di Maurizio Viroli
Il 1513 è l’anno del consolidamento del regime mediceo su Firenze che porterà, tranne
per la breve parentesi dell’ultimo governo repubblicano (1527-30), al principato di
Cosimo I, granduca di Toscana, ed è anche l’anno in cui Machiavelli compone Il Principe, o almeno gran parte di esso, e mette mano ai Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Dall’amara esperienza della morte della repubblica, che tagliò la sua vita in due,
Machiavelli trasse lo stimolo, con la forza che è propria dei grandi, per scrivere
pagine che affida a qualcuno che sappia riscattare la libertà repubblicana e la libertà
e dignità dell’Italia. È una storia lontana nel tempo, ma vicina per il suo significato
morale e politico. Essa racchiude infatti ammonimenti chiari come il sole su come
e perché una repubblica muore, e ci rammenta i princìpi che devono vivere nell’animo
dei cittadini per conquistare e difendere la libertà.
Prima di entrare nella narrazione vera e propria, è necessario porre la domanda se
sia lecito parlare di transizione politica da una forma di governo a un’altra, dalla
repubblica al principato, per ripetere il titolo del vecchio, ma ancora essenziale
libro di Rudolf von Albertini. Nel 1513 una vera transizione politica, in senso istituzionale non c’è ancora stata.
Per assistere alla nascita del principato mediceo bisogna attendere il 1537, quando
Cosimo de’ Medici assume il titolo di granduca di Firenze, ma nel 1513 l’instaurazione
del potere di fatto dei Medici sulla città, pianta solidamente le basi del nuovo regime
politico. Invece di parlare di transizione dalla libertà repubblicana alla larvata
o mascherata tirannide dei Medici, si deve allora parlare di un semplice passaggio
di potere da un gruppo di famiglie a un altro capeggiato dai Medici? Di questa idea
era ad esempio Mario Martelli, studioso insigne che voglio qui ricordare. Nell’Introduzione
al Principe per l’Edizione Nazionale delle Opere di Machiavelli egli parla del governo repubblicano che resse Firenze dal 1494 al
1512 come del «feticcio [...] delle libertà repubblicane», «le libertà, per dirlo
apertamente, della sessantina di famiglie ottimatizie, e, pertanto la coperta e dura
intenzione di quelle famiglie di poter fare tutto a lor modo». Dall’altra parte, è
sempre il giudizio di Martelli, stava «la determinazione dei Medici di essere in città
molto più di quello che erano stati a tempo di Cosimo e di Lorenzo Vecchio, di vendicarsi,
di recuperare le ricchezze perdute». Altro che scontro fra tiranni e popolo, si trattava, molto più prosaicamente, di
un conflitto all’interno dei beneficiati, ossia una lotta all’interno di quella piccola
parte del popolo – fatta di famiglie e consorterie strette da vincoli di affari –
che tradizionalmente si spartiva gli utili e gli onori dello Stato. Dietro alle parole
altisonanti di «popolo», «repubblica», «libertà», c’era solo, da una parte e dall’altra,
la brama di ricchezze e di potere.
Anche alcuni fra i più avveduti scrittori politici fiorentini del tempo attenuarono
il contrasto fra il regime repubblicano del 1494-1512 e il regime dei Medici. Francesco
Guicciardini, nel Dialogo del reggimento di Firenze, che compone nel 1520, fa dire al suo «portavoce», Bernardo del Nero, che la libertà
proclamata dai sostenitori del governo popolare non era nient’altro che un nome, di
cui l’apparenza e l’immagine hanno il compito di illudere e di confondere circa le
vere intenzioni dei governanti, perché «i potenti spesso usano il nome della libertà
per ingannare gli altri», e «la maggioranza di coloro che predicano la libertà» si
precipiterebbero ad unirsi ad un regime ristretto o elitario «se pensassero che ciò
gli giovasse di più». Scrive anche, sempre a proposito della Repubblica del 1494-1512,
che «sonvi di molti cittadini che arebbono a partecipare dello utile e vi sono pochi
guadagni da distribuire. E però sempre una parte si è sforzata governare et avere
li onori et utili e l’altra è stata da canto a vedere e dire il giuoco». Francesco Vettori arriva addirittura a scrivere che c’è «poca differenzia da quello
stato che molti chiamano tirannico a questo che al presente chiamano populare o vero
republica». Anche Machiavelli, del resto, ammette che Firenze ha sempre variato spesso
nei suoi governi perché «in quella non è stato mai né republica né principato che
abbi avute le debite qualità sue», e tutti i difetti nascevano dal fatto che «le riforme
di quegli stati» erano fatte «non a satisfazione del bene comune, ma a corroborazione
e securtà della parte: la quale securtà non si è anche trovata, per esservi sempre
stata una parte malcontenta, la quale è stata un gagliardissimo instrumento a chi
ha desiderato variare».
Sono giudizi da meditare con attenzione per non credere a cuor leggero alle raffigurazioni
retoriche della lotta politica. Ma nelle parole di Guicciardini e Vettori riaffiora
il luogo comune dei conservatori contro la libertà, quello che Albert Hirschman nel
suo studio The Rhetoric of Reaction ha descritto come l’argomento della futilità: fra libertà e tirannide c’è poca differenza,
in realtà si tratta sempre di una parte che domina un’altra, dunque a che pro affaticarsi
per la libertà? L’analisi dei realisti lascia poi in ombra fatti che sono tipici di un mutamento
profondo di regime politico, primo fra tutti che la Repubblica di Pier Soderini cade
per un colpo di Stato fomentato dal cardinale Giovanni de’ Medici con l’aiuto di potenze
straniere. Riguadagnata la superiorità sui francesi, dopo la sconfitta patita nella
battaglia di Ravenna (1º aprile 1512) la Santa Lega che raccoglieva papa Giulio II,
Ferdinando V d’Aragona il Cattolico, re di Spagna, Venezia, e il duca di Ferrara)
si riunisce a giugno a Mantova, presente l’inviato dell’imperatore Massimiliano I,
il vescovo di Gurk, in Austria, dal 1505 al 1522 e per questo detto il Gurgense (al
secolo Matthäus Lang von Wallemburg), e il viceré Ramon di Cardona per Ferdinando.
