Edizione: 2011, V rist. 2021 Pagine: 220, con ill. Collana: Storia e Società ISBN carta: 9788842095347 ISBN digitale: 9788858113752 Argomenti: Storia contemporanea, Storia d'Italia
La nazione non è un dato di natura. Non emerge dalle più lontane profondità dei secoli. Né accompagna da sempre la storia d'Italia, dal Medioevo a oggi. È necessario un discorso straordinariamente seducente per dare corpo alla nazione. Per questo «le narrative nazionali sanno emozionare. Sanno comunicare. Sanno toccare il cuore di un numero crescente di persone. Sanno trasformare l'originario assunto discorsivo (l'esistenza di una nazione) da remota astrazione in qualcosa che sembra avere lo spessore di un'effettiva realtà. Il discorso nazionale si impone in forza di un suo eccezionale potere comunicativo». Sono tre le 'figure profonde' che hanno attratto e sedotto le donne e gli uomini che fecero l'Italia e hanno accompagnato il discorso nazionale dal Risorgimento al fascismo: la nazione come parentela/famiglia; la nazione come comunità sacrificale; la nazione come comunità sessuata, funzionalmente distinta in due generi diversi per ruoli, profili e rapporto gerarchico. Sono questi i pilastri simbolici che il Risorgimento lascia in eredità all'epoca liberale e fascista.
Cambieranno i contesti e le forme di governo, ma la struttura del discorso nazionale resterà identica, nonostante diversi siano gli obiettivi politici che su di essa si fondano.
Edizione: 2021 Pagine: 220 Collana: Storia e Società ISBN: 9788842095347
L'autore
Alberto Mario Banti
Alberto Mario Banti è professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Pisa. Si è occupato di Storia del Risorgimento italiano e di storia del nazionalismo europeo ottocentesco. Tra le sue pubblicazioni più recenti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell'Italia unita (Torino 2000) e L'onore della nazione. Identità sessuali e violenza del nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla Grande Guerra (Torino 2005). Per i nostri tipi, tra l'altro: L'età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi (2009); L'età contemporanea. Dalle rivoluzioni settecentesche all'imperialismo (2009); Il Risorgimento italiano (20096).
La nazione non è un dato di natura. Non emerge dalle più lontane profondità dei secoli.
Né accompagna da sempre la storia d’Italia, dal Medioevo a oggi. Soprattutto non la
nazione nella sua accezione moderna. L’idea che una comunità di uomini e donne, uniti
da una serie di elementi condivisi, possieda la sovranità politica che fonda le istituzioni
di uno Stato è molto recente. È un’idea che si forma abbastanza lentamente tra XVII
e XVIII secolo e che trova il suo battesimo definitivo nel corso della Rivoluzione
francese. Da allora il lessico politico ne risulta radicalmente cambiato. Da allora
per un lungo periodo di tempo (diciamo almeno fino al 1945) la politica dell’Occidente
verrà parlata in primo luogo attraverso il lessico nazionale. E la forza di tale lessico
sarà tale da oltrepassare perfino i confini dell’Occidente.
Chi parla il linguaggio della nazione lo fa perché ha bisogno di un termine sintetico
ed efficace che definisca le masse senza nome che sono chiamate a entrare in forma
più o meno attiva nell’arena del politico. Ma, in questo modo, chiunque compia questa
operazione assume che milioni di persone che tra Sette e Ottocento in Francia, o in
Gran Bretagna, o in Germania, o altrove sono diversissime tra loro, per lessico, tradizioni,
costumi, confessioni religiose e quant’altro, siano in realtà parte di un’unica comunità,
coesa sin dalla notte dei tempi. È in questo che consiste l’enorme artificiosità originaria
del discorso nazionale.
Ma, nonostante questa sua origine manipolatoria, nonostante questa sua fondamentale
incoerenza, il discorso nazionale sa imporsi con grandissima forza. In parte il successo
è dovuto alla promessa di futuro che fa balenare agli occhi di un numero crescente
di persone: rovesciare il dispositivo di sovranità, spostarne il centro dal monarca
al popolo/nazione, significa dare la possibilità di contare qualcosa ai molti che
prima di questa trasformazione non contavano assolutamente nulla. E non si tratta
di promessa da poco.
Ma il punto a mio avviso essenziale è che il discorso nazionale viene costruito in
forme comunicative straordinariamente seducenti. Le narrative nazionali sanno emozionare.
Sanno comunicare. Sanno toccare il cuore di un numero crescente di persone. Sanno
trasformare l’originario assunto discorsivo (l’esistenza di una nazione) da remota
astrazione in qualcosa che sembra avere lo spessore di un’effettiva realtà. Certo,
affinché questo processo si compia integralmente ci sarà bisogno che gli Stati-nazione
– cioè proprio quegli Stati che si formano nel corso del XIX secolo sulla base della
nuova ideologia nazionale – procedano alla «nazionalizzazione delle masse»1: ovvero costruiscano strumenti educativi (scuola, esercito, ritualità pubbliche)
che capillarmente insegnino la nazione a tutti, compresi quelli che vivono nei più
sperduti villaggi rurali.
1 Cfr. G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania
(1812-1933), il Mulino, Bologna 1975.
Ma – insisto – il punto essenziale è che il discorso nazionale si impone in forza
di un suo eccezionale potere comunicativo. Ora, osservando i meccanismi comunicativi
fondamentali del nazionalismo in miei precedenti lavori di ricerca, relativi sia al
Risorgimento italiano che all’Europa del XIX secolo2, ho ritenuto di poter individuare alcune strutture discorsive elementari che ho chiamato
le figure profonde del discorso nazionale. Che cosa sono queste figure? Sono delle immagini, dei sistemi allegorici, delle costellazioni narrative, che
incorporano una tavola valoriale specifica, offerta come quella fondamentale che dà
senso al sistema concettuale proposto. E perché sono profonde? Per due motivi: perché hanno a che fare con fatti «primari» – nascita/morte, amore/odio,
sessualità/riproduzione – e perché li elaborano collocandosi in un continuum discorsivo
vecchio di secoli, in qualche caso vecchio di millenni; è da quello spazio che vengono
recuperate figure di lunga o lunghissima durata, che vengono opportunamente rielaborate
dentro un discorso funzionalmente innovativo. E il valore delle figure profonde sta proprio nel loro collocarsi in questo continuum valoriale, che ne fa immagini
ben note e, al tempo stesso, adattabili a nuovi contesti discorsivi; mentre l’efficacia
del sistema discorsivo che le incorpora dipende dalla funzionalità delle coerenze
interne che gli sono proprie.
2La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Einaudi, Torino 2000; L’onore della nazione. Identità sessuali e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII
secolo alla Grande Guerra, Einaudi, Torino 2005.
Nella morfologia del discorso nazionale tre figure profonde mi sembra abbiano un rilievo fondamentale: 1. la nazione come parentela/famiglia;
2. la nazione come comunità sacrificale; 3. la nazione come comunità sessuata, funzionalmente
distinta, cioè, in due generi diversi per ruoli, profili e rapporto gerarchico3. Chiarirò più dettagliatamente sin dal primo capitolo che cosa intenda con queste
brevi definizioni in rapporto al discorso nazionale italiano. Ma qui, intanto, mi
preme di anticipare una conclusione di questo mio nuovo lavoro, che emerge dall’identificazione
del ruolo strutturale di queste tre figure profonde. Se si compie un’analisi morfologica del discorso nazionale italiano dal Risorgimento
al fascismo, appare chiaro che la sua elementare struttura discorsiva è costantemente
articolata intorno a queste tre figure fondamentali. Detto in altri termini: il Risorgimento
lascia in eredità all’età liberale e al fascismo una concezione della nazione che
nella sua essenza morfologica resta la medesima. Non che il discorso nazionale nel
corso del periodo che va dal 1861 al 1945 non subisca modifiche. Aspetti nuovi, che
non appartenevano al lessico degli speaker risorgimentali, entrano man mano in gioco:
l’esaltazione della romanità, invece che del Medioevo o dell’età moderna; una nuova
aggressività coloniale e imperialista; una declinazione razzista dell’idea di nazione.
Se ciascuno di questi elementi è nuovo, non è tuttavia tale da modificare o scalzare
la matrice morfologica originaria del discorso nazionale. Anzi, le nuove componenti
si presentano come uno sviluppo organico, armonico, coerente rispetto a quella matrice,
che comunque resta sempre il nucleo portante del discorso nazionale.
3 Su cui si veda il pionieristico lavoro di G.L. Mosse, Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, Laterza, Roma-Bari 1984.
Occorre anche osservare che il discorso nazionale possiede un sorprendente grado di
adattabilità ai più diversi contesti politici. Naturalmente, è piuttosto evidente
che la concezione nazionale del Risorgimento anima un’aspirazione alla libertà, mentre,
al contrario, quella fascista è il fondamento di uno Stato totalitario. Di solito,
però, a questa constatazione si fa seguire una deduzione – a mio parere – del tutto
fuorviante. Si dice: posta la divergenza negli obiettivi politici, il discorso nazionale
del Risorgimento è totalmente diverso dal discorso nazionale fascista. Non è così.
La struttura morfologica resta la stessa, nonostante diversi siano gli obiettivi politici
che su di essa si fondano.
È bene chiarire, infine, che con queste considerazioni non voglio suggerire – nemmeno
in forma vaga – che il Risorgimento «causi» il fascismo; né voglio negare che di tanto
in tanto si alzino voci che descrivono la nazione in un’altra forma. Piuttosto – in
grande sintesi – ciò che intendo sostenere è
1. che la concezione articolata intorno alle tre figure profonde sopra evocate è di gran lunga la narrativa egemone, sostenuta da speaker di assoluta
autorevolezza e veicolata da media di grande diffusione;
2. che tale concezione produce potenti effetti performativi alimentati sia dal senso
comune sia dai dispositivi normativi (cioè dalle leggi su nazionalità e cittadinanza
del Regno d’Italia);
3. che, infine, nel modo di concepire l’identità nazionale c’è una costante continuità
morfologica, assicurata da una matrice discorsiva che viene costruita durante il Risorgimento
ed è recepita e sviluppata nell’età liberale e nel fascismo senza che le sue originarie
strutture elementari vengano mai modificate nella loro essenza.
I. La nazione del Risorgimento
1. Nascita di una nazione
Per capire il significato del processo di costruzione del Regno d’Italia occorre osservare
con attenzione la tipologia alla quale quella formazione statale appartiene: si tratta
di uno Stato-nazione. La ragione del suo sorgere sta in questo: lo Stato unitario
viene considerato la necessaria espressione di un’unica comunità nazionale italiana,
che si ritiene sia degna di essere rappresentata in forme istituzionali coerenti.
