Edizione: 2008, XIII rist. 2020 Pagine: 248 Collana: Economica Laterza [460] ISBN carta: 9788842085744 ISBN digitale: 9788858109182 Argomenti: Storia contemporanea, Storia d'Italia
Scrivere una storia del Risorgimento, inteso nel suo significato di movimento politico-culturale centrale dell’Italia contemporanea, è un’opera importante. Che è riuscita splendidamente ad Alberto Mario Banti in questo libro.
Roberto Coaloa, “Il Sole 24 Ore”
Nel 1861 si forma il Regno d’Italia: dopo molti secoli di frammentazione statale la Penisola è così riunita in un’unica compagine, i cui territori vengono completati nei dieci anni seguenti. È un evento rivoluzionario, vissuto in questi termini dai contemporanei, in Italia e fuori d’Italia. In questo libro, il lungo processo di formazione del movimento nazionale dai primi slanci patriottici di fine Settecento alle organizzazioni insurrezionali, ai tentativi rivoluzionari della prima metà dell’Ottocento, fino all’anno cruciale del Regno.
Alberto Mario Banti è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Pisa. Si è occupato di Storia del Risorgimento italiano e di storia del nazionalismo europeo ottocentesco. Tra le sue pubblicazioni più recenti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell'Italia unita (Torino 2000) e L'onore della nazione. Identità sessuali e violenza del nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra (Torino 2005). Per i nostri tipi, tra l'altro: L'età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi (2009); L'età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all'imperialismo (2009); Il Risorgimento italiano (20096).
Nel 1861 si forma il Regno d’Italia: dopo molti secoli di frammentazione statale la
penisola è così riunita in un’unica compagine, il cui contorno territoriale viene
completato nei dieci anni seguenti con l’annessione del Veneto e di Venezia (1866)
e poi del Lazio e di Roma (1870). È un evento rivoluzionario, vissuto in questi termini
dai contemporanei, in Italia e fuori d’Italia.
Ma non è né il frutto dell’opera di un uomo solo (Cavour o Garibaldi), né l’effetto
esclusivo di una fortunata congiuntura internazionale, che induce la Francia di Napoleone
III ad aiutare attivamente, e la Gran Bretagna ad accettare benevolmente, questa importante
trasformazione. È piuttosto l’esito di un processo culturale e politico che prende
avvio alla fine del XVIII secolo e che precisa poi i suoi caratteri nei primi decenni
dell’Ottocento. Questo processo porta a identificare la «nazione italiana» come la
comunità di riferimento che fonda le pretese o i progetti di costruzione di uno stato
«nazionale italiano».
Se aspirazioni politiche alla costruzione di uno stato italiano non sono mancate nel
passato (le hanno espresse, tra gli altri, Dante, Petrarca o Machiavelli), ora quel
desiderio assume tratti ben diversi. Nuova è l’enfasi sul carattere pienamente politico
del concetto di nazione: con esso, dalla fine del Settecento, sulla suggestione del
pensiero di Rousseau e dell’elaborazione politica della Rivoluzione francese, si intende
una comunità di individui legati da tratti comuni, che, in virtù di quel nesso, hanno
collettivamente diritto a esprimersi politicamente all’interno di uno stato-nazione
creato da loro stessi o in loro nome; e nuovo è anche il formarsi – intorno a questo
assunto – non solo di un movimento culturale, ma di un vero movimento politico che
tende a quel fine.
Ora, la cosa interessante dell’esperienza risorgimentale sta nel fatto che quell’obiettivo
(uno stato-nazione italiano) viene raggiunto anche se il movimento nazionale deve
operare a dispetto di numerosi fattori avversi. In primo luogo, il concetto di nazione,
che viene ripreso dal dibattito francese, sembra trovare pochi elementi di concretezza
nel caso italiano (ma è bene ricordare – come ha mostrato persuasivamente un’imponente
letteratura storiografica recente – che all’epoca non ne ha moltissimi nemmeno altrove,
né in Francia, né in Gran Bretagna, né in Germania). Ciò che consente di parlare di
nazione italiana è l’esistenza di una grande tradizione letteraria in volgare italiano,
esistente sin dal XIV secolo, e la comune confessione religiosa, due aspetti che saranno
sfruttati intensamente dai primi intellettuali patrioti del periodo che ci interessa.
Ma, in sé e per sé, la cattolicità rende gli abitanti della penisola parte di una
comunità sovranazionale; e la tradizione letteraria è tecnicamente, per così dire,
una questione che riguarda solo un’élite veramente molto ristretta; gli studiosi di
storia della lingua hanno infatti stimato che nel 1861 gli italofoni (cioè coloro
che parlano l’italiano per le comunicazioni quotidiane) oscillano tra il 2,5 e il
9,5% del totale della popolazione della penisola; a quella stessa data solo il 22%
della popolazione dichiara di saper leggere e scrivere, quindi di essere almeno in
grado di capire l’italiano; forse la percentuale può essere ottimisticamente anche
un po’ alzata, ma il fatto è che il resto della popolazione non sa parlare che dialetti
differenti da zona a zona e reciprocamente non comunicanti. All’inizio dell’Ottocento
la situazione è certamente ancora meno confortante, tant’è che secondo Foscolo «un
Bolognese e un Milanese non si intenderebbero fra loro, se non dopo parecchi giorni
di mutuo insegnamento»; figuriamoci se persone in grado di esprimersi correttamente
solo in dialetto possono esser capaci di apprezzare l’esistenza di una tradizione
letteraria italiana. Dunque, da questo punto di vista, gli elementi di coesione nazionale
sono assai tenui.
Essi non risultano maggiori se si osservano gli interessi economici di proprietari,
imprenditori o commercianti attivi all’epoca nella penisola: le campagne italiane
o gli opifici (quelli situati nella valle padana già si segnalano per la loro importanza)
producono merci che solo in misura minima sono destinate ai mercati interni, prendendo
piuttosto la via dei mercati francesi, inglesi, tedeschi o perfino americani. Così,
ad esempio, a metà dell’Ottocento le esportazioni che vanno dalla parte continentale
del Regno delle Due Sicilie verso gli altri stati italiani sono solo l’11,8% sul valore
totale delle esportazioni meridionali (dato relativo al 1855, e senza includere il
Lombardo-Veneto1), mentre i rapporti inversi sono perfino più ridotti poiché, sempre alla stessa data,
le importazioni dagli stati italiani preunitari sono l’8,5% del valore di tutte le
merci che entrano nel territorio continentale del Regno delle Due Sicilie2. Non c’è alcun mercato nazionale a cui aspiri la «borghesia» italiana. Sembra fondato,
dunque, il giudizio espresso diversi anni fa da Luciano Cafagna, secondo cui non sono
tanto gli interessi economici per un grande mercato interno a promuovere il movimento
nazionale, quanto il movimento nazionale a sollecitare quegli stessi interessi in
quella direzione.
1 Mentre se a quel dato si aggiungono le esportazioni per l’Impero austriaco si ha
ancora un totale pari al 37,6%, valore comunque sicuramente gonfiato dai flussi di
transito per altre aree europee (molte merci arrivano a Venezia o a Trieste e poi
proseguono per Vienna e oltre, e non per Milano).
2 Senza il dato relativo all’Impero austriaco; sono il 18,2% con tale dato.
Senza una solida base nelle configurazioni sociali esistenti, il discorso patriottico
trae sostanza dall’esempio della Francia rivoluzionaria, dalle sue idee, dalle sue
sperimentazioni politiche, e a partire da questo modello i patrioti italiani elaborano,
nei modi che si vedrà, un discorso complessivo che tra la fine del Settecento e l’unificazione
risulterà altamente convincente per molte centinaia di migliaia di persone. E ciò
– si noti bene – nonostante che gli ideali nazionali e i progetti costituzionali che
ne derivano siano considerati dagli establishment politici (e polizieschi) che si
susseguono in quegli anni nella penisola come pericolosissimamente eversivi, e per
questo tenacemente ostacolati.
Questi sono aspetti che non si devono in alcun modo dimenticare: il movimento nazionale
opera avendo di fronte enormi handicap ambientali, di natura sociale, culturale o
politica; e tuttavia, sebbene all’inizio dell’Ottocento niente possa farlo presagire,
anzi, sebbene tutti gli indicatori predittivi possano far propendere per il contrario,
pure alla fine quel movimento raggiunge l’obiettivo di uno stato per la nazione Italia.
Questo è ciò che fa del Risorgimento qualcosa di estremamente significativo, qualcosa
che non è saggio e, perfino, non è corretto sottovalutare o ignorare. E proprio perché
la formazione del movimento nazionale – con tutte le sue difficoltà, i suoi limiti,
le sue divisioni, ma anche con le sue realizzazioni e con i suoi successi – è il cuore
di quel processo, è su di esso che questo libro si concentra: non una storia dell’Italia
nel Risorgimento, dunque, ma una storia del Risorgimento come movimento politico-culturale centrale nella vicenda dell’Italia
contemporanea.
Che vuol dire «Risorgimento»?
Nei dizionari italiani di inizio Ottocento il termine ha un solo significato: «risurrezione».
È bene ricordare questa risonanza religiosa, poiché essa presenta, in forma di slogan,
una delle componenti più importanti dell’ideologia nazional-patriottica; e in effetti
il termine, che a metà Ottocento appartiene pienamente al lessico della propaganda
politica, allude alla «risurrezione» della patria, caduta sotto i colpi delle invasioni
straniere e delle divisioni intestine. Ma quando entra in uso, in questo senso traslato?
Il primo esempio significativo è dato dall’opera di Saverio Bettinelli, Del Risorgimento d’Italia negli Studi, nelle Arti e ne’ Costumi dopo il Mille, che, edita nel 1775, prende in esame i principali momenti della storia soprattutto
sociale, economica e culturale della penisola tra XI e XV secolo, periodo che – secondo
Bettinelli – introduce alla vera rinascita del XVI secolo. In questa accezione, ancora
priva di particolari implicazioni politiche, il termine viene usato più volte anche
in altri contesti, ad esempio negli articoli del «Caffè», rivista milanese edita tra
1764 e 1766.
Nel Triennio 1796-1799, che assiste a un vero sconvolgimento delle istituzioni e degli
assetti geopolitici della penisola, il termine più usato per indicare il rinnovamento
socio-politico è piuttosto quello di «rigenerazione», lemma che fa riferimento sia
all’ambito discorsivo della tradizione religiosa, sia a quello delle scienze fisiche
e naturali. Tuttavia, uno dei più attivi «patrioti» del Triennio, Matteo Galdi, in
un suo saggio del 1796, Necessità di stabilire una repubblica in Italia, oltre ad auspicare una «rigenerazione» della patria, parla anche del «risorgimento»
della cultura italiana dopo il XII secolo e, soprattutto, scrive:
Son persuaso che Bologna e Ferrara, e qualunque altra parte dello Stato Pontificio,
o dell’Italia, a cui si riserba l’invidiabil sorte di esser libera, non vorrà discostarsi
da’ voti universali degl’Italiani, di riunirsi coi più stretti vincoli di unità ed
indivisibilità democratica in una sola Repubblica, in quella che senza sforzo, senz’armi,
senza violenza, i buoni patrioti promettono, e giurano in faccia dell’Ente Supremo
autore della verità e di tutte le virtù, di far risorgere in tutta l’Italia.
In questo caso la «risurrezione» riguarda la repubblica, piuttosto che la nazione
italiana. Invece esplicitamente correlato alla nazione italiana è il passo di un articolo
di Gaspare Sauli, pubblicato nel 1798 nel «Difensore della libertà» di Genova, in
cui l’autore scrive:
Or che son disciolte, o vanno a disciorsi, le macchine degli itali governi; or ch’esse
debbono essere mosse da nuove molle politiche, or che gli artefici di queste non sono
già abietti schiavi strumenti di qualche despota, ma sono i filosofi conoscitori dei
diritti dell’uomo; or che l’invitto padre dei popoli [Bonaparte], circondato da un’armata
d’eroi soffia il suo spirito avvivatore e scuote le italiche popolazioni, non è ora
il tempo dell’italo risorgimento? Ah, risorga l’Italia, divenga la patria comune,
e gli Italiani diventino una nazione.
Proprio in questa direzione, nel corso dei primi anni del XIX secolo si compie lo
slittamento lessicale, fissato in modo autorevolissimo da un testo importante nella
cultura nazionale italiana come il Misogallo (1799-1814) di Alfieri, che contiene una dedica «all’Italia» così concepita: a te,
«che un giorno (quando ch’ei sia) indubitabilmente sei per risorgere, virtuosa, magnanima,
libera, ed Una». Negli anni finali del periodo napoleonico, poi, gli appelli per un
risorgimento politico dell’Italia non si contano: il generale austriaco Nugent nel
dicembre del 1813 esorta gli italiani a concorrere al loro proprio «risorgimento»;
poco dopo, a un capo della penisola, il presidente dei collegi elettorali di Milano,
Ludovico Giovio, nel suo discorso del 22 aprile 1814 vede l’Italia «risorgere» per
il concorso delle grandi potenze, mentre all’altro capo Antonio Maghella, ministro
della Polizia del Regno di Napoli, in una circolare del 1815, invita i rappresentanti
del Governo nelle province a collaborare con i migliori patrioti nel discutere dei
fatti del giorno: «Costituzione, Indipendenza nazionale, Risorgimento di tutta l’Italia».