I congregati stabiliscono, fra le altre cose, di usare «ogni opera et ogni industria
di mutare quello stato» di Firenze, ovvero di restituirlo ai Medici perché la Repubblica
era rimasta l’unica a sostenere la Francia, anche se, al solito, lo aveva fatto con
tante incertezze e ambiguità da riuscire a offendere sia il re di Francia, sia il
re di Spagna. E l’industria la usarono sul serio. Il viceré Ramon di Cardona si mise
subito in marcia per Firenze alla testa di un esercito di seimila fanti spagnoli e
mille cavalli accompagnato dal cardinale Giovanni de’ Medici annunciando apertamente
di «voler levare lo stato di mano al popolo e restituirlo a detto cardinale». Il seguito è noto: l’attacco e presa di Prato il 29 agosto, l’orrendo sacco, il
tumulto del 31 agosto e la fuga di Pier Soderini alla volta di Siena.
Dal punto di vista del diritto internazionale fu una vera e propria aggressione dettata
da interessi politici e militari e da interessi privati puri e semplici, fra i quali,
come scrive Francesco Guicciardini, l’odio del pontefice contro il gonfaloniere di
Firenze Pier Soderini e «il desiderio antico di tutti i pontefici d’avere autorità
in quella republica». La caduta del governo popolare di Pier Soderini e la successiva conquista del potere
effettivo da parte dei Medici, che si consolida con l’elezione del cardinale Giovanni
al soglio pontificio l’11 marzo 1513 con il nome di Leone X, prefigura quello che
sarà il destino di altre repubbliche italiane, come l’ultima Repubblica fiorentina
del 1527-30, la Repubblica napoletana del 1799, la Repubblica romana del 1849: una
sedizione interna che vince grazie al sostegno di forze militari esterne.
Dobbiamo inoltre tenere presente che i colpi di Stato furono in effetti due: il primo,
che depose il gonfaloniere a vita Pier Soderini; il secondo, architettato ancora una
volta dal cardinale Giovanni de’ Medici contro il governo degli ottimati presieduto
dal gonfaloniere Giovanbattista Ridolfi che aveva preso il posto di Pier Soderini.
Ridolfi era uomo di grande autorità presso gli ottimati fiorentini e con la propria
virtù avrebbe potuto, racconta Francesco Guicciardini, «fermare lo stato tremante
della republica». L’elezione di Giovanbattista Ridolfi, racconta Bartolomeo Cerretani,
un mediceo a tutta prova, nel Dialogo della mutazione di Firenze, «era savio quant’altro della città, animoso, di assai parenti e casa reputata e
stato capo sempre della parte fratesca, il che lo faceva il primo reputato nella città».
Di aspetto venerando «honoratamente con Signori resedeva ne l’udientia e nel loco
suo proprio, che pareva che tutto quel palazzo, senza un rimore, piovesse reputatione
e grandezza».
Il problema erano i Medici, i quali non si accontentavano, dopo tanti pericoli, fatiche
e spese, di stare a Firenze senza controllare completamente lo Stato. Essi temevano
che, una volta allontanatosi l’esercito spagnolo, i fiorentini si sarebbero di nuovo
sollevati contro di loro, mossi «dall’odio di tutti», per il sospetto che essi fossero
tornati per insidiare la libertà, avessero portato l’esercito spagnolo «contro alla
patria» e fossero insomma i veri responsabili del «sacco crudelissimo di Prato». Così, quando il viceré Ramon di Cardona fece sapere alla signoria che, avendo ricevuto
i denari promessi, era pronto a partire con l’esercito verso la Lombardia, i Medici
ruppero gli indugi e attuarono il colpo di Stato per diventare padroni della città.
I racconti degli storici sono sostanzialmente concordi. Fra tutti, quello che meglio
rende l’idea di quanto avvenne giovedì 16 settembre è quello di Guicciardini:
di poi il dì seguente, essendo congregato nel palagio pubblico per le cose occorrenti
un consiglio di molti cittadini, al quale era presente Giuliano de’ Medici, i soldati,
assaltata all’improvviso la porta e poi salite le scale, occuparono il palagio, depredando
gli argenti che vi si conservavano per uso della signoria. La quale, insieme col gonfaloniere,
costretta a cedere alla volontà di chi poteva più coll’armi che non potevano i magistrati
colla riverenza e autorità disarmata, convocò subito, così proponendo Giuliano de’
Medici, in sulla piazza del palagio, col suono della campana grossa, il popolo al
parlamento; dove quegli che andorno, essendo circondati dall’armi de’ soldati e de’
giovani della città che aveano prese l’armi per i Medici, consentirono che a circa
cinquanta cittadini, nominati secondo la volontà del cardinale, fusse data sopra le
cose publiche la medesima autorità che aveva tutto il popolo (chiamano i fiorentini
questa potestà, così ampia, balìa): per decreto de’ quali ridotto il governo a quella
forma che soleva essere innanzi all’anno mille quattrocento novanta quattro, e messa
una guardia di soldati ferma al palagio, ripigliarono i Medici quella medesima grandezza,
ma governandola più imperiosamente e con arbitrio più assoluto che soleva avere il
padre loro.
Sono parole che non hanno bisogno di commento: intervento militare straniero, insurrezione
armata di militari mercenari e cittadini al servizio di una famiglia, instaurazione,
con il metodo della piazza tumultuante circondata dai soldati, di un potere straordinario
e assoluto (la balìa), infine riforma delle istituzioni al fine di rendere i Medici
padroni della città. La ‘mutazione’, come scrivono gli storici, fu dunque una vera
e propria transizione politica dalla repubblica popolare istituita nel 1494 al regime
dei Medici. Vale ancora il giudizio di Guicciardini, che pure fu un critico assai
severo della repubblica popolare: «In tale modo – scrive – fu oppressa con l’armi
la libertà de’ fiorentini».