Tali forme istituzionali non possono essere individuate negli Stati che ancora nella
prima metà del XIX secolo si dividono la penisola, perché quelli sono Stati dinastico-territoriali;
la loro legittimità deriva dall’esistenza di una dinastia regnante, e non sono l’espressione
della volontà della nazione. Dunque lo Stato unitario è uno Stato nuovo, sorretto
da un’idea nuova: l’idea di «nazione». Ma quando nasce questa idea?
«Nazione» è una parola che deriva dal latino ed è largamente utilizzata anche in epoca
medievale e moderna. Allora, però, non ha uno specifico significato politico; piuttosto,
indica genericamente gruppi di individui che hanno qualche tratto comune (lingua,
cultura, provenienza), e viene utilizzata occasionalmente, per esempio per distinguere
gli studenti universitari che vengono da aree diverse rispetto a quella dell’università
nella quale studiano, oppure per distinguere le diverse comunità mercantili attive
in porti aperti a scambi a lunga percorrenza. Oltre a non avere una precisa connotazione
politica, il termine «nazione» si riferisce a comunità non ben definite: vi sono molti
e vari esempi di intellettuali, scrittori o politici che parlano indifferentemente
di nazione italiana, o napoletana, o veneziana, e via dicendo.
Il quadro cambia radicalmente nel corso del XVIII secolo, e cambia in particolare
grazie alle innovazioni istituzionali e linguistiche promosse dai protagonisti della
Rivoluzione francese. In cerca di un termine che indichi il soggetto collettivo che
deve sostituirsi al re come depositario esclusivo della sovranità politica, essi lo
trovano nel termine «nazione». Il mutamento epocale, che fa sì che il termine «nazione»
entri per la prima volta nel vocabolario politico, viene sancito da un articolo fondamentale
della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (26 agosto 1789), il numero 3, che recita: «Il principio di ogni sovranità risiede
essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità
che da essa non emani espressamente»4. L’articolo testimonia un mutamento, da allora irreversibile (o quasi), del lessico
politico: nazione diventa un lemma chiave di quel vocabolario. E non si colloca in
uno spazio semantico laterale, ma al centro della «nuova politica», poiché indica,
appunto, la comunità che, nel suo insieme, possiede la sovranità.
4Les Constitutions de la France depuis 1789, Garnier Flammarion, Paris 1995, pp. 33-34.
Da questa trasformazione scaturiscono due dinamiche, che hanno una portata europea.
La prima ha una natura imitativa: dal 1789 in avanti chiunque intenda «fare come in
Francia», cioè voglia mettere in discussione i fondamenti del potere monarchico o
oligarchico, lo fa parlando il linguaggio della nazione, e cioè appellandosi ai diritti
conculcati di questa più larga comunità. È ciò che accade un po’ dovunque. Ed è ciò
che accade anche in Italia, dove sin dal 1796 i simpatizzanti della Rivoluzione francese
cominciano a parlare della necessità di rifondare la carta geopolitica della penisola
sulla base del nuovo principio nazionale.
La seconda dinamica – solo in apparenza in contrasto con l’altra – ha una natura reattiva:
quando gli eserciti della Francia rivoluzionaria, e poi napoleonica, cominciano a
dilagare per l’Europa e a imporre l’autorità della Francia su Stati satelliti di nuova
formazione, molti intellettuali, membri delle élite, giornalisti e gente comune delle
aree occupate cominciano a criticare ciò che potremmo definire l’imperialismo rivoluzionario
e poi napoleonico. Per definire il senso della loro ribellione uomini come Foscolo,
Cuoco e altri ancora, cominciano a parlare dei diritti della loro nazione, negati
dal cieco desiderio di dominio di una nazione straniera (la Francia) o del suo tiranno
e dei suoi complici (Napoleone e i suoi sostenitori locali). In alcuni casi questa
reazione non si affida solo alla pubblicazione di saggi, poesie o interventi polemici,
ma si traduce in realtà operative, a volte assai drammatiche, di cui la ribellione
scoppiata in Spagna nel 1808, la costituzione delle formazioni volontarie tedesche
che aggrediscono la Grande Armée in ritirata nella Germania del 1813, le prime sette
carbonare o antinapoleoniche nella penisola italiana sono altrettante manifestazioni.
Attraverso questa doppia dinamica imitativa/reattiva il discorso nazionale comincia
a diffondersi e a mettere le sue prime radici. Il che comporta due ulteriori passaggi.
Il primo ha a che fare con il complesso dell’architettura concettuale che struttura
il nuovo lessico politico. Infatti, nel corso dell’evoluzione sopra brevemente ricordata,
il termine nazione non solo entra nel vocabolario politico, ma attira a sé un altro
termine preesistente, anch’esso in uso sin dal Medioevo: «patria». In epoca medievale
e moderna patria ha un doppio significato: da un lato indica il «luogo dove si nasce,
o donde si trae l’origine»5, e può riferirsi al singolo paese natio, o alla città natale, o a un più ampio ambito
territoriale; dall’altro, patria ha anche il significato di sistema politico-istituzionale
al quale i sudditi o i cittadini devono lealtà, e in questo consiste la sua precoce
politicità. E così, in epoca medievale e moderna (e per la verità anche molto prima,
come ci ricorda il secondo carme del terzo libro delle Odi di Orazio) «morire per la patria» è un comportamento altamente apprezzato, che significa
mostrare, nella sua forma più estrema, tutta la propria lealtà alle istituzioni dello
Stato di cui uno è suddito (se si tratta di una monarchia) o cittadino (se si tratta
di una repubblica). Dopo la Rivoluzione francese, per le analogie semantiche che li
connotano e per le coerenze funzionali che sviluppano, i termini «nazione» e «patria»
entrano in strettissimo collegamento reciproco, tanto che vi è chi designa il nazionalismo
otto-novecentesco con il sostantivo composto «nazional-patriottismo». Nel rapporto
tra nazione e patria è il primo termine ad avere il maggior rilievo, poiché designa
il soggetto fondativo del politico; patria, dal suo canto, conserva i significati
relazionali che aveva in origine, che adesso si riferiscono non solo alle istituzioni
dello Stato di cui uno è membro, ma soprattutto alla nazione alla quale si appartiene.
5Vocabolario degli accademici della Crusca, Giovanni Alberti, Venezia 1612, p. 601.
L’altro passaggio attraversato dalla concezione nazional-patriottica tra fine Settecento
e inizio Ottocento è anche più rilevante di quello appena descritto. Poiché, una volta
che si sia stabilito che il soggetto collettivo che possiede la sovranità è un’entità
da individuare col termine «nazione», subito scatta una sequenza di necessari interrogativi:
quante sono le nazioni? Chi ne fa parte? E perché?
Inizialmente, in particolare nel caso italiano, l’incertezza è notevole. C’è chi –
tra 1796 e primissimi anni dell’Ottocento – parla di nazione piemontese, o cisalpina,
o veneziana, o romana, o napoletana. Ma poi, quasi subito, essenzialmente tutti quelli
che parlano il nuovo linguaggio politico vedono nella nazione italiana la comunità di riferimento su cui basare progetti di «rigenerazione» della penisola.
Perché l’identità italiana prevale? Perché in Italia, come altrove nell’Europa di
questi anni, i promotori del discorso nazional-patriottico sono degli intellettuali
o dei leader politici con un’ottima formazione intellettuale. Per questo la loro identità
socioprofessionale primaria è legata al sentirsi parte di una koinè culturale che comunica attraverso il ricorso alla lingua italiana, nobilitata dal
fatto che sin dal XIV secolo essa può fregiarsi di capolavori letterari di prim’ordine.
E infatti, almeno in prima battuta, per i promotori del movimento risorgimentale (da
Cuoco a Foscolo, da Manzoni a Mazzini, ecc.) sono la lingua e la letteratura italiana
che testimoniano dell’esistenza di una nazione italiana, e che ne fondano le ambizioni
di riscatto politico.
Tuttavia questa scelta contraddice un essenziale dato di realtà. E cioè il fatto che
all’inizio dell’Ottocento l’italiano è una lingua usata solo da una percentuale ridottissima
della popolazione della penisola. I linguisti che hanno studiato i dati relativi al
periodo immediatamente postunitario hanno concluso che gli italofoni – cioè coloro
che ricorrono normalmente all’italiano per le esigenze della comunicazione quotidiana
– sono tra il 2,5% e il 9,5% del totale della popolazione della penisola. Si può supporre
che, a quell’epoca, oltre al ristrettissimo gruppo di italofoni, ci sia una più larga
percentuale di persone capaci di usare l’italiano parlato, grazie a una loro capacità
di capire l’italiano scritto; tuttavia questa percentuale non può essere stata di
molto superiore al numero degli alfabeti, che nel 1861 risulta pari al 22% del totale
della popolazione; e tra questi, coloro che sono in grado di apprezzare Dante o Machiavelli
sono certamente una percentuale piuttosto ridotta. Tutti gli altri fanno uso di dialetti
lessicalmente e sintatticamente molto diversi l’uno dall’altro, o perfino di una lingua
straniera, come per esempio il francese in aree geografiche e sociali del Piemonte.
Stando così le cose se ne dovrebbe dedurre che l’ipotesi di un nuovo assetto della
penisola, derivato dal riconoscimento dell’esistenza di una nazione italiana, abbia
basi incredibilmente fragili. E ancor più fragili esse appaiono se solo si considera
che le proposte di un rinnovamento nazionale della penisola incontrano la determinatissima
resistenza degli establishment di tutti gli Stati preunitari (compreso, almeno fino
al 1846, il Regno di Sardegna). Ovvio che sia così, posto che gli intellettuali nazional-patriottici
o i leader dei primi nuclei operativi che cominciano a formulare strategie politiche
concrete (evochiamone il più importante: Giuseppe Mazzini) vogliono rivoluzionare
radicalmente non solo la carta ma, molto spesso, anche le istituzioni vigenti sull’intera
penisola.
2. Estetica della politica e mitografia nazionale
Alle sue origini, dunque, il movimento nazional-patriottico soffre di handicap pesantissimi.
E probabilmente, nei primi decenni dell’Ottocento, nemmeno un solo osservatore neutrale
avrebbe scommesso un centesimo sulla riuscita dei vari piani di rinnovamento formulati
dall’uno o dall’altro gruppo di intellettuali o di politici di ispirazione nazional-patriottica.
