IV.
Un mondo giovane e inquieto
1. Essere giovani negli States
I giovani e le giovani negli States tra gli anni Trenta e la seconda guerra mondiale,
dunque; oppure – come si comincia a dire in questi anni – i/le «teenager»1. Ma chi sono? Che cosa fanno? E da quale mentalità sono guidati? A queste domande,
così generalizzanti, proprio in questi anni viene data una risposta che nella comunicazione
giornalistica si impone come un’indiscussa verità di senso comune. Ciò accade intanto
per l’influente intervento di autorità scientifiche riconosciute, come il sociologo
Talcott Parsons, che in un saggio del 1942 (e poi in altri articoli successivi) descrive
il mondo giovanile, in particolare quello raccolto nelle high schools (cioè, le scuole superiori), come uno spazio sociale relativamente compatto al suo
interno, dotato di rituali, pratiche e valori propri che lo separano nettamente dal
mondo degli adulti2. Si tratta di una prospettiva che influenza molto la stampa di informazione, nel
senso che i media mainstream sono prontissimi a riprendere e sviluppare l’idea di
un ideale mondo giovanile come un ambiente omogeneo e armonicamente distinto da quello
delle generazioni più anziane; nel dicembre del 1944 «Life», che dedica un ricco servizio
fotografico a un gruppo di giovani ragazze di Webster Groves, Missouri, introduce
le immagini della sua photo story con queste parole:
C’è un’epoca nella vita di ogni ragazza americana in cui la cosa più importante al
mondo è essere parte del gruppo delle altre ragazze e comportarsi e parlare e vestire
esattamente come fanno loro. Questa è la teen age.
All’incirca 6 milioni di adolescenti americane vivono in un mondo tutto loro – una
società graziosa, allegra, entusiasta, buffa e beata, quasi non sfiorata dalla guerra.
È un mondo di maglioni e di gonne e calzini e mocassini, di capelli lunghi, di montature
per gli occhiali laccate di rosso, di coetanei non ancora partiti per la guerra. È
un mondo ancora rispettoso dei genitori che sono amici, anche quando le ragazze usano
troppo a lungo il telefono. È un mondo fatto di Eneide di Virgilio, di lingua francese, di geometria piana, di giochi in classe, di hockey
su prato, di scherzi «scemi» e di accenti ostentati. È un mondo di pijama parties e di Hit Parade, di burro di noccioline e di popcorn e di infinite collezioni di
menu e di scatole di fiammiferi e di animaletti di peluche3.
Nelle righe seguenti, l’articolo ricorda che il mondo delle teenager è fatto di mode
mutevoli, e anche di esclusioni per chi non le segua con adeguata prontezza, anche
se il tutto è descritto con una certa fatua leggerezza: niente che non possa essere
rimediato facilmente; niente che non rientri in una rassicurante normalità.
In parte questa immagine ha un suo fondamento, giacché è vero che un miglior processo
di scolarizzazione tende a mantenere più a lungo nel tempo i ragazzi e le ragazze
all’interno di circuiti di sociabilità composti quasi esclusivamente da pari età;
a scuola, e in realtà anche fuori dalla scuola, i giovani tendono a frequentare altri
giovani, e a vedere gli adulti (genitori, insegnanti, datori di lavoro) come una sorta
di «altro da sé». Tuttavia il quadro proposto – a diversi livelli – da Parsons e da
«Life» contiene anche degli elementi di distorsione: intanto non tutti i giovani sono
nelle high schools, poiché molti abbandonano la scuola dopo l’ottava classe (che è l’ultima del ciclo
scolastico inferiore) o poco dopo aver cominciato il curriculum superiore; il che
comporta una più alta segmentazione nelle forme di aggregazione giovanile, dato che
a fianco della sociabilità scolastica si delinea una vivace e variegata sociabilità
di strada; in secondo luogo, anche l’ambiente delle high schools o – per chi prosegue ancora gli studi – quello dei college è segnato da profonde
separazioni e da acute fratture relazionali.
Sin dagli anni Settanta-Ottanta dell’Ottocento gran parte degli Stati degli Usa ha portato l’obbligo scolastico ai 14 anni4. Inoltre all’inizio del XX secolo, sotto la suggestione dei lavori di G. Stanley
Hall e John Dewey, un articolato movimento di riforma del sistema scolastico, guidato
spesso da imprenditori, giornalisti e politici locali, si è mosso per riorganizzare
completamente l’intera costellazione delle high schools5. Dietro queste iniziative non c’è solo la forza di una retorica democratica (peraltro
smentita in molti modi nella società e all’interno dello stesso sistema educativo):
c’è piuttosto il progetto di togliere dalle strade adolescenti privi di controllo,
che spesso vengono da famiglie di recente immigrazione, e che – a torto o a ragione
– sono considerati come dei potenziali delinquenti; c’è la richiesta di personale
qualificato per le industrie e per le amministrazioni pubbliche e private; e c’è il
culto dell’ascesa sociale, che spinge molti genitori a convincersi che una migliore
educazione può consentire ai propri figli di ottenere lavori più gratificanti e retribuzioni
più alte6.
E così, dal 1870 al 1910, le high schools crescono da 500 a 10.000, mentre i loro curricula educativi si rinnovano integralmente.
Le high schools finanziate dagli Stati e dalle comunità locali vengono prevalentemente riorganizzate
come istituti comprensivi, all’interno dei quali gli studenti possono scegliere se
seguire un curriculum preparatorio al college, di formazione generale o professionalizzante7. Dopo la fine dell’orario scolastico, che si protrae sino al primo pomeriggio, i
ragazzi e le ragazze possono restare a scuola anche nel tardo pomeriggio per partecipare
a varie attività parascolastiche (dal giornale della scuola, agli allenamenti delle
squadre sportive, alle prove del gruppo di recitazione o di musica, ecc.)8.
La crescita globale della frequenza nelle high schools statunitensi rimane costante anche in periodi particolarmente sfavorevoli. È quel
che accade, per esempio, negli anni della Grande Depressione, quando molte famiglie
decidono che è meglio tenere i figli a scuola piuttosto che lasciare che ciondolino
inutilmente intorno a casa, o che scappino su qualche treno alla ricerca disperata
di una vita propria; cosicché anche in questa fase gli iscritti aumentano stabilmente:
nel 1920 erano il 23% sul totale della popolazione di età compresa tra i 15 e i 19
anni; nel 1930 sono il 41%; nel 1940, il 57%9.
Si tratta di una scelta che è attivamente incoraggiata dall’amministrazione Roosevelt,
che nel 1935 istituisce la National Youth Administration, un’agenzia che nel corso
dei suoi otto anni di vita si occupa di sostenere economicamente i ragazzi o le ragazze
di famiglie disagiate con borse di studio e finanziamenti ad hoc10. Sebbene siano risultati significativi, e molto migliori rispetto a quelli conseguiti
dai sistemi scolastici superiori europei, resta vero che, nonostante tutti questi
sforzi, circa il 50% dei ragazzi e delle ragazze di età compresa tra i 15 e i 19 anni
è fuori della scuola, o perché dopo l’ottava classe interrompe il curriculum scolastico,
o perché, pur essendosi iscritto in una high school, non completa il curriculum fino al diploma.
Anche più selettivi sono i college e le università. Dagli anni Venti fino allo scoppio
della seconda guerra mondiale si registra una crescita piuttosto modesta delle iscrizioni,
dal 3 al 13% sul totale della popolazione compresa tra i 20 e i 24 anni11. All’epoca, conseguire un diploma universitario può aprire la strada verso le libere
professioni, o verso la carriera manageriale, accademica o diplomatica, con la conseguenza
di ottime retribuzioni e di un apprezzabile livello di vita; ma il costo delle iscrizioni
è molto alto, sia nelle università pubbliche che nelle private, e in questo periodo
le istituzioni statali non concedono alcun tipo di sostegno allo studio, cosicché
questa strada finisce per essere accessibile solo a giovani che provengono da famiglie
di classe medio-alta12.
