L’educazione rivoluzionaria di un romagnolo in Svizzera
di Simone Visconti
Il 9 luglio 1902 Mussolini lasciò Pieve di Gualtieri, in Emilia, dove lavorava da
febbraio come insegnante, per la Svizzera. Le difficoltà professionali legate alla
sua condizione di maestro senza posto fisso, e, dunque, la prospettiva di ritrovarsi
di nuovo a carico della famiglia lo spinsero a cercare fortuna altrove. Non è da escludere che a motivare questa scelta concorresse anche un certo gusto
per l’avventura, un aspetto sul quale le agiografie della Sarfatti e del De Begnac
hanno particolarmente insistito. Se è vero, come Mussolini stesso scrisse nella sua
autobiografia, che mentì alla famiglia e all’amico Bedeschi a proposito del lavoro
che lo aspettava in Svizzera, partendo perciò senza «meta fissa», non per questo la sua fu una scelta originale e improvvisata, ma avvenne nella scia
di una consistente emigrazione italiana verso quel paese.
Alla fine del XIX secolo, un importante sviluppo industriale, dovuto alla costruzione
di imponenti infrastrutture legate allo sviluppo ferroviario e dell’industria (ponti,
gallerie, dighe), attirava in Svizzera un numero sempre maggiore di lavoratori stranieri;
tra questi, gli italiani figuravano al secondo posto dopo i tedeschi: erano presenti
in maggioranza nel settore edilizio, dove fornivano il grosso della manodopera poco
qualificata. Tra il 1876 e il 1910, le partenze italiane per la Svizzera rappresentavano l’8,7%
(982.000 individui) della massa migrante, una percentuale composta soprattutto da italiani del Nord, manovali e muratori che
emigravano spesso per una stagione o per un periodo limitato. Quella di Mussolini fu dunque una decisione in accordo con le pratiche e le abitudini
migratorie della sua regione.
Anche da un punto di vista socioprofessionale, Mussolini non rappresentava un caso
isolato nell’emigrazione dell’epoca: egli apparteneva alla fascia del basso ceto impiegatizio,
maestri e insegnanti che, malgrado il processo di scolarizzazione, non riuscivano
a trovare un impiego ed erano costretti a scegliere tra emigrare all’estero o accettare
un lavoro più umile nel proprio paese. Non fu dunque la miseria, tanto meno una ragione politica, a spingere Mussolini
a partire, ma la ricerca di nuove possibilità e occasioni per una più soddisfacente
e consistente realizzazione personale. L’attività politica si rivelò solo in seguito un possibile sbocco professionale
capace di valorizzare le sue competenze intellettuali e garantirgli un certo prestigio
sociale, sebbene non fosse la sola e unica attività a cui si dedicò, visto che in Svizzera
Mussolini dovette cercare diverse soluzioni per procurarsi da vivere.
Stabilire con precisione quanto Mussolini lavorò, in che condizioni e con quale stipendio
non è possibile, almeno non attraverso le sue testimonianze scritte, troppo vaghe
al riguardo o esageratamente dettagliate su eventi particolari ma limitati nel tempo:
emblematica è, in proposito, la lettera a Bedeschi, da cui emerge l’immagine del muratore
costretto a lottare contro la miseria, utilizzata dalle future agiografie fasciste
per parlare dell’esperienza svizzera. La realtà fu ben diversa, come dimostrano la
lettera a Teofilo Panuzzi e l’autobiografia.
Il soggiorno svizzero segnò un periodo di intensa attività politica retribuita, realizzata
attraverso la redazione di articoli e conferenze, un’attività però non sufficiente
al suo sostentamento, che lo obbligava frequentemente a completare le entrate con
lavori provvisori e spesso poco interessanti: manovale, commesso, impiegato d’ufficio,
insegnante privato.
Fatta eccezione per alcune giornate di lavoro da manovale a Orbe, Mussolini cominciò
ben presto l’attività politica: il suo primo articolo uscì il 9 agosto, a poco meno
di un mese dal suo arrivo in Svizzera, mentre il 24 agosto tenne una conferenza a
Montreux. Dal 29 agosto ricoprì la carica di vicesegretario del Sindacato muratori
e manovali di Losanna, e poco dopo, il 6 settembre, venne eletto segretario. La retribuzione era di soli 5 franchi mensili, ma a questi vanno aggiunti i compensi
per gli articoli e le conferenze. Mussolini percepì nel 1902, in media, dai 15 ai 20 franchi al mese per gli articoli. Nel 1903, tra maggio e ottobre, scrisse nove articoli per un ammontare di 90 franchi,
corrispondenti a una media di 15 franchi mensili.
Questa stima approssimativa deve essere riportata alle condizioni economiche dell’epoca.
Il salario medio di un operaio variava dai 70 ai 130 franchi al mese. Leggermente superiore era la retribuzione del segretario del Partito socialista
italiano in Svizzera, il quale percepiva, secondo gli statuti, 140 franchi (60 franchi
per la redazione del giornale «L’Avvenire del Lavoratore», 50 franchi venivano dalle
corrispondenze per l’«Avanti!» e 30 franchi dalla cassa del partito). Altro elemento indispensabile per l’analisi delle condizioni economiche di Mussolini
in Svizzera è il costo della vita. I socialisti italiani, in un loro studio sulla
situazione materiale dei lavoratori italiani in Svizzera all’inizio del secolo, sostenevano
che la spesa media mensile di un operaio si aggirava attorno ai 65 franchi. Ma è probabile che si potesse vivere con meno, se si considera che verso la fine
dell’Ottocento l’assistenza pubblica losannese elargiva ai più bisognosi tra i 12
e i 20 franchi al mese.
I soli proventi derivanti dall’attività politica, i 15 o 20 franchi al mese, escluse
le conferenze, non furono certo sufficienti al suo sostentamento, ma sicuramente evitarono
a Mussolini di patire la fame, e resero la sua permanenza in Svizzera meno misera
di quanto egli abbia cercato di dipingerla.
Il dato più importante e più utile per comprendere l’esperienza di Mussolini in Svizzera
non è quello economico e quantitativo, ma piuttosto quello sociologico. Quali che
fossero le sue condizioni di vita, Mussolini frequentò sempre e solo la parte più
intellettuale dell’emigrazione, avvocati (Salvatore Donatini, Tito Barboni), pubblicisti
e organizzatori politici (Giacinto Menotti Serrati, Angelica Balabanoff), studenti
universitari, maestri come lui (Ottavio Dinale), ma anche artigiani (il sarto Sigismondo
Bartoli) e commercianti (Carlo De Paulis). La categoria dei muratori e manovali, alla
quale Mussolini più tardi pretese di appartenere, era in realtà destinataria dell’azione
politica, la massa da educare, da rendere cosciente e da organizzare. Essi erano il
pubblico delle conferenze che Mussolini incontrava regolarmente, ma non appartenevano
alla sua quotidianità. Egli visse a contatto con le nuove categorie sociali dell’emigrazione,
come quella dei rifugiati politici, che si era stabilita in Svizzera dopo le repressioni
antisocialiste di fine Ottocento e che aveva partecipato attivamente alla riorganizzazione
politica degli italiani, o quella della nuova generazione di lavoratori qualificati,
artigiani e piccoli commercianti, più numerosi a partire dai primi anni del Novecento,
venuti dall’Italia o formatisi direttamente in Svizzera.
Diverse abitudini di vita e lavorative, ma anche differenze di mentalità, dividevano
la vecchia dalla nuova emigrazione. L’emigrante militante che apparteneva a queste nuove categorie sociali, spesso lontano
dalla fatica del lavoro manuale, poteva destinare parte del suo tempo agli incontri
e agli scambi di idee: ciò rappresentava una dimensione essenziale, positiva e formativa
della sua vita. E infatti, dalle carte della polizia di Losanna risulta che nell’estate
del 1904 Mussolini fu spesso in compagnia di Serrati, intento a discutere con lui
nel negozio di un altro militante, Zanini. Questa era la rete sociale nella quale Mussolini s’inserì e si formò: un’esperienza
umana e intellettuale nuova e molto importante per la sua formazione, perché gli consentì
un immediato coinvolgimento nella vita politica dell’emigrazione italiana.