Del resto, come pensare diversamente? La proposta nazional-patriottica vuole parlare
a masse che a stento capiscono l’italiano, cercando addirittura di muoverle all’azione
politica contro i rigori delle polizie e dei tribunali degli Stati preunitari (che,
in termini concreti, significa incitarle a fare cose che possono costare la prigione,
l’esilio e persino la morte). Un po’ troppo, sembrerebbe. Eppure ciò che è particolarmente
affascinante dell’esperienza risorgimentale è che questa «missione impossibile» viene
compiuta con sorprendente efficacia. Nell’arco di tempo che va dal 1815 al 1861 una
gran parte dell’opinione colta, e anche una parte significativa delle classi popolari
urbane, viene convinta della bontà dell’idea nazionale, tanto da spingere molti a
unirsi alla Giovine Italia, a partecipare ai tentativi insurrezionali che si susseguono
dal 1820 in avanti, a partecipare in forme diverse alle manifestazioni, agli scontri
urbani e alle guerre che caratterizzano il quadriennio 1846-49, a continuare a militare
in gruppi segreti negli anni Cinquanta, a trasferirsi in esilio nel Piemonte costituzionale
dopo il 1849, a partire a migliaia come volontari per le guerre del 1859 o del 1860.
Ancor più importante di questi dati numerici (peraltro già molto rilevanti) è la trasformazione
del discorso politico che attraversa l’Italia del Risorgimento. Un numero crescente
di persone – non solo i mazziniani più radicali, ma anche i nobili o gli intellettuali
o i politici moderati, di varia provenienza e di varia inclinazione politico-culturale,
come Ricasoli, Capponi, Cavour, Tommaseo, Gioberti, e moltissimi altri – si trovano,
in alcuni casi anche loro malgrado, a parlare il linguaggio della nazione italiana
e ad agire di conseguenza: questo è l’indicatore più evidente del successo del movimento
nazional-patriottico. Che nel 1861 si dovesse formare uno Stato-nazione italiano non
era certo una necessità della Storia; e che la classe dirigente di questo nuovo Stato
dovesse concepirne le istituzioni come un’espressione dell’esistenza della nazione
italiana era una novità assoluta che avrebbe sconcertato o irritato i padri o i nonni
di Cavour, di d’Azeglio, di Ricasoli, di Minghetti, e di infiniti altri.
Eppure questo è ciò che accade nell’Italia della prima metà dell’Ottocento. Ma che
cosa rende possibile un fenomeno di tali proporzioni?
Se tutto ciò avviene è perché i leader intellettuali e politici del nazionalismo italiano
sanno presentare il discorso nazionale attraverso modalità comunicative che fanno
appello non tanto alla ragione degli illuministi, alla solida cultura, all’indagine
lucida e distaccata, quanto all’universo pre-razionale delle emozioni. E ci sono ottimi
motivi perché sia così: come potrebbe essere altrimenti, se si vogliono coinvolgere
nel discorso politico anche persone analfabete o semi-analfabete? E come potrebbe
essere altrimenti, se si vuole diffondere un discorso politico altamente innovativo
e – almeno nelle sue formulazioni iniziali – radicalmente eversivo degli assetti politici
dominanti? La realizzazione di una proposta politica che sappia parlare al cuore del
«popolo», passa attraverso la formazione di quella che è stata chiamata una «estetica
della politica»6. Con questo termine si indica una modalità della comunicazione politica che certo
non è ignota in epoca moderna, ma che ora prende dimensioni prima sconosciute; una
modalità sollecitata dalla constatazione secondo la quale strumenti che normalmente
servono per divertirsi e rilassarsi (romanzi, poesie, drammi teatrali, pitture, statue,
opere liriche) possono anche riempirsi di messaggi politici, senza per questo perdere
niente del loro fascino. Per la formazione di questa nuova «estetica della politica»
è essenziale lo stretto rapporto che gli intellettuali nazional-patriottici intrecciano
con l’esperienza culturale europea comunemente nota col termine «romanticismo». Dei
molti aspetti che connotano l’elaborazione romantica, uno merita di essere particolarmente
sottolineato: gli intellettuali che vi si avvicinano mettono ben presto a fuoco l’idea
di «un’arte per il popolo», termine che in questo caso non vuol dire altro che «un’arte
per il più largo numero possibile di persone».
Berchet è tra i più lucidi teorici italiani di questa nuova estetica. Nel saggio intitolato
Sul «Cacciatore feroce» e sulla «Eleonora» di Goffredo Augusto Bürger. Lettera semiseria
di Grisostomo al suo figliuolo, del 1816, Berchet finge di essere un tal Grisostomo che scrive una lettera al figlio,
«convittore di un collegio», che gli ha chiesto la traduzione di due opere di Bürger.
Grisostomo/Berchet comunica al figlio di avergliele tradotte lui stesso, ma in prosa,
e non in versi, perché – spiega – il valore dell’opera di Bürger sta nel suo carattere
«popolare» (e il termine qui significa «tratto dal patrimonio di storie popolari,
e narrato con tecniche diffuse nella comunicazione bassa»). E la popolarità della
poesia e dell’arte è – per Grisostomo/Berchet – un valore:
Questa è la precipua cagione per la quale ho determinato che tu smetta i libri del
Blair, del Villa e de’ loro consorti, tosto che la barba sul mento darà indizio di
senno in te più maturo. Allora avrai da me danaro per comperartene altri, come a dire
del Vico, del Burke, del Lessing, del Bouterweck, dello Schiller, del Beccaria, di
madama de Staël, dello Schlegel e d’altri che fin qui hanno pensate e scritte cose
appartenenti alla estetica: né il Platone in Italia del consigliere Cuoco sarà l’ultimo dei doni ch’io ti farò. Ma per ora non dir nulla
di questo co’ maestri tuoi, che già non t’intenderebbono7.
7 G. Berchet, Sul «Cacciatore feroce» e sulla «Eleonora» di Goffredo Augusto Bürger. Lettera semiseria
di Grisostomo al suo figliuolo, in Id., Lettera semiseria. Poesie, a cura di A. Cadioli, Rizzoli, Milano 1992, pp. 69-71.
Dopodiché introduce la sua teoria estetica, attraverso una serie di personae fictae, e spiega che il poeta deve considerare
che la sua nazione non la compongono que’ dugento che gli stanno intorno nelle veglie
e ne’ conviti; se egli ha mente a questo: che mille e mille famiglie pensano, leggono,
scrivono, piangono, fremono e sentono le passioni tutte, senza pure avere un nome
ne’ teatri; può essere che a lui si schiarisca innanzi un altro orizzonte, può essere
che egli venga accostumandosi ad altri pensieri ed a più vaste intenzioni. [...] tutte
le presenti nazioni d’Europa – l’italiana anch’essa né più né meno – sono formate
da tre classi d’individui: l’una di ottentoti [la plebe sorda all’arte nuova], l’una
di parigini [l’élite troppo snob per accettare un’arte «popolare»] e l’una, per ultimo,
che comprende tutti gli altri individui leggenti ed ascoltanti, non eccettuati quelli
che, avendo anche studiato ed esperimentato quant’altri, pur tuttavia ritengono attitudine
alle emozioni. A questi tutti io do il nome di «popolo». [...]
La gente ch’egli [il poeta] cerca, i suoi veri lettori stanno a milioni nella terza
classe [quella del «popolo»]. E questa, cred’io, deve il poeta moderno aver di mira,
da questa deve farsi intendere, a questa deve studiar di piacere, s’egli bada al proprio
interesse ed all’interesse vero dell’arte. Ed ecco come la sola vera poesia sia la popolare: salve le eccezioni sempre, come ho già detto; e salva sempre la discrezione ragionevole,
con cui questa regola vuole essere interpretata8.
Nel caso della Germania – prosegue Grisostomo/Berchet– si è imposta una scuola poetica
che ha riscosso successo popolare, occupandosi dell’oggi, allontanandosi dall’idolatria
dei modelli classici, e per questo attirando l’attenzione del «popolo» dei lettori:
e questa è la poesia romantica. Vero è che nel caso dell’Italia c’è chi solleva dubbi,
lamentando
che l’Italia è un armento di venti popoli divisi l’uno dall’altro, e ch’ella non ha
una gran città capitale dove ridursi a gareggiare gli ingegni, e che tutto vien meno
ove non è una patria. Lo sappiamo, lo sappiamo. Ma l’avevano questa unità di patria
e questo tumulto d’una capitale unica i poeti dei quali ho parlato? E se noi non possediamo
una comune patria politica, come neppure essi la possedevano, chi ci vieta di crearci
intanto, com’essi, a conforto delle umane sciagure, una patria letteraria comune?
Forse che Dante, il Petrarca, l’Ariosto per fiorire aspettarono che l’Italia fosse
una?9
Infine, conclude lucidamente Grisostomo/Berchet rivolto al figlio,
In quanto a te, se mai ti nascesse voglia di scrivere romanzi in Italia [...], va’
cauto e fa’ di non lasciarti traviare in soggetti non verisimili, quando essi siano
tolti di peso dalla fantasia tua. Ché se l’argomento ti viene prestato da una storia
scritta o da una tradizione che dica: «Il tal fatto è accaduto così», e tu senti che
comunemente è creduto così, allora non istare ad angariarti il cervello per timore
d’inverisimiglianze, da che tu hai le spalle al muro. Però nella scelta siati raccomandato
d’attenerti più volentieri ai soggetti ricavati dalla storia che non agli ideali.
Né ti fidare molto a quelle tradizioni che non escirono mai del ricinto d’un sol municipio,
perché la fama tua non sarebbe che municipale: del che non ti vorrei contento10.
In conclusione: parlare al «popolo» con narrazioni plausibili, né troppo arbitrarie,
né troppo localizzate, ma saldamente collegate alle tradizioni «nazionali»; questo
è ciò che bisogna fare.
Senza dubbio questo è un programma estetico certamente sollecitato anche dal nuovo
statuto socioprofessionale del letterato o dell’artista della Restaurazione. Non più
sostenuto da un mecenate, non più assunto stabilmente da una famiglia nobile, in difficoltà
nel trovare un impiego statale, costui deve essere capace di vendere le sue opere
sul mercato se vuole procacciarsi di che vivere. Ma ciò che è importante osservare
è che diversi intellettuali e artisti romantici danno a questo chiaro programma professionale
una declinazione nettamente nazionalista. Perché lo fanno? Da un lato, perché capiscono
che la nazione è un tema politico «caldo», reso estremamente popolare dalle vicende
della Rivoluzione francese, e soprattutto dalle reazioni suscitate dalle occupazioni
napoleoniche; cosicché raccontare storie di ispirazione nazional-patriottica significa
raccontare storie che trovano già un pubblico sensibile, e quindi un mercato a cui
vendere i propri lavori. Dall’altro lato, almeno in alcuni casi, lo fanno anche per
intima convinzione, che si traduce talora in una militanza che a qualcuno può anche
costare molto (prigione, esilio, morte).