Se poi passiamo a considerare i mutamenti istituzionali ne troviamo subito uno di
enorme rilievo, ovvero l’abolizione del Consiglio Grande, vero e proprio fondamento
del potere repubblicano. È noto che tale Consiglio, istituito nel dicembre del 1494,
non era un parlamento democratico nel senso che diamo noi oggi a quest’espressione.
Potevano essere eletti al Consiglio, in numero di circa 1500, soltanto i «beneficiati»,
di 29 anni compiuti, ovvero quei cittadini, circa 3200, che avevano fatto parte di
una delle tre magistrature maggiori o i cui nonni o bisnonni avessero avuto accesso
a tali magistrature. Il Consiglio Grande aveva piena e assoluta autorità. Spettava
infatti al Consiglio l’approvazione delle leggi e l’elezione, diretta o indiretta,
dei magistrati di governo. Il che voleva dire che gli scrutini non erano più in mano
a un ristretto numero di persone ligie alla fazione vincente, ma a un consiglio molto
più rappresentativo. Il potere sovrano, pur non essendo democratico, era meno arbitrario.
Come ha scritto Antonio Anzilotti:
Mentre prima tutto il Consiglio Grande, cioè un migliaio di persone, partecipava alla
designazione degli uffici, ora trecento cittadini, per la maggior parte ligi ai Medici
e stretti con la massa dei loro seguaci, dispongono di tutte le cariche, e preparano
mezzi sicuri per uno sfruttamento dello Stato. I consigli, così, sono sostituiti da
questi magistrati straordinari collegiali, che hanno i poteri elettorali, legislativi
e di polizia e, coi Medici alla testa, creano e distruggono a loro arbitrio.
Il Consiglio Grande aveva inoltre, per i fiorentini, un significato religioso che
andava oltre quello strettamente politico e istituzionale. A volere il Consiglio Grande
era stato infatti Savonarola. Nelle sue prediche della fine del 1494, il frate aveva
infatti esortato i fiorentini a darsi un governo civile, ovvero repubblicano, a imitazione
di Venezia, fondato su un Consiglio Maggiore che allargasse la base del potere sovrano
e fosse dunque strumento di pacificazione della città. Savonarola voleva che i cittadini
di Firenze considerassero il Consiglio Maggiore come l’anima della Repubblica e dono
speciale di Dio, e dunque con profonda devozione. Non tutti a Firenze la pensavano come il frate, ma certo erano in molti ad amare
il Consiglio perché vedevano in esso il simbolo della libertà repubblicana. Sono gli
stessi sostenitori dei Medici a dircelo. In un Discorso del 1516, l’aristocratico Lodovico Alamanni sottolinea che nella città «sonci ancora
quelli che desiderano el Consiglio grande». Ma rassicura, «sendo el consigliaccio
un pasto da foggectini [uomini da poco, di basso rango sociale], bisogna che foggectini
sieno quelli che lo vorrebbono; et simil gente ha poco credito, poco ingegno e poco
animo» e dunque «è facil cosa guadagnarseli e mantenersegli». Inoltre, uno stato come
il regime dei Medici può soddisfare i diversi «animi» che formano il popolo di Firenze
assai meglio del Consiglio, soprattutto gli uomini di piú credito, piú cervello e
piú nobiltà che pretendono di governare, che potranno ricevere gli onori direttamente
dal principe senza dover «andare in dozzina con ogni homo».
Tre anni dopo, Niccolò Guicciardini, nipote di Francesco, osservava che quando nel
1512 rientrarono a Firenze i Medici «levorno il Consiglio et molti altri magistrati
de’ quali el popolo molto si contentava». Ma valgano per tutti le parole di Machiavelli
nel Discursus florentinarum rerum (1521), scritto a istanza del cardinale Giulio de’ Medici, che dopo la morte di Lorenzo
duca d’Urbino ricercò consigli per una possibile riforma dello Stato di Firenze in
senso più repubblicano o civile. L’ammonimento di Machiavelli è chiarissimo: il vero
pericolo per i Medici è ancora il desiderio del popolo di vedere la sala riaperta:
Senza satisfare all’universale, non si fece mai alcuna repubblica stabile. Non si
satisferà mai all’universale dei cittadini fiorentini, se non si riapre la sala: però
conviene, al volere fare una repubblica in Firenze, riaprire questa sala e rendere
questa distribuzione [degli onori] all’universale; e sappia Vostra Santità che qualunque
penserà di torle lo stato, penserà innanzi ad ogni altra cosa di riaprirla. E però
è partito migliore che quella l’apra con termini e modi sicuri, e che la tolga questa
occasione a chi fussi suo nemico di riaprirla con dispiacere suo, e distruzione e
rovina de’ suoi amici.
Infine, oltre agli aspetti istituzionali, bisogna considerare quella fondamentale
dimensione della politica che sono i costumi. Orbene, da questo punto di vista, fra
la Repubblica e il regime dei Medici c’è una differenza fondamentale. La Repubblica
esige cittadini; il regime mediceo vuole cortigiani, vuole estirpare dalla testa e
dall’animo dei fiorentini i modi del vivere civile e educarli al vivere di corte.
C’è un passo di Lodovico Alamanni, rivolto al papa Medici per consigliargli i modi
più efficaci di «fermare lo stato di Firenze nella devozione de’ Medici», che merita
di essere letto per intero. In queste parole c’è tutto il problema della libertà italiana,
che è sempre stato, ed è oggi più che mai, non problema di istituzioni ma di costumi.
