Lucy Riall
Garibaldi in Sicilia.
A partire da Il Gattopardo
di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, in Opere, introduzione e premessa di Gioacchino Lanza Tomasi, Mondadori, Milano 1995 [1958].
Il romanzo Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi fu pubblicato quasi sessant’anni fa, nel 1958, dall’editore milanese
Feltrinelli. L’autore aveva faticato a trovare un editore (com’è noto, il manoscritto
venne rifiutato sia da Mondadori sia da Einaudi, prima di essere accettato da Feltrinelli),
e quando morì ancora non sapeva che il volume sarebbe stato effettivamente pubblicato:
Il Gattopardo era considerato non al passo coi tempi, addirittura di destra, poiché il suo eroe
era un principe, e la stessa struttura narrativa del romanzo appariva antiquata; in
un periodo di avanguardie artistiche e di sperimentazioni linguistiche, molti osteggiavano
anche il ricorso dell’autore a tropi letterari ottocenteschi. Elio Vittorini, in particolare,
criticò il manierismo dello stile («piuttosto vecchiotto, da fine Ottocento») e il
tono goffamente didattico dell’autore. La stessa copertina della prima edizione del
libro, uno schizzo di mediocre fattura che ritrae una famiglia aristocratica su un
cupo sfondo bruno, farebbe pensare che i temi del romanzo erano tutt’altro che chiari,
e che le aspettative dell’editore erano piuttosto modeste.
E tuttavia Il Gattopardo sarebbe diventato uno straordinario caso editoriale. Nel 1959 vinse il Premio Strega,
e da allora è stato tradotto, fra l’altro, in inglese, francese, polacco, greco, romeno
e coreano. Nel 2005 «la Repubblica» ha scritto che Il Gattopardo è «di certo il romanzo siciliano più tradotto al mondo». Fu anche il primo best-seller
dell’Italia del secondo dopoguerra, e rimane uno dei romanzi italiani di maggior successo
di tutto il Novecento (con 3,2 milioni di copie vendute); oggi inoltre, vi è un generale
consenso sul fatto che Il Gattopardo sia un libro speciale, un romanzo che tocca il cuore e riesce a cogliere l’essenza
di un’epoca (quella del Risorgimento) e di un luogo (la Sicilia). Nel 2012, il settimanale
britannico «The Observer» lo ha inserito fra i dieci più importanti romanzi storici
di ogni tempo; come ha scritto nel 2006 un giornalista del londinese «Daily Telegraph»,
è «un libro immortale». E un romanziere come Edward M. Forster ha potuto dire che
«leggere e rileggere» Il Gattopardo «mi ha fatto capire quanti modi esistono di essere vivi, quante sono le porte che,
se rimangono chiuse per alcuni, possono aprirsi al tocco di qualcun altro».
Nel 1963 il romanzo divenne un film. E non un film qualsiasi, ma un’epopea storica
diretta da un regista della statura di Luchino Visconti, che all’epoca era all’apice
della sua fama internazionale, e poté disporre di un notevole budget. Il film poté così essere girato sullo sfondo di meravigliosi ambienti siciliani,
schierando nel ruolo del protagonista, il principe di Salina, una delle principali
star di Hollywood, Burt Lancaster, affiancato da due giovani attori europei destinati
a grande fama, Alain Delon e Claudia Cardinale: un cast quindi di prim’ordine, che
contribuì a consolidare sia la fama del romanzo di Tomasi sia il fascino che esercitava
in tutto il mondo.
Oggi Il Gattopardo è ormai parte integrante di un brand siciliano di portata globale. In Sicilia, i turisti possono ammirare i «luoghi del
Gattopardo», nel contesto di un itinerario che comprende il Bar Mazzara di Palermo,
frequentato dallo scrittore, la sua ultima abitazione in via Butera, oltre che gli
edifici nei quali sono ambientate le scene del film, come la Villa Boscogrande (la
villa del principe nei dintorni di Palermo), palazzo Gangi (dove è stata girata la
famosa scena del ballo) e Palazzo Filangeri di Cutò a Santa Margherita di Belice (la
residenza di campagna del principe, a «Donnafugata»). Termini tratti dal romanzo o
dal film, come «Il Gattopardo», «The Leopard», «Il Principe di Salina» o «Donnafugata»,
sono stati sfruttati in tutto il mondo per fare pubblicità a ristoranti e ad alberghi,
a vini e a generi alimentari.