È ad opera di persone di questo tipo, che talora sono anche delle vere e proprie stelle
dello star-system intellettuale dell’epoca, come Ugo Foscolo, Giovanni Berchet, Alessandro
Manzoni, Massimo d’Azeglio, Francesco Domenico Guerrazzi, Francesco Hayez, Giuseppe
Verdi, e molti altri con loro, che il discorso nazionale può avvalersi di un’estetica
della politica che prende forma attraverso una vasta costellazione di romanzi, poesie,
drammi teatrali, pitture, statue e melodrammi di ispirazione nazional-patriottica.
Sono questi gli strumenti comunicativi che fondano la narrazione e la mitografia risorgimentale.
Il pubblico di riferimento è in primo luogo quello nobiliare e borghese: un pubblico
di persone che sa leggere, e che ha tempo libero per farlo. Ma molto rapidamente le
storie, i miti, le immagini, le figure-simbolo della mitografia risorgimentale trovano
la strada della diffusione anche tra le classi popolari urbane attraverso altri circuiti
comunicativi. In primo luogo la propaganda capillare dei militanti delle organizzazioni
mazziniane, dalla Giovine Italia in avanti, capaci di svolgere un’azione di proselitismo
particolarmente efficace prima in città portuali o universitarie, come Genova, Livorno,
Pisa o Pavia, e poi, man mano anche altrove. Inoltre un grande impatto ha anche la
messa in scena di melodrammi con intrecci di ispirazione nazional-patriottica, uno
strumento comunicativo potente sia perché moltissime città, anche molto piccole, dispongono
di teatri (tra 1816 e 1868 in tutta la penisola ne vengono costruiti ben 613), sia
perché i biglietti per i posti meno costosi sono alla portata di molti e l’azione
scenica può essere facilmente seguita anche da analfabeti. Determinante è anche l’azione
diffusiva di predicatori itineranti come Ugo Bassi o Alessandro Gavazzi, e di una
parte importante del clero che tra 1846 e 1848 dà un sostegno decisivo all’ampio radicamento
degli ideali e dei valori nazional-patriottici. Infine, niente affatto trascurabile
è l’effetto diffusivo esercitato da altri media, dalle stampe monocromatiche vendute
per pochi soldi sui mercati, alle storie cantate o raccontate dai cantanti girovaghi
o dai burattinai, che spesso adattano gli hit letterari o operistici alle loro cornici
comunicative (circuiti, questi ultimi, che attendono ancora di essere studiati e ricostruiti
adeguatamente).
Nelle campagne tutto ciò arriva con difficoltà o addirittura non arriva per niente.
Le campagne sono più sorvegliate da campieri, fattori, soprastanti, niente affatto
inclini a far circolare individui sospetti (come, per esempio, i militanti della Giovine
Italia) tra cascine, poderi e latifondi. L’analfabetismo, la difficoltà degli spostamenti,
l’assenza di luoghi deputati al divertimento o al tempo libero, fa sì che mai, o quasi
mai, vi arrivino anche gli altri media più popolari (melodrammi, stampe, cantanti
girovaghi, burattinai, predicatori itineranti). Questo per sottolineare che la diffusione
del discorso nazionale ha una sua geografia piuttosto precisa, che è quasi esclusivamente
urbana. Ma lì, nel contesto delle città, le cose vanno diversamente: lì si impone
un’immagine della nazione che è piuttosto largamente condivisa da individui di diversa
estrazione sociale e di vario orientamento politico. Se, com’è evidente, i democratici
e i moderati sono estremamente distanti sia per quanto concerne le strategie operative
da impiegare nella rivoluzione nazionale, sia per quanto concerne le istituzioni da
adottare per il futuro Stato italiano, nondimeno sono animati tutti da un’idea di
nazione che nei suoi tratti fondamentali è essenzialmente la stessa. Inoltre, occorre
anche aggiungere che, lì dove arriva, il discorso nazionale riesce a scuotere cuori
e coscienze, perché la mitografia che lo innerva riesce a proporre miti e simboli
potenti, capaci di avere uno straordinario impatto emotivo.
Ma quali sono questi miti e questi simboli?
3. La nazione come comunità di discendenza
Fondamentale, nella costellazione mitologica nazional-patriottica, è la descrizione
della nazione come una comunità di parentela e di discendenza, dotata di una sua genealogia
e di una sua specifica storicità. In questa concezione il nesso biologico tra gli
individui e tra le generazioni diventa un dato essenziale: da qui il ricorso frequente
a termini come «sangue» o «lignaggio», per connotare i nessi che legano le persone
alla comunità. Da questa concezione deriva anche un suggestivo sistema linguistico
fatto di «madre-patria», di «padri della patria», di «fratelli d’Italia», mentre la
«famiglia» diventa costantemente un sinonimo della comunità nazionale nel suo complesso,
o un termine che ne indica il suo nucleo fondativo minimale. Il dispositivo fondamentale
che regola questa immagine è la proiezione della nazione dalla dimensione del «politico»
alla dimensione del «naturale». Ciò significa che l’aspetto costitutivo fondamentale
della comunità nazionale non è tanto la scelta di farne parte operata dal singolo
individuo, quanto il suo fato biologico, il suo nascere all’interno dell’una o dell’altra
comunità nazionale, e quindi il suo necessario appartenere a tale comunità di discendenza,
al suo sangue, alla sua terra, al suo destino.
Mazzini, a questo riguardo, si esprime piuttosto inequivocabilmente, per esempio là
dove – in un testo del 1840– scrive:
Dio v’ha data, come casa del vostro lavoro, una bella Patria, provveduta abbondantemente
di tutte risorse, collocata in modo da esercitare influenza pel bene su tutte le terre
abitate da uomini come voi, protetta dal mare e dall’Alpi, confini sublimi che la
dichiarano destinata ad essere indipendente: questa vostra Patria fu grande e libera
un tempo: grande e libera quando le nazioni, ch’ora vi stanno innanzi in tutto, erano
piccole e serve; e voi non la curate, non l’amate, non la conoscete, non ne sapete
la storia, e lasciate ch’essa si stia decaduta, avvilita, sprezzata, malmenata da
principi e governi imbecilli, tiranneggiata e spolpata d’oro e di sangue da quanti
stranieri hanno avidità d’occuparla e di dominarla. Dio v’ha fatti ventidue milioni
d’uomini, con una stessa fisionomia per conoscervi, con una stessa lingua madre di
tutti i vostri dialetti per intendervi, con una stessa indole svegliata, attiva, robusta,
per associarvi e lavorare fraternamente al vostro miglioramento in Unità di Nazione;
e voi vi state divisi, separati da leggi, da dogane, da barriere, da soldatesche,
mal noti gli uni agli altri, anzi spesso ostili tra voi, ubbidienti a vecchie e stolte
rivalità fomentate, perché siate sempre deboli, dai vostri padroni, e vi dite romagnoli, genovesi, piemontesi, napoletani, quando non dovreste dirvi ed essere che italiani11.
11 G. Mazzini, Agli italiani, e specialmente agli operai italiani, in Id., Scritti editi ed inediti, vol. XXV, Galeati, Imola 1916, pp. 10-11. Per una diversa versione di questo stesso
brano cfr. G. Mazzini, Dei doveri dell’uomo [1860], in Id., Scritti editi ed inediti, vol. LXIX, Galeati, Imola 1935, pp. 60-62. Occorre osservare ancora che nel pensiero
di Mazzini il termine «nazione» compare con due accezioni diverse: 1. la prima riguarda
la comunità nazionale considerata come soggetto originario e fondativo del politico;
2. la seconda riguarda invece la nazione come Stato-nazione, dotato di specifiche
istituzioni costituzionali. Quando Mazzini parla della nazione come Stato-nazione
afferma molto chiaramente che essa non può emergere che dall’azione, dalla volontà
e dalle scelte dei soggetti che ne fanno parte; in questo specifico momento della
vita della nazione, dunque, la componente volontaristico-elettiva è assolutamente
indispensabile, sia che si tratti di eleggere un’assemblea costituente, sia che si
tratti di redigere una carta costituzionale, o di scegliere i rappresentanti per il
Parlamento ordinario. Tuttavia questa elaborazione rinvia comunque a un’appartenenza
primaria, di tipo naturalistico, che è quella descritta nei brani citati nel testo.
Il momento della originaria ascrizione, che ricorre costantemente nella predicazione
mazziniana, è quello della nascita, evento anche politicamente rilevante perché, collocando
un individuo all’interno della sua comunità nazionale, dà un senso storico e politico
ben preciso ai suoi legami con le generazioni precedenti (quelle dei padri, delle
madri, degli avi), con le generazioni coeve (i fratelli, le sorelle), con le generazioni
future (i figli, le figlie). Ed è proprio intorno a questa concezione biopolitica
della nazione che si snodano i tornanti essenziali del rituale di affiliazione alla
Giovine Italia:
Ogni iniziato nella Giovine Italia pronunzierà davanti all’Iniziatore la formola di
promessa seguente:
Nel nome di Dio e dell’Italia,
Nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della
tirannide, straniera o domestica,
Pei doveri che mi legano alla terra ove Dio m’ha posto, e ai fratelli che Dio m’ha
dati – per l’amore, innato in ogni uomo, ai luoghi dove nacque mia madre e dove vivranno
i miei figli – per l’odio, innato in ogni uomo, al male, all’ingiustizia, all’usurpazione,
all’arbitrio – pel rossore ch’io sento in faccia ai cittadini dell’altre nazioni,
del non avere nome né diritti di cittadino, né bandiera di nazione, né patria – pel
fremito dell’anima mia creata alla libertà, impotente ad esercitarla, creata all’attività
nel bene e impotente a farlo nel silenzio e nell’isolamento della servitù – per la
memoria dell’antica potenza – per la coscienza della presente abbiezione – per le
lagrime delle madri italiane – pei figli morti sul palco, nelle prigioni, in esilio
– per la miseria dei milioni:
Io N. N.
Credente nella missione commessa da Dio all’Italia, e nel dovere che ogni uomo nato
Italiano ha di contribuire al suo adempimento;
Convinto che dove Dio ha voluto fosse Nazione, esistono le forze necessarie a crearla
– che il Popolo è depositario di quelle forze, – che nel dirigerle pel Popolo e col
Popolo sta il segreto della vittoria;
Convinto che la virtù sta nell’azione e nel sagrificio – che la potenza sta nell’unione
e nella costanza della volontà;
Do il mio nome alla Giovine Italia, associazione d’uomini credenti nella stessa fede, e giuro:
Di consecrarmi tutto e per sempre a costituire con essi l’Italia in Nazione Una, Indipendente, Libera, Repubblicana12.
12 G. Mazzini, Istruzione generale per gli affratellati nella Giovine Italia, in Id., Scritti editi ed inediti, vol. II, Galeati, Imola 1907, p. 46.
