X.
Il marchio
della Grande Guerra
Le decisioni dei vincitori alla conferenza di pace e il nuovo assetto dell’Europa
furono oggetto di critiche molto severe da parte di alcuni osservatori contemporanei.
L’economista inglese John Maynard Keynes, che aveva partecipato alla conferenza come
membro della delegazione britannica, nel saggio Conseguenze economiche della pace, pubblicato nel 1919, condannò la durezza del trattato imposto alla Germania, perché
non conteneva alcuna clausola per favorire la rinascita economica dell’Europa, per
riconciliare i vinti con i vincitori e per conservare la solidarietà fra gli stessi
alleati, mentre avrebbe aggravato la già pesantissima depressione delle condizioni
di vita della popolazione europea, spingendo milioni di persone, per miseria, fame
e disperazione, a sconvolgere quanto ancora restava in vita della vecchia organizzazione,
fino a sommergere la stessa civiltà.
Egualmente severo fu il giudizio espresso nel 1921, nel libro L’Europa senza pace, da Francesco Saverio Nitti: “L’Europa continentale si prepara a una serie di nuove
e più violente guerre di popoli, che minacciano di far naufragare la civiltà, se non
si trova il modo di sostituire agli attuali trattati, basati sul principio che occorre
continuare la guerra, un sistema di accordi che metta vincitori e vinti su un piede
di libertà e di uguaglianza; e, pur dando ai vinti quegli oneri che possono sopportare,
liberino subito l’Europa dallo spettacolo attuale di un continente diviso in due campi,
di cui uno è armato e minaccioso e l’altro, inerme e offeso, dovrebbe essere obbligato
a lavorare in forma schiavesca, sotto la minaccia di nuova servitù!”.
Le catastrofi della catastrofe
Al di là del giudizio negativo sull’operato dei vincitori, non era possibile confutare
la valutazione che la Grande Guerra era stata una grande catastrofe della civiltà
europea, il risultante di molteplici catastrofi, che impressero un marchio profondo
e indelebile nella coscienza dell’uomo moderno.
La Grande Guerra aveva prodotto, innanzi tutto, una catastrofe demografica, per l’ecatombe
di uomini morti al fronte, appartenenti alla popolazione attiva e alle generazioni
più giovani, la “generazione perduta”. Circa dieci milioni di morti, cioè più del
doppio dei morti di tutte le guerre dell’Ottocento, e circa venti milioni di feriti,
mutilati e invalidi. Inoltre, circa il 12 per cento dei caduti aveva meno di venti
anni, il 60 per cento aveva fra i venti e i trent’anni: fu la più grossa carneficina
di massa avvenuta sul continente europeo in trecento anni. Fra i maggiori Stati coinvolti
nel conflitto, la Germania ebbe 2.033.770 di morti e dispersi, la Russia 1.800.000,
la Francia 1.375.800, l’Austria-Ungheria 1.100.000, l’Inghilterra (con l’impero e
i dominions) 908.371, la Turchia 804.000, l’Italia 578.000, gli Stati Uniti 114.000. Ma alte,
in proporzione alla popolazione, furono anche le perdite degli Stati minori, come
la Serbia con 278.000 morti, la Romania con 250.000, la Bulgaria con 87.000 e il Belgio
con 38.716. Complessivamente, le potenze alleate ebbero un numero maggiore di perdite,
5.380.115 di morti e dispersi, rispetto agli imperi centrali, che ne ebbero 4.025.200;
e ancora maggiore era il numero dei feriti fra le potenze alleate, pari a 12.830.704,
a confronto degli 8.388.448 degli imperi centrali. Ingente era anche il numero dei
mutilati e degli invalidi permanenti. In Italia, secondo dati ufficiali, gli invalidi
furono 451.640, 57.000 i militari morti in prigionia, e 60.000 i prigionieri italiani
che non fecero ritorno.
Tuttavia, per valutare la dimensione della catastrofe demografica, occorre aggiungere,
all’ecatombe dei morti in guerra, il numero dei morti a causa della fame e delle malattie,
che in taluni paesi furono superiori ai primi: in Serbia, su una popolazione di cinque
milioni di abitanti, i morti per fame o per malattia furono 650.000 rispetto ai 125.000
caduti in guerra. Inoltre, il blocco navale alleato avrebbe provocato circa 500.000
vittime nelle potenze centrali. Alle vittime delle malattie collegate alle condizioni
e alle conseguenze della guerra, bisogna aggiungere le vittime della “febbre spagnola”,
la peggiore pandemia della storia, che imperversò fra l’autunno del 1918 e il 1920,
provocando decine di milioni di morti nel mondo. Nell’Europa dissanguata dalla guerra,
i morti per la “febbre spagnola” furono 166.000 in Francia, 225.330 in Germania, 228.000
in Gran Bretagna, quasi 500.000 in Italia, 550.000 negli Stati Uniti. Circa il 25
per cento delle vittime dell’influenza era al di sotto dei quindici anni, e il 45
per cento era fra i quindici e i quarantacinque anni.
