più una sistematica repressione delle agitazioni contadine. E viene contemporaneamente
varata una legislazione sociale a favore dei lavoratori.
È quindi una società che nel suo complesso cambia e migliora, rispetto al passato.
Diminuisce l’analfabetismo, migliorano le condizioni delle donne e dei bambini che
lavorano. Si sviluppano le organizzazioni sindacali. Nel 1906 nasce la Confederazione
generale del lavoro e contemporaneamente nasce la Confederazione degli industriali.
La società italiana si va modernizzando seguendo il corso di tutta l’Europa. Possiamo
dire che questo è il principio del secolo più europeo dell’Italia.
L’Italia celebra nel 1911 i suoi primi cinquant’anni di unità, il cosiddetto Giubileo
della Patria. Sono organizzate tre grandi esposizioni a Torino, a Firenze e a Roma
soprattutto, le tre capitali del Regno d’Italia dal 1861 in poi. Anche in queste esposizioni
predomina l’esaltazione simbolica del progresso, della luce, della giovinezza.
A Roma il 4 giugno è inaugurato l’Altare della Patria, anche se non è stato completato:
mancano ancora le quadrighe, la statua di Roma è di cartapesta. Si celebrano i progressi
dell’Italia unita. La stampa straniera, persino la stampa austriaca, si unisce al
coro degli elogi per i progressi che sono stati compiuti dagli italiani in soli cinquant’anni
di vita unitaria.
Le statistiche del 1911 ci mostrano che l’Italia ha fatto progressi in ogni campo,
sintetizzabili in una sola cifra: il reddito nazionale è aumentato del 50 per cento
fra il 1895 e il 1911. È il decennio della prima rivoluzione industriale italiana.
La collocazione internazionale dell’Italia nel 1911 conferma questi progressi. L’Italia
partecipa al concerto delle grandi potenze europee, è alleata con l’Austria, è alleata
con la Germania, ma tratta, a volte segretamente a volte apertamente, con la Francia,
con l’Inghilterra, con la Russia. È un paese, dice un osservatore francese, al quale
l’avvenire riserva grandi cose.
5. Colonialismo ed emigrazione: le due Italie
E il 1911 è anche l’anno in cui inizia la guerra di Libia, che si concluderà nell’autunno
dell’anno successivo. È la prima guerra che l’Italia combatte e vince da sola. È una
guerra coloniale contro un grande impero, l’impero turco, decisa da un uomo politico,
Giolitti, che fin dal suo ingresso in politica era stato ostile alla politica imperialista,
che considerava incompatibile con la politica democratica. La politica imperialista,
aveva detto, richiede enormi quantità di denaro e il sacrificio della libertà, mentre
la politica democratica consente di progredire nel commercio, nell’economia, conservando
la libertà. Eppure Giolitti decide che l’Italia non può lasciare che la Libia cada
in mano altrui e riesce a concludere rapidamente una pace vittoriosa, proclamando
l’annessione della colonia.
Giolitti però vuole subito avvertire che la politica estera dell’Italia non può essere
dettata dalle emozioni, che la decisione di conquistare la Libia fu una fatalità storica
alla quale l’Italia non poteva sottrarsi, ma che non c’è, non ci deve essere confusione
fra politica estera e politica interna. Agli studenti nazionalisti che sotto il balcone
del suo albergo, dove alloggiava frequentemente quando va a Torino, lo applaudono
per la conquista della Libia, Giolitti risponde: «Bravi, grazie, adesso fate una cosa
seria, tornate a studiare nelle vostre scuole». Questo è il personaggio Giolitti,
uomo senza retorica e senza sogni imperiali, che tuttavia riesce a completare quella
che era un’aspirazione della Terza Italia alla grandezza, con la conquista della Libia.