L’intento di questo saggio è riflettere sul rapporto fra Il Gattopardo e gli eventi storici che vi sono descritti. In particolare, vorrei soffermarmi sul
punto di vista adottato dall’autore, riprendendo in esame il messaggio che egli cerca
di trasmettere e le interpretazioni che di esso e della prospettiva dello scrittore
sono state proposte da generazioni di storici nei sessant’anni trascorsi dall’uscita
del romanzo. Come vedremo, si tratta di elementi di notevole rilievo, poiché, nonostante
i suoi meriti letterari, ritengo che per quanto riguarda i suoi contenuti storici
l’opera sia stata letta in modo fuorviante.
Per molti aspetti Il Gattopardo è un romanzo storico, vale a dire un’opera che illustra vicende e persone di un passato
ben noto attraverso lo sguardo di un gruppo di personaggi di fantasia, che tuttavia
compongono un quadro storicamente realistico. Nel corso del romanzo, i famosi eventi
in rapporto ai quali la narrazione è strutturata – l’invasione della Sicilia da parte
di Garibaldi, l’unificazione italiana, la tragedia dell’Aspromonte – si riflettono
e si rifrangono nei sentimenti, nelle esperienze e nelle reazioni di una famiglia
immaginaria della nobiltà siciliana dell’Ottocento; la pretesa di veridicità del quadro
che ne risulta si basa in parte sulla somiglianza fra quei personaggi e le figure
dell’ambiente familiare nel quale lo scrittore era cresciuto. In particolare, gli
eventi ci sono mostrati attraverso lo sguardo dell’eroe del romanzo, il capo di quella
famiglia, Don Fabrizio principe di Salina, personaggio nel quale, a quanto pare, si
riflette almeno in parte lo stesso Giuseppe Tomasi; insieme, lo scrittore controlla
lo svolgimento del romanzo e l’attenzione del lettore allo stesso modo con cui Don
Fabrizio domina la propria famiglia. È così che a momenti di alta politica si alternano
scene intime e private, che consentono di assistere a quelle reazioni personali ad
eventi pubblici che altrimenti le pagine dei libri di storia non ci mostrano o non
ci fanno comprendere.
Nella lettera con cui comunicava a Tomasi di Lampedusa che Einaudi non avrebbe pubblicato
il suo romanzo, Elio Vittorini criticava la trama frammentaria e la struttura disarticolata
del testo. E tuttavia, è proprio la struttura episodica che consente alla narrazione
di muoversi a un ritmo lento ma inesorabile, creando un crescendo di tensione drammatica;
a produrre questo effetto concorre una serie di pezzi forti che illustrano i tempi
turbolenti che la famiglia sta attraversando: l’arrivo di Garibaldi in Sicilia nel
maggio del 1860, e la reazione della famiglia; il trasferimento a Donnafugata, l’incontro
fra Tancredi e Angelica; il plebiscito e le conversazioni fra il principe e l’inviato
piemontese Chevalley; il ballo a Palermo a cui partecipano la famiglia del principe,
quella di Angelica e il nuovo prefetto del capoluogo, il marchese di Pallavicino;
infine, la morte del principe e la fine della famiglia. Il romanzo si apre con la
scena del rosario e si conclude con lo smantellamento della cappella di famiglia;
non è un caso che quest’ultimo episodio avvenga nel maggio del 1910, nel cinquantesimo
anniversario dello sbarco di Garibaldi nell’isola.
Se si chiedesse qual è il momento più famoso del romanzo (e del film), quasi tutti
indicherebbero la conversazione fra Don Fabrizio e Tancredi, il suo nipote preferito,
quando il giovane si prepara a raggiungere i garibaldini per partecipare alla lotta
per l’unificazione italiana: «Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene
a casa [...]. Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo
che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?».
È un momento davvero memorabile, nel quale si riflette l’idea di una società siciliana
non solo immutabile, ma anche naturalmente e intrinsecamente resistente al cambiamento;
i nobili siciliani vi appaiono come dei sopravvissuti, capaci di calcolare i rischi
e di evitare il pericolo che più li minaccia – quello del cambiamento sociale – fingendo
di abbracciare il cambiamento ma operando al tempo stesso in modo da rovesciarlo e
da ostacolarlo. Per come è stata sempre letta a partire dagli anni Cinquanta – vuoi
in chiave negativa, vuoi (occasionalmente) per celebrarla –, la frase «se vogliamo
che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» è diventata ben presto proverbiale.