Altri ancora più direttamente si appellano al sangue, alle fattezze, al lignaggio,
ma anche ad altri fattori, come la lingua, la religione, la cultura. In Marzo 1821 Manzoni enuncia i fattori costitutivi della nazione in una famosissima sequenza ternaria:
«una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor»13: unità di armi, necessaria per la rinascita; ma poi unità di lingua, di confessione
religiosa, di ricordi storici, di sangue comune, di comune densità emotiva; e non
basta: poco più avanti, nello stesso testo, tutti questi elementi sono collocati in
un’unità spaziale ben precisa, il «suolo», la «terra», un dominio ereditario che l’Italia
– forte della sua millenaria identità – torna a riprendersi («O stranieri, nel proprio
retaggio / torna Italia, e il suo suolo riprende; / o stranieri, strappate le tende
/ da una terra che madre non v’è»)14. Berchet, ne Le Fantasie, testo poetico del 1829 che contribuisce a collocare la Lega lombarda, Pontida e
Legnano al centro della mitografia risorgimentale, impiega questi stessi elementi,
quando, dopo aver descritto il giuramento di Pontida, ne spiega le premesse:
13 A. Manzoni, Marzo 1821, in Id., Tutte le poesie, 1797-1802, a cura di G. Lonardi e P. Azzolini, Marsilio, Venezia 1992, p. 198.
15 G. Berchet, Le Fantasie, in Id., Lettera semiseria, cit., p. 339.
Sono dunque il volere di un superiore agente divino, e poi il sangue che lega la successione
delle generazioni a una terra, una comune tradizione, un comune linguaggio, gli elementi
costitutivi della comunità nazionale. Tutti aspetti, questi, che in forma più netta
e stilizzata ricompaiono anche nella scena de La battaglia di Legnano – opera del 1849 con musica di Giuseppe Verdi e libretto di Salvatore Cammarano –
in cui i protagonisti, Rolando e Arrigo, cavalieri della Lega, vanno a parlare con
i comaschi, allora alleati del Barbarossa, per cercare di convincerli ad abbandonare
il «Teutono» e ad unirsi alle altre città lombarde. Rolando, rivolgendosi ai capi
comaschi, dice allora:
Taccia
Il reo livore antico
Di Milano e di Como: un sol nemico,
Sola una patria abbiamo,
Il Teutono e l’Italia; in sua difesa
Leviam tutti la spada.
podestà [di como] e coro [dei comaschi]: Ed obliasti
16 S. Cammarano, La battaglia di Legnano, in G. Verdi, Tutti i libretti d’opera, vol. I, a cura di P. Mioli, Newton Compton, Roma 1996, p. 290.
In questo caso il patto sottoscritto tra i comaschi e Federico Barbarossa è considerato
niente meno che «iniquo», perché viola l’ordine naturale delle cose, ovvero l’appartenenza
dei cittadini di Como alla comune schiatta italica. Anche in un importantissimo saggio
politico di impronta esplicitamente antimazziniana riecheggiano questi fondamentali
elementi definitori. In Del primato morale e civile degli Italiani Gioberti sostiene che la nazione italiana, oppressa dai barbari, «contiene in sé
medesima, sovratutto per via della religione, tutte le condizioni richieste al suo
nazionale e politico risorgimento»17: e il presupposto logico e storico che dà fondamento a questa aspirazione è che,
in definitiva, «v’ha [...] un’Italia e una stirpe italiana, congiunta di sangue, di
religione, di lingua scritta ed illustre»18, che – dopo secoli di decadenza – ha il diritto di rinascere e di avere una sua propria
espressione statale. Certo, il «popolo italiano» – afferma Gioberti in una trasparente
polemica con Mazzini – non può essere soggetto d’azione politica perché non è ancora
altro che «un desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e
non una cosa»19. È per questo che la guida del risorgimento nazionale deve essere «monarchic[a] ed
aristocratic[a], cioè risedente nei principi e avvalorat[a] dal concorso degl’ingegni
più eccellenti, che sono il patriziato naturale e perpetuo delle nazioni»20. Anzi – riprendendo il principio già formulato anni prima da Vincenzo Cuoco secondo
cui le costituzioni devono essere coerenti col genio delle nazioni –, aggiunge che
un assetto politico fondato sui prìncipi, su aristocrazie civili e consultive, e sul
coordinamento politico-spirituale del papa, è la condizione propria «del reggimento
nazionale d’Italia», perché esso meglio esprime le due componenti fondamentali del
genio italico:
17 V. Gioberti, Del Primato morale e civile degli Italiani, vol. I, a cura di U. Redanò, F.lli Bocca, Milano 1938, p. 70.
Il genio proprio degli Italiani nelle cose civili risulta da due componenti, l’uno
dei quali è naturale, antico, pelasgico, dorico, etrusco, latino, romano, e s’attiene
alla stirpe e alle abitudini primitive di essa; l’altro è sovrannaturale, moderno
cristiano, cattolico, guelfo, e proviene dalle credenze e istituzioni radicate, mediante
un uso di ben quindici secoli, e tornate in seconda natura agli abitanti della penisola.
[...] Amendue questi concetti, nazionali all’Italia e toscoromani di origine, mirano
a compenetrare tutte le parti del vivere civile21.
Passi come questi sono interessanti, perché danno la misura del tasso di artificiosa
inventività immaginifica che presiede alla costruzione dell’idea di nazione italiana.
Ma l’enfatizzazione emozionale e la manipolazione analitica contenute in testi come
questi non devono far perdere di vista la forza comunicativa che possiedono. Declinando
la nazione come fatto naturale, strutturato sulla base di legami simili a quelli familiari
e parentali, questi autori, e i molti altri speaker che li imitano e li seguono, ai
più diversi livelli, compiono due operazioni di grande efficacia: semplificano la
concezione nazional-patriottica rendendola di facile comprensione per chiunque; e
la strutturano anche come un linguaggio delle differenze, idealmente riassumibile
in questo modo: «noi siamo noi, perché abbiamo tratti naturali e culturali che ci
differenziano irrevocabilmente da loro, gli altri, gli stranieri»; in un costrutto
di questo genere, gli stranieri sono solo «diversi». Ma in contesti di crisi politico-militare
rapidamente da «diversi» possono anche trasformarsi in «nemici».
4. Effetti performativi del discorso nazionale
La capacità di far leggere un universo sociale consueto con categorie completamente
nuove è una buona misura della forza performativa di un sistema discorsivo. Ma la
performatività di un sistema di pensiero è testimoniata soprattutto dalla maggiore
o minore efficacia con la quale esso è in grado di condizionare non solo i valori
astratti, ma anche i concreti comportamenti degli individui che lo accolgono. E un
esempio piuttosto impressionante della diretta performatività del discorso nazionale,
così come si forma nella prima metà dell’Ottocento, è offerto dalla sequenza di eventi
che accadono a Venezia nei primi mesi dopo l’insurrezione e la capitolazione delle
autorità austriache (22 marzo 1848), ricostruiti di recente da Piero Brunello in un’accurata
e importante ricerca d’archivio22.
22 P. Brunello, Austriaci a Venezia, in Fratelli di chi. Libertà, uguaglianza e guerra nel Quarantotto asburgico, a cura di S. Petrungaro, Edizioni Spartaco, Santa Maria Capua Vetere 2008.
Negli anni e nei mesi precedenti al marzo 1848, a Venezia, parte del Lombardo-Veneto
e quindi dell’Impero austriaco, si possono incontrare molti stranieri, diversi dei
quali vengono da altre regioni dell’Impero. La convivenza non è mai stata un particolare
problema. Molti stranieri lavorano a Venezia o perché sono parte della guarnigione
militare di stanza in città; o perché sono funzionari o impiegati della burocrazia
imperiale; o perché, semplicemente, vi svolgono un qualche tipo di attività lavorativa.
Ma nel momento in cui, anche a Venezia, scoppia la rivoluzione nazionale, il discorso
delle differenze, imposto dall’ideologia nazional-patriottica, entra subito in azione.
Intanto impone una scelta di campo a soldati e ufficiali, che, normalmente, si dividono
per gruppi nazionali. Inoltre, sin dal 23 marzo 1848, nonostante le disposizioni distensive
dei membri del governo (Manin, Paleocapa, Tommaseo), popolani e membri della guardia
civica aggrediscono verbalmente persone identificate come «straniere», e – nel caso
della guardia civica – arrestano o impediscono l’uscita dalla città a stranieri considerati,
in quanto tali, automaticamente nemici.
Gli episodi di intolleranza si susseguono. All’Agenzia dei Sali e Nitri impiegati
e facchini protestano contro la direzione «con urli e minacce» perché sembra che un
impiegato «tedesco» possa ottenere una promozione. Analoga situazione alla Manifattura
Tabacchi, dove si vuole il licenziamento di un impiegato triestino perché «non nazionale»
(ma in realtà perché è un tipo scrupoloso, che controlla con rigore i lavoranti)23. Per risolvere le tensioni, gli impiegati e i funzionari stranieri sono indotti a
dimettersi, oppure sono licenziati e in qualche caso sono anche invitati ad andarsene
rapidamente da Venezia. A proposito di sei guardie carcerarie, austriache di nascita,
che a maggio 1848 chiedono di avere il passaporto per il rimpatrio, la delegazione
provinciale consiglia un pronto imbarco perché,
da persone così invise alla popolazione, ed ai detenuti, come sono le sei guardie
petenti, [non ci si può] attendere un utile servigio, e anzi [si deve temere] che
la loro nazionalità possa dare occasione a qualche disordine nello stabilimento24.
24 Archivio di Stato di Venezia [d’ora in poi ASV], Governo provvisorio, b. 18, n. 6904, Parere della delegazione provinciale, 18 maggio 1848, cit. ivi, p. 39.
Altri sono costretti ad andarsene perché, dopo essere stati licenziati, non trovano
più lavoro, nonostante desiderino restare in città: è il caso del viennese Giuseppe
Kobl, sposato con una veneziana e residente a Venezia da quindici anni, che viene
licenziato dalla Fabbrica Tabacchi e si trova costretto a chiedere il passaporto per
andarsene, perché non riesce a trovare altri lavori25. Sono in grave difficoltà anche altri stranieri che lavoravano alle dipendenze di
privati, o perfino che lavoravano in proprio. È il caso di Bortolo Ksekovich, un cameriere
«dell’Alta Austria»: dopo che i suoi datori di lavoro se ne sono andati, «inutilmente
erasi prestato per avere un servizio in questa città, venendo da ognuno respinto attesa
la di Lui nascita». Un orologiaio di nome Vossler deve chiudere il negozio «essendo
mal visto per le attuali circostanze», e per questo chiede il passaporto assieme alla
moglie, Apollonia Marussich26. La stessa cosa capita a tre cocchieri, impiegati da nobili in terraferma (Giuseppe
Langhans, al servizio di Elisabetta Galvan d’Onigo; Matteo Gross e Antonio Ischik,
al servizio di Accurti a Spinea): il Comitato di pubblica vigilanza, nell’approvare
il rilascio dei passaporti, scrive che sono «ottimi giovani ma che non sono tollerati
in campagna per la loro nazionalità»27. Inoltre,
26 ASV, Prefettura centrale d’ordine pubblico 1848, vi.1, Passaporti per l’estero, b. 1, n. 193 e n. 728, cit. ivi, p. 38.