La maggior parte dei ragazzi e delle ragazze che abbandonano precocemente la scuola
cercano di procurarsi un qualche tipo di impiego. Le loro possibilità dipendono molto
dalla collocazione sociale e dal radicamento locale della famiglia di provenienza.
In genere, le famiglie di origine di questi ragazzi sono piuttosto povere e non di
rado gravemente disfunzionali: un padre che se n’è andato o che è disoccupato e alcolizzato;
o una madre tossica o sopraffatta dal lavoro per mantenere famiglie a volte molto
numerose; o una varia combinazione di queste eventualità, in un contesto complessivo
culturalmente depauperato13. I ragazzi e le ragazze che vengono dalle famiglie più disastrate, quando la loro
condizione sia localmente conosciuta, difficilmente trovano impieghi qualificati,
o stabili, o a lungo termine, poiché i potenziali datori di lavoro li scartano a favore
di altri giovani che sembrano dare garanzie di maggior affidabilità. Ma anche costoro,
cioè quelli che vengono da famiglie più stabili ed economicamente più solide, negli
anni immediatamente successivi alla crisi del 1929 fanno fatica a trovare offerte
di lavoro, anche le più umili e le meno retribuite. Se sono disoccupati, e comunque
nel loro tempo libero dal lavoro, i ragazzi passano pochissimo tempo in casa, e formano
piccoli gruppi che stazionano all’angolo di una strada del quartiere nel quale abitano,
o in un locale delle vicinanze (un bar, il negozio di un barbiere, una stanza in un
edificio abbandonato). Se abitano in zone urbane periferiche, possono ritrovarsi in
capannoni dismessi o in aree ancora disabitate, dove accendono falò, e vi si riuniscono
intorno per giocare a dadi, bere alcolici (di contrabbando, durante il proibizionismo)
e talora fare uso di qualche droga14.
I gruppi amicali di strada che si formano sono molto numerosi e di varia dimensione;
Frederic M. Thrasher, in un suo fondamentale studio sociologico sulle gang giovanili
nella Chicago dei primi anni Venti, ne conta 1.313, per un totale stimato di 25.000
ragazzi che vi partecipano a vario titolo e per vari periodi; le dimensioni di questi
gruppi possono oscillare dai 3-4 membri fino ai 15-2015. Le gang giovanili sono molto segmentate, nel senso che sono divise per appartenenza
etnica, per quartiere, per confessione religiosa (anche se ci sono pure gang di strada
che radunano ragazzi di estrazione mista)16. Ciascuna gang cerca di dotarsi di segni di riconoscimento identitari, in genere
nomi collettivi, luoghi di ritrovo, qualche tipo un po’ particolare di attività; qualche
gang si trasforma anche in un’associazione formale, per esempio un athletic club, con una sede nella quale – oltre a pianificare le attività sportive – si svolgono
le consuete attività socievoli (giocare d’azzardo, fumare, bere, o semplicemente stare
insieme a passare il tempo chiacchierando)17. In alcuni casi i ragazzi delle gang adottano abitudini che sono al confine tra atteggiamenti
conformistici (darsi da fare per sostenere il boss politico del quartiere) e gesti
di ribellione antiestablishment (minori attività vandaliche o iniziative effettivamente
delinquenziali)18.
Le risse contro gang di altri quartieri che vogliono violare i confini del «territorio»
sono frequenti, e possono scoppiare se la posta in palio è concreta (gang di spacciatori
che vogliono ampliare il proprio raggio d’azione), ma anche se è simbolica (far vedere
chi ha più coraggio, chi è più audace, insomma chi è il più macho)19. La lealtà verso la propria gang è fondamentale nella socialità di strada; tuttavia
vale la regola che quando uno comincia a frequentare stabilmente una ragazza, o a
maggior ragione quando uno si sposa, abbandona la gang, perché entra in un’altra prospettiva
di vita che conduce verso il vero e proprio mondo degli adulti20. Con ciò appare chiaro che – per molti ragazzi – l’appartenenza alle gang è una sorta
di status temporaneo che accompagna il passaggio dall’infanzia all’età adulta, anche
se coloro che fanno parte di gruppi amicali che si dedicano a piccole attività delinquenziali
possono poi restare permanentemente nel mondo delle gang criminali vere e proprie
per tutto il resto della loro vita21.
Raramente nelle gang di strada ci sono anche delle ragazze; altrettanto rare – anche
se attestate – sono le gang composte da sole ragazze. Whyte, a conclusione della sua
ricerca sulle gang di un quartiere italoamericano di Boston, condotta tra il 1936
e il 1940, osserva:
Con il passar del tempo cominciai ad accorgermi che, a differenza di quella dei giovani,
la vita delle ragazze locali non era né interessante né piacevole: un ragazzo era
completamente libero di girare e bighellonare, ma una ragazza non poteva trattenersi
per le strade. Le ragazze trascorrevano infatti il loro tempo in casa, o presso amiche
e parenti, o sul luogo del lavoro, se ne avevano uno. Molte sognavano a occhi aperti
un giovanotto non di Cornerville, con un po’ di denaro, un buon lavoro e una certa
educazione, che le chiedesse in moglie e le portasse via da quel quartiere22.
Talora, nel loro tempo libero le ragazze di estrazione popolare tendono a riunirsi
in piccoli gruppi e a frequentarsi a casa ora dell’una ora dell’altra, costruendo
un sistema valoriale basato su una intensa frequentazione dei popular media (per esempio le riviste per adolescenti come «Seventeen»)23. In tal modo la cultura delle ragazze tende a celebrare aspetti della femminilità
– amore romantico, moda, bellezza – che sono una parte essenziale del sistema di valori
mainstream24. Tuttavia ci sono occasioni sociali – nel fine settimana, in particolare – in cui
possono uscire in gruppo e andare a divertirsi nei locali da ballo o nei juke joints frequentati dai ragazzi del quartiere o anche da estranei al quartiere o alla città25.
Le gang di strada sono un fenomeno essenzialmente urbano, con una territorialità molto
rigida, specificamente legata al quartiere nel quale si abita e si è cresciuti. Una
connotazione territoriale molto diversa, e continuamente cangiante, hanno altri gruppi
di giovani che, essendo orfani o in fuga da famiglie disfunzionali, abbandonano la
scuola e si uniscono alle comunità itineranti degli hoboes – i lavoratori avventizi migranti – o entrano nelle «giungle» urbane degli homeless.
La Hobohemia – cioè la comunità dei lavoratori vaganti o degli homeless urbani – è assai variegata
per età ed estrazione etnica; nondimeno, secondo Nels Anderson, autore di un pionieristico
studio sul fenomeno, è anche uno spazio nel quale gruppi differenti di persone – in
particolare afroamericani e bianchi – talora riescono a coabitare senza riprodurre
le tensioni razziali e le gerarchie sociali che vigono nella società mainstream; e
se c’è una frattura sociale evidente, essa distingue marcatamente gli outsiders dagli insiders, cioè le persone «normali» dai membri della Hobohemia26. Ciò non toglie che le traiettorie percorse da coloro che entrano nella Hobohemia possano essere varie: e così si oscilla tra chi continua, per tutta la vita, a spostarsi
di città in città in cerca di lavoro, viaggiando clandestinamente sui vagoni merci
dei treni o su altri mezzi di fortuna, e chi, invece, sperimenta questa esperienza
solo per un breve periodo della propria vita, per poi trovare una qualche forma di
stabilizzazione. Con la Grande Depressione questa seconda soluzione diventa particolarmente
difficile, e il fenomeno dei perenni migranti assume dimensioni di massa, travolgendo
non solo singoli individui isolati e sradicati, ma anche intere famiglie che negli
anni precedenti avevano avuto una stabile collocazione economica e sociale che però
è stata distrutta dalla crisi economica o dal disastro ecologico del Dust Bowl.