Era un modo suggestivo per esprimere la delusione per l’esito del Risorgimento, che
evoca l’impenetrabile paradosso della società siciliana (dove tutto deve cambiare
perché tutto rimanga com’è), e allo stesso tempo una sintetica presa d’atto del mancato
cambiamento e della sconfitta della rivoluzione garibaldina (perfino Garibaldi e «don
Peppino Mazzini» non erano stati in grado di infrangere le inesorabili continuità
della storia siciliana). Negli anni Cinquanta, quando l’eredità del Risorgimento era
ancora oggetto di vivaci contrapposizioni, e nei decenni successivi, quando le promesse
del Mezzogiorno postbellico avevano lasciato il posto alla disillusione, la vicenda
del Gattopardo divenne una sorta di storia di fondazione della Sicilia contemporanea, una spiegazione
– e allo stesso tempo un lamento – per tutto ciò che non poteva essere.
Ciò nonostante, l’immediato fascino dell’aforisma di Tancredi, «se vogliamo che tutto
rimanga come è, bisogna che tutto cambi», ha fatto sì che il significato di quella
affermazione e il messaggio del romanzo siano stati fraintesi. In primo luogo, la
sua celebrità ha oscurato altri, e altrettanto importanti momenti dell’opera, che
ci presentano una prospettiva alquanto diversa dell’impatto dell’invasione di Garibaldi
e dell’unificazione italiana che giunse a compimento qualche mese dopo. A questo riguardo
le scene ambientate a Donnafugata rivestono una particolare importanza. La conversazione
fra il principe e Don Ciccio Tumeo (cui concede di seguirlo nelle battute di caccia),
nel corso della quale quest’ultimo parla della propria decisione di votare «no» all’annessione
al Regno d’Italia nel plebiscito che si è da poco tenuto, e di come del suo voto non
si sia tenuto conto nei risultati ufficiali, fornisce un contrappunto sociale e linguistico
della conversazione con Tancredi, dal tono molto più pessimistico riguardo al tipo
di cambiamento che è in atto: «Io, Eccellenza – dice Don Ciccio Tumeo –, avevo votato
‘no’. ‘No’, cento volte ‘no’ [...] e quei porci in Municipio s’inghiottono la mia
opinione, la masticano e poi la cacano via trasformata come vogliono loro. Io ho detto
nero e loro mi fanno dire bianco!».
In seguito, sempre a Donnafugata, il principe dice quel che pensa a Chevalley, l’inviato
piemontese arrivato per tentare, senza riuscirvi, di convincerlo ad accettare la nomina
a senatore nel nuovo Parlamento italiano. Il principe contesta la visione progressiva
che Chevalley ha del futuro, perché «i siciliani non vorranno mai migliorare per la
semplice ragione che credono di essere perfetti», o, come dice richiamando una precedente
discussione: «They are coming to teach us good manners [...] but won’t succeed, because
we are gods». Ma il funzionario piemontese ignora l’intuizione del principe, convinto com’è che
«questo stato di cose non durerà; la nostra amministrazione, nuova, agile, moderna
cambierà tutto».
Nel suo Metahistory: The Historical Imagination in Nineteenth-Century Europe, del 1973, il critico Hayden White distingue quattro forme narrative (o «forme di
intreccio») utilizzate dagli storici: romance, commedia, satira e tragedia. La tragedia è la tipologia narrativa utilizzata da
Tomasi nel Gattopardo, assieme al tropo, o metafora linguistica, che le corrisponde: l’ironia. Ironia perché,
come la storia ha mostrato, la «nuova, agile, moderna» amministrazione immaginata
da Chevalley e introdotta dal nuovo Regno d’Italia non ebbe più successo di quella
che l’aveva preceduta, e semmai si rivelò perfino più impopolare. Tragedia perché,
come gli dice il principe, «noi fummo i Gattopardi, i Leoni», riferendosi così a un
passato siciliano che, per quanto glorioso, è ormai giunto a termine, finito, morto.