Inoltre furono alcuni milioni le vittime di nuovi conflitti armati che esplosero fra
il 1918 e il 1922, come la guerra civile in Russia, la guerra fra la Russia e la Polonia,
la guerra fra la Grecia e la Turchia, tutti accompagnati da massacri di civili inermi,
da carestie e da epidemie. Complessivamente è stato calcolato che la catastrofe demografica
causata dalla Grande Guerra ammonta a oltre venti milioni di persone.

90. Dove è passata la Grande Guerra (cartolina francese che ritrae le rovine della
città di Tracy Le Val, 1917).

91. La natura devastata dai bombardamenti (cartolina francese che ritrae le rovine
di Souchez, nell’Artois, durante la campagna del 1914-1917).
Secondo una valutazione meramente numerica, la perdita di vite umane durante la Grande
Guerra sarebbe stata successivamente compensata dall’incremento della natalità in
gran parte dei paesi che avevano combattuto, tranne la Francia, ma ciò che conferì
alle perdite di vite umane, dovute alla Grande Guerra e alle sue conseguenze, il significato
peculiare di una catastrofe demografica furono la causa e la modalità delle morti,
e la loro quantità in un breve spazio temporale, con tutti gli effetti devastanti
che ciò ebbe sia sulla popolazione civile, con milioni di vedove e di orfani, sia
sul complesso della società, con la perdita di alcune generazioni di giovani.
Un altro aspetto dell’eredità catastrofica della Grande Guerra furono le centinaia
di migliaia di mutilati e invalidi, i sette milioni di prigionieri di tutti gli eserciti
dispersi su un territorio che andava dall’Europa ai confini orientali della Russia,
e i milioni di profughi che durante il conflitto fuggirono dai territori invasi dal
nemico in Belgio, in Francia, nella Prussia orientale, nei Balcani, e in Italia dopo
la rotta di Caporetto. Ai profughi di guerra seguì, dopo la fine del conflitto, la
deportazione in massa di circa cinque milioni di persone, costrette ad abbandonare
la terra nativa in seguito alla ridefinizione dei confini dei vecchi e dei nuovi Stati,
che comportò scambi forzati di popolazione etnicamente diversa dalla maggioranza etnica
dominante.



92-94. Eredità della Grande Guerra: i mutilati.
Altra conseguenza catastrofica della Grande Guerra per l’Europa fu la perdita del
suo primato economico nel mondo. Tutti i paesi belligeranti uscirono dalla guerra
finanziariamente dissestati ed economicamente impoveriti. Anche gli Stati vincitori
erano fortemente indebitati, specialmente con gli Stati Uniti, che ancor prima di
entrare in guerra avevano contribuito a sostenere, con ingenti prestiti agli Stati
dell’Intesa, l’enorme peso delle loro spese belliche. Inoltre, un nuovo e gravoso
impegno economico per tutti i governi dei paesi che avevano preso parte al conflitto
derivò dalla necessità di provvedere all’assistenza dei soldati mutilati e invalidi,
alle vedove e agli orfani dei caduti, assicurando loro vitalizi, pensioni e speciali
riconoscimenti nella ricerca di occupazione e di lavoro. Il blocco del commercio internazionale
durante gli anni di guerra aveva avvantaggiato l’espansione della produzione industriale
e del commercio degli Stati Uniti nei mercati dell’America Latina, dove fino alla
vigilia della Grande Guerra avevano predominato i capitali e le esportazioni industriali
europee. Anche il Giappone subentrò alle potenze europee nei rapporti commerciali
con l’America meridionale e intensificò la sua penetrazione economica in Cina, manifestando
aggressivi propositi di egemonia coloniale in Asia.
Conseguenza della guerra e della catastrofe economica fu il peggioramento delle condizioni
di vita per gran parte delle popolazioni europee, specialmente nei paesi sconfitti,
per la scarsità o la carenza di generi alimentari, dovuta al calo della produzione,
al blocco del commercio internazionale negli anni di guerra, all’incontrollato aumento
dei prezzi. In Germania, in Austria e in altri paesi dell’Europa orientale, milioni
di persone furono ridotte alla fame e morirono di stenti. Intanto, per i primi anni
del dopoguerra, continuò a dilagare l’inflazione sfrenata, prodotta dalla frequente
emissione di carta moneta da parte dei governi degli Stati belligeranti per far fronte
alle spese belliche, insieme con i prestiti e l’aumento della tasse.
L’inflazione impoverì soprattutto i ceti che percepivano un reddito fisso in denaro
(stipendi, salari, rendite dall’affitto di case e di terreni), mentre gli operai,
avvalendosi della protezione delle loro organizzazioni sindacali, poterono ingaggiare
lotte per ottenere salari adeguati all’aumento del costo della vita. Ovunque in Europa
il 1919 e il 1920 furono anni di vaste e aspre agitazioni sindacali, sia nei paesi
vinti sia nei paesi vincitori, con un rapido aumento del numero degli scioperi e degli
scioperanti. Causa di impoverimento fu anche la crescita della disoccupazione, sia
in seguito alla riconversione degli apparati produttivi alla economia di pace, con
la riduzione delle attività industriali legate alla guerra, sia per la smobilitazione
di milioni di soldati, molti dei quali mutilati e invalidi, che tornarono alla vita
civile dopo anni di assenza.