In Svizzera Mussolini iniziò una vera e propria attività politica, come affermò lui
stesso nella lettera a Teofilo Panizzi, che lo portò presto ad approfondire e ad arricchire
le sue conoscenze. Un processo formativo essenziale, nato dal contatto con le organizzazioni
politiche dell’emigrazione italiana in Svizzera e le loro vicissitudini, nonché dalla
sua esperienza diretta sul terreno delle lotte operaie, che lo marcherà profondamente.
Inoltre il particolare contesto sociopolitico del socialismo italiano in terra elvetica
servì a Mussolini da osservatorio per analizzare, e integrare nella sua concezione
politica, i cambiamenti e le vicende del socialismo italiano, in particolare dello
scontro tra riformisti e rivoluzionari.
La formazione politica di Mussolini si sviluppò attraverso il contatto e la contaminazione
ideologica con le varie correnti del socialismo, da quella intransigente ed evoluzionista
a quella più rivoluzionaria e marxista, a quella, in particolare, del nascente sindacalismo
rivoluzionario, senza dimenticare l’influenza dell’anarchismo. Quello di Mussolini
era un profilo ideologico eterogeneo che si strutturava, però, attorno a due maggiori preoccupazioni che distinguono,
a livello dell’elaborazione politica, due grandi momenti del soggiorno svizzero. Il
primo, dall’arrivo in Svizzera fino agli inizi del 1903, ruotava attorno alla problematica
dell’ideale socialista, la sua forza, la necessità della sua affermazione e diffusione
attraverso la propaganda. Il secondo momento fu segnato, invece, dall’affermarsi di
una concezione rivoluzionaria, nata da nuove esperienze concrete e intellettuali che
gli permisero una lettura più articolata della realtà sociale e dell’azione politica.
Questa fondamentale dimensione di sperimentazione, arricchimento e rapido ampliamento
delle conoscenze politiche di Mussolini fu resa possibile proprio dalla particolare
condizione del socialismo italiano in Svizzera. L’entrata in politica di Mussolini,
il suo successo, le sue riflessioni erano saldamente legate a questa realtà, ed è
questo il punto di partenza indispensabile per l’analisi del suo pensiero politico.
L’arrivo in Svizzera del giovane Mussolini coincise, infatti, con un momento delicato
di riorganizzazione interna del Partito socialista italiano nella Confederazione elvetica,
successivo alla partenza del segretario Serrati, nel febbraio del 1902, e di Carlo
Dell’Avalle, direttore dell’organo di stampa del partito, «L’Avvenire del Lavoratore»,
il 14 giugno dello stesso anno. L’avvocato socialista senese Salvatore Donatini assicurò
per un breve periodo la segreteria del partito e la redazione del giornale: un compito
difficile, che presto lo scoraggiò inducendolo a lasciare la segreteria e a dirigere
solo per breve tempo il giornale. Nonostante ciò, come vedremo in seguito, il suo contributo fu notevole.
Dopo la partenza di Serrati, il comitato esecutivo del partito iniziò le pratiche
per la nomina di un nuovo segretario. La mancanza di un valido candidato in Svizzera
spinse il comitato esecutivo a cercarlo in Italia: era necessario un uomo all’altezza
della situazione, che sapesse consolidare e migliorare l’organizzazione politica in
Svizzera, come esigeva la tendenza generale, nel socialismo italiano, alla professionalizzazione
politica a livello regionale e locale. Era l’adesione recente al Partito socialista italiano, fortemente voluta da Serrati
malgrado la riluttanza del Psi, che permetteva ai socialisti italiani in Svizzera
di rivolgersi ai connazionali in Italia per l’assunzione di un nuovo segretario.
L’operazione si rivelò, però, tutt’altro che facile, perché il primo candidato prescelto,
il socialista ravennate Nino Mazzoni, non poté accettare l’offerta, giacché la sezione
di Ravenna si oppose fermamente, considerando il momento inopportuno a causa delle
forti tensioni e dei conflitti fra socialisti e repubblicani nel Ravennate. Enrico
Ferri dovette intervenire di persona per convincere i compagni in Svizzera a rinunciare,
e dovette adoperarsi per trovare un secondo nome, Ernesto Cesare Longobardi, che però respinse a sua volta l’offerta. Il comitato esecutivo decise allora di nominare il già direttore dell’«Avvenire»,
l’avvocato milanese Tito Barboni, da poco giunto in Svizzera. Il 9 agosto «L’Avvenire
del Lavoratore» pubblicava il secondo articolo di Mussolini, e nello stesso numero
l’avvocato Barboni annunciava ufficialmente il suo mandato di redattore del giornale
e segretario del Partito, chiudendo così la difficile fase di transizione – e di carenza di dirigenti – in
seno al Partito socialista in Svizzera.
Anche la collaborazione di Mussolini al giornale socialista, dall’agosto del 1902,
avveniva in un contesto particolare per l’organo del socialismo italiano in Svizzera:
la nascita recente del Partito socialista italiano in Svizzera significava l’inizio
di un’attività politica nuova che il giornale doveva trasmettere. Dopo la partenza
del direttore Dell’Avalle, e sotto la nuova gestione dell’avvocato Donatini dal 21
giugno 1902, si assistette infatti ad una ridefinizione dei compiti e dei contenuti
del giornale. «L’Avvenire» era in effetti da tempo oggetto di dure critiche, come
quelle di Serrati che, scherzosamente, lo definiva «un orto», alludendo alla troppa
varietà e confusione dei contenuti, alla mancanza di articoli di fondo e alla eccessiva
presenza di dispute personali.
Appena assunto l’incarico, Donatini annunciò la svolta che intendeva dare all’organo
del partito. L’organizzazione operaia, scriveva Donatini, si trovava assolutamente
a digiuno di idee e ideali socialisti, e, se da una parte egli riconosceva l’importanza
del lavoro effettuato per la costituzione e il consolidamento del partito, dall’altra
dichiarava la necessità di impegnare l’organo del partito anche in un’opera di propaganda,
per «sviluppare la nozione del fine a cui debbono tendere queste organizzazioni»,
senza però rinunciare alle informazioni sulle “questioni pratiche del momento”. Donatini
riteneva necessario modificare la struttura del giornale riducendo il numero delle
lettere pubblicate e soprattutto eliminando le «deplorevoli questioni personali».
Ciò avrebbe consentito di dare maggior spazio a nuovi collaboratori, «per modo che
così il giornale servirà anche di palestra a chi vuole abituarsi a scrivere». Il cambiamento fu accolto con soddisfazione da alcuni, che lo definirono una «rivoluzione», ma molti furono anche gli scontenti che non rinnovarono l’abbonamento. La situazione
si risolse con la partenza di Donatini e l’assunzione di Barboni, il quale, sebbene in maniera meno radicale, continuò sulla via aperta dal suo predecessore.
L’arrivo di Mussolini al giornale coincise, dunque, con una fase di apertura e di
maggior impegno teorico dell’organo socialista. Il giovane insegnante romagnolo ebbe
così modo di cimentarsi in un lavoro di riflessione politica che il giornale non solo
concedeva, ma di cui necessitava per compiere la sua missione di educazione politica.