I fiorentini, scrive Lodovico Alamanni,
sono avezzi in una certa loro asineria piú presto che libertà, che in Fiorenza non
degnano di fare reverentia a qualunche, benché la meritassi, si non a’ magistrati,
et a quelli per forza e con fatica. Et per questo sono tanto alieni da’ modi delle
corte, che io credo che pochi altri sieno tanto; non dimeno, quando sono di fuori,
non fanno cosí. Credo proceda da questo che nel principio dovea parere loro cosa troppo
disadacta il cavarsi quel loro cappuccio; et questa loro infingardaggine si ridusse
in consuetudine, et di consuetudine in natura; et per quel che io lo credo, è che
quando e sono fuor della loro terra et di quello habito, manco par lor fatica assai
el conversare co’ principi. Questa fantasia da’ vechi non si leverebbe mai, ma e’
sono savii et de’ savi non si de’ temere, perché non fanno mai novità. E giovani facilmente
si divezzarebbono da questa civiltà et assuefarebbonsi alli costumi cortesani, se
’l principe volessi. El quale, per far questo, bisognarebbe che disegnassi tritamente
et eleggessi tucti que’ giovani che nella nostra città – o per qualità sua proprie
o del padre o della casa – sono da dovere essere extimati, et mandassi hora per questo,
hora per quello, et dicessi loro che harebbe caro e’ venissino ad star seco, et che
a tucti darebbe quello exercitio et quella provvisione che se gli convenissi. Nessuno
gli ne negarebbe, et venuti che fussino alli suoi servitii, subito sarebbe da far
cavare loro l’habito civile et ridurgli ad la cortigiana come tutti gli altri suoi.
Se il passaggio dalla repubblica al regime mediceo fu per Firenze un mutamento istituzionale
e culturale, per Niccolò Machiavelli fu l’avvenimento che tagliò letteralmente la
sua vita in due. Finché la Repubblica visse, egli era il Segretario; quando morì si
sentì in primo luogo «quondam segretario», un tempo segretario, come scrive in una
lettera a Francesco Vettori del 9 aprile 1513. Machiavelli è a Firenze durante la
mutazione. La vive da vicino, o meglio la subisce. Il 27 agosto si trova al campo
delle truppe dell’Ordinanza presso Prato. Pier Soderini, gli scrive il fido collaboratore
e amico Biagio Buonaccorsi, «vuole che io vi facci intendere che voi sollicitiate
costí a fare qualche provedimento, perché questo venire el nemico stasera a Campiper
alloggiarvi, non gli piace affatto e se ne meraviglia. Adio. Fate quello buono che
potete, perché il tempo non si perda in pratiche».
La massima autorità della Repubblica si meraviglia che gli Spagnoli si siano accampati
a Campi, come se non sapesse quello che i membri della Lega Santa avevano deciso sul
futuro di Firenze! Manda addirittura a dire a Machiavelli di fare qualcosa, come se
Machiavelli, con i soli fanti dell’ordinanza, che erano poi dei contadini che non
avevano mai combattuto, senza validi capitani e senza artiglierie, potesse compiere
il miracolo di salvare la Repubblica. Se ne rende ben conto Biagio, quando lo esorta
a fare quello che può. Quell’«Adio» che chiude la lettera è un presagio della fine
della Repubblica e della tragedia che costringerà i due amici a lasciare per sempre
quelle sale di palazzo Vecchio dove per anni avevano lavorato, scherzato e sofferto
insieme.
Machiavelli resta vicino al gonfaloniere Pier Soderini fino all’ultimo. È a Machiavelli
che Pier Soderini chiede, il 31 agosto, di andare da Francesco Vettori, fratello di
Paolo Vettori, uno dei capi del colpo di Stato, per chiedergli di farsi garante della
sua incolumità. Non è un’ambasciata facile, tutt’altro. Francesco Vettori, che non
può essere contro il fratello Paolo, ma al tempo stesso non vuole in alcun modo essere
contro il gonfaloniere e il palazzo, «voleva montare a cavallo per partirsi della
città». Machiavelli lo persuade invece ad andare in palazzo, dove trova il gonfaloniere
«solo e impaurito». Vettori lo porta a casa sua e quella stessa notte lo fa uscire
da Firenze alla volta di Siena con buona scorta di armati. Machiavelli capisce perfettamente la situazione politica che si è creata a Firenze
dopo il colpo di Stato, come dimostra lo scritto Ai Palleschi, dei primi di novembre, dove mette bene in evidenza che «il vero scontro politico
non è tra i Medici e il precedente regime guidato da Pier Soderini; ma tra gli ottimati
e i Medici». Capire non lo aiuta, e non lo aiuta nemmeno dare un buon consiglio ai Medici. Oltre
a dissolvere il Consiglio Grande, il 18 settembre, la nuova balìa scioglie la milizia
che Machiavelli aveva con tanta fatica voluto nel 1506. Ma è solo il primo passo.
Il 7 novembre arriva l’ingiunzione che destituisce Machiavelli dal posto di segretario,
il 10 novembre ne arriva un’altra che gli impone di restare per un anno confinato
entro il dominio fiorentino e di versare una malleveria di mille fiorini; il 17 novembre
un’altra ingiunzione gli vieta di entrare per un anno in palazzo Vecchio. Non sappiamo
se il dosaggio delle pene fosse voluto, certo non poteva essere più crudele: l’ufficio
di segretario era la sua vita e glielo tolgono; amava tantissimo viaggiare e conoscere
nuovi orizzonti, e lo chiudono entro il dominio; palazzo Vecchio era la sua vera casa,
e gli serrano le porte.
Deve però tornarci, in palazzo Vecchio, per rendere conto del modo in cui aveva maneggiato
le ingenti somme di denaro destinate alle paghe per le truppe. I suoi vecchi aiutanti
della cancelleria, quegli stessi che aveva tante volte fatto ridere a crepapelle con
le sue lettere e i suoi motti, ora sono davanti a lui in palazzo a chiedergli conto
di ogni fiorino. Con loro c’è il suo successore, Niccolò Michelozzi, servo dei Medici,
che scruta per riferire ai nuovi padroni della città. L’inchiesta va avanti fino al
10 dicembre. A carico di Niccolò non trovano nulla. Nonostante avesse maneggiato tanto
denaro, aveva servito la Repubblica con impeccabile onestà: «e della fede e della
bontà mia ne è testimonio la povertà mia», scrive orgogliosamente a Francesco Vettori
il 10 dicembre 1513. Come ricompensa si ritrova, dopo quattordici anni, povero e solo.
E il peggio doveva ancora venire.