L’Italia è una grande potenza, la sua economia marcia, i suoi soldati marciano. È
una democrazia in cammino che gode il periodo della più lunga stabilità governativa,
garantita da quella larga maggioranza giolittiana che mantiene Giolitti al potere,
salvo brevissimi intervalli, per oltre un decennio. Anche questa stabilità sembra
una conquista: nei 22 anni di regno di Umberto I ci furono ben 21 governi. Alla guida
del governo dal 1903, lo lascia dopo le elezioni del 1904, ma vi ritorna nel 1906
e vi rimane fino al 1909: è il cosiddetto ‘lungo ministero’. Poi lascia di nuovo il
governo dopo le elezioni del 1909, ma vi ritorna nel 1911 e vi rimane ancora fino
al marzo 1914.
Sono anni di progresso economico, ma anche di rinnovamento culturale. L’Italia vince
il Premio Nobel per la medicina, vince il Premio Nobel per la letteratura, vince il
Premio Nobel per la pace, e poi il anche il Premio Nobel per la scienza. Quattro Premi
Nobel nel decennio giolittiano sono un riconoscimento al valore europeo della cultura
italiana.
Ma c’è un’altra faccia nell’Italia del primo Novecento. C’è l’Italia della belle époque, con i colori sgargianti e festosi dei suoi manifesti pubblicitari. Ma c’è anche
un’Italia che non è a colori, per così dire, nel senso che vive nel grigiore di un’esistenza
ancora povera, in condizioni arretrate: milioni di italiani, soprattutto contadini,
conducono una vita stentata, di miseria, di povertà, che li costringe a lasciare l’Italia
come mai era accaduto in passato, per emigrare in Europa e soprattutto oltre oceano.
Avviene in questo inizio del Novecento il più grande esodo della storia italiana,
un esodo pacifico ma sofferto di emigranti, quasi 10 milioni fra il 1896 e il 1913.
Il punto più alto lo si raggiunge proprio dopo la guerra di Libia, che avrebbe dovuto
assicurare terra e lavoro alla «grande proletaria», come Pascoli aveva chiamato l’Italia.
Sono oltre 800.000 gli emigranti che lasciano l’Italia nel 1913 e vanno oltre oceano.
Questo è l’altro lato dell’Italia di primo Novecento. È, in gran parte, l’Italia del
Meridione. Ed è anche l’Italia degli antigiolittiani.
Giolitti ha goduto pochissima stima fra gli intellettuali del suo tempo, sia di destra
che di sinistra. Forse è stato l’uomo politico italiano più detestato dalla cultura
italiana in quel periodo. Gaetano Salvemini, socialista riformista e meridionalista,
lo marchiò nel 1911 con l’infamante epiteto di «ministro della malavita». Perché non
adopera nei confronti delle masse diseredate dei contadini meridionali lo stesso metodo
di favori che accorda agli operai organizzati del Nord. Perché nel Mezzogiorno Giolitti
utilizza i prefetti e i ‘mazzieri’ per ottenere la vittoria dei candidati a lui graditi
e la sconfitta dei candidati sgraditi. E perché la sua politica protezionista tutela
le industrie settentrionali, i sindacati e le cooperative degli operai organizzati
del Nord, mentre poco il governo fa per il Sud, per i contadini, per i consumatori
non privilegiati. Molte accuse sono esagerate, alcune ingiuste, altre colpiscono nel
segno limiti e difetti effettivi della politica giolittiana.
6. Cultura militante e avanguardia modernista
Salvemini è soltanto uno degli esempi dell’ostilità antigiolittiana. Contro la politica
di Giolitti si mobilita larga parte della cultura militante italiana, che ha il suo
eroe rappresentativo in un intellettuale italiano di fama europea e anche mondiale
come Gabriele D’Annunzio. In quel periodo D’Annunzio vive in Francia, dove si è rifugiato
per sfuggire ai suoi creditori, ma continua ad atteggiarsi a vate della nuova Italia
e inneggia alla guerra di Libia scrivendo le canzoni per le gesta d’oltremare, dove
esalta la romanità dell’impresa coloniale che incammina l’Italia verso una nuova grandezza.