Diversamente da quanto sostenuto in seguito, negli anni del fascismo, da Angelica
Balabanoff, che conobbe il giovane socialista romagnolo in Svizzera e strinse con lui un’amicizia
contribuendo in modo decisivo alla sua formazione marxista, l’integrazione di Mussolini
nel socialismo italiano in Svizzera non dipese solo dalla generosità dei compagni
verso un giovane bisognoso e squattrinato, ma fu piuttosto un incontro, uno scambio
reciproco. Per i socialisti italiani emigrati si trattava di annoverare tra le proprie
fila un elemento capace e intellettualmente preparato, utile in un partito da poco
costituito, per giunta dilaniato spesso dalle lotte intestine, e che scarseggiava
di militanti validi nell’opera di organizzazione e di propaganda; per Mussolini l’inserimento
nel Partito socialista italiano in Svizzera significò avere l’opportunità di un lavoro
prestigioso, così come era nelle sue aspirazioni. Ciò non toglie nulla alla generosità
dei vari socialisti che lo accolsero e lo aiutarono durante il suo soggiorno svizzero.
In Svizzera Mussolini trovò dunque uno spazio e una condizione favorevole per una
rapida affermazione politico-professionale. «Mussolini era assiduo collaboratore dell’‘Avvenire
del Lavoratore’: i suoi articoli erano apprezzati e letti dai compagni, cosa di cui
Serrati era molto compiaciuto», ricorda un socialista italiano residente in Ticino. La notorietà di Mussolini cresceva, nell’ambiente socialista, al pari del suo impegno
politico. Nel marzo del 1904 la sua partecipazione al congresso del Partito socialista
italiano in Svizzera a Zurigo, in qualità di delegato della sezione di Ginevra, dimostrava
la sua ascesa e integrazione politica. La sua popolarità dipendeva anche da una serie
di eventi giudiziari, le espulsioni che egli subì dai cantoni svizzeri – da Berna
nel giugno del 1903 e da Ginevra nell’aprile del 1904 – provocarono non poche reazioni
sulla stampa socialista ed anarchica, svizzera e italiana.
Mussolini era ormai conosciuto non solo nell’ambiente politico socialista italiano
e svizzero, ma anche alle autorità federali: la sorveglianza della polizia nei suoi
confronti cominciò durante lo sciopero di Berna nel marzo del 1903 e si protrasse
per tutto il suo soggiorno in Svizzera. Il giovane rivoluzionario fu certamente apprezzato anche come conferenziere, sebbene
di molte conferenze non sia rimasta documentazione. Gli agenti della polizia di Losanna
che assistettero al contraddittorio tra Mussolini e il pastore evangelico Alfredo
Taglialatela la sera del 25 marzo 1904 alla Maison du Peuple di Losanna lo descrivono
come un «brillant orateur», «fort bien documenté», che parlò per un’ora di fronte
a 450 persone. La conferenza, elogiata dal Serrati sulle colonne del giornale, sarà in seguito
pubblicata, sotto forma di opuscolo, dalla Biblioteca Internazionale di Propaganda
Razionalista, piccola casa editrice creata a Ginevra dal socialista Luigi Piazzalunga
con la collaborazione dello stesso Mussolini. Diversi anni più tardi, un altro testimone ricorderà sulle colonne della «Gazette
de Lausanne» di aver assistito alla conferenza del socialista belga Emile Vandervelde
in cui prese la parola un giovane, Mussolini, la cui presenza fisica lo impressionò
e che parlò con «grandiloquence».
Sul piano della riflessione politica il soggiorno svizzero rappresentò un vero e proprio
tirocinio, durante il quale Mussolini scoprì le attività e le difficoltà maggiori
legate al lavoro politico e sindacale, e definì la sua visione politica in senso rivoluzionario
seguendo soprattutto le vicende del socialismo italiano, che egli osservava però dal
particolare contesto del socialismo italiano in Svizzera: un contesto segnato dal
costante lavoro delle organizzazioni italiane di propaganda e di educazione politica
dell’emigrazione. Si trattava di «formare associazioni potenti per numero e coscienze»,
come scriveva Mussolini agli inizi della sua attività politica.
Un tale programma di lavoro urtava, però, contro una serie di ostacoli nell’ambiente
conflittuale dell’emigrazione italiana in Svizzera. Il neosegretario Barboni aveva
ricordato, all’esordio del suo mandato politico, la necessità di rinforzare la solidarietà
contro la tendenza costante al duro conflitto, non solo verbale, ma spesso anche fisico.
«Come siamo ancora lontani dalla fratellanza tra i lavoratori!», scriveva un corrispondente
dell’«Avvenire» a proposito di uno scontro violento tra piemontesi e milanesi. Ciò spiega perché la propaganda socialista, almeno in Svizzera, fosse ricca di appelli
alla solidarietà e alla fratellanza, appelli che non riproducevano una semplice e
consolidata retorica socialista, ma fungevano da richiamo costante ai comportamenti
virtuosi fra compagni, che il socialismo si proponeva di realizzare come espressione
concreta di una nuova e superiore umanità. Anche Mussolini si fece promotore di questo ideale:
Questa forza [l’ideale socialista] che trova la sua più bella ed eloquente espressione
nel proletariato che ascende a mete luminose di Giustizia; questa forza che mira ad
umanizzare gli uomini di tutta la terra si è già manifestata come sentimento che affratella,
pensiero che fa ragione dell’altruismo, opera quotidiana di solidarietà.
E quotidiano, per l’appunto, doveva essere il lavoro dei socialisti in Svizzera per
portare le masse dei lavoratori al grado di coscienza politica necessaria affinché
adottassero un vero comportamento socialista. Ne era consapevole Serrati, che conosceva
bene, in ogni aspetto, l’universo dei lavoratori emigrati e tutti gli ostacoli che
l’opera di educazione politica doveva superare, dovendo far fronte all’indifferenza
o, peggio ancora, all’ostilità di molti lavoratori nei confronti dell’organizzazione
politica e sindacale. Questi problemi erano in qualche modo legati alla natura dell’emigrazione italiana
in Svizzera: una massa instabile, a causa delle continue partenze e degli arrivi,
che richiedeva un lavoro costante e ininterrotto di educazione politica. A complicare il già difficile lavoro di organizzazione dei lavoratori contribuirono
anche diversi imprenditori svizzeri, reclutando manodopera poco qualificata e non
politicizzata, dunque più facile da sfruttare, direttamente in Italia, secondo una
prassi denunciata dal giornale socialista.
Il difficile lavoro politico, di propaganda e di organizzazione sindacale era destinato
non solo alla semplice difesa e al miglioramento economico dei lavoratori, ma doveva
anche rimediare alla cattiva immagine che gravava sugli italiani in Svizzera. Partito
e organizzazioni sindacali cercarono, tramite un lavoro di educazione, di integrarli
meglio nella società di quel paese. A questo fine venivano organizzate campagne di sensibilizzazione contro la violenza,
l’uso e l’abuso di «alcool e coltello», sull’importanza dell’igiene, della cura della
propria immagine e dell’alloggio, e sulla necessità della solidarietà fra i lavoratori. Si trattava, insomma, di far uscire sia materialmente che simbolicamente gli emigranti
italiani dalle loro condizioni di miseria.
E proprio di fronte al problema della miseria prendevano corpo concezioni e linguaggi
politici diversi. Fra i socialisti che godevano di una condizione agiata, come il
segretario Tito Barboni, la miseria ispirava un sentimento misto di rabbia e di pietà:
così egli vedeva e descriveva l’arrivo degli emigrati sul suolo elvetico:
È la stagione in cui cadono le foglie, in cui le rondinelle prendono il volo per i
paesi caldi... in cui i nostri connazionali curvi sotto i sacchi dei loro poveri panni
passano per le stazioni di confine a frotte, spesso affastellati nei vagoni, e magari
legati là dentro come in una gabbia [...]. Di fronte a questi spettri si leva dalle
nostre coscienze un grido di ribellione.