In una Firenze piena di malumori e di sospetti, viene scoperta una congiura contro
i Medici. I principali fautori sono Pietro Paolo Boscoli, Agostino Capponi, Niccolò
Valori e Giovanni Folchi. Con una leggerezza che ci fa capire la poca consistenza
dei cospiratori, uno di loro, probabilmente il Boscoli, perde una cedola che conteneva
una ventina di nomi, tutti oppositori dei Medici. Fra quei nomi c’è anche quello di
Machiavelli. Gli Otto mandano le guardie a prelevarlo a casa. O perché qualcuno lo
aveva informato, o per pura coincidenza, non lo trovano. Emettono allora un bando
che intima a chiunque sappia dove egli si trovi, di denunciarlo entro un’ora, pena
l’accusa di ribellione e la confisca dei beni.
Niccolò si presenta agli Otto. Lo mettono nel carcere del Bargello. Carcere vuol dire
oscurità, umidità, freddo, tanfo immondo di escrementi umani, di ferite e di piaghe;
pidocchi, topi, stridore di catenacci, catene ai polsi e ceppi ai piedi e urla dei
torturati. La sua vita è davvero appesa a un filo. Basta una parola di uno degli altri
arrestati e lo lasciano marcire in cella, o lo mandano sotto la mannaia del boia.
Giovanni Folchi dichiara di avere più volte parlato con Machiavelli dei fatti del
gonfaloniere Pier Soderini, ma più delle guerre che dei problemi della città. Aggiunge
che Machiavelli aveva espresso l’opinione che il nuovo regime si sarebbe potuto reggere
solo con gran difficoltà perché «mancava chi stesse a[l] timone» e che la Lega Santa
che aveva riportato i Medici in Firenze «facilmente un dí si dissolverebbe».
Non sono affermazioni sufficienti a provare un diretto coinvolgimento di Machiavelli
nella congiura. Cercano allora di strappargli una confessione con la tortura. Gli
legano le mani dietro la schiena, lo sollevano da terra con una carrucola fissata
al soffitto poi lo lasciano cadere di colpo fin quasi a terra. È la cosiddetta tortura
della fune o degli strappi di corda, fatta per slogare articolazioni. Gli danno sei
strappi, ma non dice nulla che possa compromettere la sua posizione. Nei procedimenti
penali dell’epoca la confessione era considerata la regina delle prove, anche se ottenuta
con la tortura. Senza confessione, i giudici non avevano certezza della colpevolezza.
Machiavelli sa però che i regimi nuovi non vanno tanto per il sottile quando si tratta
di punire dei congiurati, veri o presunti che siano. Che il regime dei Medici non
facesse eccezione se ne rende conto poco prima dell’alba del 23 febbraio, quando ode
dalla sua cella i canti funebri che accompagnano Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi
al patibolo.
Quella notte Pietro Paolo Boscoli la trascorse in preghiera, confortato da Luca della
Robbia e da frate Cipriano di Pontassieve. Volle morire cristianamente e togliersi dalla testa le idee sulla bellezza del tirannicidio
che lo avevano spinto a ordire la congiura. Anche Agostino Capponi si raccomandò a
Dio, ma fino all’ultimo proclamò la sua innocenza. Furono poi condotti davanti al
carnefice. Il boia decapitò Pietro Paolo Boscoli con un sol colpo; per Agostino Capponi
ce ne vollero due. Quei canti, e il pensiero dei due giovani che andavano a morire,
non ispirano a Machiavelli sentimenti di pietà. Scrive anzi, forse quella stessa notte,
o poco dopo, parole sprezzanti: «dormendo presso a la aurora, / cantando sentii dire:
Per voi s’òra. / Or vadin in buona ora». Perché quelle parole così crude, che hanno fatto inorridire Pasquale Villari? Quando
scrive quelle rime Machiavelli è un uomo che nel breve volgere di pochi mesi è sceso
dalle stanze del governo in palazzo Vecchio alla cella nel Bargello. Ha le mani e
i piedi serrati da catene e le ossa slogate dalla tortura; non sa se farà la stessa
sorte di Boscoli e di Capponi o se sarà lasciato a marcire in qualche torre del dominio
fiorentino, come avvenne per altri implicati nella congiura. Tutto questo per la leggerezza
di pochi giovani che volevano liberare Firenze dal tiranno ed erano tanto ingenui
da mettere addirittura per iscritto i nomi dei possibili sostenitori. Le loro azioni
non meritano ai suoi occhi nessun rispetto. Non gli importa nulla dei loro ideali
e dei loro sentimenti. Meno ancora lo interessa la sorte della loro anima: di quella
se ne occupino pure i frati e i membri della Compagnia dei Neri.
Quelle gelide parole «or vadin in buona ora», o «in malora», come alcuni leggono,
le scrive in un sonetto indirizzato a Giuliano de’ Medici, per implorare la sua pietà
e muoverlo a intervenire in suo soccorso. Come poteva invocare pietà per sé ed esprimere
parole di compassione per chi voleva uccidere Giuliano? «Vadano pure alla morte Boscoli
e Capponi», questo è il senso delle sue parole, «purché la tua pietà si volga verso
di me». Sono parole di un uomo che vede la morte in faccia e tenta un gesto disperato
per salvarsi. Più di quelle parole sorprende il fatto che abbia composto, per chiedere
aiuto, due sonetti. In carcere si scrive per cercare un senso delle pene che si provano,
o per ritrovare se stessi e per raccogliere dal fondo del proprio animo le risorse
per resistere. Soprattutto si scrive, come nel caso di Machiavelli, per chiedere aiuto.
Ma in questi casi chi scrive cerca di muovere a compassione con una lettera seria,
non con un sonetto in cui ride di se stesso, delle proprie miserie, del carcere e
della tortura, come invece fa Machiavelli. Io ho, scrive, alle gambe un paio di lacci,
e «sei tratti di fune in su le spalle» e taccio delle «altre miserie mie»: insomma,
non si trattano così i poeti! Alle pareti della mia cella, aggiunge, ci sono pidocchi
grossi come farfalle, e c’è più puzzo che nel campo di battaglia di Roncisvalle coperto
di cadaveri o in quella riva dell’Arno dove si gettano a marcire le carogne degli
animali. E per completare l’ironia parla della sua cella come un «delicato ostello»
dove può ascoltare il tetro stridere di chiavi e chiavistelli, e le urla dei torturati.