Uomini e donne dalla guerra alla pace
La Grande Guerra aveva prodotto un profondo sconvolgimento nei tradizionali rapporti
fra uomini e donne. La chiamata alle armi aveva separato i mariti dalle mogli e i
padri dai figli, mentre i posti di lavoro resi vacanti dagli uomini al fronte furono
occupati dalle donne nelle campagne, nelle fabbriche e nei servizi; nell’ambito familiare
sulla donna sposa e madre vennero a gravare improvvisamente tutte le responsabilità
del capofamiglia. Questo sconvolgimento nei rapporti sociali e familiari si ripercosse
nella mentalità e nei comportamenti di molte donne. Per la prima volta erano state
liberate dalla sottomissione alla potestà del padre o del marito, per entrare nel
mondo del lavoro e nelle attività pubbliche di assistenza e di propaganda. Ciò diffuse
il desiderio di emancipazione specialmente da parte delle più giovani, inserite in
una nuova rete di rapporti sociali che avevano infranto le convenzioni di una rigida
morale pubblica e privata. Emerse così, dopo la guerra, la figura di una “donna nuova”,
che nel taglio accorciato dei capelli, nei vestiti più corti, nel comportamento più
disinvolto, mostrava una netta e decisa volontà di liberarsi del costume tradizionale
per rivendicare la piena parità con l’uomo.
Ma, al di là degli aspetti di costume, la condizione della donna era stata effettivamente
trasformata dalla esperienza della guerra. Se milioni di reduci reclamavano riconoscimenti
e ricompense per le sofferenze patite in trincea, nel fronte interno milioni di donne
avevano egualmente contribuito con il loro lavoro a sostenere lo sforzo bellico della
nazione, e centinaia di migliaia di spose, madri, figlie, sorelle e fidanzate dei
caduti, avevano pagato un altissimo prezzo di dolore per la perdita dei loro cari,
aggravato spesso, per molte madri rimaste vedove, dalla necessità di dover far fronte
al sostentamento e alla educazione dei figli.
Non mancarono importanti riconoscimenti al contributo che le donne avevano dato alla
patria in guerra: in Gran Bretagna già nel febbraio 1918 il Parlamento aveva concesso
il diritto di voto alle donne che avevano superato il trentesimo anno (questo limite
fu abolito dieci anni dopo) e nel novembre riconobbe il loro diritto alla eleggibilità.
Negli Stati Uniti caddero le ultime resistenze all’approvazione del XIX emendamento
della Costituzione riguardante il suffragio femminile, che fu approvato nel giugno
1919 ed entrò in vigore l’anno successivo. In Germania, il 30 novembre 1918 un decreto
del Consiglio dei rappresentanti del popolo riconobbe alle donne il diritto di voto
attivo e passivo, poi confermato dalla nuova Costituzione repubblicana adottata il
31 luglio 1919. In Belgio, una nuova legge elettorale approvata il 9 maggio 1919 concedeva
ad alcune categorie di donne il diritto di voto. Anche in paesi che non avevano partecipato
al conflitto, come l’Olanda, nel 1919 fu riconosciuto il diritto di voto alle donne
che avevano compiuto il trentesimo anno. Invece in altri paesi belligeranti, come
la Francia e l’Italia, la parità dei diritti politici continuò ad essere negata alle
donne.
Tuttavia, nonostante questi riconoscimenti, la Grande Guerra non accelerò ovunque
la conquista della piena parità fra donne e uomini nella partecipazione alla politica
e nel mondo del lavoro. Con la riconversione dell’economia di guerra, molti governi
e parlamenti adottarono misure per escludere le donne dal mondo del lavoro tradizionalmente
occupato dagli uomini, anche nei paesi dove alle donne era stato concesso il diritto
di voto, come in Gran Bretagna e in Germania.
Gli stessi onori tributati alle madri e alle vedove dei caduti nel dopoguerra, come,
per esempio, la istituzione della Giornata della Madre e i premi per incentivare le
coppie prolifiche dopo il calo della natalità durante la guerra, miravano a rinsaldare
il ruolo domestico della donna come sposa e madre, esaltando i doveri della maternità
rispetto ai diritti della donna. La retorica patriottica contribuì a contrastare l’emancipazione
femminile. La glorificazione del soldato come incarnazione delle massime virtù del
cittadino e l’esaltazione della virilità maschile temprata dalla esperienza della
guerra, furono adoperate per attizzare la polemica contro la “donna nuova”, considerata
una minaccia per la preservazione della famiglia, per la tutela della morale privata
e pubblica e per la stabilità della gerarchia sociale. A diffondere questa tendenza
contribuì la protesta dei reduci contro il largo impiego del lavoro femminile, che
essi consideravano un ostacolo al loro reinserimento nella vita civile. Infatti, una
delle principali rivendicazioni dei reduci fu la reintegrazione nei posti di lavoro
che avevano occupato prima della guerra e che erano stati assegnati a civili esonerati
o, in larga parte, alle donne.