27 ASV, Prefettura centrale d’ordine pubblico 1848, vi.1, Passaporti per l’estero, b. 1, n. 422, cit. ivi, p. 39.
alla metà di maggio la prefettura dell’ordine pubblico sconsigliò a un certo Leonardo
Becker di trasferirsi dal Vicentino a Venezia, perché «il popolo verrebbe tosto sinistramente
impressionato» dal cognome di «difficile pronuncia»: e in quel periodo in città gli
«eccessi popolari sopra persone supposte tedesche» erano «frequenti»28.
28 ASV, Governo provvisorio, b. 17, n. 6580, Viceprefetto della prefettura centrale d’ordine pubblico al Governo provvisorio, 19 maggio 1848, cit. ivi, p. 39.
In una lettera del 19 maggio 1848, inviata al governo provvisorio per ottenere l’autorizzazione
a imbarcarsi, nove persone, di cui uno ungherese, due boemi, due triestini e quattro
austriaci scrivono di vivere in locande a loro spese, senza mai uscire,
onde non essere insultati dalla bassa plebe, come usa contro qualunque nazione straniera,
essendo presentemente tutti calcolati per Tedeschi, e persino si deve sentire dalla
plebe le parole: non sono ancora partiti quei dimessi fioi de cani di tedeschi29.
29 ASV, Governo provvisorio, b. 16, n. 6300, cit. ivi, p. 36.
Il fatto è che, in generale, sta montando un’ostilità aggressiva e indiscriminata
nei confronti di coloro che sono, o sono considerati, «tedeschi»: sin dai primi di
aprile, del resto, il capo della guardia civica, l’avvocato Bartolomeo Benvenuti,
rifiuta la pubblicazione di un appello di Tommaseo «ai tedeschi», sostenendo che
a ragione od a torto i Tedeschi sono odiati in Italia. Quest’è un fatto incontrastabile.
Chi dice bene di essi si oppone quindi ad un sentimento che può dirsi nazionale, e
ciò parrebbe grave imprudenza30.
30 N. Tommaseo, Venezia negli anni 1848-49. Memorie storiche inedite, vol. I, Firenze 1931, appendice XIII, p. 333, cit. ivi, p. 33.
L’ostilità colpisce non solo «tedeschi», ma anche persone di nazionalità italiana
che abbiano sposato persone austriache (e quindi «tedesche») o identificate come «tedesche».
Il suonatore girovago Giuseppe Costa, di 38 anni, originario di Asiago, è a Venezia
da vent’anni.
Suona clarinetto, violino e mandolino. [Il 13 maggio 1848] sta ascoltando in piazza
San Marco i racconti di alcuni soldati dello Stato pontificio, che dicono che gli
italiani hanno vinto una battaglia dalle parti di Cornuda. Costa mostra piacere, come
gli altri. Ma qualcuno dei presenti gli rinfaccia: «Cosa parlate voi che avete la
moglie tedesca?». La moglie, Maria Kuweina (in altre carte Kuhweiner), anche lei suonatrice
girovaga, viveva nelle province venete da sedici anni, ma era originaria della Carinzia31.
31 Ivi, pp. 39-40: in questa e nelle citazioni seguenti ho volto i tempi verbali al
presente.
Costa reagisce, ma sta per essere aggredito dalla folla; a quel punto scappa e si
rinchiude in casa.
Alcuni, che lo ritengono una spia del cessato governo austriaco, lo inseguono e cominciano
a picchiare alla porta. Popolani: tra di loro un barcaiolo, un gondoliere e uno che
lavora da un calzolaio32.
Vicino a casa del Costa c’è un commissariato di polizia. La gente va a chiamare i
gendarmi, e Costa viene arrestato,
«sia per garantirlo nella sua personale sicurezza, e sia perché non abbia coi suoi
imprudenti discorsi a turbare l’ordine pubblico». Costa dichiara al commissario di
non poter più suonare per strada con la moglie «senza che vi sia alcuno, o più di
uno, e vari individui appresso, i quali non li molestino e gl’insultino con invettive
ed imprecazioni», prendendo a pretesto la circostanza (circostanza «d’altronde innocente»
precisa Costa), che Maria non è «nazionale»: lui stesso viene preso per «tedesco».
I due suonatori, marito e moglie, chiedono e ottengono il passaporto sia per gli Stati
sardi che per lo Stato pontificio33.
Un altro italiano, Giovanni Basso, si lamenta «perché la moglie Maria Miller o Muller,
‘di origine illirica’, è qualificata come ‘tedesca con sommo suo danno’»34. Ma le molestie o le aggressioni colpiscono anche stranieri sposati con italiane:
un ungherese, Nicola Kleins,
ex secondino nella casa di correzione della Giudecca protesta ai primi di giugno di
non poter uscire di casa perché «gran parte de’ fanciulli gli dicevano morte al Tedesco»:
è sposato con una donna veneziana e gestisce una piccola rivendita di pane e di acquavite35.
Il 14 maggio 1848, invece, Maria Veche, una bolognese residente a Venezia, scrive
alle autorità di governo per protestare perché il marito, Giovanni Sterlin, nato in
Carniola, di professione sarto, soldato nel reggimento Kinsky, pur avendo disertato
dal reggimento, è da un mese in carcere senza motivo, rinchiuso solo per il fatto
di essere austriaco36.
Tra gli stranieri ce ne sono anche diversi che non vorrebbero andarsene e che per
questo chiedono la
«cittadinanza» o la «nazionalità» italiana o veneta, sulla base dei requisiti che
la legislazione austriaca richiedeva per l’ottenimento della cittadinanza, come i
lunghi anni di residenza in Italia, l’aver esercitato una professione, la buona condotta.
Gli autori delle istanze, tutti capifamiglia, aggiungono inoltre requisiti non previsti
dalla legislazione austriaca, come ad esempio il matrimonio con una donna veneziana,
i figli nati e cresciuti a Venezia, l’attaccamento alla città o all’Italia, la madre
italiana. Ma il governo risponde che non c’è una normativa al riguardo [...], e le
istanze rimangono senza esito. Qualcun altro chiede di poter assumere il cognome materno,
italiano: ma anche in questo caso il governo risponde di attendere «finché non siano
fissate sicure norme»37.
Ciò che a Venezia nel 1848 ancora non c’è, ovvero una legge sulla nazionalità e sulla
cittadinanza, ci sarà invece, ovviamente, per il neonato Regno d’Italia. E sarà importante
osservare come le norme adottate dal nuovo Stato-nazione traducano in forza di legge
gli elementi mitografici che già nel ’48 veneziano hanno dispiegato tutta la loro
forza performativa (lo vedremo nel primo paragrafo del cap. II).
5. La sacralità della nazione
Dunque il discorso nazionale sa dare un posto fondamentale all’esperienza della nascita,
tanto da fondare intorno a essa una concezione della nazionalità che dalla dimensione
mitografica riesce a passare immediatamente al senso comune. Tuttavia il discorso
nazionale non si ferma lì, poiché è in grado di includere nel suo spazio mitografico
anche le esperienze del dolore, della sofferenza e della morte. Al di là della cifra
comune che appartiene a tutto il nazionalismo europeo, la connotazione mortuaria e
dolorista del discorso nazional-patriottico italiano ha una semplice spiegazione nell’essere
– specie alle origini – espressione di un movimento illegale di opposizione: la sofferenza
e non di rado la morte, sono esperienze necessariamente da prevedere per chi voglia
militare in una forma o nell’altra all’interno di questo movimento; e in effetti è
la sofferenza che accomuna in forme diverse i percorsi di Mazzini e Confalonieri,
Pellico e Sciesa, Poerio e Tazzoli, Speri e Settembrini, e molti altri ancora. Genialmente,
l’incorporazione della sofferenza nell’orizzonte valoriale del discorso risorgimentale
avviene attraverso un calco diretto dalla tradizione cristiana. I termini chiave,
in questo caso, sono «sacrificio» e «martirio», parole che riprendono in toto il significato
originario che già hanno all’interno del lessico cristiano, proiettandolo tuttavia
dalla dimensione puramente religiosa nel campo della semantica politica: in questa
nuova declinazione, martire è colui che dà testimonianza della sua fede politica al
resto della comunità che ancora attende di risvegliarsi, di capire il mistero dell’appartenenza
nazionale e di partecipare con i militanti alle azioni necessarie perché sia restituita
libertà e indipendenza alla nazione italiana da secoli caduta.
Il richiamo alla necessità del sacrificio è un’operazione che consente di presentare
il discorso nazionale come un discorso politico para-religioso: i militanti morti
per la causa diventano subito dei «martiri», cioè in senso proprio dei soggetti che
hanno «testimoniato» con la morte la propria «fede» politica; in tal modo le guerre
nazionali si trasformano in «guerre sante» o «crociate»; l’azione di propaganda diventa
«apostolato»; e la rinascita della nazione diventa «resurrezione» (questo il senso
etimologico originario del termine «Risorgimento»).
Proprio la concezione sacrale della nazione e del sacrificio da compiersi per essa
consente di vedere la guerra in una dimensione religiosa, come appare chiaramente
dall’ordine del giorno redatto da Massimo d’Azeglio e letto dal generale Durando ai
suoi soldati il 5 aprile 1848:
Soldati! La nobile terra Lombarda, che fu già glorioso teatro di guerra d’Indipendenza,
quando Alessandro III benediceva i giuramenti di Pontida, è ora calcata da nuovi prodi,
coi quali stiamo per dividere pericoli e vittorie. Anch’essi, anche noi siam benedetti
dalla destra d’un gran Pontefice, come lo furono que’ nostri antichi progenitori.
[...]