Molto più fortunati di costoro sono i ragazzi e le ragazze che frequentano le high schools, che mediamente sono di estrazione sociale superiore, sia in generale, sia per quanto
riguarda la coorte di quelli che completano gli studi sino al diploma di maturità27. Il che non significa che l’ambiente delle high schools sia psicologicamente riposante, giacché la struttura relazionale interna alle high schools dà vita a una mappa della sociabilità che è molto frastagliata e gerarchica. Nelle
scuole si formano molti gruppi di ragazzi e ragazze, che sono gerarchicamente distinti
per il prestigio che la comunità degli studenti e le autorità scolastiche attribuiscono
loro. La fondamentale linea di demarcazione che distingue i diversi gruppi amicali
è di carattere sociale ed etnico. I gruppi sociali più popolari, più apprezzati dalle
autorità scolastiche, più influenti nel dettare le mode interne alla scuola, sono
composti – nella loro grande maggioranza – da ragazzi e ragazze che vengono da famiglie
di classe medio-alta; i gruppi meno popolari sono invece composti da ragazzi di estrazione
sociale inferiore28. Nel caso (raro) di high schools collocate in quartieri etnicamente compositi, è quasi impossibile che ragazzi e ragazze
della comunità afroamericana, o messicana, o cinese, possano entrare nei gruppi amicali
più in29. Talora – e soprattutto nei college – la frammentazione relazionale non è affidata
solo al libero strutturarsi dei rapporti informali, ma è regolata anche dall’affiliazione
ad associazioni formalizzate (le fraternities e le sororities), distinte per genere, per gruppo etnico, per confessione religiosa, per estrazione
socioeconomica o per una varia combinazione tra queste diverse variabili30.
Le distinzioni sociali si esprimono attraverso sistemi di valori che incorporano atteggiamenti
e comportamenti specifici. In linea generale, i gruppi di élite passano una buona
parte del loro tempo libero a scuola, anche dopo la fine dell’orario scolastico, impegnati
in attività sportive (le squadre di basket, football o baseball sono molto importanti
nella socialità scolastica), nella redazione del giornale della scuola o dell’annuario
scolastico, nella organizzazione del team delle cheerleader, nei gruppi di lettura
o nelle prove dei gruppi musicali o teatrali. Il tipo di attività svolte segue, tuttavia,
una rigida linea di genere: affinché un ragazzo con l’estrazione sociale giusta sia
anche popolare, deve essere di aspetto piacevole, deve essere un atleta di successo
e deve avere la macchina. Per le ragazze, invece, è importante essere carine e vestite
nel modo giusto, far parte del gruppo delle cheerleader, avere una personalità positiva
e una buona reputazione. Per entrambi i gruppi, i buoni risultati scolastici non sono
particolarmente significativi per essere considerati popolari, anche se sono necessari
per chi vuole proseguire il training educativo e andare al college o all’università31.
Il sistema relazionale nelle high schools è estremamente crudele (molto più di quanto non ammetta il giornalista di «Life»
nell’articolo del 1944). A volte i maltrattamenti subiti, insieme ad altri fattori
economici e sociali, possono indurre qualche ragazzo o qualche ragazza ad abbandonare
la high school per andare a cercarsi precocemente un lavoro. Naturalmente, nel «gioco» dell’in e dell’out, le differenze di classe (ricchezza, educazione, rispettabilità familiare) contano
moltissimo; ma lo stile può contare altrettanto, talora anche a prescindere dalla
sua associazione col livello socioeconomico della famiglia. Una delle testimonianze
raccolte da Hollingshead, nella sua ricerca su 735 adolescenti di una piccola città
dell’Illinois (1941-1942), dà la misura della violenza psicologica dei meccanismi
di selezione; a parlare è la figlia di un contadino benestante, che ha abbandonato
la high school urbana che aveva cominciato a frequentare per mettersi a lavorare in campagna con
i suoi genitori:
Voglio dirle una cosa su quella scuola. Tutti i ragazzi sono distribuiti in piccoli
gruppi. Queste gang si formano nella settima o nella ottava classe [quindi nelle ultime
classi del ciclo scolastico inferiore] e proseguono nella high school. Se sei in una gang, sei a posto, ma se non lo sei, sei messa al margine. Quando
ho iniziato la high school, mi sono sentita perduta. Non conoscevo nessuno, ad eccezione di Harry Swenson. [...]
Ho cercato di fare amicizia con qualche ragazza, ma non ci sono riuscita. Mi hanno
fatto sentire indesiderata. Durante la quarta settimana di frequenza, ho sentito Anne
Hogate chiamarmi «quella contadinotta». A quel punto me ne volevo andare subito, ma
mamma mi ha fatto continuare per qualche settimana. Poi papà ha detto che se volevo
abbandonare potevo farlo, e io ho mollato32.
Naturalmente, i gruppi di élite hanno anche una loro socialità extrascolastica, importante
– come per tutti gli altri – soprattutto nei fine settimana: allora, la scelta dei
bar o dei cinema da frequentare è egualmente ispirata alle strategie della distinzione
che caratterizzano la struttura generale della socialità scolastica, giacché questi
ragazzi e ragazze vanno nei bar più chic o nei cinema che proiettano prime visioni
e hanno biglietti che costano di più; oppure organizzano feste private egualmente
molto selettive; o anche feste sponsorizzate dalla scuola (tra cui importante il Prom di fine anno) che, richiedendo un abbigliamento molto formale, finiscono egualmente
per essere di fatto socialmente esclusive33.
I gruppi di studenti e studentesse socialmente o etnicamente marginali, invece, tendono
a sviluppare una socialità centrifuga rispetto alla scuola; evitano le attività parascolastiche
pomeridiane; si riuniscono nei bar o nei juke joints meno eleganti; non di rado hanno rapporti con ragazzi e ragazze che non frequentano
le high schools, sia perché non si sono mai iscritti, sia perché hanno abbandonato i corsi poco dopo
l’iscrizione. In qualche caso, la socialità di questi gruppi marginali imita quella
delle gang di quartiere; oppure, attraverso la frequentazione con ragazzi o ragazze
delle gang di quartiere, gli studenti o le studentesse più marginali entrano definitivamente
in quest’altro universo di sociabilità34.
2. Convergenze culturali
Hollingshead descrive in questo modo le differenze di mentalità che connotano i teenager
che fanno l’esperienza delle high schools da quelli che le abbandonano:
Il complesso culturale proprio delle classi sociali superiori prepara i ragazzi e
le ragazze che vi appartengono [e che frequentano la high school] a rispondere positivamente a situazioni competitive come quelle che connotano gli
esami o i test di intelligenza. L’esperienza proietta su di loro un bisogno di realizzazione
personale che si esprime nella loro costante ricerca del successo, insegnando loro
sin dall’infanzia ad affrontare ogni nuovo ostacolo e a superarlo al meglio delle
loro possibilità. [...] Viceversa, l’adolescente che viene da una classe sociale disagiata
è stato esposto a una famiglia e a una mentalità nella quale il fallimento, l’inquietudine
e la frustrazione sono comuni. A casa non è stato preparato a dare il meglio di sé
nelle prove scolastiche. I suoi genitori non gli hanno instillato l’idea secondo cui
deve ottenere buoni risultati scolastici se vuole avere successo nella vita. Inoltre,
la scuola [che ha un impianto duramente classista] non lo aiuta a superare la povera
educazione ricevuta a casa o nel vicinato35.
Si tratta di una descrizione che enfatizza le differenze culturali che derivano da
una distinta collocazione di classe, e Hollingshead vi giunge al termine di una ricerca
analitica brillante e persuasivamente documentata. Tuttavia, queste divergenze formative
sono controbilanciate dal fatto che sia i diversi gruppi amicali delle high schools che quelli dei giovani delle gang di strada sono egualmente esposti all’impatto della
cultura di massa, che valorizza potentemente il momento del consumo e del tempo libero
rispetto a quello della produzione e del lavoro: del resto è proprio nel tempo libero,
nelle attività svolte al di fuori del momento del «dovere» (compiti scolastici; compiti
lavorativi) che una giovane persona dell’uno o dell’altro mondo sociale costruisce
veramente la sua identità, la sua popolarità, il suo modo di rapportarsi agli altri.
La vera popolarità scolastica, per i ragazzi e le ragazze della high school, si costruisce nel doposcuola (sport, redazione del giornale, team delle cheerleader,
giri in macchina, consumi culturali – dischi, radio, cinema); viceversa, nessuno,
nemmeno i ragazzi o le ragazze che vogliono andare al college e che vanno bene a scuola,
cita il buon successo scolastico come un tratto identitario importante o positivo36.