Nei capitoli seguenti ci sarà modo di esaminare il contesto all’interno del quale
maturano queste affermazioni; qui basti osservare che se il termine, con un chiaro
significato politico, è ormai entrato nell’uso, nei decenni seguenti esso preciserà
la sua stabile collocazione all’interno del linguaggio dell’«eversione» nazionale.
Mentre nelle discussioni letterarie il termine fa ancora riferimento alla rinascita
culturale della penisola successiva all’anno Mille (così in molti interventi sul «Conciliatore»
o nei saggi di Berchet o di Leopardi3), Mario Pieri, un intellettuale di origine greca, vicino al circolo liberale fiorentino
che si raccoglie intorno a Gian Pietro Vieusseux, pubblicando nel 1825 la Storia del Risorgimento della Grecia dal 1740 ai nostri giorni, fissa più strettamente il rapporto fra il termine e l’idea della risurrezione spirituale
ma anche politica di una nazione oppressa.
3 Autore anche della poesia Il risorgimento, di contenuto non politico.
È in questa veste che troviamo il lemma negli scritti di Mazzini successivi alla fondazione
della Giovine Italia (1831), alla quale egli assegna il compito di realizzare «il
risorgimento dell’Italia»; come lo troviamo nei romanzi di Guerrazzi, o in Del primato morale e civile degli Italiani (1843) di Gioberti, nel quale egli prospetta il «nazionale e politico risorgimento»
dell’Italia, o ancora in innumerevoli altri testi, fino ad essere scelto come titolo
di un giornale di ispirazione liberal-nazionale fondato a Torino alla fine del 1847
e diretto da Camillo Cavour.
A partire dagli anni Trenta-Quaranta dell’Ottocento, quindi, lo slogan entra definitivamente
nel lessico politico; assai più tardi, a partire dagli anni Ottanta dello stesso secolo,
esso fa il suo ingresso ufficiale anche nel lessico storiografico, attraverso la Storia critica del Risorgimento italiano di Carlo Tivaroni (1888-1897) o le Letture del Risorgimento italiano (1749-1870) di Giosue Carducci (1895-1896), e, ancora, attraverso la «Rivista storica del risorgimento
italiano», uscita nel 1895, o la «Biblioteca storica del Risorgimento italiano», che
inizia le sue pubblicazioni nel 1897, fino alla costituzione della Società nazionale
per la storia del Risorgimento, avvenuta nel 1907. Si compiono, in questo modo, i
primi passi istituzionali per quella curiosa soluzione secondo la quale un intero
ambito disciplinare (e più tardi perfino uno specifico insegnamento universitario)
si è intitolato utilizzando lo slogan di un movimento politico, a mostrare quanta
partecipazione militante abbia guidato i primi studi sul movimento nazionale ottocentesco.
Quando comincia il Risorgimento?
L’excursus cronologico sulla diffusione del termine «risorgimento» non dà risposta precisa alla
domanda contenuta nel titolo del paragrafo. Ad essa l’elaborazione storiografica ha
dato essenzialmente tre soluzioni. La prima è stata quella di far iniziare la storia
del Risorgimento dalla metà del Settecento, per sottolineare gli elementi di continuità
che legano l’elaborazione intellettuale settecentesca e l’esperienza del dispotismo
illuminato non tanto a tutto il movimento nazionale primo-ottocentesco, quanto soprattutto
alle sue componenti monarchiche e moderate. La seconda soluzione ha identificato il
1796 come data di origine, volendo sottolineare che l’arrivo dell’Armata d’Italia
guidata da Bonaparte e lo sconvolgimento politico-istituzionale che ne segue hanno
segnato un vero e proprio profondo punto di svolta con la tradizione e la prassi precedente.
Infine, ma è una soluzione meno frequente delle altre, vi è chi ha collocato al 1800
la data da cui muovere, volendo in tal modo sottolineare quale profondo lascito abbia
costituito per la seguente storia d’Italia la riorganizzazione istituzionale imposta
da Napoleone console e poi imperatore agli stati della penisola.
Ora, il valore di ciascuna di queste soluzioni dipende dal senso analitico che si
intende dare alla ricostruzione. Come ho detto poco sopra, ritengo che il Risorgimento
debba essere considerato un processo politico-culturale che si fonda sull’idea di
nazione e che ha come scopo la costruzione di uno stato italiano. Per questo sono
stato indotto a escludere la fase delle riforme settecentesche dalla mia analisi,
poiché in nessuna delle sue manifestazioni la cultura politica di quel periodo fu
ispirata né all’idea di nazione, né all’obiettivo di edificare uno stato italiano
unitario; del resto, la migliore elaborazione intellettuale dell’illuminismo italiano
ebbe un’ispirazione piuttosto nettamente cosmopolita che non nazionale. Viceversa,
una produzione storiografica di grande rilievo, che dagli anni Cinquanta del secolo
scorso si è addensata sul Triennio repubblicano, ovvero sul periodo 1796-1799, ha
mostrato la grandissima novità dei dibattiti che allora ebbero inizio, ivi inclusa
la discussione su cosa fosse una nazione, e una nazione italiana in particolare; fu
in quella fase – lo si è appena ricordato – che per la prima volta si cominciò a parlare
di rigenerazione (o di risorgimento) della nazione; fu in quel periodo che alcuni
ambienti politico-intellettuali formularono per la prima volta chiari progetti di
costruzione di uno stato unitario, intorno ai quali si tentò anche di mobilitare energie
e individui; e così, come ad altri storici che mi hanno preceduto, anche a me è sembrato
di dover individuare quel periodo come il momento in cui si posero le fondamenta dei
princìpi ideali che animarono l’esperienza risorgimentale: ed è quindi proprio dalla
descrizione degli eventi che si verificarono nella primavera del 1796 che ha inizio
la mia narrazione.
Ringrazio cordialmente Pietro Finelli e Gian Luca Fruci per i preziosi commenti e
le puntuali osservazioni che hanno fatto seguire a una paziente lettura del dattiloscritto.
Capitolo primo. Il Triennio repubblicano (1796-1799)
Il Direttorio, Bonaparte e l’Italia
Nei primi mesi del 1796 il Direttorio della Repubblica francese matura una decisione
che avrà conseguenze travolgenti per le società e gli stati della penisola: approva
il progetto di un’offensiva militare che dovrà svolgersi anche sul quadrante italiano,
considerato tuttavia un fronte di impegno secondario. Al comando della modesta Armata
d’Italia viene messo però il giovane generale Napoleone Bonaparte, che con un’imprevedibile
serie di vittorie riesce a trasformare l’Italia nel più importante teatro di guerra
in cui sono impegnati gli eserciti francesi. Si apre allora una stagione breve, ma
tra le più animate che la storia dell’Italia contemporanea ricordi, ricca di discussioni,
di grandi entusiasmi e di non meno grandi delusioni.
L’epopea dell’Armata d’Italia e del generale Bonaparte viene inaugurata dalle vittorie
di Montenotte, Millesimo, Dego e Mondovì (12-21 aprile), che costringono Vittorio
Amedeo III, re di Sardegna, ad accettare l’armistizio, siglato a Cherasco il 28 aprile.
Con la pace di Parigi del 15 maggio il Piemonte rimane formalmente autonomo sotto
il suo sovrano legittimo, dovendo però cedere Savoia e Nizza alla Repubblica francese.
In quello stesso giorno, dopo aver sconfitto gli austriaci a Lodi il 10 maggio, Bonaparte
fa il suo ingresso a Milano.
Il 20 maggio vengono sottoscritti accordi di tregua con i duchi di Parma e di Modena
(ma quest’ultimo fugge a Venezia, lasciando in sua vece una reggenza). Tra maggio
e giugno l’esercito francese entra nel territorio della Repubblica veneta e dello
Stato Pontificio, occupando Bologna, Ferrara e le Legazioni. A fine giugno è la volta
di Carrara, Massa e Livorno. Entro i primi di ottobre anche Modena e Reggio sono sotto
controllo francese.
Il 16 ottobre, per volontà di Bonaparte, si riunisce a Modena un Congresso dei rappresentanti
delle città di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, che delibera la costituzione di
una lega militare, diretta da una Giunta di difesa generale. Il 27 dicembre viene
convocato a Reggio un secondo Congresso composto da 110 deputati eletti nelle quattro
repubbliche di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio con elezioni a triplice grado. Il
30 dicembre il Congresso approva una mozione secondo la quale le quattro popolazioni
formeranno «un Popolo solo, una sola famiglia per tutti gli effetti tanto passati
quanto futuri», e proclama l’istituzione della Repubblica cispadana. Il 7 gennaio
1797, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, il Congresso decreta che la bandiera
del nuovo stato sia il tricolore bianco, verde e rosso4. Due giorni dopo Bonaparte, recatosi personalmente a Reggio, sollecita i deputati
a redigere al più presto una costituzione per il nuovo stato. Frattanto Massa, Carrara
e Imola –unite alla Cispadana – mandano i loro deputati al Congresso, che ora funziona
come una vera e propria assemblea costituente: anzi si tratta dell’unica costituente
italiana del Triennio, poiché le costituzioni delle altre repubbliche che si formeranno
verranno redatte o dalle autorità francesi o da comitati non eletti dal popolo ma
nominati dai governi provvisori. La costituzione, approvata dal Congresso, viene riveduta
e corretta personalmente da Bonaparte; subito dopo si tengono le elezioni del Corpo
legislativo, che si riunisce per la prima volta a Bologna il 26 aprile. La vita di
questa nuova repubblica costituzionale è, tuttavia, brevissima. Il 19 maggio, infatti,
Bonaparte decide di costituire un nuovo stato, chiamato Repubblica cisalpina, aggregando
alla Lombardia i territori di Reggio, Modena, Garfagnana, Massa e Carrara; il moncone
restante di Cispadana viene invece unito con la Romagna. Il 29 giugno viene proclamata
ufficialmente la formazione della nuova Repubblica cisalpina, alla quale, circa un
mese più tardi, viene annesso anche ciò che restava della Cispadana. Nel giugno del
1797 si procede anche alla creazione di un’autonoma Repubblica ligure, che si sostituisce
all’antica repubblica oligarchica di Genova.
4 All’epoca i tre colori sono disposti in bande orizzontali. La disposizione in bande
verticali viene adottata nel 1805, quando il tricolore è la bandiera del Regno d’Italia.
Frattanto, dopo l’insuccesso di un’offensiva tentata dall’esercito pontificio, i rappresentanti
del papa sono costretti a firmare la pace di Tolentino (19 febbraio 1797), che riconosce
l’occupazione francese delle Legazioni e di Ancona. Contemporaneamente, l’esercito
francese dilaga dentro i confini della Repubblica di Venezia, da dove si spinge ben
dentro i territori dinastici della casa d’Asburgo, fino a Leoben, dove il 18 aprile
vengono firmati i preliminari di pace tra Francia e Austria. La Repubblica di Venezia
viene democratizzata (12 maggio), ma ha vita breve: il trattato di Campoformio del
17 ottobre 1797 stabilisce che la parte orientale dei territori della ex Repubblica
(Venezia compresa) venga ceduta all’Impero austriaco e che le zone di Bergamo, Brescia
e Crema siano aggregate alla Cisalpina, alla quale sono unite anche la Valtellina
(22 ottobre 1797) e i territori di Pesaro e del Montefeltro (marzo 1798).
Un incidente avvenuto a Roma il 28 dicembre 1797 (l’uccisione del generale francese
Duphot da parte delle truppe pontificie) offre al Direttorio l’occasione per invadere
ciò che restava dello Stato Pontificio. Le truppe francesi, comandate dal generale
Berthier, muovono da Ancona il 24 gennaio 1798 e arrivano nei pressi di Roma il 10
febbraio, per occupare la città nei giorni seguenti. Il 15 febbraio numerosi «patrioti»
proclamano la formazione della Repubblica romana. Le autorità francesi, riconosciuta
la formazione della Repubblica, prendono il controllo di tutta la città, e dopo aver
chiesto al pontefice, Pio VI, di rinunciare al potere temporale e averne ricevuto
un diniego, gli intimano di andarsene. Così il papa, il 20 febbraio, lascia la città
per rifugiarsi in Toscana. La costituzione della Repubblica romana viene elaborata
da una commissione di tre francesi, nominati dal Direttorio, ed è promulgata il 20
marzo.
Il 23 novembre 1798 la Repubblica romana viene attaccata dall’esercito del Regno di
Napoli, comandato dal generale austriaco Mack. Alla fine di novembre le truppe napoletane
e lo stesso Ferdinando IV di Borbone entrano a Roma, dove però rimangono solo fino
al 12 dicembre, quando devono cedere alla controffensiva francese, guidata dal generale
Championnet. La ritirata si trasforma in un vero tracollo, con i francesi che penetrano
all’interno del Regno. Il 21 dicembre Ferdinando IV e sua moglie, Maria Carolina d’Asburgo-Lorena,
si imbarcano sulla nave ammiraglia della flotta inglese, comandata dall’ammiraglio
Nelson, e il 23 abbandonano Napoli, dirigendosi a Palermo. A gennaio Napoli è in preda
a violenti tumulti antifrancesi provocati dalla plebe urbana. L’esercito francese,
al suo arrivo, deve contendere la città palmo a palmo ai gruppi di «lazzaroni» fedeli
al Borbone, e solo dopo tre giorni di combattimento, il 23 gennaio 1799, riesce ad
assicurarsene il controllo. Il giorno prima i patrioti napoletani hanno proclamato
la formazione della Repubblica napoletana, subito riconosciuta dal generale Championnet,
che il 24 gennaio provvede alla nomina di un Governo provvisorio.