E coloro che vengono dopo «i Gattopardi» saranno, così prevede, degli «sciacalletti»,
delle «iene», e «tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci
il sale della terra»; e di fatto, come don Ciccio ha detto al principe stesso, le
«iene» hanno già il controllo di Donnafugata. In altre parole, non vi è alcuna lezione
da apprendere (i «Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che
credono di essere perfetti»), e quindi nessuna redenzione politica o morale è possibile.
«Siamo vecchi», dice il principe a Chevalley; «vecchissimi [...] è in gran parte colpa
nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso». La fama e la popolarità del Gattopardo, il suo essere celebrato come un emblema della Sicilia e della sicilianità, hanno
messo in ombra il fatto che si tratti di un libro scomodo, un libro profondamente
critico riguardo alla società siciliana e acutamente pessimista sulla possibilità
di un effettivo cambiamento sociale e politico.
Possiamo non essere d’accordo con gli editori che non ne apprezzarono la trama confusa
e il suo eroe aristocratico, inattuale. Dobbiamo però riconoscere che forse essi avevano
anche dei validi motivi: in un’epoca caratterizzata dal neorealismo e dalla coscienza
di classe, la quasi totale assenza dei contadini e dei poveri è assai sorprendente.
Il principe tratta il suo cane, Bendicò, molto meglio di don Ciccio Tumeo, e di fatto
nel romanzo l’animale ha un ruolo assai più importante di qualsiasi membro del suo
personale di servizio. L’atmosfera nostalgica che pervade la narrazione non dovrebbe
inoltre indurci ad ignorare che il principe stesso è un personaggio non certo esente
da pecche, un uomo egocentrico che si comporta in modo arrogante, e talvolta crudele,
con le persone che ha intorno e con i suoi dipendenti.
Si potrebbe poi spingersi oltre, fino a sostenere che sia nel romanzo sia nel film
manca un personaggio veramente affascinante. I giovani uomini sono superficiali ed
egoisti, mentre le figure femminili sono in vario modo ignoranti, sgradevoli, brutte
e/o volgari. Le personalità politiche che compaiono sono o incompetenti (come Francesco
II, re di Napoli), ingenue (Chevalley) o pompose (Pallavicino, il prefetto di Palermo
che presenzia al ballo). Garibaldi, infine, il quale di solito è l’eroe indiscusso
di qualsiasi storia riferita agli eventi del 1860, risulta una figura distante e amorfa,
che appare soltanto attraverso le conversazioni dei personaggi e i rapporti politici.
Forse, come ha scritto il «New York Times», Il Gattopardo è «la perfetta evocazione di un mondo perduto», ma si tratta di un mondo decisamente
caratterizzato da decadenza, delusione, avidità, vanità, ignoranza, e dal potere oppressivo
di principi e preti.
Ma torniamo ancora una volta all’aforisma di Tancredi, «se vogliamo che tutto rimanga
come è, bisogna che tutto cambi»: è una considerazione che a mio parere andrebbe letta
secondo un registro ironico. Per la verità, se la leggiamo alla luce del romanzo nel
suo complesso e della successiva storia siciliana, essa non è altro che uno stupido
commento pronunciato da un uomo affascinante sì, ma immaturo e irresponsabile. Potremmo
perfino reinterpretare l’aforisma di Tancredi vedendovi un punto di svolta, il momento
cruciale della falsità e del tradimento sul quale è imperniato il resto del romanzo.
Guardando più avanti, al 1910, nel momento in cui la narrazione si conclude, si può
dire che nel maggio del 1860, con l’arrivo di Garibaldi, tutto era cambiato, e che
mutamenti di vasta portata continuarono ad avvenire dopo l’unificazione italiana,
che quell’invasione aveva determinato.