Analogamente, i ragazzi e le ragazze che hanno abbandonato la scuola considerano il
lavoro non tanto come una vocazione, secondo la declinazione più esigente dell’etica
protestante, ma soltanto come un mezzo per ottenere i soldi da spendere nel momento
più significativo, quello del tempo libero37. Dopodiché, che in qualche caso vi siano gang giovanili che possono spingere questo
tipo di etica fino a considerare la possibilità di delinquere per ottenere più rapidamente
i soldi necessari a realizzare sé stessi (una possibilità, si badi bene, non la regola),
è una questione che può porre naturalmente problemi di ordine pubblico, o che può
separare socialmente i giovani delinquenti dagli altri; ma non cambia la gerarchia
dei valori simbolici di riferimento38.
La considerazione vale anche per i rapporti di genere che sono molto tradizionali
in tutti gli ambienti giovanili. Il machismo delle gang di strada è strutturale e
molto evidente: i ragazzi possono circolare liberamente nel quartiere, e devono mostrare
la loro abilità e la loro forza quando gli è richiesto (quando devono scontrarsi con
un’altra gang; quando devono scappare per sottrarsi a una retata della polizia). Viceversa,
la forza fisica non è richiesta alle ragazze, a meno che non siano dei «maschiacci»,
quindi con caratteristiche non particolarmente apprezzate nella scala dei valori delle
gang di strada. In questi ambienti vale, in modo rigoroso, la doppia morale che vige
anche nella società adulta: i ragazzi possono spassarsela un po’, mentre alle ragazze
è chiesto un comportamento ossessivamente morigerato.
Non appena hanno un po’ di soldi, i ragazzi si comprano una macchina, di solito usata:
in una serata-tipo, tre o quattro ragazzi in macchina se ne vanno in giro per vari
locali, magari con una puntata alla città vicina, tanto per vedere chi c’è e se riescono
ad agganciare qualche ragazza; se poi ne «rimorchiano» qualcuna, vanno da qualche
parte per bere qualcosa, e poi – se le ragazze sono d’accordo – si fermano in aperta
campagna per un qualche tipo di intercorso sessuale39. Se la relazione non ha alcuno sviluppo, le ragazze che hanno partecipato alla serata
rischiano di vedersi bollate con un qualche epiteto ingiurioso che le mette al margine
della socialità di quartiere come «ragazze facili». Se, viceversa, sono state in grado
di tenere a bada i ragazzi, e hanno acconsentito a farsi baciare o a fare petting «sopra la cintura», conservano una loro rispettabilità, e magari può anche darsi
che l’avventura di una sera possa trasformarsi nel going steady, cioè in una relazione permanente che porta quasi sempre a matrimoni molto precoci,
spesso accelerati da gravidanze impreviste40.
Nel contesto delle high schools, invece, i rapporti erotico-affettivi sono organizzati piuttosto attraverso il cosiddetto
dating system. Si tratta di un sistema che si fonda su una serie di regole abbastanza semplici:
un ragazzo invita formalmente una ragazza a uscire; non c’è controllo dei genitori,
e quindi non ci sono accompagnatori o chaperons; ci vuole, tuttavia, per le ragazze, l’autorizzazione formale dei genitori; economicamente,
l’uscita ricade sulle spalle del ragazzo che deve avere una macchina a disposizione;
il cinema è una destinazione standard, ma possono esserlo anche i locali da ballo;
la rotazione degli appuntamenti è alta, nel senso che si cambia partner molto spesso41. Il dating system è una soluzione relazionale apprezzata dai ragazzi e dalle ragazze, che considerano
ovvio che si possa cambiare partner frequentemente, senza che in ciò si veda niente
di male42; viceversa il going steady (cioè, il fare coppia fissa) è criticato da tutta la «migliore» comunità scolastica,
ragazzi e ragazze in, genitori di classe alta e insegnanti, come una pratica troppo connotata socialmente,
poiché diffusa tra i ragazzi e le ragazze di classe bassa o tra gli afroamericani,
e troppo pericolosa perché induce a eccessive intimità erotiche.
Ciò non significa che il dating system non comporti alcuna attività erotica: al contrario, è chiaro che uscire in coppia
per andare al cinema, in un locale, o in una sala da ballo, è una pratica che non
è mai disgiunta da un certo grado di intimità erotica. Naturalmente, anche in questi
contesti, fin dove spingersi col petting è una questione dirimente per l’etica adolescenziale, che è rigorosamente monitorata
dai gruppi amicali ai quali si appartiene. Anche qui, la regola fondamentale è quella
del doppio standard: le ragazze «facili», che «vanno fino in fondo» e che notoriamente
«non sono più vergini», hanno una bassa reputazione, e vengono estromesse dai gruppi
più in; le ragazze che «sanno tenere a bada i partner», partecipando a pratiche erotiche
di vario tipo, purché non comportino la deflorazione e non siano troppo pubblicizzate
in giro, sono le più ammirate e rispettate. Viceversa, i ladies’ men, cioè i ragazzi che hanno storie con molte ragazze diverse, in genere sono al top
della considerazione di tutti43.
Ma fino a che punto ci si spinge davvero? All’epoca la questione non è esplicitata
in nessun modo. Ma i dati che vengono offerti dalla doppia inchiesta di Alfred Kinsey
sulla sessualità maschile (edita nel 1948) e sulla sessualità femminile (edita nel
1953) gettano retrospettivamente luce su ciò che – presumibilmente – molti ragazzi
e molte ragazze fanno negli anni che precedono la seconda guerra mondiale. Dalle risultanze
del suo lavoro, Kinsey arriva alla conclusione che per il campione di maschi che ha
studiato (5.300 uomini bianchi) la masturbazione e il petting eterosessuale sono virtualmente universali; all’incirca 2/3 dei maschi intervistati
hanno avuto intercorsi sessuali prematrimoniali e il 50% ha poi avuto anche intercorsi
sessuali extramatrimoniali; 1/3, infine, ha avuto esperienze omosessuali. I 3/5 delle
femmine intervistate (5.940 donne bianche) praticano la masturbazione, il 90% ha accettato
di fare petting, la metà ha avuto intercorsi sessuali prematrimoniali e 1/4 ha avuto intercorsi sessuali
extramatrimoniali44. Il che significa che i comportamenti effettivi divergono drammaticamente dall’etica
pubblica che domina la socialità giovanile, sia nelle high schools che tra le gang di strada; e significa anche – sia per i ragazzi, sia, soprattutto,
per le ragazze – vivere in uno stato di terrificante tensione, giacché ciò che si
fa effettivamente nella comunità dei pari status, e ciò che si dice di fare, sono
due realtà che possono contrastare terribilmente e avere ricadute molto pesanti sugli
uni e sulle altre45.
Peraltro, qualunque siano le esperienze erotico-affettive vissute dai teenager, le
strade di maschi e femmine divergono sempre. Sia che non completino gli studi liceali,
sia che arrivino al diploma e proseguano con i corsi universitari, i maschi hanno
di fronte a loro un obiettivo chiaro: cercare un lavoro (posto che le condizioni economiche
consentano loro di trovarlo) e, in subordine, farsi una famiglia. Per le ragazze,
gli obiettivi sono rovesciati: qualunque sia l’esito del training educativo (ammesso che ne pratichino uno), la prospettiva è quella di sposarsi, stare
a casa e occuparsi del marito e dei figli, abbandonando ogni attività lavorativa,
nel caso ne abbiano trovata una46. Questa, almeno, è la retorica che domina – in forma anche un po’ isterica – negli
anni della Depressione, quando vengono perfino introdotte norme che limitano le assunzioni
delle donne sposate47. Rotocalchi, saggi di autorevoli «esperti», film di successo, come per esempio Woman of the Year (La donna del giorno, George Stevens, 1942, con Spencer Tracy e Katharine Hepburn), una brillante commedia
romantica, o Mildred Pierce (Il romanzo di Mildred, Michael Curtiz, 1945, con Joan Crawford), un melodramma a tinte dark, stigmatizzano
duramente, o sbeffeggiano allegramente, le ambizioni professionali dei personaggi
femminili48. L’opinione pubblica plaude, almeno secondo le risultanze di un sondaggio realizzato
negli anni Trenta, secondo il quale il 78% degli intervistati, maschi e femmine, approva
l’idea che le donne sposate debbano starsene a casa49.