Combattentismo
Dalla smobilitazione degli eserciti tornò alla vita civile una eterogenea massa di
milioni di soldati, molti dei quali erano feriti, mutilati e invalidi permanenti.
Già negli anni di guerra erano sorte associazioni fra soldati mutilati, invalidi e
feriti, che si organizzarono per rivendicare dai governi riconoscimenti materiali
e morali per il sacrificio sofferto. Il problema dei reduci non era soltanto morale,
ma sociale ed economico, perché si trattava di reintegrare nella vita produttiva milioni
di uomini costretti a lasciare il lavoro per il fronte, e molti dei quali dopo la
smobilitazione si trovarono ad essere disoccupati. Specialmente nelle città dei paesi
sconfitti si vedevano reduci invalidi o mutilati costretti a chiedere la carità.
Obbligati dai loro governi a combattere, i reduci tornarono dalla guerra convinti
di avere diritto a essere ricompensati per le sofferenze patite, con migliori condizioni
di vita e di lavoro da parte della società e dello Stato. Invece per molti reduci
il ritorno alla vita civile fu una cocente delusione, che generò un profondo risentimento
verso il governo, la classe dirigente e la società dei borghesi imboscati, i commercianti
speculatori, gli industriali “pescecani”, gli operai esentati dal fronte.
Una impressionante rappresentazione del risentimento dei combattenti fu offerta dal
regista francese Abel Gance nel film J’accuse, girato nell’ultimo anno di guerra, con comparse che erano autentici combattenti
in licenza e che tornarono poi al fronte, dove forse furono feriti o persero la vita.
Il film si concludeva con la scena di una marcia di fantasmi di soldati caduti, con
le loro ferite e mutilazioni, che sorgevano dalle tombe di uno squallido cimitero
di guerra per invadere le strade dei loro villaggi e terrorizzare i civili che conducevano
una vita dissoluta, ignari o sprezzanti dei sacrifici dei soldati in trincea. Atterriti
alla vista degli spettri che gridavano “J’accuse”, i civili si pentirono e si rigenerarono,
mentre i caduti poterono tornare alle loro tombe, ciascuno portando la sua croce,
per riposare in pace, sentendo che il loro sacrificio non era stato vano.
Un aspetto peculiare del reducismo fu la volontà di molti ex combattenti di dar vita
a proprie associazioni, nelle quali perpetuare lo spirito comunitario del cameratismo
delle trincee, difendere la memoria dei commilitoni caduti, assistere i reduci e promuovere
riforme per rinnovare la società. Con questo spirito sorsero organizzazioni come l’Association
générale des mutilés de la guerre e l’Union nationale des combattants in Francia,
la British Legion in Gran Bretagna, e l’American Legion negli Stati Uniti. Queste
associazioni nascevano in genere per iniziativa degli stessi veterani, sostenuti da
enti privati o pubblici, e agivano come gruppi di pressione per ottenere dai governi
provvedimenti economici, finanziari e sociali a favore degli ex combattenti. Ma anche
i partiti politici e talvolta gli stessi apparati militari ufficiali si fecero promotori
di proprie associazioni di reduci, come avvenne in Germania, dove furono costituite
la Reichsbund der Kriegsbeschädigten, Kriegsteilnehmer und Kriegshinterbliebenen di
orientamento socialdemocratico e lo Stahlhelm, Bund der Frontsoldate, organizzazione paramilitare di ex ufficiali sostenuta dall’esercito.
Fu questa l’origine di un fenomeno peculiare dell’eredità della Grande Guerra, il
“combattentismo”. Il termine, propriamente italiano, può essere usato per designare
un fenomeno più generale, che fu comune alla maggior parte dei paesi belligeranti.
Il combattentismo ebbe caratteri specifici nei diversi paesi, secondo le forme di
organizzazione, gli scopi e i mezzi per raggiungerli, ma anche secondo il loro orientamento
ideologico, variando dall’estrema destra all’estrema sinistra, e soprattutto secondo
il loro atteggiamento nei confronti della esperienza della guerra e della sua eredità.
In Francia, le associazioni principali degli ex combattenti, pur glorificando la vittoria,
la nazione e la repubblica francese, ebbero un orientamento patriottico pacifista,
assumendosi il compito di agire per prevenire e impedire nuove guerre, in nome dei
valori universali dell’umanità, predicati dalla rivoluzione francese. Allo stesso
modo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, l’orgoglio per la vittoria contribuì ad
esaltare un patriottismo o un nazionalismo che si identificava con l’esaltazione delle
istituzioni liberali e democratiche, che avevano trionfato sul militarismo e l’autoritarismo
tedesco.