La grande Italia che D’Annunzio sogna a sua immagine e somiglianza non ha niente in
comune con l’Italia di Giolitti, l’Italietta, come veniva sprezzantemente definita
dai profeti di una Grande Italia.
Ma non c’è solo D’Annunzio ad avere un’idea diversa dell’Italia, diversa dall’Italia
di Giolitti. C’è Benedetto Croce, l’opposto di D’Annunzio, il suo critico più severo
e il suo maggiore antagonista come guida spirituale delle nuove generazioni di Italiani,
che sono tutte antigiolittiane perché sognano una Italia diversa dall’Italia giolittiana.
All’inizio del nuovo secolo, Croce si propone di dedicarsi al rinnovamento della filosofia
e della cultura italiana, pubblicando i volumi sistematici della sua «filosofia dello
spirito» e iniziando nel 1903 una nuova rivista, «La Critica», con la quale intendeva
contribuire alla formazione di una coscienza nazionale moderna, come scriveva nel
suo diario del 1902.
D’Annunzio pure voleva creare una coscienza nazionale moderna, a modo suo, nel suo
stile, con le due idee, superomismo, dilettantismo, edonismo. Croce è l’opposto, vuole
un’Italia moderna che sia seria, severa, concreta, realistica, sobria, austera, colta.
I giovani della cultura militante hanno più simpatia per Croce che per D’Annunzio,
ma qualcuno di essi non cela l’ambizione di voler assumere lui la guida spirituale
della nuova Italia. Come Giovanni Papini, un giovane di Firenze, con un viso tenebroso,
diabolico quasi, e se ne compiaceva molto, atteggiandosi a demone provocatore. Nel
1903, a poco più di 21 anni, pubblica anche lui una rivista che si intitola «Il Leonardo»,
il cui programma è: noi vogliamo essere pagani, individualisti, irrazionalisti, edonisti
e dilettanti. Lo affianca nell’impresa un altro intellettuale giovane, Giuseppe Prezzolini,
che a 26 anni, nel 1908, crea un’altra rivista, «La Voce», che invece vuole correggere
gli errori del decadentismo della precedente rivista e seguire l’insegnamento di Croce,
cioè procedere all’analisi dei problemi reali della società italiana con lo scopo,
diceva Prezzolini, di creare, prima che l’italiano, l’uomo, perché non si può creare
una coscienza italiana moderna se prima non si crea la coscienza dell’uomo moderno.
Collabora con Prezzolini, per un certo periodo, Salvemini, poi se ne distacca nel
1911 per dissensi sulla guerra di Libia, che la rivista di Prezzolini ha osteggiato,
ma a guerra dichiarata decide di chiudere la polemica finché il paese è in guerra.
Anche Salvemini dà vita a un’altra rivista, «L’Unità». Questa è la stagione delle piccole riviste. Erano riviste di pochissimi fogli, quattro
o cinque al massimo, sobri, la pubblicità era relegata all’ultima pagina e sempre
molto dignitosa. La rivista di Salvemini è antigiolittiana, come le altre e più delle
altre. Continuamente accusa Giolitti di essere il dittatore parlamentare che corrompe
la politica italiana con le maggioranze che lui si procura attraverso le elezioni
manipolate, attraverso i favori, attraverso le sue arti di trasformismo. Per rinnovare
l’Italia, dice Salvemini, bisogna reagire creando gruppi, gruppi capaci di studiare
per risolvere i problemi concreti della democrazia italiana.
Tutti costoro ritengono che la politica democratica, così come è praticata da Giolitti,
è un tradimento della democrazia, bisogna creare una democrazia più ricca di ideali
morali, più rispettosa delle leggi, dove i politici non pensano soltanto a ingannare
il popolo, ma vogliono realmente elevare il popolo. Salvemini protestava anche contro
il Partito socialista, che in questi anni, fra l’inizio del secolo e fino al 1912,
è sotto l’egemonia dei riformisti.