Era la retorica tipica di un certo socialismo, che metteva in scena il degrado sociale
e fisico dell’uomo, auspicando per i lavoratori una rigenerazione fisica e morale. Era un linguaggio che, come nel caso dell’avvocato Barboni, si accordava spesso
con gli ideali riformisti, che insistevano sul miglioramento delle condizioni materiali
attraverso cambiamenti graduali.
L’atteggiamento verso la miseria era assai diverso in quella frangia del socialismo
che anteponeva al problema materiale quello ideale. È il caso di Mussolini: il suo linguaggio era affine a quello di Donatini, essendo
entrambi impegnati non solo a migliorare le condizioni materiali dei lavoratori, ma
soprattutto a promuovere la loro educazione intellettuale e morale, mirando alla formazione
della loro coscienza politica attraverso la propaganda scritta e orale piuttosto che
attraverso l’attività organizzativa, che invece stava a cuore a Serrati.
L’influenza di Donatini su Mussolini fu sicuramente importante. L’avvocato senese
difendeva una visione «politica» del socialismo, incentrata sulla figura del partito-guida,
che esaltava la dimensione etica dell’azione socialista contro le tendenze «economiste»,
tipiche, in particolare, della corrente anarcosindacalista molto presente a Ginevra.
Ma la questione sociale non è una semplice questione di stomaco, la questione economica
è la più immediata e la più importante ma non l’unica. La questione sociale è anche
elevamento morale ed intellettuale; non potrà la classe operaia emanciparsi finché
non sarà prima di tutto padrona di sé stessa, cioè moralmente migliore.
In questa direzione intendeva impegnarsi la rivista che Mussolini e Donatini tentarono,
senza successo, di lanciare assieme tra la fine del 1903 e gli inizi del 1904, proponendosi
di «elevare la cultura dell’operaio e di allargare il suo orizzonte intellettuale»,
colmare una «deplorevole lacuna della stampa ufficiale di partito, che assorbita continuamente
dalle particolari necessità della lotta quotidiana è forzata a trascurare la parte
educativa e morale del nostro movimento emancipatore».
Riaffermare l’ideale socialista, uscendo dalla lotta contingente per diffondere i
principi del socialismo, il suo fine ultimo: questo era il programma di un socialismo
marxista e rivoluzionario che si profilava, proprio in quegli anni, in alternativa
al socialismo riformista. Quest’ultimo incentrava la sua azione sulle conquiste legali in Parlamento, e valorizzava
l’operato e le battaglie delle organizzazioni economiche, evitando l’estremismo rivoluzionario. In polemica con questa tendenza, il sindacalista rivoluzionario Arturo Labriola
affermava infatti che il socialismo nella sua nuova veste democratica, riformista,
si riduceva ad un semplice «fatto di benessere materiale», mentre doveva essere il «compendio di tutti i conati che recano la rottura dell’involucro
della vecchia società, nel campo etico, come nel campo economico, come nella sfera
dell’azione politica»; Labriola precisava, a tale proposito, che «i fini rivoluzionari
del Socialismo non si accordano sempre con gl’interessi immediati dei lavoratori». Il socialismo dei nuovi rivoluzionari, cui Mussolini si avvicinò, guardava ad un
futuro radicalmente diverso e in netto contrasto con la realtà circostante, un punto
di arrivo che bisognava tenere ben fisso e richiamare regolarmente per non perdersi
nei meandri delle preoccupazioni contingenti.
La situazione particolare dell’emigrazione italiana in Svizzera e la necessità di
un lavoro continuo di propaganda e di educazione hanno sicuramente favorito, sul suolo
elvetico, la diffusione di quelle correnti del socialismo italiano, prima quella intransigente
di Enrico Ferri, poi quella sindacalista rivoluzionaria di Labriola, che, contro il
riformismo, sostenevano appunto un bisogno di propaganda ideale e di educazione politica
continue.
Mussolini trovò quindi in Svizzera un clima favorevole all’elaborazione di una visione
politica rivoluzionaria, che metteva l’accento sulla dimensione etica e pedagogica
del socialismo, corrispondente al suo temperamento e alla sua formazione intellettuale.
La maturazione di questa visione rivoluzionaria è ben visibile nei suoi scritti. Dopo
un inizio in cui aveva affermato la necessità di un’azione graduale, lontana dai «colpi
di mano», in linea con la visione dominante nel socialismo, la concezione politica
mussoliniana si sviluppò in senso antiriformista. In un articolo della vigilia del congresso di Imola, che si svolse dal 6 al 9 settembre
1902, Mussolini si schierò apertamente contro l’operato di Filippo Turati. Secondo
Mussolini, l’abbandono della politica reazionaria e il nuovo indirizzo liberale impresso
da Giovanni Giolitti al governo non erano il risultato di una vittoria politica dovuta
all’azione dell’estrema sinistra, ma la conseguenza di «una grande forza morale sviluppatasi
in tutto il paese» che aveva costretto la monarchia a «volgere il timone della barca
politica verso le prode (finora semplicemente intraviste) di un savio governo». Mussolini
concludeva l’articolo affermando la necessità, per il socialismo, di ritornare «ai
suoi metodi antichi di lotta», ad una «vecchia e corroborante politica socialista».
Con questo riferimento alla propaganda socialista, che aveva caratterizzato la prima
fase di espansione e successo del Partito socialista italiano, Mussolini affermava
apertamente la sua preferenza politica, la quale non implicava però, per il momento,
la rottura con i riformisti, perché per Mussolini, così come per la maggior parte
dei socialisti, era necessario preservare l’unità del partito. Nel festeggiare, però,
la vittoria della ritrovata unità al congresso di Imola, Mussolini definiva inequivocabilmente
la sua visione del socialismo, in cui la dimensione ideale, la «realtà morale», doveva
dominare sugli uomini e le correnti.
Quando gli uomini prendono il posto all’Idea, l’io borghese (fatto di piccole vanità,
di puntigli, di bassezze) rigermoglia nelle anime.
Proprio l’imborghesimento del socialismo e la sua conseguente deriva Arturo Labriola
criticava da tempo nel quadro di una campagna antiriformista che si andava progressivamente
radicalizzando, e che portò, verso la fine del 1902, alla nascita di «Avanguardia
socialista». Al settimanale, nato con l’intento di definire con maggior precisione
i contorni e l’azione della corrente rivoluzionaria, collaborò anche Mussolini dal settembre
del 1903. Fino a quella data la sua attività giornalistica si concentrò attorno ad una prima visione socialista che
insisteva sull’importanza della forza morale, che esaltava l’ideale socialista e che
deplorava anche le difficoltà della sua diffusione, come aveva potuto costatare dal
difficile lavoro delle organizzazioni socialiste in Svizzera, temi che Mussolini trattava
secondo le esigenze del contesto.
Una seconda fase di riflessione politica cominciò con l’anno 1903, quando Mussolini
elaborò una concezione rivoluzionaria più chiara e meglio strutturata. La sua visione
politica prendeva spunto da varie esperienze personali, come la partecipazione alle
lotte dei lavoratori italiani in Svizzera, e dal processo di scontro e radicalizzazione
politica interna al socialismo italiano.
Lasciando Losanna per Berna, nel marzo del 1903, Mussolini ebbe occasione di conoscere
sul campo le dinamiche, le difficoltà e le forti tensioni sociali di un importante
sciopero di carpentieri, al quale venne inviato proprio dal sindacato Manovali e Muratori
di Losanna, di cui era segretario, a sostegno appunto delle lotte sindacali.
L’esperienza dello sciopero mostrava che sul terreno dello scontro economico era possibile
un’azione congiunta sia di affermazione politica sia di difesa degli interessi materiali.