In Italia, fin dal 1917 era sorta l’Associazione nazionale mutilati e invalidi di
guerra (ANMIG), che si proponeva innanzi tutto si svolgere attività assistenziale
e propaganda patriottica. Alla fine della guerra, con oltre 50.000 iscritti, l’ANMIG
lanciò un appello ai reduci affinché si unissero per promuovere l’attuazione di un
programma democratico di rinnovamento economico, sociale e politico del paese. Da
questa iniziativa nacque l’Associazione nazionale combattenti (ANC), che nel suo programma
unì l’orgoglio patriottico per la vittoria e un orientamento politico democratico,
impegnato a ottenere dal governo l’attuazione di riforme per promuovere una migliore
eguaglianza, una maggiore giustizia sociale e un più ampio coinvolgimento dei cittadini
nella vita dello Stato. L’ANC raccolse oltre mezzo milione di iscritti.
La politica armata
Appartenevano alla eredità catastrofica della Grande Guerra i mutamenti mentali, spesso
traumatici, che essa aveva provocato in milioni di uomini, messi per la prima volta
a confronto con l’esperienza della morte di massa in una guerra spietata. Migliaia
furono i reduci che, pur non avendo subito gravi ferite e mutilazioni fisiche, patirono
gravi disturbi mentali, causati dai traumi da bombardamento, dalla paura della morte
o dall’orrore della carneficina quotidiana. Ma migliaia furono anche i reduci, soprattutto
quelli provenienti dalle truppe d’assalto, come le Sturmpatrouillen tedesche, le Sturmtruppen austriache e gli Arditi italiani, che erano stati affascinati dalla guerra, esaltati
dall’esperienza violenta e brutale che avevano vissuto al fronte. Essi tornarono convinti
di essere destinati, proprio grazie all’esperienza della guerra, a esercitare un ruolo
di avanguardia e di guida della nazione.
“Tornati dalla guerra, guerra di entusiasmo, ma anche di dolori, di scoraggiamenti,
di sacrifici da nessuno che non li abbia sofferti mai immaginati”, gli ex combattenti
italiani – affermava nel 1919 l’organo di una loro associazione – “non ritengono sia
finito il loro compito di soldati, non vogliono, né possono adattarsi alla facile
vita dei comodi e placidi tramonti, ma credono sia opera loro di far sentire un nuovo
pensiero forti di quella autorità che il fatto e l’esperienza della guerra loro conferiscono”.
Con lo stesso spirito, Ernst Jünger, giovane combattente tedesco più volte ferito
e pluridecorato, rievocò con animo esaltato, nel libro Nelle tempeste d’acciaio pubblicato nel 1920, la sua esperienza al fronte, affermando che la guerra aveva
generato un uomo nuovo: “Se è vero che questa guerra ci ha tolto tutto quanto, una
cosa pure ci ha dato: l’uomo nuovo, risoluto, che il destino in migliaia di ore spaventose
ha educato a dedicarsi totalmente alla propria causa. Per la nostra causa siamo abituati
a buttarci nel fuoco, a sopportare le cose più gravi, a compiere le più spaventose”.

95. Gli Arditi.

96. Ufficiali e soldati dei Freikorps a Berlino intervengono per stroncare uno sciopero generale.
L’esaltazione del combattente come un “uomo nuovo” forgiato dalla guerra fu uno degli
aspetti del fenomeno della militarizzazione della politica, cioè la formazione di
organizzazioni paramilitari che esercitavano la violenza armata nella lotta politica.
Organizzazioni simili sorsero in Europa subito dopo la fine della guerra per iniziativa
di ufficiali e soldati che avevano combattuto al fronte, come i Freikorps in Germania e l’Associazione degli Arditi in Italia.
Esperienze di militarizzazione della politica in Europa risalivano all’epoca della
rivoluzione francese. Diverse associazioni paramilitari erano sorte nel corso dell’Ottocento,
soprattutto su iniziativa dei patrioti che lottavano per la liberazione e la indipendenza
della loro nazione. La novità delle organizzazioni paramilitari dei veterani sorte
dopo la Grande Guerra fu la loro diretta derivazione dall’esperienza della trincea,
perché furono promosse e costituite da ex combattenti animati da un nazionalismo fanatico,
che praticarono la violenza politica contro quelli che essi consideravano i “nemici
interni” della nazione, cioè tutti coloro che si erano opposti alla guerra o la condannavano
professando ideali pacifisti e internazionalisti, i militanti della sinistra democratica
o rivoluzionaria, i liberali o democratici che avevano sostenuto la neutralità. La
militarizzazione della politica nell’Europa del dopoguerra non fu solo prodotta dai
veterani nazionalisti; ad essa contribuì anche la sinistra internazionalista che aveva
assunto a modello la rivoluzione bolscevica; vari tipi di organizzazioni paramilitari
furono promossi dai militanti comunisti, che volevano conquistare con la violenza
il potere, combattendo una guerra civile contro la borghesia.