Allo stesso tempo, il romanzo sorvola su altre importanti forme di cambiamento che
interessarono la Sicilia dell’Ottocento. I contadini, ad esempio, nonostante la loro
assenza dalle pagine del Gattopardo, nel 1860 ebbero un ruolo significativo nella rivoluzione siciliana. Le rivolte nelle
campagne, prima e dopo lo sbarco di Garibaldi, provocarono il crollo dell’autorità
nelle aree rurali, e fu proprio questo crollo – o la mancanza di un’efficace resistenza
politica o militare ai «Mille» – che consentì a Garibaldi di procedere alla conquista
dell’isola con una rapidità così impressionante. Le rivolte contadine, inoltre, rappresentarono
una chiara reazione all’introduzione, nel quarantennio precedente, di provvedimenti
di riforma agraria di vasta portata, che avevano lasciato i contadini in condizioni
ancor peggiori di prima, privandoli dell’accesso alle terre comuni e del diritto di
raccogliervi legna e di approvvigionarvisi d’acqua, attività vitali per la precaria
esistenza di chi lavorava nel latifondo siciliano. Era questa la dura realtà che stava
sullo sfondo dell’arrivo di Garibaldi in Sicilia, annunciata nel romanzo e nel film
a un mondo apparentemente del tutto distante da essa.
Ai nostri occhi, come a quelli del principe di Salina, i vasti e vuoti spazi del latifondo
siciliano possono apparire fuori del tempo e immutabili. In realtà, tuttavia, niente
avrebbe potuto essere più lontano dal vero: nei decenni successivi al 1860 furono
introdotte altre misure di riforma agraria, che avrebbero provocato ulteriori sconvolgimenti
nella vita dei contadini. Allo stesso tempo, l’unificazione determinò nelle aree rurali
anche altri cambiamenti: un miglioramento delle infrastrutture, progressi nell’istruzione
primaria e secondaria, l’introduzione della leva obbligatoria. Ferrovie, scuole, esercito:
tutti questi fattori portarono la nazione italiana in Sicilia, favorirono un maggiore
rapporto dell’isola col resto del mondo e integrarono i siciliani in reti di mobilità
e di conoscenza sempre più globalizzate. Verso la fine del XIX secolo, in un periodo
di grave crisi economica, queste trasformazioni resero possibile una migrazione di
massa della popolazione rurale siciliana, che si diresse in parte verso l’Italia settentrionale
e il Nord Europa, ma soprattutto verso gli Stati Uniti, il Brasile e l’Argentina.
Questa grande migrazione trasformò la cultura, l’economia e la società dei contadini
siciliani e dei paesi nei quali essi arrivarono. Si tratta di un fenomeno che per
molti aspetti ancora oggi plasma il mondo nel quale viviamo.
Anche l’immagine che Tomasi di Lampedusa traccia di una famiglia aristocratica siciliana
dell’Ottocento, evidenziandone la decisa ostilità al cambiamento, è per molti aspetti
fuorviante. Nel suo racconto non si accenna alle nuove opportunità di investimenti
e di attività di esportazione che si aprirono con l’Unità, e che potevano avvantaggiare
quella categoria di grandi proprietari terrieri alla quale il personaggio del principe
di Salina appartiene. In particolare, si registrò un enorme sviluppo nel commercio
degli agrumi, che portò a una diversificazione nella produzione agricola e alla sperimentazione
di nuove tecniche di coltivazione, soprattutto nelle campagne del palermitano e del
catanese. Se nel Gattopardo il principe può dedicarsi alla caccia, all’osservazione delle stelle e a far visita
a qualche prostituta, non per tutti gli esponenti della sua classe le cose andavano
così; alcuni nobili stavano introducendo nelle loro proprietà terriere innovazioni
d’avanguardia, e diversamente dal principe avevano idee liberali, o addirittura repubblicane,
e diventarono sostenitori della nuova Italia creata dopo il 1860.
Infine, Palermo e la vecchia élite sociale risentirono forse degli effetti negativi
di un processo di declino economico e sociale che gli eventi del 1860 contribuirono
ad aggravare. Per altre aree urbane però il periodo fu molto più positivo. Catania,
in particolare, grazie ai collegamenti ferroviari con l’interno costruiti dopo l’Unità
e al programma di investimenti e di nuove misure fiscali varato dal governo italiano,
conobbe una rapida crescita. Nei decenni successivi al 1860, fu proprio Catania ad
affermarsi come un porto moderno, economicamente dinamico, collegato sia con le principali
zone industriali del Nord Europa sia con il Mediterraneo orientale; e fu a Catania
che emersero una cultura borghese e corrispondenti forme di sociabilità moderne.