Parallelamente all’occupazione della parte continentale del Regno di Napoli, l’esercito
francese occupa anche il Piemonte; l’8 dicembre 1798 Carlo Emanuele IV (successo a
Vittorio Amedeo III nell’ottobre del 1796) viene costretto a firmare un atto col quale
cede alle autorità francesi il controllo del Piemonte; il giorno dopo è costretto
a partire con la sua famiglia per Parma, da cui si trasferisce in Toscana e poi in
Sardegna. Al principio di gennaio 1799, infine, viene occupata la Repubblica di Lucca,
democratizzata a febbraio, mentre nel marzo dello stesso anno viene occupato il Granducato
di Toscana: Ferdinando III è costretto ad andarsene, il papa, fatto prigioniero, è
condotto in Francia e muore durante il viaggio; a Firenze viene costituita un’amministrazione
provvisoria, controllata da un commissario francese.
Questo è il momento della massima espansione francese: all’epoca la carta della penisola
prevede cinque repubbliche formalmente autonome, un ducato altrettanto formalmente
autonomo (Parma e Piacenza) e due aree controllate direttamente dalle autorità francesi
(il Piemonte e la Toscana); parti del Nord-est della penisola – con Venezia – sono
annesse all’Austria, mentre la Sicilia e la Sardegna rimangono escluse dall’occupazione
e sono in mano, rispettivamente, ai Borbone e ai Savoia (fig. 1).
Fig. 1. L’Italia nel 1799.
L’opinione pubblica nel Triennio
Talora l’accoglienza riservata alle truppe francesi dalle popolazioni della penisola
(ad esempio nel Bergamasco, nel Bresciano, nelle Romagne, a Genova, a Roma o a Napoli)
è decisamente violenta. Insorgenze antifrancesi o antirepubblicane, condotte da preti,
da nobili o da notabili locali e animate da un eterogeneo complesso di motivi, scandiscono
per giorni, se non per settimane, i primi passi dell’occupazione francese e vengono
represse con rapidità, e con una violenza comparabile a quella messa in atto dai rivoltosi.
In generale, però, superati questi drammatici momenti, le principali città delle zone
occupate dall’Armata d’Italia assistono a un’iniziale vivacissima dilatazione degli
spazi del dibattito politico: si fondano giornali, si costituiscono associazioni,
si scrivono trattati, opuscoli, pamphlet, si organizzano feste civiche, si compongono
inni ispirati alle nuove vicende. Tuttavia, l’opinione pubblica non ha affatto una
posizione unanime di fronte a ciò che sta avvenendo. È Bonaparte stesso a dirlo in
una lettera spedita al Direttorio e datata 28 dicembre 1796, nella quale sostiene
che in Lombardia e nella Cispadana si possono notare tre sezioni principali dell’opinione
pubblica, una moderata filofrancese, una austriacante e una radicale-giacobina, di
fronte alle quali egli intende sostenere il primo gruppo, reprimere il secondo e controllare
il terzo. Può darsi che si tratti di un’immagine esageratamente schematica; tuttavia,
la storiografia che si è dedicata alla ricostruzione dei raggruppamenti politici all’interno
delle nuove repubbliche democratiche ha finito per arrivare a conclusioni piuttosto
simili.
Delle tre sezioni dell’opinione pubblica segnalate da Bonaparte, quella che anima
l’intensa discussione politica di questi anni è certo quella più radicale; è un’area
prevalentemente composta da giovani di varia estrazione sociale, ma con una buona
formazione intellettuale, che tendono a chiamare se stessi «patrioti», mentre vengono
chiamati dagli avversari «giacobini» o meglio ancora anarchistes, due termini che hanno allora una potente carica negativa (con un evidente riferimento
a Robespierre e al Terrore)5. Quali sono le posizioni politiche di questi «patrioti», attivi un po’ dovunque nella
penisola, ma particolarmente presenti e vivaci a Milano, nelle città cispadane, a
Roma e a Napoli? Per rispondere, prenderemo in esame distintamente due questioni che
invece sono intimamente collegate: la prima riguarda quali possano essere i migliori
assetti istituzionali da introdurre nelle aree della penisola liberate dall’Armata
d’Italia; la seconda riguarda l’assetto geopolitico, ovvero se debba formarsi uno
stato italiano unitario o se si debba accettare la molteplicità di repubbliche create
per volere del Direttorio, e nel caso di uno stato unitario, se esso debba assumere
una forma centralizzata o una forma federale.
5 Uno dei due termini – «giacobino» – è talora passato nel lessico storiografico a
indicare il Triennio nel suo complesso, non senza una lunghissima discussione sull’opportunità
del suo uso: effettivamente sembra molto più appropriato parlare di Triennio repubblicano
– in riferimento al tipo di istituzioni introdotte nella penisola – o di Triennio
patriottico – utilizzando il termine che l’avanguardia politico-intellettuale usava
per designare se stessa.
Il dibattito politico-costituzionale tra i patrioti
Un punto a partire dal quale ci si può muovere con una certa sicurezza è che nel lessico
politico dei patrioti campeggiano due lemmi-chiave: democrazia e repubblica. Tuttavia,
queste parole d’ordine vengono declinate con una certa varietà di accenti e di indirizzi
politici, che – a grandi linee – tracciano tre diversi progetti di repubblica.
Una prima ipotesi sviluppa o ripete soluzioni tratte dal Contratto sociale di Rousseau, salvo che su un punto, dal quale essenzialmente tutti i più autorevoli
patrioti prendono le distanze; se – in termini rousseauiani – la sovranità politica
deve appartenere a tutta la nazione, essa deve essere espressa attraverso sistemi
di rappresentanza elettorale, che consentano di eleggere i più idonei alle cariche
politiche previste dalla costituzione (ecco lo scarto da Rousseau, sostenitore, invece,
di forme di democrazia diretta). In questa architettura costituzionale un peso preminente
dovrebbe spettare poi all’assemblea legislativa, della quale il potere esecutivo (il
Governo) non può che essere una sorta di mera emanazione.
Un secondo progetto tenta di conciliare il modello delineato da Rousseau con la prescrizione
normativa della divisione dei poteri, elaborata originariamente da Montesquieu; in
questa seconda ipotesi è centrale l’idea che il legislativo sia autonomo dall’esecutivo
e che entrambi non abbiano a interferire col giudiziario, una soluzione, questa, che
sembra adeguata a garantire la repubblica da eventuali arbitri di oligarchi o di tiranni.
Comune a queste proposte è l’idea che solo l’eguaglianza civile, e non anche quella
socio-economica, debba essere la base della comune convivenza. A fianco di posizioni
di questo tipo se ne delinea una terza che, invece, appare interessata più alle riforme
economico-sociali che a quelle costituzionali, nella convinzione che la perfetta repubblica
democratica sia quella che si fonda su norme che prescrivono il mantenimento della
assoluta eguaglianza – tanto civile che economico-sociale – tra i cittadini.
Se queste tre sono le principali prospettive all’interno delle quali si svolge il
dibattito tra i patrioti, qual è il posto che in esse viene riservato alle donne?
Alcune – rare – voci di donna si alzano per chiedere un’equiparazione dei diritti
politici tra i due sessi (documento 1). Alcuni – ancora più rari – patrioti ammettono che si debbano cancellare anche le
differenze di genere. Molti altri non affrontano esplicitamente la questione, limitandosi
a declinare i soggetti della politica al maschile. In altri casi ancora, invece, si
sostiene che alle donne non possa competere la partecipazione alla vita politica.
Quali le motivazioni dell’esclusione, sancita da tutte le costituzioni del Triennio?
La naturale dipendenza delle donne nei confronti delle figure maschili corrispondenti
(le figlie dai padri, le sorelle dai fratelli, le mogli dai mariti) ne fa – nella
retorica del tempo– dei soggetti incapaci di formarsi ed esprimere liberamente delle
opinioni indipendenti; per questo devono essere escluse dalla vita politica così come
lo sono altri soggetti che non sono autonomi: i minori, i domestici, i carcerati,
i folli.
Tutto ciò non toglie che non poche donne abbiano cercato di partecipare attivamente
alla vita pubblica, qualcuna, fra l’altro, in posizione di primo piano. Il caso più
noto è certo quello di Eleonora Fonseca Pimentel, responsabile (e, almeno in larga
misura, autrice) del «Monitore napoletano», giornale che esce a Napoli dal 2 febbraio
1799. Il giornale ha un posto di spicco nella pubblicistica patriottica della Repubblica
napoletana ed è perciò altamente significativo che la Fonseca non vi affronti mai
il tema del ruolo della donna nella politica. Sviluppando una sorta di mimetismo di
genere, la Fonseca scrive o pubblica testi che sembrano usciti dalla penna di un uomo,
come questo commento a una esibizione pubblica della Guardia nazionale:
L’aria marziale e vivace, che stava ne’ loro volti, la stessa varietà dell’abito,
che, non ancora tutto in uniforme militare, additava appunto una truppa civica e dove
ciascuno è sull’armi, non perché soldato, ma perché cittadino; l’ondeggiare de’ pennacchi,
il concorso degli spettatori ne’ balconi e su le strade, la giornata coverta e non
molestata né da sole né da vento o acqua, tutto concorreva ad accrescerne la gioia.
Il vario suono delle belliche marce, il veder questa truppa creata ad un tratto quasi
un miracolo della libertà, faceva insieme tenerezza e meraviglia. Qual madre non si
sentì allora capace di dire, come le Spartane, quando ai figli presentavan lo scudo:
«Torna o con questo o su questo»; qual donzella non desiderò, come le Sannitiche,
di esser per mano della patria data in premio al più forte? Nuove arie, nuove fisionomie,
nuovi volti: cominciamo alfin noi a comprendere con immagini sensibili le descrizioni,
che gli antichi Greci ne lasciarono dell’aspetto e del contegno de’ loro eroi; quegli
eroi, e chi gli descrisse, eran uomini liberi.
Uomini, per l’appunto, e non donne.
I patrioti e l’idea unitaria
Le diverse ipotesi di ingegneria socio-politica elaborate nel Triennio hanno alla
base una convinzione ampiamente diffusa tra l’opinione pubblica «patriottica»: ovvero
che il fondamento ultimo della sovranità stia nel popolo-nazione e che la più fondamentale
delle virtù civiche sia il patriottismo, inteso come amore per le istituzioni libere,
per la democrazia e per la repubblica, un amore che, nelle parole di molti di questi
scrittori, può portare fino al sacrificio della vita, se le circostanze lo richiedono.
L’idea (di derivazione rousseauiana) secondo cui la sovranità spetta a un soggetto
unico, e che nei confronti di esso si debba manifestare una virtuosa e illimitata
lealtà patriottica, ha come importante corollario una critica serrata alle divisioni
politiche che possono spezzare l’unità della nazione.
Tuttavia, detto questo, non è affatto chiaro e scontato di quale nazione e di quale
patria si parli. In effetti, in questo periodo i due termini fanno spesso riferimento
alle patrie regionali, più o meno descritte dai confini degli antichi stati italiani;
cosicché capita di ascoltare i capi di un’insurrezione democratica scoppiata ad Alba
il 26 aprile 1796 parlare in nome di una «nazione piemontese» o i leader della Repubblica
napoletana esprimersi in nome della «nazione napoletana». Oppure si incontrano proclami
e testi che inneggiano alla patria cispadana o cisalpina, che identificano dunque
come oggetto della fedeltà patriottica i nuovi complessi istituzionali che si formano
dopo l’arrivo dell’esercito francese. Ma allo stesso tempo proprio all’interno dell’ambiente
politico patriottico si formula per la prima volta anche l’ipotesi della formazione
di uno stato unitario che raccolga tutti gli italiani.
A sollecitare la riflessione e l’azione per la costruzione di un possibile stato unitario
italiano si impegna intensamente Filippo Buonarroti, un trentacinquenne toscano di
nobili origini ma di idealità giacobine, che nei primi mesi del 1796, mentre segretamente
lavora alla congiura degli Eguali organizzata a Parigi da Gracco Babeuf con l’obiettivo
di realizzare una società radicalmente comunista, svolge per conto del Direttorio
il ruolo di mediatore fra l’Armata d’Italia e gli italiani favorevoli alla Repubblica
francese. In una lettera del 4 febbraio 1796 (redatta insieme a Cerise, un altro giovane
patriota aostano) Buonarroti scrive:
non vediamo l’ora di arrivare al momento felice in cui vedremo la nostra patria libera!
E soprattutto che le frivole distinzioni d’esser nati a Napoli, a Milano, a Torino
spariscano per sempre tra i Patrioti. Noi siamo tutti di uno stesso paese d’una stessa
patria. Gli Italiani sono tutti fratelli. Queste puerili distinzioni pongono, voi
lo sentite, mille ostacoli al nostro fine comune. Gli Italiani devono riunirsi tutti
e non fare che una causa comune e consultarsi tra loro per determinare i mezzi più
efficaci.
Idee di questo genere, per quanto originali siano, non vengono abbandonate dopo che
Buonarroti è arrestato in quanto membro della congiura di Babeuf (10 maggio 1796),
ma si fanno strada con velocità sorprendente tra i filorepubblicani italiani.