Ciò che caratterizzò queste aggregazioni paramilitari nazionaliste fu l’adozione del
cameratismo delle trincee come esperienza vissuta di una nuova identità comunitaria,
assunta a modello di una coesione nazionale, fondata sul mito della Grande Guerra
come fattore di rigenerazione della politica e della società. A tali organizzazioni
aderirono anche giovani che non avevano partecipato alla guerra, ma subivano il fascino
del suo mito e volevano emulare i veterani nell’esperienza del combattimento, partecipando
alle loro gesta violente.
Diversi furono i fattori che concorsero al fenomeno della militarizzazione della politica
dopo la Grande Guerra. La aggressività politica delle organizzazioni paramilitari
si diffuse soprattutto nei paesi dell’Europa centrale e orientale, dove esistevano
forti tensioni di frontiera, a causa delle amputazioni territoriali subite dagli Stati
sconfitti e dei conflitti fra nazionalità, che coinvolsero sia gli Stati sconfitti
sia i nuovi Stati sorti dalla disgregazione dell’impero austro-ungarico, dell’impero
russo e dell’impero ottomano. Inoltre, la militarizzazione della politica, ad opera
di gruppi paramilitari nazionalisti, avvenne negli Stati dove la sinistra rivoluzionaria
era forte e praticava azioni violente, i conflitti sociali erano vasti, aspri e continui,
i governanti erano deboli e incapaci di contrastarli o di sanarli, e la democrazia
parlamentare non aveva una lunga e consolidata tradizione condivisa dalla maggioranza
dei governati.
Il fenomeno fu particolarmente esteso in Germania, dove l’esercito non riteneva affatto
di esser stato sconfitto sul campo di battaglia. E molti reduci, nei ranghi degli
ufficiali e della truppa, accusavano il governo repubblicano di aver pugnalato la
nazione alla schiena, e si costituirono in corpi armati paramilitari per combattere
tutti coloro che consideravano “traditori” e “nemici interni” della nazione, e compiere
azioni di guerra in difesa delle minoranze tedesche nei territori appartenenti al
decaduto impero germanico e passati sotto la sovranità dei nuovi Stati sorti in Europa
orientale. Nel gennaio 1919 i militanti dei Freikorps parteciparono all’assassinio dei dirigenti comunisti Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht,
nel 1921 uccisero il dirigente del partito cattolico Matthias Erzberger, che aveva
firmato l’armistizio nel 1918, e nel 1922 il ministro degli Esteri della repubblica
di Weimar Walther Rathenau.
Nell’ambito delle organizzazioni paramilitari tedesche nacque nel 1920 il partito
nazionalsocialista, per iniziativa di Adolf Hitler, il vagabondo nato in Austria e
arruolatosi volontario nell’esercito tedesco, combattendo sul fronte occidentale,
dove aveva meritato il grado di caporale.
La militarizzazione della politica avvenne anche in un paese uscito vittorioso dal
conflitto, come l’Italia, dove nel marzo 1919 Benito Mussolini, che era stato interventista
volontario e combattente, conseguendo al fronte il grado di caporale, fondò il movimento
politico dei Fasci di combattimento, che già nella denominazione manifestava la sua
concezione paramilitare della politica, avvalendosi fin dall’inizio di squadre armate,
formate da arditi e veterani, nella lotta contro gli avversari.
Tuttavia, benché fosse un fenomeno derivato dall’esperienza delle trincee, la militarizzazione
della politica a opera di veterani non fu comune a tutti i paesi che avevano partecipato
alla Grande Guerra. Infatti fu quasi del tutto assente in Francia e nel Regno Unito,
anche se il governo inglese dovette fronteggiare la violenza politica delle organizzazioni
paramilitari che combattevano per l’indipendenza dell’Irlanda e nella guerra civile
fra protestanti e cattolici nell’Ulster. A ostacolare la nascita o la diffusione della
militarizzazione della politica contribuirono la tradizione liberale in Inghilterra
e la tradizione democratica in Francia, unite, in entrambi i paesi, alla soddisfazione
per gli acquisti territoriali conseguiti, all’orgoglio per l’ampliamento dei loro
imperi, alla capacità dei loro governi di far fronte ad aspri conflitti politici e
sociali e al patriottismo pacifista della grande maggioranza dei reduci francesi e
inglesi. Senza rinunciare per questo a perpetuare anche essi, attraverso la istituzione
del culto dei caduti, un proprio mito della Grande Guerra.
Al Soldato senza nome
La guerra di massa produsse una morte di massa e, di conseguenza, un lutto di massa
in milioni di famiglie. Mai, nel corso della sua storia, l’umanità aveva vissuto contemporaneamente
una così vasta esperienza collettiva del lutto per la perdita in guerra di un marito,
di un padre, di un fratello, di uno o più figli. Un dolore incommensurabile fu il
marchio indelebile che la Grande Guerra impresse nella coscienza di milioni di famiglie:
un dolore che si perpetuò nella memoria personale e collettiva, e forse ebbe un labile
conforto dalla trasfigurazione mitica dei congiunti caduti in nuovi martiri, che avevano
sacrificato la vita per la salvezza della propria patria e della propria famiglia.