A Berna si trattò, infatti, non solo di continuare o meno lo sciopero, ma di affiancare
a questo azioni dimostrative di natura politica, ovvero manifestazioni operaie di
solidarietà per gli scioperanti. Due ambiti, lotta politica e lotta economica, artificialmente
separati a causa dei diverbi che avevano accompagnato la lenta nascita del Partito
socialista italiano in Svizzera. Il partito era stato voluto da chi, come Serrati,
credeva nell’importanza di un’organizzazione politica contro la volontà di altri socialisti
che miravano invece alla sola lotta economica da svolgere all’interno delle organizzazioni
svizzere. La separazione non aveva però risolto il problema dei rapporti fra lotta politica
e lotta economica, e il dibattito sulla neutralità o meno dell’azione sindacale rimase
all’ordine del giorno.
A Berna Mussolini entrò in contatto con l’azione degli anarcosindacalisti, in particolare
dell’anarchico Luigi Bertoni, che proprio sul terreno degli scioperi concentravano
i loro sforzi di lotta politica. La questione economica, finora assente dagli articoli
di Mussolini, veniva collocata ora, grazie all’esperienza bernese, sullo stesso piano
dell’azione educativa. Il contatto con le lotte operaie coincise con l’esigenza mussoliniana di approfondire
la sua conoscenza del marxismo. Le prime tracce di tale esigenza appaiono nell’ottobre
del 1903, quando in un suo articolo Mussolini riprendeva ed esponeva sinteticamente
la storia del socialismo di Werner Sombart, il noto economista e storico tedesco. L’opera di Sombart introduceva nel pensiero
mussoliniano i primi concetti del materialismo storico: il socialismo come risultato
teorico nato da un particolare contesto socioeconomico, quello capitalista, e dai
bisogni della classe operaia. L’interpretazione materialistica della storia e dei
rapporti sociali imprimeva alla visione politica mussoliniana una forte radicalizzazione,
già sperimentata nell’esperienza concreta e ora confermata dalla concezione teorica
di un inevitabile scontro di interessi tra borghesia e proletariato, e si risolveva
attraverso la lotta di classe con l’obiettivo della rivoluzione sociale. Ma l’impostazione
deterministica e fatalistica del materialismo storico dovette risultare insoddisfacente
per Mussolini, troppo meccanico, ragione per cui in conclusione dell’articolo si preoccupò
di ribadire, attraverso le parole del Sombart, l’importanza, per la preparazione e
la riuscita della rivoluzione, dell’azione educativa e propagandistica del socialismo,
contro chi riponeva troppa fiducia nell’avvento graduale e pacifico della società
socialista.
L’11 ottobre 1903 Mussolini scrisse la prima corrispondenza per «Avanguardia socialista»;
in breve tempo la collaborazione si intensificò, e dal 25 ottobre la sua collaborazione
divenne frequente. Sulle pagine del giornale milanese di Arturo Labriola e Walter
Mocchi, Mussolini trovò uno spazio adeguato dove esprimere liberamente le sue idee
politiche ed esporre l’esito di un percorso politico che lo aveva portato ad aderire
all’ala più estrema del socialismo. Era una chiara scelta di campo.
Sul piano delle idee politiche, il periodo di collaborazione al giornale coincise
con un momento di riflessione sulla natura della rivoluzione. Mussolini prendeva coscienza,
attraverso lo studio del marxismo e di una generale letteratura rivoluzionaria, dell’inevitabilità
dei conflitti di classe e della rivoluzione, ma dovette rendersi conto che sullo svolgimento
e la tattica da adottare per la sua preparazione mancavano studi dettagliati e giudizi
unanimi, soprattutto in merito al ruolo politico della violenza e delle masse.
Al congresso socialista di Zurigo, che si tenne tra il 19 e il 20 marzo 1904, i socialisti
rivoluzionari, tra cui appunto Mussolini, adottarono una visione pragmatica di fronte
all’uso della violenza, che, secondo loro, dipendeva dal contesto storico e dal contegno
della borghesia, e non poteva costituire un oggetto di dibattito politico. In realtà, dietro a questa visione neutrale e pragmatica si celava la consapevolezza,
e forse la certezza, che la rivoluzione fosse inevitabilmente violenta.
Sulla condotta e sullo svolgimento della rivoluzione Mussolini si interrogò più volte.
L’azione di propaganda, da molti collocata al centro della tattica rivoluzionaria,
era rivolta alla formazione delle coscienze e alla preparazione delle forze necessarie,
ma non entrava nel merito dell’attuazione dell’azione rivoluzionaria. Questa carenza
derivava, in una certa misura, dal miscuglio ideologico fra marxismo ed evoluzionismo
che caratterizzava molti scritti socialisti e che si traduceva in una interpretazione
troppo deterministica del divenire sociale. La letteratura anarchica rappresentò per
Mussolini, prima del sindacalismo rivoluzionario, un terreno fecondo per indagare
ulteriormente la dinamica rivoluzionaria.
Dalla lettura di Le parole di un rivoltoso di Kropotkin, che tradusse per il giornale anarchico ginevrino «Le Reveil» diretto
da Luigi Bertoni, Mussolini trasse un elemento nuovo che introdusse nella sua visione
politica, cioè la necessità e l’importanza storica delle minoranze. La rivoluzione,
nella concezione di Kropotkin, doveva scaturire da una serie di fattori concomitanti,
dal degrado del potere statale, dall’azione di minoranze rivoluzionarie e, infine,
dalla partecipazione delle masse. Mussolini trovò in seguito un primo riscontro scientifico del ruolo delle minoranze
rivoluzionarie nella teoria paretiana delle élites.
L’incontro con il sindacalismo rivoluzionario, tra l’estate e l’autunno del 1904,
al momento della sua affermazione come corrente distinta del socialismo italiano,
consentì a Mussolini una chiarificazione supplementare della pratica rivoluzionaria:
Oggi si avverte però una nuova concezione socialista, concezione profondamente “aristocratica”.
Il socialismo divenuto necessità economica del proletariato, si preoccupa solo degli
interessi di questa classe sacrificata. [...] La meta non è più la nebulosa socializzazione
dei mezzi di produzione, ma è l’espropriazione della borghesia. [...] L’azione socialista allora si risolve in un duplice processo
di differenziazione e di integrazione. Noi ci differenziamo già fin d’oggi nei rapporti e nella vita delle nostre comunità
scavando ancor più profondo il solco fra le nostre concezioni e quelle che informano
la società borghese; Noi integriamo nei sindacati operai – nuclei della futura comunità
socialista – le capacità tecniche, intellettuali e morali.
Lo sforzo di elaborazione teorica fin qui descritto è solo un aspetto del complesso
ed eterogeneo pensiero politico mussoliniano. Pur seguendo l’evoluzione dell’opposizione
antiriformista del giornale di Labriola, Mussolini non abbandonò per questo il suo
primo impianto concettuale socialista, in cui il partito era al centro dell’azione
politica e ad esso spettava il ruolo essenziale di educazione delle masse. Labriola
e altri sindacalisti condividevano l’idea e la necessità di un partito socialista
educatore, ma di fatto affidarono al sindacato un ruolo sempre più centrale: per controbilanciare
il peso che nel partito andava assumendo la lotta legale e parlamentare, e nell’ottica
di una rivoluzione che fosse soprattutto antistatale, da svolgere fuori e contro la
politica istituzionale.
A queste conclusioni Mussolini non giunse mai; dal sindacalismo recuperò l’uso del
marxismo come pedagogia rivoluzionaria che riconduceva la politica sul terreno fondamentale
della lotta di classe, e, di fatto, proseguì la sua carriera nelle fila del Partito
socialista, cercando di imprimergli una direzione e un’azione rivoluzionaria che non
si risolvessero unicamente nella battaglia elettorale, ma piuttosto nell’elevamento
culturale delle masse e nello scontro ideologico con le forze avversarie: una concezione del socialismo che si era formata sin dal principio del suo soggiorno
in Svizzera.