Quell’uomo di Dio, che aveva pianto sulle stragi, sugli assassinii del 3 gennaio,
ma sperato insieme che fossero stati effetto di brutale passeggera esorbitanza di
soldati sfrenati, ha dovuto ora conoscere che l’Italia, ove non sappia difendersi,
è condannata dal governo dell’Austria al saccheggio, agli stupri, alla crudeltà di
una milizia selvaggia, agl’incendi, all’assassinio, alla sua totale rovina; ha veduto
Radetzky muover guerra alla Croce di Cristo, atterrare le porte del Santuario, spingervi
il cavallo, e profanar l’altare, violar le ceneri dei padri nostri coll’immonde bande
de’ suoi Croati. Il Santo Pontefice ha benedette le vostre spade, che unite a quelle
di Carlo Alberto devono concordi muovere all’esterminio dei nemici di Dio e dell’Italia,
e di quelli che oltraggiarono pio ix, profanarono le Chiese di Mantova, assassinarono i fratelli Lombardi, e si posero
colla loro iniquità fuor d’ogni legge. Una tal guerra della civiltà contro la barbarie
è perciò guerra non solo nazionale, ma altamente cristiana.
Soldati! È convenevole dunque, ed ho stabilito che ad essa tutti moviamo fregiati
della Croce di Cristo. Quanti appartengono al Corpo d’operazione la porteranno sul
cuore nella forma di quella che vedranno sul mio. Con essa ed in essa noi saremo vincitori,
come lo furono i nostri padri. Sia nostro grido di guerra:
38Proclama del generale Giovanni Durando, capo del corpo di spedizione pontificio, ai
suoi soldati, in M. Minghetti, Miei ricordi, vol. I, Anni 1818-1848, Roux, Roma-Torino-Napoli 1888, pp. 365-366.
La sovrapposizione tra discorso religioso e discorso nazional-patriottico è totale
nei mesi che vanno dall’elezione di Pio IX alla sua allocuzione del 29 aprile 1848,
e dispiega allora il massimo della sua efficacia; ma essa rimane una struttura comunicativa
propria del discorso nazionale anche dopo l’allontanamento di Pio IX dal movimento
nazionale; e se da un lato lo sganciamento di Pio IX e di una parte importante dei
chierici dal movimento risorgimentale costituisce una indubbia difficoltà, dall’altra
conferisce alla sacralizzazione della politica, che è propria del discorso nazionale,
una forza e una credibilità perfino maggiore: la nazione diventa sacra non tanto perché
Pio IX la benedice; diventa sacra in quanto tale, e richiede una «fede» politica che
è autonomamente e intimamente para-religiosa.
Ciò spiega perché la retorica del martirio non si attenui nemmeno per un istante,
anche dopo il fatale 29 aprile. Ma naturalmente, affinché l’azione degli eroi che
si sacrificano per la patria abbia un senso, è necessario che tale azione sia ricordata,
commemorata e costantemente portata a esempio. È necessario, quindi che si costruiscano
riti della memoria, monumenti commemorativi, testi che traccino una mappa delle morti
degne di essere ricordate. Proprio con questa esplicita finalità Atto Vannucci pubblica
nel 1849 il primo volume di un libro intitolato I martiri della libertà italiana dal 1794 al 1848, strutturato come una lunga galleria di episodi di eroismo patriottico significativamente
inclusi nell’arco di tempo che va dal periodo giacobino fino alla rivoluzione nazionale.
Nell’Introduzione, riassumendo il senso del suo lavoro, Vannucci stringe un nesso diretto tra i martiri
della patria e i martiri cristiani:
I frutti della libertà che ora da noi s’incominciano a cogliere, furono seminati e
coltivati con lunghi dolori dai nostri padri e dai nostri fratelli. Non vi è carcere
che non sia stato santificato dalla presenza e dai patimenti degli uomini più generosi:
non vi è paese straniero che non fosse pieno di esilii, che non vedesse le italiane
sciagure: in Italia non vi è palmo di terra che non fosse bagnato dal sangue dei Martiri
della Libertà. E la sciagura e il martirio furono perpetui tra noi e i padri li lasciarono
ai figliuoli, i quali arditamente accettarono l’eredità e la tramandarono alle generazioni
novelle. Gli uomini italiani in ogni tempo protestarono, morendo, contro la tirannide
che opprimeva la patria: morirono fermamente credendo che il loro sangue fosse fecondo
di libera vita ai futuri. Né gli uomini soli affrontarono le barbare ire dei despoti:
anche il sesso che chiamano debole entrò nella lotta: anche le donne salirono impavide
sui patiboli dei tiranni, e caddero santi olocausti della causa del vero.
Come in molte altre cose, anche nel martirio l’Italia va innanzi ad ogni altra nazione.
In niun altro luogo la libertà non contò tante e sì nobili vittime. In Italia infinito
è il numero di quelli che scelsero la sventura vivendo, e che animosamente morirono
per servire alla patria.
I martiri della religione cristiana dicevano ai loro carnefici: Voi volete distruggerci,
e non avete forza né modo di venire a capo del vostro disegno. Noi coltiviamo i vostri
campi, noi sediamo nei vostri tribunali e nei vostri consigli, noi combattiamo nei
vostri eserciti, noi popoliamo le vostre città e le vostre campagne, noi siamo legioni:
lo stesso potevano dire, e hanno detto in Italia i martiri della libertà: essi erano
in tutte le classi, in tutte le condizioni sociali: erano fra i magistrati, fra i
sacerdoti: erano nei palazzi e nelle capanne, e dappertutto combattevano strenuamente
per lo stesso principio, e confermavano l’ardente fede col sangue39.
39 A. Vannucci, I martiri della libertà italiana dal 1794 al 1848, vol. I, Poligrafia Italia, Livorno 1849, pp. 5-6.
Aurelio Saffi, che nel 1850 recensisce entusiasticamente il libro di Vannucci su «L’Italia
del Popolo», nell’Introduzione alla sua Storia di Roma dal Giugno 1846 al 9 Febbraio 1849, redatta tra il 1849 e il 1852, scrive:
La sola fede superstite in Italia, o per dir meglio la fede novellamente surta sulle
rovine delle vecchie superstizioni, è la fede nella vita e nei destini della Nazione;
nel progresso sociale della Umanità; in Cristo vivente nel popolo e nelle aspirazioni
patrie: fede confessata e suggellata col sangue da migliaia di martiri. Quando alcuni
monaci entrarono nella cappella delle carceri di Cosenza, dove i fratelli Bandiera
e i loro compagni aspettavano sereni l’ora del supplizio, Attilio, il maggiore de’
fratelli, indirizzò loro queste parole: «Noi abbiamo praticata la legge del Vangelo
e cercato di propagarla a prezzo del nostro sangue fra i redenti di Cristo; abbiam
fede di essere raccomandati a Dio meglio dalle nostre opere che dalle vostre parole,
e vi esortiamo a serbarle per predicare agli oppressi la religione della libertà e
della eguaglianza». E Anacarsi Nardi, altro de’ martiri, al frate che gli mostrava
il Crocefisso addimandandogli se ne avesse conoscenza, rispose: «Lo conosco, lo confesso,
lo adoro; ma respingo voi che siete strumento della tirannide, e guastate il suo santo
Vangelo». È questa la fede che ha fornito alla storia patria tanti magnanimi esempî,
tanti sacrificî, tante morti fortissime. In chi moriva e in chi rimaneva a piangere,
a fremere, a sperare, erano accanto a quella fede immortali l’odio e il disprezzo
contro le cagioni della nostra impotenza e della nostra sventura40.
40 A. Saffi, Storia di Roma dal Giugno 1846 al 9 Febbraio 1849, in Id., Ricordi e scritti, vol. II, 1846-1848, Barbèra, Firenze 1893, pp. 2-3.
Non sono che due esempi di una costante lettura martirologica e cristologica delle
azioni dei militanti, dispersa in ogni angolo della costellazione comunicativa nazional-patriottica.
Indubbiamente al centro di questa buona novella politica campeggia l’eroe per antonomasia
del Risorgimento, Garibaldi. Una litografia risalente al 1850 (fig. 1), che rappresenta
l’eroe in sembianze di Cristo benedicente, illustra bene il senso della rilettura
cristologica della figura dell’eroe: Giuseppe Garibaldi, che ha combattutto eroicamente,
ma senza successo, per la difesa della Repubblica romana del 1849, e nel corso della
successiva fuga ha tragicamente perduto la moglie Anita, è ritratto come un Cristo
patriottico, bello e triste perché sofferente (la mano benedicente porta, con grande
evidenza, il segno delle stimmate).
Fig. 1. Ritratto di Garibaldi nel 1850 trasfigurato in Redentore per eludere la censura, litografia anonima, 1850. Roma, Museo Centrale del Risorgimento.
In questo caso – esemplare del funzionamento del discorso nazionalistico – l’operazione
è particolarmente potente perché vuole stabilire un nesso diretto tra l’epopea del
nazionalismo risorgimentale e la cristologia, una soluzione mitografica che – negli
anni seguenti – non abbandona più Garibaldi. Giovanni Visconti Venosta così ricorda
il suo arrivo in Valtellina nel 1859, al quale lui stesso ha assistito:
Il fascino che Garibaldi fin d’allora esercitava sulle moltitudini era meraviglioso,
alle volte pareva quasi inconcepibile, e meritava di essere osservato e studiato.
Garibaldi, quando attraversava un paese, sebbene allora non portasse la camicia rossa,
non si sarebbe detto che fosse un generale, ma il capo d’una religione nuova, seguito
da turbe fanatiche. Né meno degli uomini erano entusiaste le donne, che portavano
perfino i loro bambini a Garibaldi perché li benedicesse, o perfino li battezzasse!41
41 G. Visconti Venosta, Ricordi di gioventù. Cose vedute o sapute, 1847-1860, a cura di E. Di Nolfo, Rizzoli, Milano 1959, p. 368.
Giuseppe Cesare Abba ha questo ricordo di Garibaldi a Palermo il 31 maggio 1860:
Il Generale ha fatto un giro per la città, dove ha potuto passare a cavallo. La gente
si inginocchiava, gli toccavano le staffe, gli baciavano le mani. Vidi alzare i bimbi
verso di lui come a un santo. Egli è contento42.
42 G.C. Abba, Da Quarto al Volturno (Noterelle d’uno dei Mille), in Scrittori garibaldini, vol. I, a cura di G. Trombatore, Einaudi, Torino 1979, p. 70.
Ippolito Nievo racconta all’amico Attilio Magri un episodio avvenuto nel corso dell’impresa
dei Mille, a Cascina Vita:
Qui il generale era rimasto «commosso alla scena fattagli da un frate il quale, essendosigli
prostrato dinnanzi cogli occhi rivolti al cielo, ringraziava Iddio di avergli concesso
di vedere il Salvatore della patria, il nuovo Gesù dei popoli sofferenti; chiedendo
poi al Generale che gli concedesse di seguirlo in sostituzione di Ugo Bassi già martire,
per confortare colla parola quelli che cadevano senza la soddisfazione di assistere
al completo trionfo della risorta nazione»43.