Il cordoglio di massa per la morte di massa generò un culto di massa, il culto dei
caduti, comune a tutti i paesi e a tutte le popolazioni che avevano preso parte alla
guerra.
L’assuefazione alla morte di massa non produsse nei soldati l’anestesia della pietà
verso i caduti. Fin dall’inizio del conflitto la pietà per i camerati morti indusse
i commilitoni a cercare di preservarne le spoglie in cimiteri improvvisati al fronte,
raccogliendo rispettosamente i corpi prima in fosse comuni, adagiandoli in fila l’uno
accanto all’altro, poi seppellendoli con una semplice cerimonia, talvolta officiata
da un cappellano militare, in tombe singole con una croce di legno. Poteva anche accadere
che cappellani protestanti officiassero il servizio funebre per caduti cattolici e
viceversa, e lo stesso talvolta si verificò con i cappellani rabbini. Nell’esercito
francese si ebbe cura di seppellire i caduti di religione musulmana col viso rivolto
alla Mecca. Il simbolo della croce, inizialmente adoperato per le tombe nei cimiteri
provvisori, fu usato anche per ebrei e musulmani, ma si volle, in questi casi, attribuire
alla croce il significato di simbolo universale del sacrificio e non di simbolo cristiano.
La diversità del credo religioso dei caduti fu rispettata quando, dopo la fine della
guerra, si avviò il processo di costruzione di cimiteri di guerra monumentali dove
raccogliere le spoglie nei luoghi dove si erano svolte le più cruenti battaglie: le
tombe vennero raggruppate secondo l’appartenenza nazionale dei caduti identificati,
con simboli differenti secondo le diverse tradizioni religiose, ma adottando per tutte
una foggia e uno stile identici di estrema semplicità.

97. Cimitero di guerra italiano nelle immediate retrovie del fronte.
La tomba individuale fu la soluzione definitiva adottata in quasi tutti gli Stati,
volendo preservare, in una guerra di massa con morti di massa, l’individualità di
ogni singolo caduto, quando era stato possibile recuperarne il corpo o parti del corpo
e identificarlo. Durante la guerra, i camerati avevano raccolto carte e oggetti dei
caduti per recapitarli alle famiglie, anche la piastrina identificatrice, contribuendo
così, involontariamente, a rendere anonimi molti caduti. Fra le centinaia di migliaia
di soldati senza nome o dichiarati dispersi, la maggior parte era stata dilaniata
dalle esplosioni, che ne avevano disintegrato il corpo.

98. Un monumento effimero alla gloria dei caduti in una città inglese.

99. La tumulazione del soldato senza nome a Parigi, sotto l’Arco di Trionfo.

100. La tomba del soldato senza nome nell’Abbazia di Westminster a Londra.
Nel processo di sistemazione definitiva dei caduti in guerra, emerse un dilemma tipico
della modernità, cioè il confronto fra l’individuo e la massa, fra la persona, con
la sua famiglia, e lo Stato. Nelle guerre del passato tale confronto non esisteva,
perché i soldati caduti in battaglia venivano solitamente sepolti in fosse comuni,
mentre tombe e monumenti spettavano soltanto ai comandanti illustri generalmente appartenenti
alla nobiltà. La guerra di massa combattuta in nome della nazione da eserciti di coscritti
o di volontari, giustificata e legittimata come dovere collettivo di tutti gli individui,
sia negli Stati democratici sia in quelli autoritari, impose, nella costruzione dei
cimiteri e dei monumenti commemorativi, l’adozione di una pratica democratica che
rispettasse la individualità di ogni singolo caduto: fu pertanto deciso che la massa
dei caduti sarebbe stata raccolta nei cimiteri e ricordata nei monumenti attraverso
l’iscrizione di tutti i nomi, senza distinzione di gradi e di gerarchia.
Le famiglie dei caduti avrebbero voluto recuperare i corpi dei propri congiunti per
seppellirli presso di sé, ma questo si rivelò presto un desiderio difficile da esaudire,
perché i costi del recupero e del trasporto delle salme, specialmente per i soldati
che erano venuti da altri continenti – dall’India, dall’Oceania, dall’Africa e dall’America
–, avrebbero consentito di farlo solo alle famiglie che potevano permetterselo economicamente,
provocando così una deprecabile discriminazione. Alla fine, i governi decisero di
far costruire i cimiteri di guerra nelle zone dove i soldati avevano combattuto ed
erano morti. Sorsero così i cimiteri di guerra monumentali, per i caduti di tutte
le nazioni belligeranti, dislocati presso le località delle battaglie più sanguinose
del conflitto.

101. Il treno che trasposta la salma del Milite Ignoto da Aquileia a Roma.

102. La bara del soldato senza nome americano nella rotonda del Campidoglio a Washington.
Ma il problema più spinoso lo ponevano i milioni di soldati dispersi e caduti senza
nome, persone la cui individualità era stata completamente annientata e cancellata.