La politica fu una parte importante, sebbene non l’unica, del soggiorno svizzero di
Mussolini: ad essa si accompagnò un bisogno crescente di approfondimento culturale.
L’attività di studio prese diverse forme: dalle letture dei giornali a quella di libri
nelle varie biblioteche, sino ad una parziale e limitata frequentazione universitaria.
Il tentativo di applicarsi nello studio nasceva da circostanze e da contesti particolari.
Mussolini divenne un punto di riferimento per la propaganda anticlericale e antireligiosa,
temi molto sentiti nel socialismo italiano in Svizzera, e ciò lo spinse certamente
ad allargare le sue conoscenze, in particolare quelle scientifiche. La frequentazione
del mondo studentesco universitario, a Ginevra e a Losanna, influì sulla sua decisione
di intraprendere degli studi, scelta che si concretizzò con l’iscrizione all’Università
di Losanna nel maggio del 1904.
Il lavoro intellettuale esercitò un’influenza notevole sulle idee politiche di Mussolini,
e, più in generale, sulla sua visione del mondo; egli non solo approfondì conoscenze
scientifiche già acquisite con i suoi studi in Italia, in particolare conoscenze di
biologia evoluzionista, ma venne a contatto altresì con delle realtà culturali nuove,
con delle teorie scientifiche e filosofiche, in particolare quelle di Nietzsche, che
esploravano la dimensione irrazionale dell’uomo e che facevano della vita, della sua
forza ed espansione, la base di ogni azione morale umana. La sua visione dell’uomo
e del fatto sociale si arricchiva di nuove teorie che Mussolini cercò di integrare
alla sua idea di socialismo. Momento culminante di questo percorso intellettuale fu
proprio la frequentazione dell’Università di Losanna, dove Mussolini – più che avvicinarsi
alle idee di Vilfredo Pareto, di cui seguì forse qualche corso –, perfezionò la sua
cultura scientifica e maturò, di conseguenza, un approccio relativista della realtà.
Come per la politica, il percorso culturale di Mussolini fu intimamente legato al
contesto socioculturale svizzero.
La volontà di intraprendere degli studi maturò dopo l’intensa stagione di propaganda
e di attività politica che aveva caratterizzato il primo anno di esperienza in Svizzera
di Mussolini. La decisione fu presa dopo il suo rientro in terra elvetica, che aveva
temporaneamente lasciato a causa dello stato di salute della madre. Una volta migliorate
le condizioni della madre, sul finire del 1903, ritornò in Svizzera, anche per evitare
il servizio militare.
A fine gennaio 1904, e dopo un breve soggiorno in Francia, ad Annemasse, in compagnia
di Salvatore Donatini, che vi si era trasferito in seguito alla sua espulsione dal
cantone ginevrino, Mussolini si stabilì a Ginevra con l’intento di iscriversi all’università
e cominciò a frequentare la biblioteca universitaria. Le opere da lui consultate riguardavano principalmente il tema dell’esistenza di
Dio, di cui avrebbe dibattuto in un pubblico contraddittorio col pastore evangelico
Taglialatela il 26 marzo dello stesso anno. La conferenza s’inseriva all’interno di
una vasta campagna anticlericale, che il socialismo italiano in Svizzera promuoveva
con efficacia fin dall’inizio del Novecento come conseguenza diretta di una situazione
di concorrenza tra organizzazioni socialiste e religiose, in particolare dell’Opera
Bonomelli.
Socialisti e cattolici si contendevano la stessa massa emigrante che giungeva sul
suolo elvetico. La propaganda anticlericale aveva di conseguenza un obiettivo politico
preciso: impedire e limitare l’azione dell’Opera Bonomelli, che non solo tendeva a
sottrarre ai socialisti dei potenziali militanti, ma faceva degli emigrati italiani
dei pessimi elementi per le battaglie sul lavoro. La lotta anticlericale era considerata
perciò indispensabile per il successo e l’avanzata del socialismo italiano in Svizzera,
le divisioni nascevano semmai dai contenuti della propaganda anticlericale. Molti
socialisti italiani, tra cui Mussolini, aderirono al Libero Pensiero, sviluppando tematiche che non erano più semplicemente anticlericali, ma si spostavano
sul piano di una battaglia generale contro il fatto religioso. Questa tendenza esulava
dalla linea anticlericale de «L’Avvenire del Lavoratore», legata alla lotta contingente
contro l’Opera Bonomelli: Serrati infatti considerava un dispendio di energie e di
forze la militanza nel Libero Pensiero, malgrado una sua iniziale adesione al movimento
anticlericale e antireligioso, mentre per il noto socialista e futuro sindacalista
rivoluzionario Angelo Oliviero Olivetti, il socialismo era soprattutto una battaglia
contro i dogmi religiosi. Mussolini divenne ben presto un punto di riferimento in materia di religione e molto
richieste furono le sue conferenze in questo ambito.
Le letture mussoliniane nella biblioteca di Ginevra non si esauriscono però all’interno
della sola battaglia anticlericale socialista; esse furono in parte condizionate dal
contatto con un ambiente diverso ed esterno al socialismo. Fu il mondo studentesco
universitario della città di Calvino ad introdurre Mussolini in un universo culturale
più vasto e complesso. Osservando l’insieme dei libri consultati dai vari frequentatori
della biblioteca durante i primi mesi del 1904, si può notare come le letture di Mussolini
s’inseriscano perfettamente nel quadro generale di quelle effettuate dagli altri frequentatori,
in particolare dagli studenti slavi. Frequenti sono le loro letture dei testi più consultati da Mussolini (Nietzsche,
Lichtenberger, Espinas e Labriola) e non è raro incontrare, nel registro dei prestiti,
richieste che associano testi di Marx a quelli di Nietzsche, a dimostrazione di come
una certa cultura studentesca, di origine slava, fosse attratta da questi accostamenti
fra marxismo e pensiero nietzschiano più di quanto lo fosse la cultura socialista. Che si trattasse comunque di letture «alla moda» lo proverebbe il fatto che molte
delle opere consultate da vari lettori appartenevano alla cultura scientifica del
tardo-positivismo sviluppatasi fra Ottocento e Novecento, spinta dall’affermazione,
in ambito scientifico e accademico, della psicologia e della sociologia, e dominata
dal problema delle folle e dalla decadenza dei popoli. È però molto probabile che
la scelta delle opere lette da Mussolini, almeno per quelle francesi, sia stata influenzata
dagli interessi culturali diffusi tra gli studenti che praticavano la biblioteca ginevrina.
La frequentazione, da parte di Mussolini, del mondo studentesco di origine slava fu
facilitato non solo da interessi comuni per lo studio, ma anche da condizioni sociali
ed economiche che avvicinavano la comunità italiana a quella slava. In un memoriale
della colonia italiana di Ginevra veniva sottolineato come slavi e italiani fossero,
in Svizzera, i gruppi etnici meno difesi dalle autorità elvetiche, nonché i più stigmatizzati
ed economicamente sfruttati da parte della popolazione autoctona. La natura dei contatti e dei rapporti che Mussolini intrattenne con la comunità
slava è stata distorta dalle biografie fasciste. Fu un’esperienza che non può essere
certamente ridotta a una serie di avventure amorose, ma neppure può essere considerata
come una sorta di apprendistato alla «scuola della rivoluzione». Infatti non risulta
che Mussolini abbia avuto frequenti contatti con i rivoluzionari russi: i contatti
furono sporadici e occasionali, come avvenne con la commemorazione della Comune di
Parigi alla sala Handwerk di Ginevra il 18 marzo 1903. Mussolini frequentò la comunità
degli studenti, molti dei quali provenienti dalla Russia, che giungevano in Svizzera
più per motivi di studio che per ragioni politiche. Nella sua autobiografia Mussolini ricordava e citava il nome di alcuni di questi
emigrati.