Una testimonianza molto chiara della forza attrattiva di questa idea è data dall’organizzazione
di un concorso con un premio di 200 zecchini per la migliore dissertazione sul tema
Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia, bandito dall’amministrazione generale della Lombardia il 27 settembre 1796. La maggioranza
dei 57 concorrenti ritiene che la costituzione di una repubblica unitaria italiana
sia la soluzione migliore; tra questi, poi, la maggior parte si esprime a favore di
una repubblica democratica unitaria e centralizzata; un numero inferiore preferirebbe
una federazione di repubbliche autonome; solo pochi altri ipotizzano soluzioni diverse.
Questi dati non vanno presi strettamente come un sondaggio sugli umori politici dei
patrioti, ma certo non è senza significato che il testo vincente, quello di Melchiorre
Gioia, sostenga proprio l’opzione centralizzata. I propugnatori dell’una tesi o dell’altra
le difendono prevalentemente con argomentazioni storico-funzionali. Anche se sia gli
uni che gli altri ammettono la necessità di formare una repubblica italiana unitaria,
i centralisti insistono sulla forza politica e militare e sulla coerenza politico-amministrativa
che deriverebbero dall’istituzione di un’unica compagine repubblicana, oltre che sulla
presunta coesione culturale dei popoli italiani (documento 2), mentre i federalisti affermano che le diversità storiche e culturali che caratterizzano
le varie parti della penisola, da tanti secoli politicamente divise fra loro, farebbero
preferire una soluzione federale, che consenta l’unità senza forzare necessariamente
a un’artificiale omogeneità (documento 3).
In conclusione, si può dire che due aspetti emergono come particolarmente rilevanti
dal dibattito tra i patrioti. Anzitutto, la loro attenzione si concentra soprattutto
sulle questioni di carattere politico-costituzionale, cioè sull’ingegneria costituzionale e sull’ingegneria geopolitica. E così, come si è visto, ci si interroga se lo stato nuovo debba avere istituzioni
modellate sull’immagine di democrazia descritta da Rousseau o se debbano esserci forme
di chiara divisione dei poteri; su quali debbano essere le linee della politica economico-sociale;
se le repubbliche debbano essere autonome, oppure federate, o sia opportuna una repubblica
«una e indivisibile». Inoltre, questo dibattito è dominato da un maldefinito a priori:
ovvero che la nazione italiana esiste e che ha diritto a una sua espressione statuale.
Questa, più che una premessa, è una conseguenza della riflessione politica: nei testi
dei patrioti unitari (centralisti o federalisti, non ha importanza) traspare piuttosto
chiaramente l’idea che una grande repubblica unitaria dia maggiori garanzie di forza
e di indipendenza che una costellazione di repubblichette autonome. Nondimeno, fatto
questo passo, per giustificarlo i patrioti sono spinti, dalla stessa logica del linguaggio
rivoluzionario che hanno imparato a parlare, a supporre l’esistenza di una nazione
italiana che preesiste e giustifica tutto ciò, anche se non è ben chiaro quali ne
siano i tratti coesivi più profondi.
La vita politica nelle repubbliche
La vivacità e la novità di questi dibattiti non deve farci dimenticare che nel Triennio
repubblicano la riorganizzazione della carta della penisola non conduce ad alcun tipo
di organica costruzione di uno stato unitario italiano, anche se la Cisalpina rappresenta
pur sempre una grande innovazione (fig. 1). E ciò perché mai né al Direttorio della
Repubblica francese, né al comandante dell’Armata d’Italia viene in mente di procedere
alla costruzione di una solida compagine statuale sulla penisola. Il piano, ampiamente
realizzato, è un altro: costruire degli stati cuscinetto che possano svolgere due
funzioni: servire da aree per i rifornimenti economici e finanziari sia per l’Armata
d’Italia che per le stesse casse della Repubblica francese e costituire degli avamposti
militari che facciano arretrare lo spazio territoriale occupato dall’Austria o da
suoi alleati.
Inoltre, è anche vero che se tutte queste repubbliche di nuova formazione sono dotate
di costituzioni e di istituti rappresentativi, modellati sulla costituzione francese
del 1795, tali assetti istituzionali, sulla carta assolutamente innovativi, hanno
un grado di applicazione estremamente modesto. Ciò che conta davvero, in ciascuno
di questi nuovi stati, è l’equilibrio – sempre precario – che si realizza tra il ministro
degli Esteri della Repubblica francese, i commissari civili e militari francesi presenti
sui territori occupati e le strategie politico-militari personalmente elaborate da
Bonaparte.
Facciamo un esempio: la Repubblica cisalpina, che è lo stato più importante che si
forma in questo periodo, nasce per una decisione personale di Bonaparte (19 maggio
1797). La costituzione, promulgata l’8 luglio dello stesso anno, è elaborata da una
commissione nominata da lui; il testo lo rivede lui stesso; il primo esecutivo viene
nominato egualmente da lui, lo stesso giorno della promulgazione della costituzione.
Anche il Corpo legislativo, composto di due camere, il Consiglio dei seniori e il
Gran Consiglio, non viene eletto: i suoi membri vengono scelti personalmente da Bonaparte.
Il Corpo legislativo si riunisce per la prima volta alla fine del novembre 1797 e
– nonostante tutto ciò – il suo esordio è coraggioso: il 22 febbraio del 1798 viene
firmato un trattato di alleanza tra la Repubblica francese e la Cisalpina, sottoscritto
dai membri dei rispettivi Direttori; il trattato è estremamente sfavorevole alla Cisalpina,
gravosissimo dal punto di vista finanziario, e quindi il Corpo legislativo della Cisalpina
si rifiuta di ratificarlo. Tuttavia – sotto vigorose pressioni e minacce dei commissari
francesi – a marzo il trattato viene approvato. A questo punto inizia una sarabanda
vertiginosa di colpi di stato orchestrati, secondo obiettivi diversi, dai responsabili
civili e militari francesi che, iniziata il 13 aprile 1798 con la destituzione di
nove membri del Corpo legislativo e due membri del Direttorio cisalpino, tra i più
moderati, si conclude qualche mese dopo con l’elaborazione di una nuova costituzione,
più moderata della prima, e con una dura stretta repressiva che porta alla soppressione
di giornali, alla chiusura di circoli, all’arresto o alla fuga di patrioti.
Ma le pressioni (o – sarebbe meglio dire – le prevaricazioni) delle autorità francesi
non finiscono qui, poiché sottopongono praticamente tutti i territori delle «repubbliche
sorelle» a pesantissime contribuzioni finanziarie, a ripetute requisizioni, all’obbligo
di foraggiare i reparti dell’esercito di stanza nella penisola, a sequestri sistematici
di opere d’arte, ad atti quotidiani di estorsione, di prepotenza e di violenza, che
– insieme alle altre scelte politiche del Direttorio francese – provocano una traumatica
disillusione tra i patrioti italiani che avevano accolto Bonaparte come un liberatore.
Ciò detto, si deve anche ricordare che tanto nella Cisalpina che nelle altre repubbliche
nate in questa fase vengono emanate leggi, ispirate alla legislazione rivoluzionaria
francese, che hanno un grande rilievo modernizzante. Così, ad esempio, il Direttorio
della Cisalpina, appena insediatosi, emana – nell’estate del 1797 – un pacchetto di
decreti con i quali si aboliscono i fedecommessi e le primogeniture, si proibiscono
i lasciti ai patrimoni ecclesiastici, si equiparano le femmine e i maschi nelle successioni
intestate, si stabilisce la maggiore età a 21 anni, si introduce il matrimonio civile.
Il 3 ottobre del 1797 il Direttorio emana un altro importante decreto che riorganizza
la vita religiosa della Cisalpina, stabilendo che i vescovi siano nominati dal Direttorio,
prestino giuramento al Governo e accettino gli ordinamenti repubblicani e che i parroci
siano eletti dalle assemblee dei cittadini attivi. Nel 1798 si procede poi all’operazione
di soppressione di tutti gli ordini e corporazioni religiose e all’incameramento dei
loro beni. Ma anche la vita di altre repubbliche è caratterizzata da una produzione
normativa profondamente innovativa. Ad esempio, la Repubblica napoletana, che dura
solo dal gennaio al giugno 1799, fa in tempo a emanare una legge che abolisce fedecommessi
e primogeniture (29 gennaio 1799) e ad approvare (ma non a mettere in esecuzione)
una legge che abolisce tutti i diritti feudali, che nel Mezzogiorno continentale erano
attivi su una larghissima parte del territorio.
La fine di un’esperienza
Sia l’aspetto aggressivo (le violenze, le estorsioni, la presenza dei reparti militari)
che l’aspetto modernizzante della presenza francese in Italia sollecitano una vastissima
ostilità tra le popolazioni della penisola, e specialmente tra le popolazioni rurali,
che di tanto in tanto, nel corso del Triennio, danno vita ad altri disordini, ad altre
insorgenze, che si aggiungono a quelle – già molto violente – che avevano accolto
i francesi «liberatori». Ma la situazione precipita completamente quando, nel marzo
del 1799, gli eserciti austriaco e russo sferrano una poderosa offensiva contro i
francesi nella pianura padana: le truppe austro-russe, già autonomamente capaci di
battere i francesi, sono precedute o aiutate da una quantità di insurrezioni che scoppiano
in varie parti della penisola, nel Polesine, in Toscana (dove operano le armate dei
Viva Maria), in Piemonte, e nel Napoletano (dove il cardinale Fabrizio Ruffo riesce a costituire
un’armata, detta della Santafede, composta da contadini e da civili, e a condurla vittoriosamente dalla Calabria a
Napoli): le ragioni che accendono queste rivolte sono varie e mutano da luogo a luogo,
ma una cifra in comune ce l’hanno: sono ribellioni animate dal desiderio di difendere
aspetti delle vita sociale che alimentano identità tradizionali, come i privilegi
delle comunità locali o l’integrità e i valori della Chiesa cattolica (delle sue gerarchie,
delle sue liturgie, dei suoi dettati dogmatici) dagli attacchi della legislazione
delle repubbliche democratiche (documento 4).
Le istituzioni (e le armate) repubblicane vengono abbattute dovunque con sconcertante
rapidità: entro dicembre 1799 la presenza francese è limitata alla sola Genova, posta
sotto assedio; in tutto il resto della penisola le repubbliche sono abolite per far
spazio al ritorno degli antichi sovrani, talora accompagnati da un vero, selvaggio
bagno di sangue, come a Napoli, dove più di cento patrioti (tra cui Eleonora Fonseca
Pimentel) sono giustiziati, senza contare coloro che sono massacrati dagli uomini
della Santafede subito dopo l’occupazione della città.
Capitolo secondo. L’età napoleonica (1800-1815)
Nuove speranze
Gli anni che vanno dal crollo del sistema repubblicano all’istituzione della Repubblica
italiana (1802) non cancellano del tutto l’attività politica e l’opera pubblicistica
dei patrioti che si erano salvati dal patibolo o dalle carceri borboniche e asburgiche.
Nell’estate del 1799 diversi di costoro – rifugiatisi in Francia – fanno pervenire
al Direttorio francese appelli per una ripresa dell’azione militare in Italia, in
vista della costituzione di una repubblica italiana unitaria. Il ritorno di Napoleone
dall’Egitto e il colpo di stato del 18 brumaio anno VIII (9 novembre 1799), che introduce
in Francia il regime consolare, invece di attenuare le loro speranze, le rafforza.
In effetti, consolidata la sua posizione con l’emanazione della costituzione dell’anno
VIII, che lo proclama primo console, Napoleone procede rapidamente a organizzare un
esercito che, nel maggio del 1800, scende in Italia attraverso il Gran San Bernardo.
Poco più tardi (14 giugno) i francesi sconfiggono gli austriaci nella battaglia di
Marengo, che apre la Lombardia e l’Emilia a una nuova occupazione francese. Viene
ricostituita provvisoriamente la Repubblica cisalpina, che da settembre è ingrandita
del Novarese e della Lomellina. Qualche mese dopo, il 9 febbraio 1801, la pace di
Lunéville riconferma le linee essenziali di accordo con l’Austria, fissate nel 1797
a Campoformio, salvo che ora alla Cisalpina vengono aggregati anche territori veneti
fino alla riva destra dell’Adige (il Veronese, metà della città di Verona e Rovigo).
Coi trattati di Sant’Idelfonso (1° ottobre 1800) e di Aranjuez (21 marzo 1801) tra
Francia e Spagna, a Ludovico di Borbone-Parma viene assegnata la Toscana col titolo
di re d’Etruria, mentre suo padre, Ferdinando, resta a Parma fino alla sua morte (ottobre
1802), dopodiché Parma viene governata come un possedimento francese. Al Regno d’Etruria
viene annesso lo Stato dei Presìdi, mentre Piombino e l’Elba sono annessi alla Francia
nel 1802. Il 12 aprile 1801 il Piemonte – occupato dai francesi – diventa una «divisione
militare francese». La Sardegna, però, protetta dalla flotta inglese, resta ancora
in mano ai Savoia. A conclusione di questa nuova fase espansiva, nell’autunno del
1801 Napoleone decide la convocazione a Lione di una Consulta straordinaria cisalpina,
a cui devono partecipare le personalità socialmente e intellettualmente più autorevoli
dello stato per dare alla seconda Repubblica cisalpina una costituzione e un assetto
istituzionale definitivo.