In realtà, la tendenza sul mercato del lavoro è un po’ diversa, e contrasta con questi
orientamenti normativi, in particolare per le ragazze di classe medio-bassa che si
ritrovano sposate con un operaio, o un manovale, o un contadino e che hanno bisogno
di far quadrare il bilancio familiare: costoro devono abbandonare per sempre i sogni
da Cenerentola e trovarsi un lavoro, mentre al tempo stesso si occupano della casa,
del marito e dei figli. Le donne sposate che hanno un’occupazione crescono dal 12%
sul totale delle maritate nel 1930 al 15% nel 194050; e in totale, negli anni Trenta, l’occupazione femminile cresce dal 25% delle donne
adulte al 27,6%51. Non si tratta comunque di un segnale che testimoni di una qualche forma di emancipazione:
i lavori riservati alle donne sposate sono di bassa qualità (per esempio, donne delle
pulizie nei grandi uffici, con turni di lavoro nelle ore notturne; oppure una vasta
gamma di lavori impiegatizi di livello inferiore); inoltre nel 1939, a parità di mansioni,
le donne guadagnano il 59% di quello che guadagnano gli uomini52.
Soluzioni di questo genere confermano la mentalità dominante secondo la quale le donne
che lavorano lo fanno perché ne hanno un assoluto bisogno o sono motivate da una perversa
spinta carrieristica, mentre le femmine ideali sanno «mettere la testa a posto», abbandonando
le loro ambizioni a favore di una «giusta» collocazione domestica, che è di solito
proprio quello che fanno le ragazze delle high schools: magari sono state brillanti a scuola; magari hanno completato gli studi superiori,
preso il diploma di high school, iniziato l’università... e poi si ritrovano sposate e messe di fronte all’alternativa
tra un matrimonio stabile e una carriera; e così, alla fine, la maggior parte di loro
sceglie di abbandonare ogni ambizione professionale.
Le convergenze culturali che connotano i diversi mondi giovanili, a volte tanto diversi
da non sfiorarsi nemmeno dal punto di vista relazionale, non dovrebbero sorprendere,
giacché il tipo di cultura diffusa che circonda sia i ragazzi e le ragazze delle high schools, sia quelli che frequentano la socialità di strada, è in effetti molto simile. I
media più seguiti (che sono il cinema, la radio, i fumetti, i dischi) veicolano i
miti e i sistemi narrativi fondamentali che innervano la cultura mainstream, e sono
apprezzati trasversalmente da tutti i diversi segmenti della cultura giovanile53. Tanto i ragazzi delle high schools che quelli delle gang di strada costruiscono la loro identità su immagini di mascolinità
eroica e vincente, trasmesse dai film hollywoodiani o dai fumetti supereroici, anche
se gli uni le declinano nella direzione di un civismo conformistico e gli altri –
magari – nell’esibizione della forza e dell’audacia richiesta in qualche rissa o in
qualche trasgressione minore (rubare la benzina a una macchina; o un’automobile; o
oggetti di maggiore o minor valore in qualche negozio)54. Tanto le ragazze delle high schools che le ragazze che hanno abbandonato precocemente la scuola sognano di riuscire a
diventare, prima o poi, una cantante, o una ballerina, o un’attrice come Joan Crawford
o Claudette Colbert. Tra le ragazze di classe bassa, in particolare, è molto diffuso
il sogno di un evento miracoloso, in stile Cenerentola, che le porti a sposare un
ricco gentiluomo o che le faccia diventare attrici di successo55.
3. Identità controcorrente
Ora, il fatto interessante è che all’interno di questo universo si nota anche l’emergere
di comportamenti nettamente divergenti, sia che vogliano rimarcare la distanza di
uno specifico gruppo giovanile dalla società degli adulti, sia che vogliano esprimere
una alterità più profonda e radicale rispetto ai valori egemonici che dominano nella
società americana. Significativamente, tale alterità si esprime attraverso particolari
scelte culturali che vogliono costruire uno stile distintivo: scelte di consumo, di
abbigliamento, di comportamento nell’impiego del tempo libero.
In alcune delle gang giovanili studiate da Thrasher sono molto popolari jail songs o crime songs di derivazione folk-hillbilly, in cui si cantano i destini nefasti di qualche tragico
antieroe56. Si tratta di una cultura musicale che è condivisa anche dai giovani hoboes, che vivono una vita molto particolare e molto distante da quelle dei giovani che
hanno un setting familiare più o meno stabile. Va notato, però, che gli hoboes, per quanto li riguarda, non hanno alcun interesse a costruirsi delle strategie della
distinzione che li differenzino particolarmente dagli altri e che – in qualche misura
– «li mettano in mostra»; anzi la vita che hanno scelto, i quartieri urbani che frequentano,
i mezzi che usano per spostarsi tendono a sottrarli sistematicamente alla vista degli
altri. Nonostante ciò, proprio in questi anni, la figura dell’hobo comincia a conquistarsi una sua dignità culturale; molte canzoni hillbilly o blues
ne raccontano ansie e sofferenze, e per questo sono popolari anche nella Hobohemia; d’altronde, i primi resoconti giornalistici che ricostruiscono le vite di artisti
o musicisti girovaghi, come la Carter Family o Huddie «Leadbelly» Ledbetter, proiettano
un alone romantico intorno a queste figure; ed infine, con i devastanti effetti della
Grande Depressione, l’Hobohemia ottiene anche una sua dolente proiezione letteraria e iconografica, per esempio attraverso
le foto di Dorothea Lange, diverse delle quali corredano gli articoli per il «San
Francisco News» (5-12 ottobre 1936) che Steinbeck dedica agli Harvest Gypsies, cioè ai contadini senza terra costantemente in movimento alla ricerca di un lavoro.
Su una scala ancora più ampia operano nella stessa direzione romanzi come The Grapes of Wrath dello stesso Steinbeck, o film come la già ricordata traduzione cinematografica del
romanzo, realizzata da John Ford, o canzoni come quelle cantate da Woody Guthrie.
Se gli hoboes – giovani o adulti che siano – sono più un oggetto di una costruzione culturale che
non i protagonisti di una loro propria consapevole strategia della distinzione, lo
stesso non può dirsi per altri tre gruppi giovanili particolari, che in questi anni
si conquistano una loro speciale visibilità: i pachucos californiani; alcuni gruppi di giovani afroamericani; e alcuni gruppi di giovani
e giovanissime ragazze.
(1) Se la barriera etnica più dolorosamente vistosa negli Usa è quella che separa le comunità bianche da quelle afroamericane, altre forme di segregazione
e discriminazione colpiscono anche altre minoranze, tra cui la comunità messicana,
addensata soprattutto in California del Sud, dove da tempo molte famiglie sono emigrate
dal Messico per lavorare nelle miniere e nelle campagne. La crisi economica ha indotto
molte di queste famiglie a trasferirsi, e in una certa misura a disperdersi, a Los
Angeles; lì i pachucos e le pachuquitas, cioè i ragazzi e le ragazze della comunità (in particolare quelli nati e cresciuti
negli Usa), si trovano, in qualche misura, sospesi tra due mondi: né ben integrati nella comunità
di origine, piuttosto in disfacimento; né accettati nella società bianca. La loro
risposta è quella di creare delle gang giovanili proprie, e di segnare i confini sociogenerazionali
che li separano dal resto della società con l’adozione di un abbigliamento particolarmente
vistoso, lo zoot suit57. Probabilmente è il primo esempio evidente di una subcultura giovanile che costruisce
strategie della distinzione attraverso scelte di consumo particolarmente bizzarre,
e tuttavia dotate di un senso simbolico chiaro: distinguersi dagli altri ed esprimere
un proprio mondo di valori58.