L’esponente principale del socialismo riformista è Filippo Turati. Egli ha messo da
parte la rivoluzione perché pensa che bisogna assecondare la politica di Giolitti,
anche se non accetta mai l’invito a diventare ministro: bisogna sostenere Giolitti,
dice Turati al suo partito, perché è l’uomo politico più avanzato che ci possa essere
in Italia, che si avvale anche di mezzi poco ortodossi, poco democratici, ma l’importante
è quello che fa, non con quali mezzi lo fa, e quello che fa va nel senso della democrazia.
Grazie a Giolitti, viene introdotto nel 1912 il suffragio universale maschile.
Scende nella battaglia politica contro l’Italia di Giolitti anche il più originale,
stravagante, e per alcuni persino balordo movimento artistico di giovani ribelli.
Sono i futuristi, li guida Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del futurismo.
Il movimento futurista, annunciato con un manifesto a Parigi, nel 1909, è un movimento
che vuole lottare contro tutto ciò che rappresenta tradizione e passato, parlamentarismo
e democrazia, e per una sorta di ribellismo anarchico permanente proclama che la guerra
è la sola igiene del mondo e che la politica aggressiva deve essere il destino dell’Italia.
La rivista che nasce dal movimento futurista – si chiama «Lacerba» – propone non solo
un programma di rivoluzione delle arti, ma anche un programma politico futurista,
i cui punti principali sono l’anticlericalismo, l’antipacifismo, la lotta contro la
democrazia parlamentare, una politica estera aggressiva, l’abolizione delle scuole,
libero amore, libera lotta. E soprattutto, però, il primo articolo del movimento politico
futurista è L’Italia deve prevalere sull’idea di libertà.
La protesta contro la politica di Giolitti comincia ad assumere sempre di più atteggiamenti
antidemocratici.
7. La fine del giolittismo
E arriviamo all’ultima fase di questa Italia giolittiana, che è stata ben raffigurata
attraverso le caricature dell’«Asino», un foglio anticlericale e anticapitalista,
che ha una grande popolarità, a volte raggiunge anche le 100.000 copie. Le sue caricature
rappresentano molto efficacemente l’immagine della democrazia italiana come appariva
durante gli anni di lunga stabilità del governo giolittiano. La stabilità dei governi
è considerata una garanzia per la democrazia, educa alla democrazia, rafforza la democrazia,
affeziona alla democrazia. E invece uno dei risultati della stabilità della democrazia
è la noia per la democrazia, che si impadronisce dei giovani animosi e pieni di spirito
ribelle. E con la noia, nasce la voglia di ribellione, di disfarsi della democrazia
di Giolitti, e anche, se necessario, della democrazia parlamentare come è praticata
in Italia.
L’impressione generale che si ha della democrazia italiana è che sia una democrazia
corrotta, che sperpera denaro pubblico per interessi privati, protegge gli interessi
corporativi di industriali, proprietari e proletari organizzati, ma tratta il resto
degli italiani come pecore da tosare. C’è un antiparlamentarismo diffusissimo in questo
periodo. Ma la critica della democrazia parlamentare è spesso fatta in nome di una
democrazia migliore, seria, efficiente, onesta. Così la pensavano Croce, Salvemini,
Prezzolini, Giovanni Amendola e molti altri intellettuali militanti della cultura
antigiolittiana.
Decisamente antidemocratici sono i nazionalisti imperialisti, quelli che sognano una
più grande Italia, potenza dominatrice nel Mediterraneo e nell’Africa, e forse anche
nell’America Latina, dove sono masse di emigrati italiani. I nazionalisti imperialisti
sono anche nemici giurati della democrazia parlamentare e vogliono uno Stato autoritario,
lo Stato forte che imponga disciplina all’interno, ponga fine alla lotta di classe
con il predominio della borghesia, per lanciare la grande proletaria nella lotta delle
nazioni per il dominio nel mondo.