E così, fin dall’estate del 1800, Milano torna a ospitare i patrioti cisalpini e italiani,
di ritorno dall’esilio o dalle carceri, e diventa, di nuovo, centro di una vivace
discussione politico-intellettuale. Ma, diversamente da quel che era avvenuto nei
tre anni precedenti, ora essa si sostanzia di una riflessione dolorosa e in alcuni
casi acutissima sulle ragioni dell’insuccesso dell’esperienza del Triennio. Comune
è l’opinione che una delle cause del tracollo delle repubbliche sia stata la politica
predatoria che la Francia ha messo in atto nei territori italiani «liberati». La cattiva
amministrazione, la spoliazione sistematica delle ricchezze degli abitanti, la violazione
continua dei diritti personali e di proprietà (che – in una notevole misura – stanno
riprendendo anche nella seconda Cisalpina) sono considerate ragioni fondamentali per
spiegare la diffusa mancanza di consenso alle istituzioni repubblicane. Ma oltre a
ciò si fa strada anche la consapevolezza dell’esistenza di più profonde difficoltà.
È assolutamente evidente, infatti, che i princìpi identitari tradizionali, addensati
intorno ai simboli e ai valori della religione cattolica, cui avevano fatto appello
i nemici dell’esperienza repubblicana (fossero essi preti, nobili o notabili reazionari),
avevano esercitato una presa incomparabilmente più profonda delle discussioni di ingegneria
costituzionale o di filosofia politica che tanto avevano appassionato la pubblicistica
«patriottica» del Triennio: e a niente era servito il tentativo di trasmettere i nuovi
princìpi alle plebi urbane o rurali attraverso la redazione di testi che li illustravano
in forma di catechismi, talora perfino scritti nel dialetto locale.
Dove stava l’errore, dunque? La risposta più acuta, e a lungo più influente, viene
da un libro scritto da un esule napoletano di 31 anni, Vincenzo Cuoco, pubblicato
a Milano nel 1801: il Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli. Riflettendo, nella forma di una ricostruzione storico-cronachistica, sulle ragioni
dell’insuccesso della Repubblica napoletana del 1799, alla cui vita egli stesso aveva
preso parte, Cuoco scrive un testo al cui centro sta l’auspicio di uno stato italiano
unitario e indipendente, che possa dar prova di una solidità ben maggiore di quella
palesata dalle repubbliche del Triennio (documento 5).
La Rivoluzione francese – scrive Cuoco al riguardo – ha avuto una sua interna necessità,
e quindi una sua legalità, poiché «il suo primo oggetto fu quello di rimediare a’
mali della nazione». È vero che dopo il regicidio «la causa della libertà» divenne
«la causa degli scellerati»; ma, nonostante ciò, la rivoluzione aveva aperto la prospettiva
di nuove libertà, sconosciute nell’antico regime, aveva fatto irrompere nella storia
le forze popolari e aveva mostrato che il segreto delle rivoluzioni sta nel saper
riconoscere ciò che il popolo vuole, e farlo, per fermarsi quando «il popolo più non
vuole».
A Napoli invece – continua Cuoco – i patrioti hanno imposto delle istituzioni costituzionali
totalmente ricalcate su quelle francesi, e perciò del tutto estranee allo spirito
della nazione napoletana. Formatisi su modelli stranieri, essi non conoscevano davvero
quali fossero i caratteri e le idee della nazione; per questo non sono stati in grado
di prendere decisioni che risultassero attraenti per le plebi urbane e rurali; per
questo quella di Napoli è stata una «rivoluzione passiva», ovvero una rivoluzione
non solo imposta dall’arrivo delle truppe di Championnet, ma passivamente subita da
un popolo che non ne ha capito i valori o i princìpi.
Della natura della nazione napoletana Cuoco distingue tre componenti: a) c’è la nazione nel suo complesso, caratterizzata da usi, costumi e abitudini comuni
(il «fondo istesso della nazione»), e a questo aspetto fondamentale deve ispirarsi
la costituzione; b) tuttavia la nazione – oltre ad avere un indistinto fondo comune – è anche caratterizzata
da una pluralità di caratteri territoriali (le «tante diverse nazioni»); c) infine, la nazione deve essere distinta non solo dal punto di vista territoriale,
ma anche dal punto di vista socio-politico: ci sono le élite («la parte colta») e
c’è il popolo inconsapevole (gli «incolti») (documento 6).
Che tipo di conseguenze politico-costituzionali sarebbe stato necessario trarre da
tutto ciò? Per rispettare la natura e le istituzioni della nazione – scrive Cuoco
– i rivoluzionari avrebbero dovuto introdurre dei parlamenti territoriali, municipali,
con il compito di amministrare il territorio; tuttavia – una essendo la nazione –
si sarebbe dovuto eleggere anche un parlamento nazionale, il cui compito avrebbe dovuto
essere quello di emanare le leggi di portata generale; infine, tenendo fede alla terza
componente descrittiva, ovvero lo sdoppiamento della comunità nazionale dal punto
di vista socio-politico, nei parlamenti avrebbero dovuto avere il diritto di votare
solo i maggiori di 30 anni, sposati o vedovi, che avessero saputo leggere e scrivere,
che avessero prestato servizio militare e che avessero posseduto dei beni o esercitato
un’industria o un’arte non «servile». Questa ipotesi costituisce una rottura rispetto
alle posizioni espresse dai patrioti del Triennio, per i quali la partecipazione di
tutto il «popolo» alle pratiche della rappresentanza è un imperativo categorico. Tuttavia,
anche questa più ristretta sfera pubblica, popolata da élite relativamente ricche
e colte, deve conservare la sua compattezza, che per Cuoco non dovrebbe essere turbata
dall’esistenza dei partiti: «I partiti – scrive l’autore – corrompono l’uomo, e l’uomo
corrompe la nazione [...] i faziosi (importa poco di qual partito siano: è fazioso
chiunque non sia del partito della patria) trionfano».
Nel suo Saggio Cuoco osserva il profilo della comunità nazionale, il suo multiforme carattere, uno
e trino, in un certo senso. Ma se questa operazione appare efficace e densa di implicazioni
politico-costituzionali, ancora oscuri restano i nessi storico-sociali tra le parti
costitutive della comunità fondamentale, così come malcerte ne restano le qualità
connotative specifiche. Che cos’è, in definitiva, una nazione per Cuoco? Questo è
un interrogativo chiave; ma egli non vi si sofferma con cura, né affronta esplicitamente
un altro tema che deve necessariamente sottendere la sua posizione politica filounitaria,
ovvero il rapporto (di inclusione o di identità) tra la nazione napoletana e la nazione
italiana. Il Saggio è scritto in uno stile argomentativo che appartiene ancora all’atmosfera del Triennio,
nel senso che anche Cuoco non è affatto interessato a descrivere in dettaglio la natura
del soggetto politico fondamentale che prende in esame (la nazione), mentre mostra
una trascinante passione per l’analisi storica e politico-costituzionale. Si ha così
che nel suo testo, ancora di più che nei saggi del Triennio, la nazione, data dalla
comunanza di tratti culturali essenziali (i costumi, gli usi, le tradizioni), è l’architrave
concettuale che deve reggere tutto il sistema politico; ma allo stesso modo che nei
saggi del Triennio, anche nel libro di Cuoco restano oscuri proprio i suoi tratti
specifici e inconfondibili.
Nonostante ciò, l’enunciato fondamentale del Saggio, secondo cui le istituzioni di uno stato devono essere coerenti con i caratteri della
nazione, entra con forza nel dibattito politico di questi anni e riemerge come elemento
centrale del ragionamento svolto da un altro giovane esule, anch’egli attivamente
partecipe alla vita politica del Triennio, Ugo Foscolo, che tra novembre e dicembre
1801 scrive l’Orazione a Bonaparte pel Congresso di Lione, edita poi a Milano nell’estate del 1802.
Il testo è strutturato in due grossi blocchi: nel primo si ricordano a Napoleone le
debolezze della prima Cisalpina, come esempio di ciò che ora si deve evitare; nel
secondo si illustrano i princìpi fondamentali a cui Napoleone dovrebbe attenersi nella
rifondazione della Repubblica. L’argomentazione della prima parte è essenzialmente
questa: la prima Cisalpina, come le altre repubbliche del Triennio, ha avuto una vita
stentata e piena di contrasti perché essa non è mai stata veramente libera; come le
altre, anche questa repubblica è stata, infatti, uno stato fantoccio nelle mani dei
militari francesi (e nel testo ci sono riferimenti molto precisi ai colpi di stato
della Cisalpina, come alle modalità e ai contenuti delle costituzioni che quella Repubblica
aveva avuto). Il senso di tutta questa parte è riassunto in questa considerazione:
«Quella è inutile e perniciosa costituzione che fondata non sia su la natura, le arti,
le forze, e gli usi del popolo costituito».
Tutti questi errori debbono essere evitati, e ora – dice Foscolo – da Bonaparte ci
si deve aspettare una rifondazione della Cisalpina su basi molto diverse da quelle
del Triennio. Occorre riformare la giustizia, allontanare gli eserciti stranieri,
punire i ladri, riorganizzare bilancio e finanze dello stato, ristabilire l’ordine
pubblico; tutto ciò avrà come conseguenza un ritorno della prosperità economica, e
con essa del consenso al nuovo regime, che sarà rafforzato dall’organizzazione di
un esercito di cittadini. Ma c’è una cosa che è veramente fondamentale, ovvero – dice
Foscolo – che Bonaparte garantisca la libertà della Repubblica: «E col popolo tutto
io chiamo nostra libertà il non avere (tranne Bonaparte) niun magistrato che italiano
non sia, niun capitano che non sia cittadino. [...] No; non v’è libertà, non sostanze,
non vita, non anima in qualunque paese e con qualunque più libera forma di governo,
dove la nazionale indipendenza è in catene».
Osserviamo, in sintesi, i principali elementi strutturali di questo testo: a) l’obiettivo esplicitamente perseguito è la costruzione di uno stato italiano; b) ciò è richiesto in virtù della presupposizione dell’esistenza di una nazione italiana,
di cui va garantita indipendenza e libertà; c) in questo ragionamento Foscolo non opera la distinzione presente in Cuoco fra la
nazione nel suo complesso e le due componenti del popolo (le élite e gli strati inferiori);
egli resta più rigorosamente fedele alla prevalente connotazione democratica che i
termini «nazione» e «popolo» avevano avuto nel dibattito del Triennio, cosicché non
solo c’è eguaglianza tra popolo e nazione, ma tale soggetto ha una forma olistica
(unitaria e indivisibile); d) il che conduce anche lui – ma con maggior coerenza di Cuoco – a criticare aspramente
gli effetti che derivano dalle divisioni partitiche, osservando che, nel nuovo stato,
ci si dovrà salvaguardare «dalla rabbia delle parti; ché le parti là regnano dove
uno, assoluto, universale non è il governo».
Nondimeno appare necessario notare ancora un medesimo aspetto già osservato per il
Saggio, ovvero che la nazione italiana, anche qui, è più evocata che descritta, cosicché
resta ancora incerto che cosa debba sostanziarla, che cosa costruisca l’invisibile
cemento che la tiene insieme.
Napoleone e l’Italia
Non diversamente che nel Triennio, anche nei primi anni dell’Ottocento le aspettative
o le speranze dei patrioti vanno deluse. Sebbene a conclusione dei Comizi di Lione
(26 gennaio 1802) la Repubblica cisalpina cambi nome e si chiami Repubblica italiana,
con presidente Napoleone e un vicepresidente italiano, Francesco Melzi d’Eril, due
delle richieste più volte formulate dagli animatori dell’opinione «patriottica» vengono
programmaticamente disattese. La costituzione che Napoleone dà alla Repubblica italiana
(formalmente approvata dai Comizi di Lione, ma scritta sulla base di sue indicazioni
personali) non lascia più nemmeno gli spazi formali di libertà che erano previsti
dai testi costituzionali del Triennio; tutto il potere si concentra nelle mani del
presidente Bonaparte, o in sua assenza del vicepresidente Melzi, mentre l’organismo
legislativo non è più espresso da consultazioni elettorali, e ha comunque un’autonomia
assai ridotta anche nell’elaborazione delle leggi.
Inoltre, le successive iniziative militari di Napoleone portano la Francia (divenuta
nel 1804 un impero ereditario sotto il suo dominio) a conquistare – tra 1806 e 1809
– tutta l’Italia continentale, senza tuttavia mai unificarla in un unico stato indipendente.
Al momento della massima espansione francese la carta politica dell’Italia può essere
divisa in cinque sezioni fondamentali (fig. 2).
1) Vi sono alcuni territori che sono direttamente annessi alla Francia: il Piemonte
(dal 1802), la Liguria (che dal 1802 è costituita in Repubblica ligure ed è annessa
nel 1805), la Toscana (che nel 1801 è costituita in Regno d’Etruria ed è annessa nel
1807), Parma (occupata nel 1802 e annessa nel 1808), l’ex Stato Pontificio (occupato
nel 1808 e annesso nel 1809, mentre Pio VII – succeduto a Pio VI nel 1800 – viene
arrestato il 6 luglio 1809 e deportato a Savona e poi in Francia).