43 M. Bertolotti, Le complicazioni della vita. Storie del Risorgimento, Feltrinelli, Milano 1998, p. 174.
Tutte queste immagini evocano una dimensione sacrale che effettivamente appartiene
al discorso risorgimentale, così come all’immaginario garibaldino. Garibaldi, indubbiamente,
ha un’aura di santità intorno a sé. Ma – come altri «santi nazionali» – la sua santità
ha caratteri peculiari, che ne fanno qualcosa di diverso dalla tradizionale santità
cristiana. Nel culto cristiano il santo è un individuo che si è distinto per una vita
eccezionale, di sacrificio, dedizione e martirio; la sua sofferenza ha un valore testimoniale,
e può culminare in una morte violenta, sofferta per difendere la propria fede o la
propria purezza; ma la sua santità può anche esser provata da un «martirio incruento»,
cioè da una vita di sofferenza sacrificale, consacrata alla venerazione e all’imitazione
di Cristo. La memoria delle sofferenze e della morte danno un senso al culto dei santi
che ha un carattere eminentemente funerario: oggetto di devozione sono tanto le tombe
dei santi, quanto le loro reliquie. Il senso di queste pratiche cultuali sta nella
possibilità di restare in contatto col santo, al quale è attribuito il fondamentale
compito di mettere in relazione terra e cielo, devoti e divinità.
Di questo universo di segni, un «santo nazionale» come Garibaldi conserva soprattutto
un aspetto importante: la possibilità di intrattenere un rapporto privilegiato con
la morte e con la sofferenza. La sua familiarità con la morte è consacrata da una
vita contrassegnata da un’incessante disponibilità al sacrificio. «La sua carne sofferente,
l’intenso travaglio mentale, le energie spese senza risparmio per la causa nazionale,
le ferite e il dolore per la perdita di Anita (l’amore romantico), e gli altri dolori
privati, sono dati come equivalenti al martirio»44. È questo martirio di tutti i giorni, per così dire, che, insieme alla sua moralità,
alla sua bellezza, alle sue qualità di condottiero, eleva Garibaldi al di sopra dei
suoi contemporanei. E allora, il suo tocco diventa una benedizione che secondo alcuni
può indirizzare verso una vita integra e gloriosa. Essere toccato da qualche reliquia
che lo riguarda, o possederne una, è essere più vicino a lui, alle sue nobili qualità,
che possono riverberarsi positivamente sul possessore. Morire al suo fianco dà diritto
a essere ricordati e onorati.
44 D. Mengozzi, Garibaldi taumaturgo. Reliquie laiche e politica nell’Ottocento, Piero Lacaita Editore, Manduria-Bari-Roma 2008, p. 37.
Tutti questi aspetti avvicinano un «santo nazionale» come Garibaldi al mondo dei santi
cristiani. Ma ciò nonostante la «santità nazionale» si differenzia profondamente dalla
santità cristiana per un aspetto cruciale: un «santo nazionale» non funge da mediatore
tra un presente e un aldilà nel quale si entra in contatto con la divinità, giacché
la dimensione metafisica è del tutto assente dal discorso politico nazionalista. Cosa
sono, allora, i «santi nazionali» per i loro «devoti»? Sono soprattutto degli specchi
in cui i devoti possono riflettere la propria immagine, modelli a cui possono uniformare
il proprio comportamento. La relazione comunicativa che figure come quella di Garibaldi
attiva con i suoi seguaci non è rivolta a un’alterità metafisica (devoti → santo → divinità), ma si riflette immediatamente sulla stessa comunità (devoti → «santo nazionale» → devoti). Ed è a questa stessa logica che risponde la celebrazione visiva di figure
come quella di Garibaldi e di altri «santi nazionali», attraverso la disseminazione
postunitaria di statue che li ricordano dopo la loro morte in ogni piazza d’Italia.
La rappresentazione visiva, scultorea, pittorica o fotografica ha la funzione di evocare
una presenza lontana. All’origine dell’esperienza artistica – com’è noto – c’è il
bisogno di conservare la presenza della persona morta. E proprio questo è il senso
delle rappresentazioni grafiche o scultoree degli eroi patriottici, che si diffondono
dovunque nelle città italiane del tardo Ottocento. Anche in questo caso il paradigma
della santità nazional-patriottica si discosta dai culti cristiani. Nella tradizione
cristiana, infatti, solo eccezionalmente il corpo del santo (statua o reliquia) esce
dai luoghi deputati alla sua conservazione, per muoversi all’interno della comunità
di riferimento: le rappresentazioni del santo escono dagli ambienti che gli sono riservati
solo in momenti particolari, nel corso di speciali liturgie periodicamente ripetute,
processioni, speciali festività. Qualcosa di diverso avviene con i «santi nazionali»,
come Garibaldi, o come altri importanti «padri della patria», primo fra tutti Vittorio
Emanuele. La loro figure corporee, rappresentate attraverso sculture quanto più realistiche
possibile, sono collocate nelle piazze cittadine, come una presenza permanente all’interno
dello spazio dei vivi, in luoghi non esclusivamente riservati al culto della santità
o ai riti funebri. Detto in altri termini: le statue di Garibaldi come quelle degli
altri «padri della patria» che dagli anni Ottanta dell’Ottocento popolano le città
italiane, sono rappresentazioni funebri che escono dai cimiteri per entrare a far
parte in modo permanente della comunità dei vivi. Devono farlo, perché l’ideologia
nazional-patriottica vuole che i cittadini di una comunità nazionale abbiano costantemente
davanti ai loro occhi l’esempio sublime dei grandi della patria, così da poterli adeguatamente
imitare. In tal modo, anche dopo la morte del «santo nazionale» si conserva il circuito
semiotico che sembra essergli tipico (devoti → «santo nazionale» → devoti).
I toni esplicitamente religiosi di queste rivisitazioni della cristologia, dei martirologi
e dell’esperienza della santità contribuiscono a dare un’aura di religiosità all’intero
discorso nazionale. Tuttavia, l’utilizzazione di forme cultuali della tradizione cristiana
che è connaturata al discorso nazionale e alla costruzione del martirologio risorgimentale
non equivale a una pura e semplice copia. È, piuttosto, un’operazione di calco e trasposizione:
i leader e i militanti risorgimentali si impossessano di frammenti discorsivi, rituali
e liturgici di quella tradizione; ma il nuovo culto dei «santi della nazione» viene
fondato su riti e su sistemi di valore che hanno una logica propria, distinta da quella
della santità cristiana.
6. Genere e nazione
La concezione parentale e sacrale toglie astrazione al concetto di nazione e gli restituisce
ulteriormente una semplice e immediata comprensibilità: chiunque, in un paese cattolico
come l’Italia, capisce di cosa si sta parlando quando si evocano i sacrifici, i martiri,
la fede, la santità nazionale; e allo stesso modo chiunque capisce cosa si intende
quando si applica il lessico della famiglia all’idea di nazione. Ma tali operazioni
acquistano una forza ancora maggiore, perché si collegano a un’altra costellazione
figurale di grande rilievo, strutturata intorno al triangolo amore/onore/virtù. Si tratta di qualità che, nell’economia del discorso risorgimentale, definiscono
in modo peculiarmente asimmetrico il profilo dei generi ammessi dalla comunità nazionale.
In prima battuta nel discorso nazionalista risorgimentale le identità di genere hanno
un’articolazione puramente diadica: maschio e femmina eterosessuali; nient’altro è
esplicitamente previsto. L’enfasi sulla normatività dell’eterosessualità – prima ancora
che in forma prescrittiva – viene proposta attraverso la narrazione del difficile
incontro tra eroe ed eroina della nazione, che, nel momento stesso in cui devono cercar
di superare gli ostacoli che si frappongono al loro matrimonio, devono anche cercar
di affrontare gli ostacoli che impediscono una felice vita della nazione. In altri
termini: nell’immaginario risorgimentale amore romantico e amore patriottico si sovrappongono,
sin da quell’opera geniale e fondamentale che sono Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Slanci ribelli animano l’una e l’altra passione: contro le convenzioni dei matrimoni
combinati, verso la pienezza dell’amore passione; contro ciò che ostacola la vita della nazione, verso la gloria della rinascita politica.
La ratio fondamentale che è alla base di tutto ciò sta nell’assunto secondo il quale solo
il compimento di un felice rapporto amoroso in un matrimonio stabile e duraturo è
il giusto presupposto per una piena e costante riproduzione della comunità; e il nesso
tra amore-matrimonio-riproduzione della comunità, da un lato, e conservazione della
linea genealogica, dall’altro, è al centro di questo specifico snodo concettuale,
come il vecchio Melchtal – che nel Guglielmo Tell musicato da Rossini (1829) sta per celebrare un matrimonio tra alcune giovani coppie
– spiega ai futuri sposi:
45 É. de Jouy, H.-L.-F. Bis, Guglielmo Tell, trad. it. di C. Bassi, in G. Rossini, Tutti i libretti d’opera, vol. II, a cura di P. Mioli, Newton Compton, Roma 1997, p. 497.
In questo modo di declinare l’amore romantico c’è una preoccupazione di carattere
molto chiaramente biopolitico, che deriva dalla concezione parentale della nazione:
se ciò che giustifica l’essenza di una nazione è l’esistenza di una linea genealogica
coerente, è necessario che tale linea sia conservata e protetta. E proprio intorno
alle esigenze di protezione della linea genealogica intervengono i valori di onore/virtù, i cui contenuti sono diversi quando si osservino la componente maschile e quella
femminile della comunità.
Gli eroi maschi devono esser capaci di difendere la libertà e l’onore della nazione armi alla mano;
nelle narrative nazionali, il loro contatto col sacrificio (personale o dei nemici)
avviene solo ed esclusivamente all’interno di un contesto bellico. E sin dal tardo
Settecento, questo aspetto del discorso nazionale, alimentato dalla retorica della
«nazione in armi» e dalla realtà della coscrizione obbligatoria (introdotta dagli
eserciti rivoluzionari e napoleonici e ripresa dall’esperienza del volontariato democratico
di metà secolo), fa sì che gli eroi guerrieri della mitografia nazionale non siano
considerati più soltanto come l’espressione di una ristretta élite combattente, ma
siano fantasticati come la quintessenza della maschilità nazionale. Fantasie narrative
che hanno largo successo (si pensi ai miti dei Vespri siciliani, della battaglia di
Legnano, della disfida di Barletta, dell’assedio di Firenze, di Balilla, e altri consimili)
anche perché combattono efficacemente lo stereotipo diffusosi in Europa nei secoli
precedenti, secondo il quale gli italiani non sanno combattere.
Di converso, alle figure femminili si riservano compiti...