L’epoca di Giolitti sta per finire. Siamo nel 1913: ci sono le elezioni politiche,
le prime con il nuovo suffragio universale maschile. È diffusa la convinzione che
l’Italia sia sempre più corrotta a causa di Giolitti. In vista delle elezioni del
1913, i liberali aprono all’accordo con i cattolici, consenziente il papa, che ancora
si proclama prigioniero in Vaticano dello Stato liberale, laico e sacrilego. È il
famigerato o famoso Patto Gentiloni, condannato dai liberali puri e dai cattolici
democratici, come Luigi Sturzo. Il patto è considerato un baratto: voti cattolici
ai candidati liberali che giurano di non sostenere leggi condannate dalla Chiesa,
come il divorzio.
È vero che Giolitti aveva detto che Stato e Chiesa sono due parallele che non devono
mai incontrarsi, e guai se la Chiesa entra in politica: quanto al governo, aveva aggiunto,
non ha nessuna competenza in materia religiosa. E Giolitti nega di esser responsabile
del patto. Ma l’accordo c’è stato e i cattolici cominciano a reclamare la loro parte
nella elezione dei governanti. Una caricatura dell’«Asino» commenta il Patto Gentiloni
mostrandoci Giordano Bruno, in manette fra due carabinieri, che lo hanno sfrattato
dal piedistallo del suo monumento a Campo de’ Fiori, e al suo posto si è insediata
la statua del papa.
I risultati delle elezioni nel 1913 segnano la fine del lungo sistema giolittiano.
Giolitti vince ancora le elezioni, ma quella che esce dalle urne non è più un’Italia
giolittiana. Un esponente del sindacalismo rivoluzionario, Arturo Labriola, eletto
deputato, dice alla Camera nel dicembre del 1913: «Onorevole Giolitti lei non rappresenta
più l’Italia, oggi abbiamo l’Italia cattolica, l’Italia imperialista, l’Italia socialista,
ma non c’è l’Italia giolittiana. Se ne vada».
E Giolitti decide di lasciare il potere. Pensa che presto sarebbe ritornato, come
è accaduto altre volte, con una Camera più addomesticata. In realtà, non è solo la
fine della democrazia giolittiana. È la fine della belle époque.
8. Il fascino della catastrofe
Avviene in Italia un fenomeno curioso e importante, comune ad altre nazioni europee.
Un decennio di stabilità democratica, di libera competizione nella politica, nel lavoro,
nella cultura, non ha generato una società più disposta a conservare la democrazia,
ma ha generato movimenti che sono contro la democrazia, chi per distruggere la democrazia,
chi per farne una migliore, ma comunque sono contro l’ordine esistente. È uno strano
fenomeno, che si riscontra non solo in Italia ma in tutta l’Europa, si sente il brontolio
di un vulcano che sta per esplodere. Leggiamo i diari e le poesie e i romanzi dei
giovani di questo periodo e sentiamo una nota comune: questa società è noiosa e corrotta;
se almeno ci fosse una guerra, se almeno ci fosse una rivoluzione, per porre fine
a questa stagnante putrefazione. La pace corrompe, la stabilità degrada, il progresso
materiale produce una degenerazione dell’anima. E annienta le facoltà creatrici dello
spirito.
Torna l’incubo della degenerazione, annunciato all’inizio del nuovo secolo. Risuonano
le profezie della fine imminente della civiltà europea. Le potenze irrazionali reclamano
il possesso della vita individuale e collettiva. C’è ovunque il tuonare cupo di una
guerra che si sta avvicinando. Ogni attrito fra le grandi potenze può essere la scintilla
che farà esplodere la guerra mostruosa che annienterà la civiltà. I giovani delle
avanguardie militanti, come gli espressionisti tedeschi, percepiscono con spirito
profetico l’imminente catastrofe: è una apocalissi della modernità.