2) Il territorio della ex Repubblica cisalpina, progressivamente ampliato fino a includere
l’ex Stato di Milano, il Veneto, il Trentino e il Tirolo, l’ex Ducato di Modena, Bologna
e la Romagna, le Marche. Questo stato cambia natura per tre volte: si chiama ancora
– come si è visto – Repubblica cisalpina dal 1800 al 1802; nel 1802 diventa Repubblica
italiana; nel 1805 diventa infine Regno d’Italia: Napoleone è incoronato re; Eugenio
Beauharnais, figlio di primo letto di Giuseppina, moglie di Napoleone, è viceré.
3) Il Mezzogiorno continentale viene occupato nel 1806 e diventa il Regno di Napoli;
Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, ne è il re fino al 1808, quando viene richiamato
in Spagna; lo sostituisce uno dei generali di Napoleone, Gioacchino Murat, marito
di Carolina Bonaparte, sorella dell’imperatore.
4) L’ex Repubblica di Lucca (confermata come tale nel 1801) nel 1805 è trasformata,
insieme a Piombino, in un principato autonomo per Elisa Bonaparte, altra sorella di
Napoleone.
5) Ci sono poi Sicilia e Sardegna, che, come nel Triennio, non vengono conquistate
dai francesi e sono sotto il controllo, rispettivamente, dei Borbone e dei Savoia.
Fig. 2. L’Italia nel 1810.
Sebbene le soluzioni adottate da Napoleone deludano l’opinione patriottica italiana,
l’assetto geopolitico da lui imposto alla penisola è carico di grandi novità. Una
appare evidente già dalla carta geografica, e consiste in una enorme semplificazione
delle articolazioni statali, che dalle tredici unità della seconda metà del XVIII
secolo sono ora ridotte a sei. La cosa ancora più rilevante è che, seppure articolata
in tre sezioni principali (i territori annessi, il Regno d’Italia, il Regno di Napoli),
la parte continentale della penisola ha – per la prima volta da secoli – assetti normativi
e istituzionali omogenei, ricalcati direttamente dal modello francese (che, com’è
ovvio, nei territori annessi è direttamente operativo).
Imperniati su forme costituzionali che attribuiscono al sovrano e al suo esecutivo
un potere di decisione, direzione e normazione che sopravanza quello di qualunque
altro organismo formalmente presente, gli stati napoleonici completano il loro assetto
rigorosamente centralizzato con una ridefinizione delle strutture amministrative.
Gli organismi amministrativi locali (distinti in comuni, distretti e dipartimenti,
o province) sono composti da personale selezionato dal sovrano o dalle autorità burocratiche
periferiche (i prefetti nel Regno d’Italia, gli intendenti nel Regno di Napoli), che,
a loro volta, sono direttamente scelti dai governi centrali, dai quali interamente
dipendono. Ciascuno degli stati napoleonici assiste a un riordino delle istituzioni
giudiziarie, articolate ora in tre livelli, dagli organismi giudiziari o dai tribunali
di primo grado (preture, tribunali civili e penali), alle corti d’appello, al grado
supremo costituito dalla Corte di cassazione. In ciascuno di essi vengono introdotti,
quasi sempre in traduzione dall’esemplare francese, salvo modesti aggiustamenti, i
codici normativi: il codice civile (introdotto nel 1806 nel Regno d’Italia e nel 1809
nel Regno di Napoli), il codice penale (1810 Regno d’Italia, 1812 Regno di Napoli),
il codice commerciale e i codici di procedura civile e penale. Il sistema fiscale
è riorganizzato in quattro imposte dirette principali (la fondiaria, basata sui catasti
in via di riordino o di prima costituzione proprio in questi anni; la personale, sui
redditi da «ricchezza mobile»; la patente, per i commerci e le professioni libere;
l’imposta di registro, sui contratti e sulle successioni). Tanto nel Regno d’Italia
che in quello di Napoli viene organizzato un esercito autonomo, attraverso il sistema
della coscrizione. Il concordato con la Santa Sede, che la Francia aveva stipulato
nel 1801, viene sottoscritto anche dalla Repubblica italiana (e poi conservato per
il Regno) nel 1803.
Ovunque vengono aboliti o limitati i privilegi cetuali (e tra di essi le norme successorie
riservate ai gruppi nobiliari, i fedecommessi, i maggioraschi ecc.). Nel Regno di
Napoli, poi, con la legge 2 agosto 1806 si aboliscono le giurisdizioni feudali, i
diritti proibitivi e alcune prerogative fiscali, norma di grandissimo rilievo, vista
l’enorme diffusione che questi privilegi ancora avevano nel Mezzogiorno continentale,
a differenza delle altre aree della penisola. La legge 1° settembre 1806, poi, stabilisce
che i demani feudali, comunali ed ecclesiastici (cioè le aree di proprietà riservate
a usi civici, come il diritto di semina, di raccolta del legname, di pascolo ecc.)
debbano essere divisi tra gli antichi titolari e i membri dei comuni che avevano goduto
degli usi civici; la parte di spettanza comunitaria deve, a sua volta, essere divisa
in quote da assegnare agli abitanti, in ragione dei diritti che potevano aver avuto
sulle terre demaniali, contro il pagamento di un canone annuo destinato ai comuni.
La legge, come scrive il ministro dell’Interno, Giuseppe Zurlo, «ha voluto levare
al rango di proprietari la classe indigente dei cittadini [cioè i contadini poveri]».
Ma, in effetti, fin dall’inizio la sua applicazione – affidata prima a commissari
ripartitori operanti a livello provinciale e poi agli intendenti – risulta tecnicamente
complicata; spesso è anche ostacolata proprio dalle autorità locali che dovrebbero
cooperare alla sua attuazione, ovvero gli amministratori dei comuni, che tentano,
in molti casi con successo, di appropriarsi, a beneficio proprio o di loro collegati,
delle terre comunali, senza redistribuirle agli aventi diritto; in altri casi ancora,
capita che i contadini che ricevono una quota e che, per questo, si trovano costretti
a pagare il canone al comune e l’imposta fondiaria sulla nuova proprietà, non riescano
a far fronte ai nuovi impegni finanziari e la rivendano a proprietari più ricchi.
In generale e sul più lungo periodo, solo in misura minima la divisione dei demani
riesce a raggiungere gli obiettivi immaginati dai suoi autori, mentre la sua mancata
realizzazione darà luogo a tensioni e contestazioni talora anche molto violente, aprendo
nel Mezzogiorno d’Italia quella che sarà chiamata, appunto, la «questione demaniale».
In concorrenza polemica con le trasformazioni in atto nel Regno di Napoli, e su sollecitazione
delle autorità inglesi, che vi avevano stabilito una sorta di protettorato politico
e militare, anche la Sicilia borbonica attraversa in questi anni un periodo di importanti
trasformazioni. Nel 1812 l’antico Parlamento siciliano viene completamente riformato
sulla base di una costituzione da esso stesso approvata: si introduce, così, un sistema
parlamentare modellato su quello inglese, con una Camera dei pari, nobiliare ed ereditaria,
e una Camera dei comuni, elettiva e censitaria. La stessa costituzione, inoltre, abolisce
le giurisdizioni feudali, in genere con un indennizzo, autorizza la quotizzazione
degli usi civici e lascia in vigore i fedecommessi, limitati, tuttavia, a un quarto
dei beni posseduti da ciascun pari del Regno.
In alcuni casi questa complessa riorganizzazione normativa e istituzionale viene accolta
con favore. Molti giovani intellettuali, diversi dei quali con un passato di militanza
repubblicana, trovano spazio nei ruoli delle nuove burocrazie centrali o periferiche
degli stati napoleonici, che, in questo periodo, sono in piena espansione numerica
e offrono, talvolta, anche ottime occasioni di carriera. Molti imprenditori, commercianti,
finanzieri o proprietari terrieri colgono l’occasione dell’ingente vendita di beni
ecclesiastici, requisiti e venduti dagli stati per far fronte alle esigenze di bilancio,
e così si dotano di importanti patrimoni terrieri che trasformano in una base per
un’ulteriore ascesa sociale loro o dei loro figli. Non mancano, d’altronde, casi di
famiglie nobiliari messe in crisi dall’abolizione dei sistemi di protezione dei patrimoni
(fedecommessi e maggiorascati), sebbene non si possa dire che si configuri una generale
crisi patrimoniale delle nobiltà italiane. A ciò si aggiunga che i regimi napoleonici
non seguono affatto una politica di emarginazione o di aggressione al ruolo sociale
e politico delle élite di antico regime, che, invece, insieme ai nuovi ricchi di estrazione
borghese, vengono largamente cooptate negli organi di governo, tra gli ufficiali dell’esercito
o negli apparati burocratici dello stato.
Tendenze antifrancesi
Il più forte disagio sociale nasce, semmai, dal duro regime fiscale cui gli stati
napoleonici sottopongono i propri contribuenti, anche in ragione delle esigenze militari
cui direttamente o indirettamente sono tenuti a far fronte a sostegno delle iniziative
della Francia consolare o imperiale. Inoltre, anche l’introduzione dei sistemi di
coscrizione obbligatoria suscita reazioni duramente negative: il numero dei coscritti
che disertano o fuggono dagli acquartieramenti, spesso per unirsi a bande di briganti,
è costantemente molto elevato per tutto il periodo, mentre il fenomeno del brigantaggio,
insieme a occasionali episodi di insorgenza, costituisce una delle maggiori preoccupazioni
per le autorità preposte al controllo dell’ordine pubblico, tanto al Nord quanto al
Sud.
Accanto a queste forme di ribellione sociale, se ne fa strada anche un’altra, di natura
molto diversa, che vede il consolidarsi e il diffondersi di sentimenti nazionali antifrancesi
tra una parte almeno dei ceti colti italiani, attraverso un primo tentativo di costituzione
di associazioni segrete con intenti filounitari e antibonapartisti.
Le non molte testimonianze in merito parlano di una Società dei raggi, che sarebbe
nata nella Cisalpina nel 1798 dopo uno dei colpi di stato compiuti dalle autorità
francesi, per riorganizzarsi dopo Marengo con una duplice sede, a Milano e a Bologna.
All’attività di questa rete clandestina si devono alcuni episodi che preoccupano le
autorità francesi e il vicepresidente della Repubblica italiana, Melzi, fra cui un
tentativo di congiura che sarebbe stato organizzato a Bologna nel 1802. Il 1° febbraio
1803 Marescalchi, ministro degli Esteri della Repubblica italiana, scrive a Melzi
dicendogli che – secondo le sue fonti di informazione – nella penisola «serpeggia
una specie di nuova setta, che riunisce varii partiti [...] si sa che questa setta
ha dei capi e che sotto l’apparenza di tendere a riunire tutta l’Italia in una sola
Nazione essa si è prefissa di stare attenta alla prima occasione di staccarsi interamente
dalla Francia e pervenire al suo fine per qualunque mezzo». Nella sua risposta del
16 febbraio 1803, Melzi osserva:
Costoro, parte cacciati dalle lor case, parte privi di mezzi di sussistenza, pieni
la testa delle dottrine che i Francesi portarono in Italia, sono in uno stato di fermento
feroce. Nemici de’ francesi, perché si dicono ingannati da loro. Nemici di Bonaparte,
perché è il più grande ostacolo che trovano al completamento de’ loro voti. Nemici
miei e del governo attuale in Italia, perché professa opinioni e sentimenti tutti
diversi dalle loro e non gli dà speranza di secondarli a rovesciar Roma, a rovesciar
Napoli, a rivoluzionar tutta l’Italia, ciò che è lo scopo più caro di tutti i loro
voti.
A quell’epoca, tuttavia, la Società dei raggi ha già cominciato a perdere compattezza,
divisa com’è, fin dalla convocazione dei Comizi di Lione, sull’alternativa tra la
soluzione di inserire dei membri della setta in posti di responsabilità all’interno
delle strutture dello stato napoleonico in formazione e quella di continuare, invece,
nell’opera di consolidamento e ampliamento della società segreta. Il contrasto sull’alternativa
da adottare porta a una scissione all’interno della Società dei raggi e a una sua
successiva dispersione, almeno fino agli anni di crisi del sistema napoleonico (documento 7).
D’altro canto, proprio nel 1803 le autorità della Repubblica italiana procedono a
un duro giro di vite, con l’allontanamento dai ruoli della burocrazia dei sospetti
di collusioni con la rete settaria, decisione che contribuisce al suo ulteriore indebolimento.
Al tempo stesso, la possibilità di esporre con chiarezza e in modo diretto opinioni
politiche difformi dalla volontà di Napoleone si chiude completamente. La censura
sulla stampa si fa più severa e non lascia spazio per la pubblicazione di testi politici
di opposizione; ciò significa che la discussione di ipotesi di ingegneria costituzionale
o geopolitica, che così tanto aveva appassionato giornalisti, letterati o aspiranti
leader politici tra 1796 e 1802, svanisce irrimediabilmente e, salvo brevi interludi,
non si aprirà più né negli anni immediatamente seguenti, né dopo la caduta di Napoleone,
fino almeno al 1846.
L’attività pubblica degli intellettuali di orientamento nazional-patriottico è costretta
dunque ad abbandonare il terreno del saggio o del pamphlet politico-costituzionale
per rivolgersi verso altri media e verso altri temi di opposizione: la narrativa e
l’opera poetica o teatrale, da un lato, e la riflessione sulle origini storiche della
nazione italiana, dall’altro. E a queste soluzioni si rivolgono, fra gli altri, anche
Foscolo e Cuoco, producendo, in questa diversa veste, lavori che hanno un impatto
emotivo sul pubblico dei lettori colti che è perfino maggiore di quello riscosso dai
loro interventi saggistici.