Facevano con me la vita da bohème il Serrati, pubblicista, tornato da New York, il Tomoff, bulgaro, che ho già ricordato,
l’Eisen, rumeno, il Bontscheff, bulgaro, Gateaux, un parigino, Sigismondo Bartoli,
un sarto romano. Ci aiutavamo reciprocamente. Il bene di ognuno era il bene di tutti.
La documentazione archivistica mostra che le persone citate da Mussolini non erano
attivisti ed esponenti politici sorvegliati dalla polizia, bensì solo studenti. Nell’autobiografia
Mussolini ricordava soprattutto Eleonora Horochowsky-Shéviakoff, russa di Jaroslaw,
iscritta alla facoltà di Medicina a Ginevra, dove ottenne il diploma nell’agosto del
1904 e un dottorato nel 1908 in ginecologia. Con lei Mussolini ebbe pure una relazione sentimentale; Teneff Panaïote Tomoff (o
Tommoff), bulgaro, anch’egli studente di Medicina a Losanna, conseguì un dottorato
nel 1905; Barni Bontcheff, pure lui bulgaro, iscritto a Ginevra sempre a Medicina; l’ultimo dei citati nella sua autobiografia è il rumeno Maurizio Eisen, studente
di Chimica a Losanna.
Di queste persone e dei contatti avuti con Mussolini non resta che la descrizione
del passo citato dell’autobiografia. Diversamente da quanto affermato dalle biografie
fasciste in merito ai rapporti del giovane Mussolini con l’emigrazione slava in Svizzera,
si trattò principalmente di scambi che contribuirono soprattutto alla sua formazione
culturale. Non fu dunque l’internazionalismo politico, pur largamente presente nella
Confederazione elvetica, a dare all’esperienza svizzera mussoliniana un carattere
cosmopolita, ma piuttosto la frequentazione del mondo universitario, fuori e dentro
le aule accademiche.
Sul piano delle idee, le letture fatte nella biblioteca di Ginevra servirono a Mussolini
ad allargare ed aggiornare le sue conoscenze scientifiche nel quadro dei mutamenti
che la cultura aveva subito negli ultimi anni dell’Ottocento: qui scoprì l’opera di Friedrich Nietzsche, mediata dalle sintesi di Henri Lichtenberger
e Alfred Fouillée. Quest’ultimo, pur riconoscendo un’originalità al pensiero del filosofo
tedesco, preferiva le conclusioni del filosofo francese Jean-Marie Guyau. Mussolini veniva così a contatto contemporaneamente con il pensiero dei due filosofi,
accomunati nel celebrare la vita vissuta intensamente e libera da ogni condizionamento.
La maggior parte delle letture mussoliniane convergeva verso una critica alle vecchie
concezioni della morale, rifacendosi specialmente alle ultime scoperte scientifiche
nel campo della biologia e della psicologia. La morale diventava, in particolare nell’opera
di Nietzsche e Guyau, un fatto individuale slegato dalla questione del bene universale. La lettura critica di Fouillée permetteva al giovane socialista di avviarsi alla
conoscenza del pensiero di Nietzsche senza aderire alle sue conclusioni più radicali
e antisocialiste, respinte da Fouillée, a favore della visione più positiva e solidale
di Guyau.
Le opere di Nietzsche, Fouillée ed Espinas affrontavano, in modi e stili assai diversi,
il problema della ragione umana, dei suoi limiti e del suo rapporto con l’insieme
degli aspetti che costituiscono e, allo stesso tempo, condizionano la vita. Era una
problematica che, a cavallo tra Ottocento e Novecento, divenne centrale nella riflessione
filosofica e che trovò il punto culminante, in Francia, nella riflessione di Bergson. Proprio in questo paese la riflessione nasceva in un clima culturale, quello degli
anni Novanta dell’Ottocento, di revisione e di critica, interna ed esterna, del positivismo,
contemporaneamente ai progressi della psicologia scientifica e alla conseguente scoperta
dell’irrazionale. In questo clima si affermò l’esigenza di riformare il positivismo
senza tuttavia negarlo, bensì «spiritualizzarlo». Fouillée, per esempio, aveva cercato
di conciliarlo con l’idealismo, per riaffermare l’importanza della volontà contro
il meccanicismo biologista. Alfred Espinas, dopo essere stato sostenitore dell’opera di Herbert Spencer, prendeva
atto, come altri, dei limiti del pensiero di quest’ultimo e avanzava la necessità
di una filosofia più matura, incentrata sullo studio dell’azione umana, una problematica che Espinas riteneva
essenziale nel particolare contesto filosofico e politico francese, che proprio su
queste questioni, sul determinismo e il libero arbitrio e le sue implicazioni morali
e giuridiche, si era profondamente diviso. Egli si proponeva di studiare il comportamento individuale e collettivo per rinnovare
gli studi sul funzionamento sociale, affinché si rimediasse ai mali che, secondo lui,
andavano ricercati non nell’economia, ma nella politica e nella morale.
Nell’opera di Espinas la biologia era ancora la scienza che permetteva di spiegare
il funzionamento della società: intesa come un insieme di regole e pratiche di vita
create dall’adattamento e dalla reazione di un determinato gruppo umano a un ambiente
particolare. Il problema risiedeva semmai nello studio delle origini e delle cause:
le regole e le pratiche di vita nascevano, secondo Espinas, in una parte oscura della
coscienza collettiva di cui erano tuttora sconosciute le cause e le motivazioni. Espinas si basava sui recenti studi di psicologia per dimostrare come l’azione umana
fosse in realtà condizionata dalle sensazioni e in modo solo indiretto dalle idee. Il sociologo francese poneva in primo piano, nella sua ricerca di una nuova filosofia
dell’azione, il sentimento, la volontà e il desiderio, termini intimamente connessi
e intercambiabili. L’azione doveva essere sostenuta da una fede, e il futuro non poteva
che costruirsi su credenze sorrette da sentimenti forti:
[...] nous avons la conscience de faire ce que nous voulons, de donner l’être à l’objet
de nos préférences, de posséder en notre foi une puissance créatrice. Nous nous croyons
libres et nous le sommes en effet, subjectivement, puisque sans l’énergie de notre
vouloir, sans l’ardeur de nos amours, sans la hardiesse et la persévérance de nos
convictions, des réalités qui vont surgir resteraient dans le néant.
Espinas non era certo un cultore dell’individualismo e la sua filosofia, anche se
sembrava fare eco alla nietzschiana volontà di potenza, restava in realtà solidamente
circoscritta in una visione organicista del sociale, in cui il comportamento dell’individuo
era fortemente predeterminato. Una visione ancora biologica del sociale, dunque, ma
slegata dalla necessità di una comprensione razionale del comportamento umano, il
quale finiva per dipendere unicamente da forze misteriose. Come per Fouillée, si trattava
di un tentativo di ridare e ritrovare una dimensione spirituale alla vita umana, partendo
dalla scienza.
Difficile valutare ciò che Mussolini abbia appreso dal libro di Espinas, anche se
il registro della biblioteca indica che lo consultò per ben sei volte. È possibile
però che l’insistenza sulla dimensione biologica e psicologica, ma non razionale delle
azioni umane, la necessità che esse siano determinate da credenze forti, lo abbia
colpito, confermando la sua visione «evangelica» del socialismo fondata sulla necessità della motivazione ideale e sull’efficacia
della forza morale nelle azioni politiche. L’opera di Espinas permetteva di esaltare
la dimensione ideale all’interno di un sapere scientifico e non metafisico, ed è molto
probabile che in questa dimensione morale, biologica e umana, non metafisica, le idee
di Nietzsche e di Guyau abbiano trovato una loro logica collocazione nell’ideologia
in formazione del giovane rivoluzionario. Grazie all’opera dei due filosofi, Mussolini
associò alla visione ortodossa del pensiero socialista, con la sua morale di solidarietà,
una visione nuova, basata sull’esaltazione della vita in sé, senza fini né ideali
precisi.