Fra il 1912 e il 1913, un giovane pittore tedesco, Ludwig Meidner, dipinge una serie
di allucinati e terrificanti paesaggi apocalittici. Nello stesso anno un giovane musicista
russo, Igor Stravinskij, scandalizza ed eccita il pubblico parigino con la rappresentazione
di un balletto dai ritmi frenetici di un rito sacrificale pagano, tra il fracasso
lampeggiante di colpi tonanti e attoniti silenzi terrorizzanti. Sagra della primavera, si chiama il balletto, ma non è l’inno alla primaverile gioia della belle époque, che aveva annunciato l’alba del Novecento. Il titolo originario era Il grande sacrificio, più in sintonia con la vocazione alla guerra, alla rivoluzione, a una catastrofe
rigeneratrice che anima la gioventù europea.
C’è nella cultura italiana e nella cultura europea di questo inizio del Novecento
il fascino della catastrofe, il fascino del sacrificio, il fascino di una catastrofe
che deve portare al sacrificio della vita, perché soltanto con il sacrificio si esce
rigenerati da una società materialistica, noiosa, corrotta.
Vocazione al sacrificio, vocazione all’avventura in un mondo diventato più piccolo,
più affollato, senza più terre inesplorate e continenti da scoprire. Persino nella
letteratura presunta per bambini si insinua il fascino della catastrofe e del sacrificio.
Nel 1904 va sulle scene il dramma Peter Pan. Le bellissima dolcificazione che ne ha fatto Walt Disney nel cartone animato evoca
discretamente la crudeltà di questo dramma per bambini, perché è un dramma ispirato
ad una volontà di avventura, di morte e di sacrificio. A un certo momento Peter Pan
esclama: «Vorrei provare la meravigliosa avventura di morire». Come molti artisti
che dipingono paesaggi apocalittici annunciando voluttuosamente una morte imminente,
Peter Pan immagina la morte come una meravigliosa avventura. La stessa voluttà che
fa sospirare Capitan Uncino: «Un olocausto di bambini, che idea grandiosa!».
C’è nella gioventù europea il fascino per la guerra o la rivoluzione come una grande
catastrofe. È quel che vagheggia un giovanotto in borghese che passeggia per le vie
di Milano, che borghesemente si toglie il cappello e accenna a un inchino per salutare
altri signori che si scappellano accennando a un inchino di saluto, stretta di mano,
sorrisi, parlottare disteso, sguardi intensi o distratti. Scena di vita borghese:
ma il giovanotto con baffi e bastoncino da passeggio, e con occhi neri potenti, è
un rivoluzionario che vuol fare saltare le fondamenta dello Stato borghese.
È Mussolini, ancora giovane perché ha 29 anni, ma non vaga più per la Svizzera: ha
una posizione di prestigio, ora, è il direttore del giornale «Avanti!», il quotidiano
del Partito socialista, e di questo partito egli è il capo riconosciuto della nuova
corrente rivoluzionaria che ne ha preso la guida nel 1912. Questo giovane rivoluzionario
ha un fascino singolare anche per gli intellettuali antigiolittiani che non sono socialisti
rivoluzionari, ma lo considerano un uomo nuovo che molto farà per rinnovare l’Italia.
Molti lo considerano il simbolo della rivolta contro Giolitti. Si annuncia una rivoluzione
generazionale. Nel 1912 Giolitti ha 70 anni, Mussolini 29. Prezzolini e Salvemini
ammirano Mussolini: «Quest’uomo, è un Uomo», dice Prezzolini, e Salvemini gli fa eco:
«È un autentico e sincero rivoluzionario che porta in sé tanti destini d’Italia».