Narrazioni patriottiche
Il primo passo, da questo punto di vista, è costituito da quello straordinario hit narrativo dell’epoca che sono le Ultime lettere di Jacopo Ortis, di Ugo Foscolo, pubblicate a Milano nell’ottobre del 1802. Il romanzo narra, in
forma epistolare, le vicende del giovane Jacopo a partire dall’ottobre del 1797 quando,
costretto alla fuga da Venezia dopo Campoformio per le sue idealità patriottiche,
si rifugia sui Colli Euganei. Lì incontra Teresa, figlia del signor T., e se ne innamora;
la ragazza, tuttavia, è già stata promessa in sposa a Odoardo, un marchese, con il
quale Jacopo non può competere né per status sociale, né per sostanze patrimoniali. Tormentato dalla rabbia impotente che gli
deriva dal non poter soddisfare, al tempo stesso, il suo amore per Teresa e quello
per la sua patria, Jacopo si mette in viaggio per un’Italia oppressa dovunque dalla
prepotenza straniera. Non lo consolano né le bellezze d’Italia, né il ricordo delle
sue glorie, testimoniate dalle tombe dei grandi, Dante, Petrarca, né l’affettuoso
incontro col Parini. Dopo due anni torna nella sua terra, dove Teresa ha intanto sposato
Odoardo, e qui, disperato, si uccide.
Con memorabile colpo di genio Foscolo intreccia il tema, assai di moda, dell’amore
romantico e infelice con quello dell’amore patriottico, individuando, inoltre, una
serie di immagini che torneranno ancora molte volte nell’elaborazione del mito nazionale.
Se, in una forma che riprende modelli conosciuti già in epoca moderna, la nazione
italiana è definita come una comunità oppressa da popoli e tiranni stranieri e alla
disperata ricerca della libertà, essa è qui descritta anche attraverso il profilo
di un singolo eroe, dotato di una propria vicenda terrena e di sentimenti caldi e
appassionati; è, Jacopo, un eroe tanto puro quanto sfortunato, poiché destinato a
una fine infelice, ma proprio per ciò capace di appassionare, commuovere e offrire
un esempio che aspetta di essere riscattato (documento 8). La figura dell’eroe è inoltre proiettata nel passato della nazione, di cui le
gesta dei grandi uomini sono una testimonianza che il culto dei loro sepolcri deve
conservare viva per la formazione delle future generazioni. E che i grandi siano intellettuali
che hanno prodotto opere in italiano colto è una soluzione narrativa che dà all’idea
della nazione italiana, nel complesso all’epoca ancora in competizione con altri sentimenti
di appartenenza territoriale, un punto di ancoraggio robusto e perfettamente riconoscibile:
l’esistenza di una tradizione letteraria in volgare italiano è l’unico elemento concreto
a cui gli intellettuali di questi anni si possono appigliare per sostenere la necessità
di lottare e di sacrificarsi per l’Italia; e Foscolo lo fa con una maestria che impone
il suo libro come uno dei testi di riferimento del patriottismo italiano. Opere o
interventi seguenti non faranno che rielaborare, con vigore o con eleganza estetica,
nuclei tematici già abbozzati nelle Ultime lettere; e così in Dei sepolcri, carme scritto nel 1806 e pubblicato a Brescia nel 1807, di nuovo esplora il tema
del culto delle tombe dei grandi come una necessità civile per l’edificazione di una
memoria comunitaria, mentre il discorso di apertura al corso di Eloquenza, tenuto
all’Università di Pavia il 22 gennaio 1809 davanti a un pubblico folto ed entusiasta,
riafferma la necessità che ci si dedichi finalmente con passione vera ad amare e a
narrare la storia d’Italia, delle sue grandezze letterarie, del suo passato splendore
(documento 9).
Proprio nella direzione della rievocazione storica del passato italico si muove anche
Vincenzo Cuoco, con la pubblicazione di un denso romanzo in tre volumi, il Platone in Italia, edito a Milano tra 1804 e 1806. Il libro narra di un viaggio che Platone e Cleobolo
compiono dalla Grecia in Italia, del loro peregrinare per la parte meridionale della
penisola, delle conversazioni con saggi e potenti locali e delle scoperte che essi
fanno sull’antica storia d’Italia. Nel testo Cuoco non manca di tornare su questioni
di cui aveva discusso nel suo Saggio del 1801, facendo esporre all’uno o all’altro dei suoi personaggi alcune delle massime
costituzionali che lì aveva già descritto. Insiste, dunque, sulla necessità che gli
ordini politici siano coerenti con la natura territoriale e culturale dei popoli (documento 10); che si adotti una costituzione che – attuando un’equilibrata divisione dei poteri
– lasci tuttavia spazio adeguato alle élite politiche e intellettuali (documento 11); ma soprattutto enuncia la convinzione, fantastica ma mitograficamente efficace,
di un antico primato filosofico, intellettuale e politico dell’antichissima Italia,
dalla quale perfino la Grecia avrebbe tratto i semi formativi della sua civiltà (documento 12). Ciò che aveva fatto perdere all’Italia questa sua supremazia erano state le
divisioni, gli odi intestini, l’incapacità di mantenere viva l’unità; ma non si era
ancora persa la supremazia degli italiani nel campo della sapienza: «chiunque vede
lo stato fiorente delle scienze in Italia – così Cuoco conclude il suo libro – è costretto
a confessare ch’esse dagl’italiani sieno state coltivate prima de’ greci; e, se paragona
le storie delle due nazioni, è costretto a confessare che non senza ragione gli antichi
chiamarono l’Italia talora Grecia grande, tal altra Grecia antica». Italia e Grecia,
o Italia e Francia? La finzione letteraria non deve confondere – suggerisce l’autore
ai suoi lettori nelle prime pagine del libro –, cosicché gli italiani potranno certo
vedere nella storia del viaggio di Platone molte analogie e molti contatti con la
recente storia d’Italia.
Il crollo dei regni napoleonici
Non si deve certo esagerare l’impatto di opere come quelle di Foscolo e di Cuoco,
e di altre dello stesso tenore che in questi anni cominciano ad essere pubblicate;
nondimeno, a testimonianza del rilievo che la questione nazionale sta cominciando
ad assumere, va osservato che il crollo del sistema napoleonico è attraversato da
una considerevole e varia quantità di espliciti appelli all’unificazione nazionale
o alla costruzione di uno stato unitario, lanciati dai soggetti più diversi e, a volte,
imprevedibili.
La ritirata da Mosca, cui la Grande Armée di Napoleone viene costretta nell’autunno del 1812, coinvolge anche i due maggiori
stati italiani che hanno partecipato all’impresa con due nutriti contingenti guidati,
rispettivamente, dal viceré d’Italia, Eugenio Beauharnais, e dal re di Napoli, Murat.
Nel giugno 1813 la formazione di una nuova coalizione antinapoleonica imperniata su
Gran Bretagna, Prussia, Russia e Svezia rende il quadro politico-militare davvero
preoccupante per le forze napoleoniche; e ancor più cupe sembrano le prospettive quando,
nell’agosto di quello stesso anno, anche l’Austria si unisce alla coalizione. Dopo
qualche non decisivo successo militare francese, la sconfitta patita dall’esercito
napoleonico a Lipsia (16-19 ottobre 1813) segna in modo definitivo le sorti dello
scontro: ai primi di novembre ciò che resta della Grande Armée è in ritirata oltre il Reno, incalzata dalle forze della coalizione; contemporaneamente,
l’esercito austriaco muove contro il Regno d’Italia e l’8 novembre, da Trento, il
generale austriaco Hiller indirizza ai «Popoli d’Italia» un proclama nel quale li
invita a insorgere sull’esempio delle popolazioni della Baviera, del Württemberg e
della Sassonia; ancora più significativo è l’invito all’insurrezione lanciato dal
conte Nugent, comandante generale delle forze austriache, con il proclama emesso da
Ravenna il 10 dicembre, nel quale dice: «Dove non sono le milizie nostre liberatrici
appartiensi a voi, coraggiosi e bravi Italiani, il farvi strada con le armi al vostro
risorgimento e al vostro ben essere, sarete in ciò protetti ed assistiti, onde abbattere
l’ostinata resistenza di chi attenta al vostro vantaggio. Avete tutti a diventare
una Nazione Indipendente».
Murat, intanto, tornato a Napoli, avvia delle trattative segrete con gli austriaci
e con gli inglesi, in vista di una sua possibile defezione dal campo napoleonico.
Egli, tuttavia, prima di decidersi al grande passo, tra novembre e dicembre 1813 scrive
una serie di lettere a Napoleone, nelle quali lo informa che «l’Italia è piena di
agitazione. Gli avvenimenti di Spagna e di Germania vi fanno fermentare in tutte le
teste le idee di indipendenza»; per questo è opportuno che Napoleone opti per una
pace immediata con le potenze della coalizione, che preveda, tra l’altro, l’abbandono
delle terre annesse in Italia e la formazione di uno o due regni italiani autonomi,
garanzia di equilibrio tra Francia e Austria. La proclamazione dell’indipendenza italiana,
per la quale – prosegue Murat – i tempi sono maturi, rafforzerebbe la stessa posizione
di Napoleone, perché farebbe sì «che l’Italia, la quale vi deve già la sua prima liberazione,
vi debba ancora il suo sistema politico e la sua indipendenza». Napoleone nemmeno
si cura di rispondergli, e l’11 gennaio 1814 Murat sottoscrive un protocollo di alleanza
con l’Austria che gli garantisce il Regno di Napoli purché impegni il suo esercito
(già in movimento nell’Italia centrale) contro le truppe di Napoleone e di Eugenio
Beauharnais.
A quel punto gli appelli ai popoli d’Italia, alla nazione italiana, alla sua indipendenza,
si susseguono a brevissima distanza di tempo. Il 31 gennaio è il generale napoletano
Carrascosa che da Modena chiama gli italiani all’unione sotto re Gioacchino; il 5
febbraio il maresciallo austriaco Bellegarde in un suo proclama dice giunta l’ora
che anche gli italiani liberino «la loro nazione», presentando l’esercito austriaco,
a capo del quale egli è stato messo, come un esercito di liberatori; il 17 febbraio
è la volta di Nugent che, in qualità di generale delle truppe alla destra del Po,
emette da Parma un proclama che invita i soldati italiani ad arruolarsi in un’armata
italiana che combatta a fianco degli austriaci contro i francesi e contro l’esercito
del Regno d’Italia, per difendere la causa dell’«indipendenza nazionale» italiana;
infine, dopo esser sbarcato a Livorno tra l’8 e il 9 marzo alla guida di truppe anglo-siciliane,
anche lord Bentinck, comandante delle truppe inglesi in Sicilia, emana un suo appello
affinché gli italiani lottino a fianco degli inglesi per conquistare quelle libertà
costituzionali che altri popoli già si sono assicurati.
I soldati dell’esercito del Regno d’Italia si mostrano sordi a questi appelli e restano
a difesa delle terre a ovest del Mincio e a nord del Po. Ma alla fine di marzo le
truppe russe e prussiane entrano a Parigi e ai primi di aprile Napoleone firma a Fontainebleau
il trattato col quale rinuncia al trono francese e accetta di relegarsi nel Principato
dell’isola d’Elba, di cui diventa il sovrano. Come conseguenza immediata, nei pressi
di Mantova, il 16 aprile, viene firmato un armistizio tra il Regno d’Italia e l’Austria,
nel quale viene stabilito che l’Adige sia la linea di demarcazione tra i rispettivi
eserciti e che il destino del Regno d’Italia venga deciso dalle potenze alleate alle
quali Eugenio Beauharnais – allora a Mantova – può inviare una delegazione.
Intanto a Milano la situazione è in grande fermento: i vari proclami lanciati nei
mesi precedenti fanno credere possibile la conservazione di un Regno d’Italia indipendente,
e varie sono le ipotesi che circolano tra i notabili, gli intellettuali, i militari,
i membri delle logge massoniche; c’è chi propende per un’attribuzione della corona
a Murat, c’è chi prende in considerazione l’arciduca Francesco d’Austria-Este, nato
a Milano dall’arciduca Ferdinando d’Asburgo e da Maria Beatrice Cybo d’Este, candidato
ideale quindi, perché d’origine austro-italiana; c’è, infine, chi propende per una
conferma di Eugenio. Quest’ultima, però, non è l’ipotesi più largamente diffusa, posto
il fortissimo sentimento antifrancese e antinapoleonico che circola a Milano. Nondimeno
il 17 aprile Francesco Melzi d’Eril, delegato al Governo da Eugenio, convoca una seduta
del Senato6 per nominare i membri della delegazione da inviare a Parigi con l’incarico di chiedere
l’indipendenza del Regno e proporre come re Eugenio. Ma il Senato, in una riunione
assai tempestosa, si mostra in maggioranza contrario alla persona del viceré. Il 19
aprile viene redatta una petizione, firmata da una quantità di importanti cittadini,
nella quale si chiede la convocazione dei Collegi elettorali, considerati come il
solo organo legittimato a esprimere la volontà della nazione7. Il 20 aprile il Senato si riunisce di nuovo dopo aver ricevuto la petizione; intanto,
fuori della stanza nella quale si svolge la riunione si accalca una folla minacciosa,
dei cui desideri si fa interprete, fra gli altri, il conte Federico Confalonieri,
uno dei più autorevoli sostenitori di un Regno d’Italia indipendente. In fretta e
furia, quindi, il Senato decreta la convocazione dei Collegi elettorali. Nel frattempo
la folla si dirige verso la casa del ministro delle Finanze Prina, che, catturato,
viene sottoposto a un linciaggio di cui Alessandro Manzoni ha lasciato una viva testimonianza.