La morale di rinuncia del deismo, lasceranno posto alla “morale umana”; basata sul
principio della fraternità universale e sul completo, libero sviluppo, sull’espansione
feconda di tutto quel cumulo di energie che formano la integrale persona umana!
Le letture ginevrine permisero, dunque, un allargamento della cultura mussoliniana
in nuovi ambiti scientifici e filosofici, che egli tentava di riportare nel quadro
della sua visione socialista. A Ginevra però Mussolini si limitò a frequentare solo
la biblioteca universitaria, perché l’iscrizione all’università non fu possibile a
causa della sua espulsione dal cantone. Fu invece possibile a Losanna, dove Mussolini
si trasferì dopo la sua scarcerazione a Bellinzona e il suo ritorno in terra romanda.
Il 7 maggio 1904 Mussolini si immatricolò all’università, come attesta il suo libretto
studentesco.
Mussolini seguì all’università il semestre estivo, da maggio, quando si iscrisse,
fino a metà luglio. Nel suo libretto sono indicati i tre corsi previsti dal programma
di Scienze sociali: il corso di Economia politica con il professor Pareto, tenuto
però da Pasquale Boninsegni, che, in quel periodo, faceva le sue prime esperienze
all’università come supplente di alcuni corsi di Pareto; un corso di Sociologia, tenuto anche questo da Pareto, e un corso di Filosofia generale,
tenuto dal professore Maurice Millioud.
La frequenza dell’università da parte di Mussolini ha dato luogo ad una serie di controversie
sulla sua effettiva presenza tra i banchi dell’accademia e soprattutto sull’influenza del pensiero paretiano. Se un rapporto diretto con Pareto
è con molta probabilità da escludere, l’influenza del pensiero paretiano, mediata da Boninsegni, risulta documentata. Va inoltre tenuto presente che in quel periodo il nascente sindacalismo rivoluzionario
si riferiva spesso ai Systèmes Socialistes di Pareto. È probabile che alcune idee del professore italiano siano giunte a Mussolini
per questa via. Un primo riscontro testuale del concetto di élites lo si trova in
un articolo del 30 luglio 1904, in concomitanza quindi con i suoi studi. Mussolini si riferì direttamente alle idee
paretiane in un articolo di «Avanguardia socialista», che conteneva il resoconto di
una conferenza di Pareto tenuta a Ginevra agli inizi di ottobre del 1904. Ciò non
dimostra, tuttavia, una conoscenza approfondita dell’opera di Pareto da parte di Mussolini,
che nell’articolo si limitava a riassumerne la relazione, da cui selezionava qualche
concetto utile per la sua battaglia antiriformista.
L’attenzione prevalente per l’influenza di Pareto su Mussolini ha lasciato invece
in ombra l’aspetto forse più importante della sua esperienza universitaria, ossia
la frequentazione del corso di Filosofia di Millioud. A differenza delle lezioni di
Pareto, un certo numero di indizi attestano la presenza di Mussolini a una parte dei
corsi del professore romando. Il corso di Filosofia generale di Millioud, per il semestre
estivo del 1904, era dedicato alla natura, all’uomo, al problema morale e metafisico. Mussolini iniziò a seguirlo non prima del lunedì 9 maggio, dopo il suo arrivo a
Losanna e la sua immatricolazione. In maggio l’insegnamento era dedicato alla natura,
al principio della vita e alla formazione delle specie animali, seguendo lo sviluppo
del pensiero scientifico, in particolare contemporaneo, e in accordo con le teorie
evoluzioniste di cui Millioud esponeva non solo i risultati ma anche le difficili
battaglie occorse alla loro affermazione. Si trattava, dunque, non di corsi di storia
del pensiero filosofico classico, ma di un approccio che rinnovava il legame con la
scienza.
Il corso non poteva non interessare Mussolini, attratto dal sapere scientifico nella
sua dimensione rivoluzionaria, distruttore di dogmi e fautore di nuove verità. Dal
6 giugno Millioud affrontò il problema dell’uomo e della sua origine, un tema che
sviluppò durante più settimane, per passare, dalla fine di giugno, allo studio delle
prime civilizzazioni. Lunedì 13 giugno Mussolini prese in prestito alla biblioteca
universitaria di Losanna un libro di Gustave Le Bon, L’Homme et les sociétés. Leurs origines et leur histoire. Il contenuto del libro presentava non poche analogie con i temi trattati nel corso,
ed è quindi probabile che Mussolini abbia deciso, il giorno medesimo in cui ebbe luogo
la lezione di Millioud, di recarsi in biblioteca per ritirarlo. La scelta non si spiega altrimenti: infatti
Le Bon era conosciuto per i suoi scritti sulle folle (Psychologie des Foules del 1895) e sul socialismo (Psychologie du socialisme del 1898), non certo per questo lavoro del 1881. È, del resto, significativo che
dal registro dei prestiti della biblioteca, per tutto il 1904, l’opera di Le Bon sia
stata richiesta solo da Mussolini e da un certo Stoyan Simeonoff, bulgaro, anch’egli
iscritto al corso di Millioud.
Mussolini non solo frequentò, come si è potuto constatare, una parte dei corsi, ma
conobbe personalmente il professore. Tuttavia, la via degli studi accademici non durò molto per Mussolini, ma non per
questo abbandonò l’attitudine e la curiosità per lo studio. Quella dello studioso,
dello scienziato, fu un modo di essere, spesso una posa, ch’egli ostentava nei suoi
scritti, conformandosi così alla cultura socialista che sulla scienza poggiava gran
parte delle proprie attese e promesse di cambiamento. Ma la scienza subiva non pochi
mutamenti negli anni di fine e inizio secolo: molte certezze vennero rimesse in discussione
da nuove scoperte scientifiche, e sembrava che proprio la mancanza di certezze dovesse
caratterizzare il futuro del sapere scientifico, ciò che per molti attestava addirittura
la fallibilità della scienza nella sua capacità di spiegare il mondo.
Mussolini, attraverso le sue letture e i corsi all’Università di Losanna, integrò
invece positivamente, rispetto a chi al contrario vedeva la relatività come un insuccesso
della scienza, i cambiamenti in atto nel mondo scientifico; i richiami continui alla
relatività della scienza erano per lui una prova della vitalità e della forza di quel
sapere:
Mentre il dogma rappresenta la fissità, la cristallizzazione del pensiero umano negli
angusti limiti di una formula, la scienza invece agilmente si trasforma, assimila
ogni nuova scoperta, modifica, se occorre, i suoi metodi d’indagine, è pronta a cancellare
tutto un passato se riconosciuto falso.
Il relativismo assumeva, in opposizione a concezioni dogmatiche della realtà, un ruolo
centrale e positivo nella visione del mondo di Mussolini, su cui poggiare l’intera
comprensione della realtà circostante:
Nulla in questo mondo vi è di assoluto, ma tutto è relativo. Niente di eternamente
immobile, ma in continua trasformazione, movimento perenne di forze.
Questa visione del mondo relativista permise a Mussolini di articolare le varie esperienze
culturali di tutto il periodo svizzero: marxismo e scienza evoluzionista attraverso
il concetto della mutazione continua, delle realtà naturali e sociali; mentre il vitalismo
di Nietzsche confermava, nell’ambito della vita umana e della morale, l’assenza di
leggi assolute.
L’insieme dell’esperienza di Mussolini nella Confederazione elvetica fu all’insegna
della formazione, politica e intellettuale, che maturò a contatto con realtà sociali
e culturali nuove. L’importanza del soggiorno svizzero va però rilevato soprattutto
nella sua dimensione intellettuale, poiché gettò le basi di una particolare visione
del mondo che Mussolini modificherà e arricchirà in seguito, ma non abbandonò mai
completamente.