Nel cimitero monumentale costruito a Douaumont nei pressi di Verdun, un enorme ossario
raccoglie i resti di oltre 100.000 caduti non identificati, e così fu fatto in altri
cimiteri di guerra. Dal contrasto fra l’esigenza di rispettare l’individualità di
ogni singolo soldato e l’impossibilità di restituirla a ognuno di loro nacque l’idea
di assumere il corpo di un soldato senza nome quale simbolo di tutti i caduti in guerra,
consacrandolo nello stesso tempo come simbolo della morte sacrificale per la salvezza
della patria e come simbolo della perenne resurrezione dei caduti nella memoria collettiva
della nazione. Gli inglesi scrissero sulle croci dei soldati senza nome le parole
di Rudyard Kipling, che aveva perso un figlio in guerra: “Un soldato della grande
guerra noto a Dio”. Ebbero così origine i monumenti consacrati al Soldato senza nome:
Milite Ignoto in Italia, Soldat Inconnu in Francia, Unknown Warrior in Inghilterra, An American Soldier known but to God negli Stati Uniti, Eroul Necunoscut in Romania.
Diverse furono le cerimonie attraverso le quali furono esumati dai cimiteri presso
i campi di battaglia i corpi di alcuni soldati non identificati, collocati in bare
identiche, fra le quali fu scelta la bara destinata ad essere tumulata come simbolo
nazionale del Soldato senza nome. Francia e Inghilterra furono i primi Stati a celebrare
la tumulazione del Soldato senza nome, contemporaneamente, nello stesso giorno e alla
stessa ora, nell’anniversario dell’armistizio, l’11 novembre 1920: in Francia, il
Soldat Inconnu fu sepolto a Parigi sotto l’Arco di Trionfo; in Inghilterra, il “guerriero sconosciuto”,
come rappresentante di tutti i caduti dell’impero britannico, comprese le truppe indigene,
fu sepolto nell’Abbazia di Westminster a Londra, ma la tomba simbolica fu il Cenotafio
(che in greco significa “sepolcro vuoto”) collocato nella capitale britannica sulla
Whitehall. L’11 novembre dell’anno successivo si svolse la cerimonia della sepoltura
del Soldato senza nome nel cimitero nazionale militare di Arlington prezzo Washington.

103. L’inaugarazione dell’ossario dei soldati senza nome nel cimitero di Douaumont
presso Verdun.

104. Il Cenotafio a Londra.
In Italia la cerimonia del Milite Ignoto fu celebrata il 4 novembre 1921: la scelta
fra dieci bare collocate nella Basilica di Aquileia fu compiuta dalla madre di un
volontario triestino, che aveva disertato dall’esercito austriaco, era stato ucciso
nel 1916 e il cui corpo non era stato ritrovato; la bara scelta fu trasportata in
treno da Aquileia a Roma, viaggiando fra folle commosse inginocchiate lungo i binari,
sostando in moltissime stazioni dove migliaia di persone recavano l’estremo omaggio
al Soldato senza nome che fu tumulato in una tomba predisposta sul monumento a Vittorio
Emanuele II, con l’iscrizione latina “Ignoto Militi”.
A tutte le cerimonie funebri per la tumulazione del Soldato senza nome parteciparono
non solo vedove, madri, sorelle, genitori e figli di caduti in guerra, ma centinaia
di migliaia di persone, in un rito collettivo di cordoglio spontaneo che fu la manifestazione
più universale della sacralizzazione della nazione avvenuta nel corso della Grande
Guerra. Ed è stata anche la più duratura, perpetuandosi fino all’inizio del Ventunesimo
secolo: infatti, le ultime tumulazioni del Soldato senza nome sono avvenute, con ampia
e commossa partecipazione popolare, in Australia l’11 novembre 1993, in Canada il
28 maggio 2000 e in Nuova Zelanda l’11 novembre 2004. I tre Stati, che avevano definitivamente
affermato la loro indipendenza con la partecipazione alla Grande Guerra, decisero
di rimpatriare il corpo di un proprio soldato senza nome morto nel primo conflitto
mondiale, come simbolo di tutti i loro caduti in tutte le guerre in cui soldati delle
tre nuove nazioni hanno combattuto nel corso del Novecento, per consacrare in questo
modo la loro individualità nazionale.
Il culto del Soldato senza nome e i monumenti ai caduti, in gran parte costruiti con
il concorso spontaneo delle popolazioni, furono un tributo di consolazione pubblica
che la nazione volle dare al dolore individuale delle famiglie colpite dal lutto,
ma nello stesso tempo furono un atto di glorificazione collettiva della nazione, che
attraverso la consacrazione dei morti come martiri giustificava la necessità del sacrificio
sofferto nel nome della patria, e contemporaneamente trascendeva il ricordo delle
inutili carneficine, dando alla morte in guerra il significato religioso di una resurrezione
nell’eternità della nazione.