Chiede pietà, ma con il sorriso sulle labbra. Ha paura, soffre, è pieno di angoscia,
ha il cuore gonfio di rancore, eppure sorride. Ride in primo luogo di se stesso e
della sua condizione. Ma ride anche dei potenti che si accaniscono contro di lui.
Non apertamente o per sbeffeggiarli, perché non può permetterselo, ma per dimostrare
loro che né il carcere, né la tortura né le altre pene lo hanno piegato o costretto
a diventare umile, sottomesso, rispettoso; a diventare insomma un altro uomo. A me
pare che Niccolò con i suoi sonetti voglia dire: «Io sono ancora lo stesso di prima,
non sono affatto cambiato»: sono ancora «il Machia», come lo chiamavano, «burlone,
irriverente che voi conoscete». Non sono «il Dazzo», ovvero un letterato mediocre
che imperversava allora a Firenze, «ma sono io», scrive in un secondo sonetto indirizzato
anch’esso a Giuliano de’ Medici: «sono Niccolò Machiavelli, per questo merito di essere
lasciato libero». Quei sonetti, a leggerli bene, sono sì un’invocazione di pietà,
scritta però con il sorriso sulle labbra, di un uomo che vuole a tutti i costi rimaner
se stesso.
La fine dell’incubo arriva grazie a una fortuna insperata. Morto il terribile Giulio
II, l’11 marzo viene eletto papa il cardinale Giovanni de’ Medici, con il nome di
Leone X. I fiorentini impazziscono di gioia, pensando soprattutto ai ricchi affari
che potranno fare con Roma e ai benefici che il nuovo papa distribuirà a piene mani.
In un giorno tutti, o quasi, diventano o ridiventano partigiani dei Medici. Più sicuri
ormai del proprio potere, i Medici compiono un atto di clemenza e graziano i condannati
per la congiura, ad eccezione di Niccolò Valori e Giovanni Folchi, che rimangono chiusi
nella torre di Volterra.
Esce anche Niccolò, l’11 o il 12 marzo 1513. Perché lo fecero uscire dei medicei come
Paolo e Francesco Vettori, e perché Giuliano de’ Medici stesso si adoperò per lui? È Machiavelli stesso a riconoscere il suo debito verso i Medici nella lettera che
scrive appena uscito dal carcere, il 13 marzo: «io sono uscito di prigione con la
letizia universale di questa città, non ostante che per l’opera di Pagolo e vostra
io sperassi il medesimo; di che vi ringrazio». Passano pochi giorni e scrive di nuovo
a Francesco Vettori: «io posso dire che tutto quello che mi avanza di vita riconoscerlo
da magnifico Giuliano e da Pagolo vostro». Ma lo aiutò anche il fatto che non emerse
nulla contro di lui. Pietro Paolo Boscoli e Capponi avevano messo il suo nome nella
lista perché contavano di avere in lui un sostenitore. Era l’ex segretario, cacciato
dal regime mediceo e avrà detto male del nuovo regime, linguaccia com’era. Nella lettera
del 13 marzo, promette infatti che d’ora in poi starà più attento a parlare.
C’è però un’altra lettera della quale bisogna tener conto, quella del 26 giugno 1513
al nipote Giovanni Vernacci, al quale apriva l’animo più che a Vettori. Scrive Niccolò:
Carissimo Giovanni. Io ho ricevute più tue lettere, et ultimamente una d’aprile passato,
per la quale e per l’altre ti duoli di non avere mie lettere; a che ti rispondo che
io ho aute dopo la tua partita tante brighe, che non è meraviglia che io non ti abbia
scritto, anzi è piú tosto miracolo che io sia vivo, perché e mi è suto tolto l’ufizio,
e sono stato per perdere la vita, la quale Iddio e la innocenza mia mi ha salvata.
Perché nella lettera al nipote, dove può parlare più liberamente, dice che se è vivo
lo deve non a Paolo e a Francesco Vettori e a Giuliano de’ Medici, ma a Dio e alla
sua innocenza? Non credo che i Medici e i medicei lo abbiano salvato perché era anch’egli
mediceo. Se fosse stato davvero tale non lo avrebbero neppure fatto incarcerare. Certo,
uscito dal carcere è pronto a lavorare per il nuovo regime perché è l’unico modo per
servire la patria, per conservare reputazione, per essere insomma se stesso. Chi è
infatti Niccolò Machiavelli? Mettiamo da parte tutte le leggerezze scritte da studiosi
di poco senno e politici corrotti e stiamo ai fatti. Machiavelli è stato un uomo che
ha vissuto tutta la vita mosso da una passione dominante, l’amore della patria. «Amo
la patria mia più che l’anima», scrive in una delle sue ultime lettere, il 16 aprile
1527. Ciò che lo rende vivo è operare per la patria, servirla, farla grande. Che cosa
rende grande la patria? Machiavelli lo spiega nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio con parole che non lasciano adito a dubbi:
E veramente maravigliosa cosa è a considerare a quanta grandezza venne Atene per spazio
di cento anni, poiché la si liberò dalla tirannide di Pisistrato. Ma sopra tutto maravigliosissima
è a considerare a quanta grandezza venne Roma, poiché la si liberò dai suoi Re. La
ragione è facile a intendere: perché non il bene particulare, ma il bene comune è
quello che fa grandi le città. E senza dubbio, questo bene comune non è osservato
se non nelle republiche; perché tutto quello che fa a proposito suo, si esequisce;
e quantunque e’ torni in danno di questo o di quello privato, e’ sono tanti quegli
per chi detto bene fa, che lo possono tirare innanzi contro alla disposizione di quegli
pochi che ne fussono oppressi. Al contrario interviene quando vi è uno principe; dove
il più delle volte quello che fa per lui offende la città; e quello che fa per la
città, offende lui. Dimodoché, subito che nasce una tirannide sopra uno vivere libero,
il manco male che ne resulti a quelle città è non andare più innanzi, né crescere
piú in potenza o in ricchezze; ma il più delle volte, anzi sempre, interviene loro
che le tornano indietro.