L’abbigliamento che prende il nome di «zoot suit» è composto da pantaloni abbondanti
in vita e stretti in fondo, con giacche piuttosto lunghe e cappelli a tesa molto larga:
il modello è l’abbigliamento dei gangster o dei musicisti jazz, solo che i pachucos lo estremizzano molto, sia nelle fogge dei vestiti, sia nei colori dei tessuti, che
sono sempre molto brillanti; l’insieme viene completato da scarpe bicolori e da una
pettinatura in stile duck tail, ovvero con i capelli imbrillantinati, portati indietro, e pettinati sulla nuca in
due onde convergenti al centro. Anche le pachuquitas hanno una loro elaborata cifra stilistica, particolarmente provocatoria: indossano
gonne al ginocchio e camicette, portano rossetto rosso scuro e mascara nero, ed esibiscono
un atteggiamento sfrontato e aggressivo, che non nasconde certo la loro attrattiva
erotica59. Abbigliamento vistoso e atteggiamento sfrontato, con una citazione dei comportamenti
o delle scelte estetiche di outsiders come i mafiosi o i musicisti jazz, impiegati da giovani di una comunità etnica emarginata,
non sono fatti per suscitare l’apprezzamento di una società profondamente razzista:
e difatti la stampa locale accusa in blocco i pachucos di far parte di gang delinquenziali, di far uso di marijuana, di essere coinvolti
in gravi episodi criminali.
Le tensioni, che si accumulano tra fine anni Trenta e inizio anni Quaranta, alla fine
esplodono dopo l’ingresso degli Usa in guerra. L’occasione è offerta da una norma che nel 1942 – per risparmiare sull’impiego
dei tessuti – proibisce la produzione di vestiti ampi come quelli richiesti dallo
zoot suit. Nonostante ciò, i giovani pachucos californiani continuano a procurarsi clandestinamente e a esibire pubblicamente le
loro mises. Intanto a Los Angeles arrivano migliaia di soldati e di marinai dell’esercito, in
attesa di partire per la guerra. Alcuni di costoro ritengono che i vestiti eccessivi
indossati dai pachucos in un periodo di razionamento dei tessuti a causa della guerra siano poco meno che
uno sberleffo antipatriottico: l’animosità che ne nasce è certamente alimentata non
solo da questa considerazione, ma anche dai profondi pregiudizi razzisti di molti
soldati bianchi. Dal 3 giugno del 1943, per i dieci giorni seguenti, lo stato di tensione
esplode in una serie di aggressioni – una vera caccia all’uomo – che gruppi di soldati
bianchi, coadiuvati da civili locali, scatenano contro i pachucos (e occasionalmente anche contro neri e filippini) incontrati per le strade di East
Los Angeles, mentre la polizia non fa niente, e l’opinione pubblica bianca – nella
maggior parte dei casi – plaude. Alla fine la polizia interviene e riesce a sedare
i tumulti anche se, paradossalmente, in carcere o sotto giudizio ci finiscono più
pachucos che soldati. Quanto allo zoot suit, il comune di Los Angeles il 9 giugno lo proibisce del tutto: «se possiamo arrestare
le persone perché sono poco vestite allora possiamo farlo anche se sono troppo vestite»60.
(2) Appena pochi giorni più tardi, le tensioni che hanno investito i pachucos si scaricano anche contro i gruppi di giovani neri, duramente segregati al Sud e
scarsamente integrati anche nelle grandi città del Nord. Alla fine di giugno del 1943
a Detroit scoppiano durissimi scontri tra migliaia di giovani bianchi e neri; ad agosto
scoppia una rivolta a Harlem, New York, a causa del diffondersi della notizia falsa
dell’uccisione di un soldato nero da parte di un poliziotto bianco; e altri scontri
occasionali si registrano a Filadelfia, San Diego e Chicago. Certo non sono episodi
nuovi; altre race riots sono scoppiate nelle grandi città americane nei decenni precedenti, mentre la discriminazione
legale e l’aggressione illegale con la tecnica del linciaggio sono una realtà permanente
in tutti gli Stati del Centro-Sud-Est.
Notoriamente, le comunità afroamericane rispondono allo stato permanente di segregazione
legale o informale, fra le altre cose, anche con un’impressionante creatività musicale
e coreutica. Non si tratta solo del blues che, come abbiamo visto, è uno stile musicale
che resta confinato all’interno delle comunità afroamericane, ma soprattutto del jazz
e delle danze costruite intorno agli stili jazz che si susseguono sin dall’immediato
primo dopoguerra. Dopo la prima guerra mondiale, infatti, una sezione piccola ma significativa
del pubblico bianco ha cominciato a frequentare locali dove si mettono in scena spettacoli
di varietà con artisti e musicisti neri; è in questa fase che si diffonde per la prima
volta la moda di danze di derivazione afroamericana, come il charleston. Nel corso
degli anni Venti e Trenta l’interesse per il jazz cresce, anche se resta ancora limitato
ad ambiti geosociali piuttosto circoscritti, in particolare le grandi città, come
New York o Chicago, dove un pubblico bianco di estrazione sociale medio-alta va ad
ascoltare questa musica in locali nei quali è vietato l’accesso a clienti neri. Nei
suoi gusti il pubblico bianco è comunque molto selettivo, poiché l’apprezzamento maggiore
va a chi, come Paul Whiteman (bandleader bianco di una jazz band composta da musicisti bianchi), esegue lo sweet jazz, cioè
un jazz sinfonico connotato da un ampio impiego di arrangiamenti classici, un invadente
utilizzo degli archi e una assoluta minimizzazione delle improvvisazioni e della componente
ritmica61.
Intanto, però, nei quartieri e nei locali frequentati dai neri, e in particolare dai
giovani neri, qualcosa sta rapidamente cambiando, giacché sono molti quelli che a
New York, a Chicago, a San Francisco, cominciano ad apprezzare piuttosto l’hot jazz,
uno stile suonato da band guidate da musicisti sia bianchi che neri, come Benny Goodman,
Artie Shaw, Tommy Dorsey, Glenn Miller, Count Basie o Duke Ellington, che non impiegano
alcuna strumentazione classica, usano ritmi veloci e fanno un largo spazio alle sezioni
ritmiche (percussioni e contrabbasso)62. Ciò che i ragazzi e le ragazze delle comunità nere apprezzano particolarmente in
questa musica è che si presta a esser ballata con stili di danza esuberanti e allegramente
fisici (Fig. 2).
Balli come il jitterbug, lo shag, il Lindy Hop, il Susie-Q, il boogie-woogie63 si trasformano ben presto in un doppio simbolo identitario: poiché sono balli evidentemente
derivati dalle tradizioni coreutiche afroamericane, diventano un forte segno di appartenenza
comunitaria; inoltre, siccome sono balli che possono essere danzati solo da giovani
coppie, dato che la rapidità dei movimenti e la creatività delle figurazioni risultano
fisicamente proibitive per gente di età più avanzata, creano una frattura generazionale
all’interno delle comunità. Oltre a ciò, consentono anche di fare una cosa estranea
alla cultura bianca di derivazione europea: ovvero permettono di vivere la musica
con il corpo, incoraggiando i ballerini a costruire figure di una sensualità che colpisce
l’immaginazione dei giornalisti bianchi, che descrivono le nuove danze con un linguaggio
spesso appesantito da sovratoni razzisti – tipo «contorsioni degne di tribù primitive»,
o «selvaggi rituali della giungla». Il fatto che le nuove danze siano ballate soprattutto
in locali frequentati da giovani neri, il più famoso dei quali è il Savoy Ballroom
di Harlem (New York), non fa che esasperare le critiche, giacché fra le altre cose
in quei locali – come scrivono per esempio i giornalisti di «Life» – le giovani coppie
nere si abbandonano a incontrollate e sconvenienti intimità64.