Mussolini nel 1913 è per la rivoluzione ma è contro la guerra, contro il nazionalismo,
contro il militarismo. Ma invece della rivoluzione arriva la guerra, annunciata da
due colpi di pistola che a Sarajevo, il 28 giugno 1914, uccidono l’arciduca Francesco
Ferdinando e la moglie. È una morte avvenuta quasi per caso, il complotto per ucciderlo
era preparato da terroristi irredentisti serbi. In un primo attentato, una bomba era
stata lanciata contro l’auto dell’erede dell’impero austriaco, ma ferì solo alcuni
ufficiali del suo seguito. L’arciduca, dopo aver protestato vigorosamente con il Municipio
di Sarajevo per la pessima organizzazione dell’ospitalità, vuole recarsi a far visita
in ospedale agli ufficiali feriti. La sua auto, per imperizia del conducente, imbocca
una via stretta e deve fare marcia indietro. Uno dei giovani terroristi, Gavrilo Princip,
che dopo il fallimento della bomba, deluso e sconsolato, si era allontanato, si trova
ora davanti alla macchina dell’arciduca, a pochi passi, si avvicina, spara due colpi
contro l’arciduca ma ferisce anche la moglie che gli siede accanto e si è mossa per
proteggere il marito. Tutti pensano che siano stati soltanto feriti, e invece muoiono.
È un assassinio, ma non è un fatto grave per far esplodere una guerra. Sono numerose
le teste coronate e i presidenti di repubblica che sono stati ammazzati negli ultimi
dieci anni e mai è stata scatenata una guerra per vendicare la loro morte. Umberto
I aveva detto all’imperatore Guglielmo II, durante una visita, che morire per mano
di un attentatore rientrava nei rischi del mestiere.
Nessun governante responsabile pensa che la morte dell’arciduca debba scatenare una
guerra europea. Non lo pensa neppure l’imperatore Francesco Giuseppe, che aveva già
perso la moglie allo stesso modo. Eppure, la guerra che nessuno vorrebbe si avvicina
strisciando. Antenne sensibili la sentono arrivare fin dall’inizio del secolo. Un
sociologo italiano nazionalista, Mario Morasso, aveva annunciato nel 1905 che il nuovo
secolo sarebbe stato il secolo delle guerre più spaventose, quali l’umanità non ha
mai conosciuto.
I giovani annoiati e ribelli sognano la guerra, invocano la guerra. Vivono nel più
lungo periodo di pace della storia europea, dal 1870 non ci sono state guerre sul
continente, ma hanno una grande voglia di combattere, una grande voglia di combattere
e di morire da eroi. Come Wendy ai suoi fratellini quando sono catturati da Uncino
che sta per ucciderli: «Mi raccomando, il messaggio che vi mandano le vostre madri,
sappiate morire da veri gentiluomini inglesi».
Siamo alla fine della belle époque. In Italia si gira il film Cabiria, con testi di Gabriele D’Annunzio. D’Annunzio si presta ovviamente a fare da librettista
a questo primo grande colossal girato in Italia con effetti straordinari. Cabiria è la storia di un sacrificio, una fanciulla siciliana che viene portata a Cartagine,
deve essere sacrificata al dio Moloc, poi però viene salvata da Maciste e da Scipione
l’Africano.
Cabiria fu salvata dal sacrificio al dio Moloc, ma la gioventù europea non fu salvata
dal Moloc della Grande Guerra. La Grande Guerra esplode nell’agosto del 1914. Sembra
che il ministro inglese Edward Grey abbia detto allora: «Si spengono le luci sull’Europa.
Forse nella nostra vita non le vedremo riaccendersi».
L’Italia ebbe parecchi mesi per decidere se spegnere o no le luci, poi le spense.
Le luci si spensero anche in Italia il 24 maggio 1915. Quando si riaccesero, per un
momento gli italiani del Novecento videro tricolore; poi per due anni videro rosso;
poi per vent’anni videro tutto nero; poi precipitarono in un’altra notte con le luci
spente, per cinque anni. Quando si risvegliarono ne videro di tutti i colori, e non
si resero conto, passando al XXI secolo, di essere rimasti probabilmente ancora nel
Novecento.