Alla sera del 20 aprile il Consiglio comunale prende il controllo della situazione
e il giorno dopo nomina una reggenza provvisoria, convocando al tempo stesso i Collegi
elettorali, che si riuniscono il 22 aprile. Nella prima riunione i membri dei Collegi
prendono atto dell’abdicazione di Eugenio (avvenuta frattanto con disposizione del
20 aprile) e ascoltano il discorso d’apertura del presidente, Ludovico Giovio, che
li invita a chiedere alle potenze «istituzioni politiche liberali, un capo indipendente,
che, nuovo, non conosciuto da noi, diventi italiano, e che accolga i nostri voti e
le nostre benedizioni». Nella riunione del 23 aprile i membri dei Collegi nominano
una deputazione da inviare a Parigi (della quale fa parte anche Federico Confalonieri)
e rendono pubbliche le richieste di cui essa deve farsi latrice, tra cui «l’assoluta
indipendenza del nuovo Stato Italiano» e una «Costituzione liberale» (documento 13).
6 Il Senato viene istituito col quinto (1806) e col sesto statuto costituzionale del
Regno d’Italia (1808); è composto da membri di diritto e di nomina regia e ha il compito
di esprimere pareri consultivi sui progetti di legge presentati dal Governo.
7 I Collegi elettorali – divisi in tre sezioni, dei possidenti, dei dotti e dei commercianti
– sono un organo formato per nomina o per cooptazione che ha il compito di nominare
i membri degli altri organismi costituzionali (costituzione della Repubblica italiana,
1802, artt. 10-32; terzo statuto costituzionale del Regno d’Italia, 1805, artt. 11-16).
Le speranze nutrite in quei giorni vanno presto deluse. Né l’imperatore d’Austria,
né il ministro degli Esteri inglese, Castlereagh, né i rappresentanti di Prussia e
Russia si mostrano minimamente disposti alla formazione di un vasto Regno d’Italia
indipendente, neppure limitato entro i confini del Regno napoleonico, perché, come
dice Francesco I d’Austria ai delegati italiani che lo incontrano a Parigi, «Lor Signori
capiranno che essendo il loro paese conquistato dalle mie armi, non vi può essere
né costituzione né deputazione del Regno d’Italia». Sebbene vi siano membri della
delegazione e della reggenza provvisoria che mostrano di apprezzare anche le ipotesi
minimali suggerite dallo stesso imperatore in quell’incontro, che prevedono la formazione
di un Regno di Lombardia incorporato nell’Impero sotto un viceré e con qualche forma
di autonomia, pure Federico Confalonieri tenta ancora un incontro con Castlereagh,
nel quale difende con chiarezza le ragioni della nazione italiana (documento 14), senza però riuscire a ottenere niente.
La pace di Parigi, siglata il 30 maggio 1814, pone le premesse per la riorganizzazione
della carta geopolitica della penisola sotto l’egemonia austriaca, che sarà perfezionata
poi a Vienna, durante il Congresso delle potenze che si aprirà il 1° novembre dello
stesso anno. Il 12 giugno la Lombardia è ufficialmente annessa all’Impero austriaco,
atto che tronca definitivamente ogni residua speranza riguardo a qualche possibile
forma di indipendenza di uno stato italiano. Una congiura indipendentista avviata
a settembre da ex ufficiali del disciolto esercito del Regno d’Italia viene scoperta
e repressa nel dicembre del 1814.
Due mesi dopo è Murat che si fa aperto sostenitore di un progetto di indipendenza
italiana. Dopo la fuga di Napoleone dall’isola d’Elba, Murat – formalmente ancora
alleato dell’Austria, ma assolutamente incerto sulla sorte del suo Regno – decide
di cambiare linea politica e il 15 marzo 1815 dichiara guerra all’Austria. A convincerlo
a questo passo, oltre alla sensazione di insicurezza che gli deriva dagli incerti
rapporti diplomatici che ha con Austria e Gran Bretagna (all’epoca ancora protettrice
della Sicilia borbonica), contribuisce anche il consiglio di autorevoli uomini di
Governo, fra i quali spicca il nome di Vincenzo Cuoco, che – collegati con le logge
massoniche napoletane e probabilmente anche con i gruppi carbonari da qualche anno
molto attivi nel Regno – sono favorevoli alla formazione di un Regno italiano indipendente
e costituzionale. Il 30 marzo Murat emette da Rimini un proclama che fa appello al
sentimento nazionale degli italiani (documento 15) e muove l’esercito verso l’Emilia. L’episodio ha un’assai breve durata. Sconfitto
dagli austriaci ai primi di aprile e poi di nuovo ai primi di maggio, ormai in ritirata,
tardivamente concede una costituzione, che tuttavia non suscita alcuna reazione tra
le popolazioni del Regno. Egli fugge, allora, in Corsica, mentre alla fine di maggio
i suoi generali firmano l’armistizio con gli austriaci. Nell’ottobre dello stesso
anno Murat tenta ancora una disastrosa spedizione in Calabria, per la riconquista
del suo Regno; sbarcato a Pizzo Calabro con pochi uomini, viene subito catturato e,
dopo un processo sommario, viene condannato a morte e fucilato il 13 ottobre.
Fra i governanti, i diplomatici e i militari stranieri che tra 1813 e 1815 operano
nella penisola, non sono pochi coloro che hanno la sensazione che in Italia i sentimenti
nazionali siano ormai largamente diffusi. E così, ad esempio, da Napoli il 20 dicembre
1813 Fouché scrive a Napoleone che in tutta Italia «le parole d’indipendenza e di
libertà hanno assunto virtù magiche», mentre il 31 dicembre 1813 gli scrive:
Erano dei popoli sparsi; Sua Maestà ne ha fatto una nazione e la forza che ha preso
sotto la dominazione di Sua Maestà ne ha accresciuto la fiducia in se stessa. La maggior
parte degli italiani desidera un’esistenza politica. Il re di Napoli se n’è accorto
e metterà ogni cosa in opera per far esplodere ogni dove questa opinione e per unire
se gli è possibile tutte le parti d’Italia.
Considerazioni di questo tipo sopravvalutano sicuramente la diffusione e il radicamento
di quelle convinzioni; sentimenti municipalistici inclinano ancora molti a privilegiare
le ragioni della piccola patria cittadina o regionale, ignorando del tutto quelle
della nazione italiana; altri si sentono a disagio di fronte alla diade nazione-costituzione
che in questi due anni è riemersa con insistenza; altri ancora – specie nelle campagne
– ignorano del tutto quei discorsi o quei valori. Tuttavia, ora c’è anche un certo
numero di persone che condivide pienamente ciò che Ludovico di Breme scrive a Federico
Confalonieri il 16 maggio 1814, quando, commentando l’insuccesso del tentativo indipendentista
di Milano e l’occupazione austriaca di Lombardia e Veneto, fra le altre cose gli dice:
Vedrai tu forse ancora, ma vedranno certo i figli tuoi, cadere e rovinare tutto cotesto
edifizio artifiziale [...]. Il giorno d’oggi, che sembra essere l’epoca del rassodamento
delle vecchie ragioni monarchiche, è forse invece la vigilia d’una benigna generalissima
eruzione, non più giacobinesca né ladronesca, ma bensì prodotta dal forte ed ognora
crescente volere di tutti, e dalla ovunque diffusa luce del buon senso e della ragione
adulta.
Appena sei anni più tardi la previsione di Ludovico di Breme sembra proprio sul punto
di avverarsi.
Capitolo terzo. La Restaurazione e le prime rivoluzioni (1816-1831)
L’Italia della Restaurazione
Nel 1816, però, si respira un’aria davvero molto diversa. Due sono i criteri che guidano
il nuovo disegno geopolitico imposto all’Europa dal Congresso di Vienna: riaffermare
la legittimità degli antichi sovrani e delle antiche istituzioni come principio fondante
della sfera pubblica e costruire il sistema dei rapporti internazionali sulla base
di un equilibrio che scoraggi nuove iniziative espansionistiche o rivoluzionarie in
Francia come in qualunque altro stato minore.
Né in Europa, né in Italia, però, il principio di legittimità viene rispettato alla
lettera, essendo talora sacrificato alle più importanti esigenze dell’equilibrio.
E così né la Repubblica di Genova né quella di Venezia vengono ricostituite, nonostante
la loro storia plurisecolare sia indubbia garanzia di legittimità; l’una – Genova
– è inclusa nei territori del Regno di Sardegna; l’altra – Venezia – viene incorporata
nel Regno Lombardo-Veneto che, istituito formalmente con una sovrana patente del 7
aprile 1815, è parte integrante dell’Impero austriaco. L’obiettivo – ben chiaro nella
mente di Metternich, il cancelliere austriaco cui spetta uno dei ruoli principali
nella regia di tutta questa operazione – è quello di assicurarsi uno stato cuscinetto
e un forte avamposto in direzione ovest, verso la ancora temuta Francia.
Altri più piccoli stati vedono garantita la loro sopravvivenza, sebbene, anche in
questo caso, non senza mutamenti o aggiustamenti importanti. E così vengono ricostituiti
il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, affidato a Maria Luisa d’Austria; il Ducato
di Modena, attribuito a Francesco IV d’Austria-Este; il Ducato di Massa e Carrara,
concesso a titolo vitalizio a Maria Beatrice Cybo d’Este, madre di Francesco IV; il
Granducato di Toscana, restituito a Ferdinando III di Lorena. L’antica Repubblica
di Lucca, invece, viene trasformata in Ducato, con Maria Luisa di Borbone-Parma sul
trono ducale.
Nel 1829, alla morte di Maria Beatrice Cybo d’Este, il Ducato di Massa e Carrara viene
incorporato nel Ducato di Modena. Clausole specifiche dei trattati stabiliscono, poi,
che alla morte di Maria Luisa d’Austria il Ducato di Parma torni ai Borbone-Parma
e che al momento di questo passaggio il Ducato di Lucca sia annesso dal Granducato
di Toscana (ciò che avviene nel 1847, quando sul trono di Parma sale Carlo Ludovico
di Borbone), mentre all’inizio del 1848 Modena ottiene Guastalla e Fivizzano e Parma
il territorio di Pontremoli.
Più a sud si riorganizzano lo Stato della Chiesa, sotto il pontificato di Pio VII,
e il Regno delle Due Sicilie, che, trasformato ora in uno stato amministrativamente
unificato, e non più come prima del 1799 diviso in due regni distinti, viene affidato
a Ferdinando IV di Borbone, ora Ferdinando I delle Due Sicilie.
Rispetto al primo quindicennio dell’Ottocento la carta della penisola sembra perdere
di compattezza (fig. 3); non cambia, invece, lo status di area sotto egemonia straniera, che ora non è più quella della Francia, ma quella
dell’Austria, esercitata attraverso il possesso del Lombardo-Veneto, attraverso i
rapporti di parentela tra la casa imperiale e diversi regnanti degli stati italiani
o attraverso specifici accordi diplomatici.
Fig. 3. L’Italia nel 1815.
Ancora minore sembrerebbe l’omogeneità amministrativa e istituzionale, che la fondamentale
tripartizione statale dell’Italia continentale di epoca napoleonica aveva assicurato.
In alcuni stati, infatti, la struttura normativa e amministrativa introdotta negli
«anni francesi» viene conservata quasi intatta, come nel Regno delle Due Sicilie;
in altri, come nel Regno di Sardegna, nel Ducato di Modena o, per molti versi, nello
Stato Pontificio, la si abbandona per tornare ai quadri normativi precedenti il 1796-1799;
in altri ancora si introducono strutture organizzative e normative in gran parte nuove,
come nel Regno Lombardo-Veneto. Tuttavia, al di sotto di una larghissima varietà di
denominazioni, regolamenti e assetti, si possono leggere alcune macro-tendenze comuni.
Intanto in tutti gli stati della Restaurazione vengono introdotte o confermate forme
istituzionali che non lasciano che spazi minimi ai privilegi particolaristici o cetuali
propri dell’antico regime. In generale, poi, tutti gli stati si dotano di organismi
di Governo centrale responsabili nei confronti dell’autorità sovrana e di strutture
amministrative periferiche affidate a personale scelto dal sovrano o dai suoi delegati
e poste sotto il controllo di funzionari statali. Infine, nessuno di questi stati
ha una qualche, anche pallida, forma di costituzione o di organo rappresentativo elettivo.
Ma, in effetti, proprio qui sta una delle maggiori debolezze di quegli stati. Lo constata,
preoccupato, il conte Giulio Strassoldo, governatore della Lombardia dal 1818 al 1830,
che in una relazione a Metternich del 29 luglio 1820 osserva che nelle terre lombarde
il terzo stato è
in generale troppo costituzionale e liberale per amare un governo che si limiti ad
essere giusto e paterno [...]. Ho un bel guardare a Milano e...