La critica razzista si trasforma in stridula isteria quando si ha la sensazione che
questi atteggiamenti «barbarici», propri dei giovani neri, stiano «contagiando» anche
un numero imprecisato, ma giornalisticamente rilevante, di adolescenti bianchi delle
grandi città, incantati dalla moda delle nuove danze: anche per loro il jitterbug
sembra avere un particolare significato identitario e generazionale che già turba
molti benpensanti; ma oltre a questo aspetto, in diversi commenti dell’epoca si fa
strada l’ossessiva inquietudine per la dannosa «perversione» che la cultura musicale
africana porterebbe con sé, inducendo i giovani bianchi ad abbandonarsi a comportamenti
incontrollati e sessualmente allusivi. Il fatto che, spesso, le danze di derivazione
afroamericana che attirano i giovani bianchi siano ballate in ambienti etnicamente
e socialmente segregati tranquillizza, almeno in parte, i benpensanti, che tuttavia
trovano presto ben altre questioni che alimentano le loro ansie.
(3) Il 3 marzo 1937, alle sette del mattino, i musicisti della Benny Goodman Orchestra
che si incontrano al Paramount Theater di New York per le prove del concerto che si
sarebbe tenuto più tardi in giornata si trovano di fronte a uno spettacolo sorprendente:
le biglietterie non sono ancora aperte, e nonostante ciò c’è una fila di sei o settecento
fan, in gran parte studenti e studentesse di high school, desiderosi di procurarsi il biglietto per uno dei 3.664 posti del locale. Più tardi,
quando il concerto ha inizio, il pubblico scatta in piedi e «comincia a ballare impazzito
nelle corsie e ad ammassarsi sotto il palco mentre le maschere cercano di riportare
l’ordine con le buone e con le cattive»65.
Scene di questo tipo continuano a ripetersi nelle repliche, e soprattutto, su scala
anche più imponente, quando Goodman e i suoi suonano alla Carnegie Hall, nel gennaio
del 1938. Il fatto di trovarsi nel tempio della musica classica non trattiene né i
ragazzi né le ragazze presenti: tutti si muovono sui sedili, si dondolano, fischiano,
gridano66. Le giovani, poi, non si limitano a esternare il loro entusiasmo per la musica che
ascoltano urlando e ballando: come ricorda il sassofonista di Benny Goodman, Art Rollini,
[le ragazze] ci facevano segno, poi tanti single della band indicavano alle fanciulle
di aspettarli all’uscita degli artisti. La posta delle fan arrivava a pacchi a tutti
i membri della band, corredata dei loro numeri di telefono67.
Il Paramount Theater di New York sembra il luogo propizio per lo scatenamento di questi
«strani» comportamenti. Il 30 dicembre del 1942 Frank Sinatra inizia da lì la sua
stagione di concerti. Sinatra, che all’epoca ha 27 anni, ma ne dimostra molti di meno,
è l’idolo dei ragazzini e soprattutto delle ragazzine. Canta canzoni che parlano di
amori romantici, privi di una precisa contestualizzazione sociale o temporale, con
una voce calda e sensuale. La sua musica non sembra tale da dover scatenare alcuna
reazione particolarmente marcata: è perfettamente in linea con la tradizione musicale
di Tin Pan Alley, fatta di canzoni prive di scansione ritmica, sostenute da ingombranti
arrangiamenti orchestrali, con testi sentimentali di scarso spessore narrativo. E
nondimeno, tanto basta a suscitare l’entusiasmo soprattutto delle giovani fan, che
sono talmente prese dalle canzoni di Sinatra da indossare la cravatta a farfalla che
all’epoca è la cifra distintiva del cantante; e poiché – secondo la moda dell’epoca
– le ragazzine indossano anche i calzini corti («bobby socks»), sono collettivamente
indicate col soprannome di «bobbysoxers»68. Nel corso dei concerti che Sinatra tiene al Paramount Theater, sia nel dicembre
del 1942 che, di nuovo, nel maggio del 1943, gli spettatori e le spettatrici si mettono
a battere i piedi, agitandosi sui sedili, alzandosi e applaudendo ancora prima che
il pezzo sia concluso. Ma sono soprattutto le ragazzine – che gridano a squarciagola
coprendo perfino la voce del cantante – a fare sensazione.
In origine, questo particolare modo di manifestare entusiasmo viene in effetti indotto
dallo staff del cantante, che ha assunto un gruppo di ragazze alle quali ha affidato
il compito di gridare per l’entusiasmo durante l’esecuzione dei brani, tanto per «scaldare
l’ambiente»:
ma in realtà non ce n’era bisogno – hanno ricordato anni dopo gli addetti stampa di
Sinatra –. Le decine di ragazze che pagavamo per urlare e sdilinquirsi facevano esattamente
come gli avevamo detto noi, ma altre centinaia che non avevamo pagato urlavano anche
più forte. Altre squittivano, ululavano, baciavano le sue foto con le labbra sporche
di rossetto e lo tenevano prigioniero in camerino tra uno spettacolo e l’altro al
Paramount Theater di New York. Era una cosa selvaggia, folle, totalmente fuori controllo69.
Da allora, il Paramount Theater diventa una sorta di tempio di questo nuovo culto
di massa, la cui devozione rimbalza tra il sentimentalismo pop di Sinatra e il nuovo
stile jazz, lo swing, di cui Benny Goodman e altri sono i portabandiera. E così, nell’aprile
del 1943, durante un concerto di Harry James, trombettista e bandleader di un’orchestra swing che peraltro ha inciso anche con Sinatra,
le giovani si dimenano estasiate sulla poltrona, si muovono in modo convulso ogni
volta che Harry James «le manda al settimo cielo»... si alzano dal posto, travolgono
le preoccupate maschere e si mettono a ballare nelle corsie moquettate. Ore dopo,
uscendo, centinaia di ragazze, le Hep Jills, lasciano impronte di rossetto sul vetro
che protegge la foto della band nell’atrio70.
Su scala ancora più grande, questo spettacolo si ripete il 12 ottobre 1944, quando
Sinatra si esibisce per la terza stagione di concerti al Paramount. Il fotogiornalista
Weegee (Arthur Fellig), che all’epoca lavora per il «New York Daily News», descrive
così la giornata:
La fila sulla Broadway di fronte al Paramount Theater inizia a formarsi a mezzanotte.
Alle quattro del mattino ci sono più di cinquecento ragazze... in calzini corti (ovviamente),
cravattini (come quello che porta Frankie) e foto di Sinatra spillate al vestitino71.
Quando inizia lo spettacolo, la voce di Sinatra viene quasi integralmente coperta
dalle grida delle spettatrici. Intanto all’esterno del teatro, in Times Square, si
radunano diverse migliaia di altre ragazze che protestano perché non sono riuscite
a entrare. Bruce Bliven, direttore di «The New Republic», scrive che si tratta
di un fenomeno di isteria collettiva che si può vedere solo due o tre volte in un
secolo. Bisognerebbe risalire non solo a Lindbergh e a Valentino per capirlo, ma ai
balli folli in certi villaggi tedeschi nel Medioevo oppure alla Crociata dei bambini72.
In linea generale, questi comportamenti sono forme rituali che manifestano una distinta
identità generazionale: tributare una specie di culto al musicista che fa ballare
danze che solo i giovani possono affrontare, o al cantante che è praticamente giovane
quanto te, significa rimarcare un processo di allontanamento e di estraneità rispetto
al mondo dei «grandi», degli «adulti», dei «vecchi»73. Ma per le ragazze c’è qualcosa di più. Perdere il controllo, gridare, svenire, muoversi
freneticamente in massa – hanno scritto Ehrenreich, Hess e Jacobs che hanno studiato
il fenomeno della «Beatlemania» – è un modo per manifestare in forme esplosive tutta
l’insofferenza nei confronti delle regole che condizionano l’espressione dell’identità
e della sessualità femminile74. Come abbiamo visto, peraltro, non c’è bisogno di aspettare i Beatles – come fanno
Ehrenreich, Hess e Jacobs – per osservare le manifestazioni di esaltazione delle giovani
fan. Il fenomeno comincia adesso, tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni
Quaranta75. Ma l’interpretazione delle tre studiose conserva comunque il suo interesse. Certo
non mi spingerei fino a dire, come fanno loro, che quei comportamenti sono «la prima
drammatica espressione della rivoluzione sessuale femminile», una valutazione che
comporta un’imputazione di consapevolezza programmatica che non mi sembra si possa
rintracciare né nelle manifestazioni di entusiasmo per Benny Goodman o per Frank Sinatra,
né in quelle seguenti per Elvis Presley, Paul Anka, i Beatles, fino agli One Direction.