Essere repubblicano voleva dunque dire, per Machiavelli e gli altri repubblicani fiorentini,
cercare la grandezza della patria nella libertà. Per questo non era mediceo, anche
se era pronto a lavorare sotto i Medici per continuare a servire la patria nell’unico
modo in cui poteva servirla dopo la fine della Repubblica.
Essere repubblicano voleva inoltre dire auspicare che le leggi fossero più forti degli
uomini e che fossero i cittadini a temere i magistrati e non i magistrati a temere
i cittadini potenti perché solo così si vive liberi: «una città – scrive – non si
poteva chiamare libera, dove era uno cittadino che fusse temuto dai magistrati». Voleva dire essere intransigente difensore del principio che i pubblici onori vanno
distribuiti solo in ragione della virtù: «il vivere libero prepone onori e premii,
mediante alcune oneste e determinate cagioni, e fuora di quelle non premia né onora
alcuno». Orbene, il regime dei Medici si fondava su principi del tutto opposti: che l’interesse
della famiglia viene prima del bene comune, che le leggi e i magistrati devono essere
sotto il loro controllo e non viceversa, e che gli onori si distribuiscono non a chi
merita ma agli «amici». Il regime dei Medici era un regime sorretto da una vasta rete
di cittadini che dipendevano dalla famiglia Medici per favori di ogni sorta: dalla
remissione dei debiti, alla dote per le figlie, ai posti nello Stato, all’aiuto per
sfuggire alla giustizia. Un regime siffatto non portava alla grandezza ma alla decadenza.
Machiavelli lo scrive proprio nel Principe, che voleva dedicare a Giuliano de’ Medici e dedicò poi a Lorenzo: «le amicizie che
si acquistano col prezzo, e non con grandezza e nobiltà di animo, si meritano, ma
elle non si hanno, e alli tempi non si possono spendere». Il medesimo concetto lo
espone ancora più chiaramente nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Scrive infatti che ci sono due modi per ottenere reputazione e potere nelle città,
i modi pubblici e i modi privati. I modi pubblici sono
quando uno consigliando bene, operando meglio, in beneficio comune, acquista riputazione.
Le vie private, sono invece fare beneficio a questo ed a quello altro privato, col
prestargli danari, maritargli le figliuole, difenderlo dai magistrati e faccendogli
simili privati favori, i quali si fanno gli uomini partigiani e dànno animo a chi
è così favorito di potere corrompere il publico e sforzare le leggi. Debbe pertanto
una republica bene ordinata aprire le vie, come è detto, a chi cerca favori per vie
publiche, e chiuderle a chi li cerca per vie private.
E ancora meglio nelle Istorie fiorentine:
Vera cosa è che alcune divisioni nuocono alle republiche e alcune giovano. Quelle
nuocono che sono dalle sètte e da partigiani accompagnate, quelle giovano che senza
sètte e sanza partigiani si mantengono. Non potendo adunque provvedere uno fondatore
di una republica che non sieno inimicizie in quella, ha a provedere almeno che non
vi sieno sètte. E però è da sapere come in due modi acquistono riputazione i cittadini
nelle città: o per vie publiche, o per modi privati. Publicamente si acquista, vincendo
una giornata, acquistando una terra, faccendo una legazione con sollecitudine e con
prudenza, consigliando la republica saviamente e felicemente; per modi privati si
acquista, benificando questo e quell’altro cittadino, defendendolo da’ magistrati,
suvvenendolo di danari, tirandolo immeritamente agli onori, e con giuochi e doni publici
gratificandosi la plebe. Da questo modo di procedere nascono le sètte e i partigiani;
e quanto questa reputazione così guadagnata offende, tanto quella giova quando ella
non è con le sètte mescolata, perché la è fondata sopra un bene comune, non sopra
un bene privato. E benché ancora tra i cittadini cosí fatti non si possa per alcuno
modo provvedere che non vi sieno odii grandissimi nondimeno, non avendo partigiani
che per utilità propria gli seguitino, non possono alla republica nuocere; anzi conviene
che giovino, perché è necessario, per vincere le loro pruove, si voltino alla esaltazione
di quella, e particularmente osservino l’uno l’altro, acciò che i termini civili non
si trapassino.
Se vogliamo intendere bene il pensiero di Machiavelli, e capire quanto poco egli fosse
mediceo, confrontiamolo con un consigliere ascoltato dai Medici, il pistoiese Goro
Gheri. Cosimo il Vecchio, scrive Gheri, era osteggiato da cittadini e famiglie potenti,
eppure prevalse grazie alli «fideli amici che correvano una medesima fortuna seco
lui» e divenne «capo della ciptà»; Lorenzo superò i nemici «col favore solo delli
amici sua di qui». Per il regime nato nel 1513 sarà ancora più facile rafforzarsi
perché grazie all’aiuto di un papa Medici ha le risorse per poter «benificare li amici»
e contare sui «tanti amici che ci sono». Bisogna «fare la parte delli amici tanto
gagliarda che possino resistere a quelli che volessino malignare». Il che, assicura
Gheri, è facilissimo perché avete «in mano e’ magistrati» e avete «il palazzo ordinato
a benefitio dello stato». Infine, per quei cittadini che «se non sono così amici et
non sono anco nimici» bisognerebbe «fare ogni diligentia di acquistarli et guadagnarli;
il che doverebbe essere facile, havendo modo a poterli honorare et remunerare». In buona sostanza, comprateli. Parole simili non sono mai uscite dalla penna di
Machiavelli.
L’uomo che esce dal carcere è ancora il Machiavelli che vi era entrato, reso più forte
dalla terribile prova. Probabilmente mostrò agli amici il suo solito sorriso, per
rassicurarli che non era cambiato. Il sorriso non basta però a essere vivo; per esserlo
davvero deve poter essere se stesso, cioè servire la patria. Non può più farlo con
le opere, lo fa con i ragionamenti. Già nell’aprile accetta di continuare una discussione
epistolare con Vettori sulla politica internazionale, appunto, per «parere vivo».