Tutte queste trasformazioni sono sostanzialmente assenti nel Gattopardo: come abbiamo visto, lo scrittore è più interessato al tramonto del vecchio mondo
che all’avvento del nuovo. Ciò nonostante, il cambiamento compare grazie a uno dei
più vivaci personaggi del romanzo, Don Calogero Sedàra, un facoltoso abitante di Donnafugata
che fa la sua prima comparsa «in frack» in occasione di una cena di famiglia («la Rivoluzione stessa in quel cravattino
bianco e in quelle due code nere che salivano le scale di casa sua»). Sebbene il suo
errore nella scelta dell’abbigliamento denoti una volgarità e un’ignoranza che suscitano
l’ilarità dei familiari, «la verità» su Don Calogero è che egli è l’uomo del momento,
che ha sostenuto Garibaldi avvantaggiandosene personalmente. Come dice Ciccio Tumeo
rivolgendosi al principe, Sedàra «è molto ricco, e molto influente anche», è un uomo
che spende per ottenere favori e nelle sue terre sfrutta senza ritegno i contadini:
«Un castigo di Dio, Eccellenza, un castigo di Dio! E ancora non vediamo che il principio
della sua carriera! Fra qualche mese sarà deputato a Torino, e fra qualche anno [...]
diventerà il più grande proprietario della provincia. Questo è don Calogero, Eccellenza,
l’uomo nuovo come dev’essere; è peccato però che debba essere così».
Sedàra, in altre parole, è l’incarnazione della nuova classe sociale nata in seguito
a quelle trasformazioni che per altri versi sono scarsamente descritte nel romanzo.
Non solo dà in sposa sua figlia Angelica a Tancredi (di cui il principe è zio e tutore),
ma riesce anche a far soldi grazie ai cambiamenti che turbano così tanto il Gattopardo,
e alla fine è il più ricco di tutti, tanto che lo stesso Don Fabrizio è portato infine
a riconoscere e a provare «una curiosa ammirazione» per quanto Sedàra è stato in grado
di realizzare. E così, Don Calogero si fa strada intrecciando rapporti sociali e finanziari,
e usufruendo di una rete di amicizie, favori e obblighi di riconoscenza. È già influente
nella politica locale, e si prepara a fare il suo ingresso nella scena politica nazionale;
ha acquisito proprietà grazie alle riforme agrarie e sta per diventare, come dice
Don Ciccio, «il più grande proprietario della provincia». È Don Calogero Sedàra il
futuro della Sicilia, e perfino il tentativo di Tancredi di fare in modo che «tutto
cambi» non può far sì che «tutto rimanga come è».
Da questo punto di vista, vale la pena di sottolineare ancora una volta l’importanza
del 1910, l’anno nel quale il romanzo (ma significativamente non il film) si conclude,
e che coincide con il cinquantesimo anniversario della spedizione di Garibaldi in
Sicilia. Nel capitolo finale, intitolato «La fine di tutto», il principe è morto da
tempo, e le sue tre figlie – Concetta, Carolina e Caterina – sono ormai delle anziane
signore, private dell’unico legame loro rimasto con gli speciali privilegi e lo status
di cui godevano in passato, la cappella di famiglia nella quale potevano celebrare
messe private. Il ritratto della Madonna appeso nella cappella, viene loro detto,
non è altro che quello di una donna comune che legge una lettera ricevuta dal suo
innamorato; gran parte delle reliquie che la cappella conservava, poi, sono falsificazioni.
Concetta si ritira nella sua stanza e osserva con un nuovo sguardo le sue proprietà,
che ormai – come la cappella – non testimoniano più niente della sua nobile identità.
Fra di essi vi è un «mucchietto di pelliccia», quel che resta di Bendicò, il cane
preferito di suo padre, imbalsamato molti anni prima:
Concetta si ritirò nella sua stanza; non provava assolutamente alcuna sensazione:
le sembrava di vivere in un mondo noto ma estraneo che già avesse ceduto tutti gli
impulsi che poteva dare e che consistesse ormai di pure forme. Il ritratto del padre
non era che alcuni centimetri quadrati di tela, le casse verdi alcuni metri cubi di
legno [...] il vuoto interiore era completo; soltanto dal mucchietto di pelliccia
esalava una nebbia di malessere. Questa era la pena di oggi: financo il povero Bendicò
insinuava ricordi amari. Suonò il campanello. «Annetta» disse «questo cane è diventato
veramente troppo tarlato e polveroso. Portatelo via, buttatelo».
Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l’umile
rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo
quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l’immondezzaio
visitava ogni giorno: durante il volo giù della finestra la sua forma si ricompose
un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi
e l’anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto
di polvere livida.
Talvolta Il Gattopardo è stato definito uno studio psicologico, che attinge i risultati migliori nel delineare
la reazione di un uomo potente a una catena di eventi che è impotente a controllare.
Ma la straordinaria capacità dello scrittore di suscitare simpatia per la difficile
situazione di quell’uomo, e nel tratteggiare i suoi conflitti interiori fra senso
del dovere e desiderio non dovrebbe oscurare il fatto che, come romanzo storico, Il Gattopardo è fortemente critico nei confronti del periodo e della società che descrive. È un
addio rassegnato a un mondo che è stato perduto più a causa della stupidità e della
miopia che in conseguenza della forza di circostanze esterne, circostanze che sono
viste, ma mai pienamente colte o comprese, nella distante figura di Garibaldi.
Si può anche dire che Il Gattopardo non riguarda affatto Garibaldi e il 1860, ma un periodo del tutto diverso. Sappiamo
che durante la seconda guerra mondiale Giuseppe Tomasi era rimasto profondamente scosso
dal bombardamento alleato della sua casa di famiglia a Palermo, e che quell’evento
lo aveva portato a mettere in discussione la sua stessa identità di membro dell’aristocrazia
siciliana. Inoltre, il periodo successivo alla conclusione della guerra portò profondi
cambiamenti nel mondo di Tomasi: fu negli anni Cinquanta, quando egli scrisse il romanzo,
che la riforma agraria determinò l’espropriazione definitiva dei nobili siciliani,
inducendoli a ritirarsi dalle ville di campagna ai loro appartamenti di città, e provocando
nell’era della guerra fredda una sorta di «riprovincializzazione» della cultura siciliana.
A mio avviso, Il Gattopardo dovrebbe essere contestualizzato in questo periodo, piuttosto che nella sua apparente
ambientazione risorgimentale di un secolo prima. Se osserviamo la vicenda dal punto
di vista degli anni Cinquanta del Novecento, possiamo ipotizzare che Don Calogero
Sedàra rappresenti gli «sciacalli» e le «iene» a cui fa riferimento il principe, collegati
a quei gruppi criminali che già stavano affermando il loro dominio sulla politica
siciliana. E proseguendo su questa linea, potremmo perfino vedere in Tancredi l’immagine
di un politico democristiano, pronto a qualsiasi compromesso pur di arrivare e rimanere
al potere. Nel 1957, infatti, Giuseppe Tomasi scriveva a proposito del suo romanzo
ancora inedito: «Mi sembra che presenti un certo interesse perché mostra un nobile
siciliano in un momento di crisi (che non è detto sia soltanto quella del 1860)».
La mia ipotesi di collocare Il Gattopardo negli anni del secondo dopoguerra e non negli anni Sessanta dell’Ottocento vuole sottolineare
il fatto che forse il romanzo è soprattutto un’opera autobiografica. Il principe,
ovviamente, è lo stesso Giuseppe Tomasi di Lampedusa: come scrive il suo biografo
inglese David Gilmore, egli è «l’ultimo Gattopardo», o come potremmo altrimenti dire,
il principe di Salina è «l’ultimo Lampedusa».
Vorrei quindi concludere queste mie considerazioni accennando allo scrittore e al
suo mondo; quel mondo che, è bene ricordare, era un mondo non siciliano ma europeo,
nel quale egli aveva molto viaggiato e nella cui letteratura era profondamente inserito.
Questo mondo europeo di metà Novecento era uscito lacerato dalla guerra e dalle distruzioni,
e in questo senso Il Gattopardo rappresenta anche una testimonianza sulla sua scomparsa. Fu questa cultura europea
che consentì a Tomasi di Lampedusa di scrivere quello che in realtà era un libro profondamente
fuori dal suo tempo, e a farlo al termine della sua vita, senza autocommiserazione
né nostalgia, consapevole del fallimento della propria classe sociale e della sua
incapacità di fare in modo che tutto «rimanesse come è». A mio avviso, è questo il
grande risultato del Gattopardo, un romanzo della Sicilia del secondo dopoguerra e un dolente commiato al mondo letterario
dell’Europa prebellica.
[traduzione di David Scaffei]