Ma vivo davvero lo è solo quando nella solitudine di San Cassiano, la sera, conversa
idealmente con gli antichi e compone le pagine del Principe e dei Discorsi. È tanto vivo che non ha neppure paura della morte:
Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi
spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali
et curiali; e rivestito condecentemente [in modo decente] entro nelle antique corti
degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo,
che solum [solo] è mio, e che io nacqui per lui; dove non mi vergogno parlare con
loro, e domandarli della ragione delle loro actioni [azioni]; et quelli per loro umanità
mi rispondono; e non sento per 4 ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno,
non temo la povertà, non mi abigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro.
Solo il vero amatore, aveva insegnato Marsilio Ficino commentando Platone, sa trasferirsi
tutto nella persona amata. Niccolò è vero amatore perché ama veramente la patria,
e perché ama la patria scrive le pagine del Principe e dei Discorsi, e scrivendo risorge, almeno per qualche ora, dalla morte spirituale in cui lo ha
soffocato la malignità degli uomini. Il Principe si chiude con l’invocazione di un redentore che liberi l’Italia dai barbari e la
sollevi a nuova vita. I Discorsi li compone per far rinascere la saggezza politica dei romani e poter insegnare così
la via per il ritorno della libertà repubblicana. Li scrive, non dimentichiamolo,
perché ritiene che sia «offizio di uomo buono, quel bene che per la malignità de’
tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché sendone
molti capaci, alcuno di quelli più amato dal cielo possa operarlo».
Oltre a dialogare con gli antichi, e a lavorare al Principe e ai Discorsi, Machiavelli deve ingegnarsi a vivere le sue giornate, una dopo l’altra, come ex
segretario, senza più nessuno che si ricordi dei servizi che aveva reso alla Repubblica
o apprezzi le qualità di ingegno e di probità di cui aveva dato prova. La descrizione della sua giornata «tipica» a Sant’Andrea in Percussina, che ci ha
lasciato nella celebre lettera del 10 dicembre 1513, è troppo nota per commentarla.
Vale la pena fermarsi invece su altre lettere nelle quali ci racconta cosa combinava
quand’era a Firenze. Chiuse per lui le porte di palazzo Vecchio, passa il tempo ad
ascoltare le chiacchiere che circolano per le piazze e le botteghe. La sua curiosità
è attratta dal racconto di una predica di frate Francesco da Montepulciano piena di
terribili profezie e nota che la sua città è proprio «calamita di tutti i ciurmatori
del mondo». Nemmeno in quei giorni carichi di tristezza rinuncia alla sua ironia:
«queste cose mi sbigottirono ieri in modo, che io aveva andare questa mattina a starmi
con la Riccia, e non vi andai; ma io non so già, se io avessi auto a starmi con il
Riccio, se io avessi guardato a quello».
C’è da scommettere che dalla Riccia, una cortigiana con la quale ebbe una lunga relazione,
Machiavelli andò di corsa, anche per togliersi di testa la predica e le profezie catastrofiche
del frate. Quella della Riccia era del resto, con la bottega di Donato del Corno,
uno dei pochi porti dove la sua sconquassata barca poteva trovare rifugio:
Io quando sono in Firenze mi sto fra la bottega di Donato del Corno e la Riccia, e
parmi a tutti a due essere venuto a noia, e l’uno mi chiama impaccia-bottega, e l’altra
impaccia-casa. Pure con l’uno e con l’altro mi vaglio come uomo di consiglio, e per
insino a qui mi è tanto giovato questa reputazione che Donato mi ha lasciato pigliare
un caldo al suo focone, e l’altra mi si lascia qualche volta baciare pure alla fuggiasca.
Credo che questo favore mi durerà poco, perché io ho dato all’uno et all’altro certi
consigli, e non mi sono mai apposto, in modo che pure oggi la Riccia mi disse in un
certo ragionamento che la faceva vista di avere con la sua fante: «Questi savi, questi
savi, io non so dove si stanno a casa; a me pare che ognuno pigli le cose al contrario».
Eppure, in giornate come queste, quando in Firenze solo la Riccia, Donato del Corno
e pochi altri, oltre alla moglie e ai figli, gli prestavano qualche attenzione, Machiavelli,
scrivendo le pagine del Principe e dei Discorsi, riesce a ritrovare se stesso e a lasciare una lezione che vivrà in un altro tempo.
Perfino in questo disgraziato paese che è l’Italia c’è stato chi ha capito che Machiavelli
è il vero simbolo della capacità italiana di risorgere dall’oppressione e dalla corruzione.
Nel 1870 Francesco De Sanctis annotava: «In questo momento che scrivo [1870], le campane
suonano a distesa, e annunziano l’entrata degl’Italiani a Roma. Il potere temporale
crolla. E si grida il viva all’unità d’Italia. Sia gloria al Machiavelli». Cinquant’anni dopo, nata finalmente la Repubblica, Luigi Einaudi prendeva la parola
alla Consulta, il 29 luglio 1947, per esortare ad approvare il Trattato di Pace: dobbiamo
imparare da Machiavelli, spiega Einaudi, non dal Machiavelli «meditante solitario
nel confino del suo rustico villaggio toscano sui teoremi della scienza politica pura»,
ma dal Machiavelli «uomo», dal Machiavelli «cittadino in Firenze» che
non aveva, no, timore di rivolgersi al popolo, da lui reputato «capace della verità»,
capace cioè di apprendere il vero e di allontanarsi dai falsi profeti quando «surga
qualche uomo da bene che orando dimostri loro come ei s’ingannino». Sì. Fa d’uopo
che oggi nuovamente surgano gli uomini da bene, auspicati da Niccolò Machiavelli,
a dimostrare ai popoli europei la via della salvezza e li persuadano ad infrangere
gli idoli vani dell’onnipotenza di stati impotenti, del totalitarismo, alleato al
nazionalismo e nemico acerrimo della libertà e della indipendenza delle nazioni.
Fa d’uopo davvero studiare la storia di Firenze negli anni attorno al 1513 perché
quelle vicende contengono una lezione di valore politico e morale inestimabile che
ho cercato di riscoprire. Ma insomma, sarà proprio un caso se ci siamo sempre ispirati
a Machiavelli, quando siamo stati capaci di rinascere a nuova libertà, a nuova dignità
di popolo?