Trovo invece persuasiva la loro analisi dove considerano quei comportamenti come un’espressione
di un giovanissimo protagonismo femminile, sessualmente molto connotato: gridare,
investire energie libidiche nel musicista prediletto, una figura in fondo immaginaria,
in quanto (forse) concretamente irraggiungibile, significa liberarsi da un sistema
di norme, segni, valori, tattiche retoriche messe in atto per trasmettere un’immagine
di «ragazze per bene», sessualmente autocontrollate, che è (o sta per essere, a seconda
dell’età) tremendamente falsa.
Al concerto per un attimo le ragazze possono vivere in un mondo di scatenata libido,
senza che la paura per la sanzione del gossip, per il disprezzo dei maschi o delle
amiche più abili, o – peggio che mai – per l’umiliazione di una gravidanza indesiderata,
guasti irrimediabilmente i momenti più intensi dell’abbandono sessuale. E possono
vivere liberamente la fantasia di un’intensa relazione erotica senza esser costrette
a vedere la prospettiva ravvicinata del traguardo matrimoniale e della domesticità,
che – per chi volesse pensarci bene – ha aspetti assai mortificanti; come ricorda,
senza tanti complimenti, la Carter Family nella sua canzone Single Girl, Married Girl – che abbiamo già citato altrove –, «la ragazza single si veste bene, quella sposata
si mette addosso quel che capita; la ragazza single va al negozio e compra, quella
sposata dondola la culla e piange; la ragazza single va dove le pare, quella sposata
c’ha il bimbo sulle ginocchia»76.
Le esperienze dei pachucos e delle pachuquitas, degli appassionati ballerini di jitterbug, o delle giovanissime fan di Sinatra,
mostrano che gli universi giovanili stanno sperimentando autonomi percorsi identitari
costruiti attraverso il ricorso a pratiche cariche di imprevedibili significati simbolici;
ciascuno di questi gruppi riprende materiali già diffusi nella cultura di massa (gli
abiti dei mafiosi; i balli alla moda nel primo dopoguerra; le grida isteriche delle
scream queens dei film horror77) e li ricompone in una cornice di senso nuova: la distinzione, carica di sfida, dei
giovani messicani; un irrefrenabile senso di libertà, per i giovani afroamericani;
la negazione integrale del comportamento «da vera signora», e del sistema di valori
connesso, per le ragazze ululanti ai concerti dei loro musicisti preferiti.
L’indeterminatezza sociale di questi sistemi simbolici o l’assenza di evidenti contenuti
politici non li rende meno urticanti per gli osservatori mainstream. E anzi, entrambi
questi aspetti suggeriscono che altri rituali divergenti possono essere costruiti,
senza che il campo semantico dei simboli che vengono scelti debba esser predeterminato
da niente; questi esempi, cioè, suggeriscono l’idea che se non ci si sente a proprio
agio nella collocazione sociale nella quale ci si ritrova, si possono inventare forme
espressive creative che fra l’altro, proprio per la loro indeterminatezza, possono
attrarre chiunque, tanto i ragazzi o le ragazze delle élite scolastiche, quanto –
e probabilmente con maggior facilità – i ragazzi e le ragazze di strada. Questa è
la forza di queste nuove strategie della distinzione; ed è anche la loro fragilità...
a meno che questi stili alternativi non entrino in dialogo stretto con sistemi narrativi
più articolati e più chiaramente strutturati dal punto di vista degli orizzonti etici
e valoriali.
Al momento, peraltro, niente di tutto ciò è ancora in vista. Anche se l’inventario
dei comportamenti giovanili inquietanti – almeno nella prospettiva dei benpensanti
– non è affatto finito: nel corso della guerra ben altre sorprese sono in serbo per
loro.
4. «Khaki-wackies»
Il 7 dicembre del 1941 l’attacco a Pearl Harbor determina l’ingresso degli Stati Uniti
in guerra. L’arruolamento di circa 16.500.000 giovani maschi comporta che le donne,
fin allora ai margini del mercato del lavoro, siano assunte in massa in ogni tipo
di settore professionale, negli uffici pubblici, in quelli privati e – soprattutto
– nelle fabbriche, per sostituirsi alla manodopera maschile che adesso scarseggia.
Dal 1941 al 1945 le donne che lavorano passano dal 27,6% al 37% sul totale della popolazione
femminile. Nel 1945 le lavoratrici sono il 36,1% sul totale di tutti coloro che lavorano78. Nella pressante campagna governativa che chiama le donne al lavoro si dice incessantemente
che questa situazione dev’essere valida «only for the duration». Ma intanto i rapporti
di genere cambiano e sembrano prendere un nuovo profilo.
Non solo. Con l’ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale le cose sembrano
farsi anche più serie per chi pretende di avere a cuore il «morale» della nazione,
come non si stanca di ricordare il capo dell’Fbi, J. Edgar Hoover, in numerosi interventi di questo periodo79. Dal 1942 al 1945 molti giovani americani devono andare nei campi di addestramento
militare e poi partire per la guerra nel Pacifico o in Europa. Molte donne prendono
il posto degli uomini richiamati nell’esercito, e vanno a lavorare in fabbrica o negli
uffici. E molte giovani sono incoraggiate a compiere il loro dovere patriottico partecipando
alle iniziative di solidarietà per i soldati organizzate dall’Uso80 e da altre associazioni locali. Nei pressi dei campi di addestramento dei soldati
le autorità militari americane allestiscono dei luoghi di svago che comprendono anche
dei locali da ballo. Naturalmente, perché tutto funzioni, è necessario che ci siano
donne disposte a partecipare: prendendo probabilmente spunto dal rischioso modello
delle taxi-dance halls81, le autorità militari, attraverso associazioni femminili locali, o attraverso altri
canali istituzionali, reclutano ragazze perché si presentino ai locali da ballo allestiti
per i militari e siano disposte a ballare per una serata con i giovani sconosciuti
in procinto di partire per la guerra.
Ora, se ci sono molte ragazze che si limitano a ballare con i soldati, così com’è
richiesto dalle autorità, ve ne sono poi anche molte altre, tra le quali numerose
adolescenti, che sfruttano l’insolita situazione creata dalla guerra per mettere in
pratica una loro più assertiva e sfrontata sessualità, intrecciando rapporti – a volte
anche solo occasionali – con i giovani soldati che incontrano. Sono le cosiddette
khaki-wackies («pazze per il grigioverde»), o victory girls, o good-time Charlottes82. È chiaro che il fenomeno delle khaki-wackies non è generalizzato, e riguarda soprattutto quelle ragazze che vengono da famiglie
nelle quali i meccanismi di controllo e di socializzazione si sono temporaneamente
o definitivamente allentati, o perché la famiglia è disgregata sin dai tempi della
Grande Depressione, oppure perché con la guerra il padre o i fratelli si sono arruolati
e la madre è assente da casa perché lavora in un ufficio o in una fabbrica. Tuttavia
gli spazi che si aprono coinvolgono anche ragazzi e ragazze che vengono da famiglie
stabili, sollecitati da un contesto di maggiori facilità relazionali che un teenager
dell’epoca descrive come un vero e proprio «sex paradise»83.
Indubbiamente è un fenomeno vistoso, che non tarda ad attirare l’attenzione dell’opinione
pubblica. Inizialmente le autorità militari cercano di arginarlo distinguendo le ragazze
che sono state contattate e mobilitate dall’Uso, automaticamente ritenute rispettabili, da quelle che invece si avvicinano da sole
ai campi militari o alle sale da ballo per i coscritti, senza una formale autorizzazione
dell’Uso, e che – a torto o a ragione – sono considerate delle prostitute, o potenzialmente
tali. È comunque difficile dare un senso operativo alla distinzione, perché anche
tra le ragazze mobilitate dall’Uso ve ne sono di quelle che, finita l’iniziativa patriottica, si danno appuntamenti
con i soldati che hanno conosciuto, e finiscono per avere rapporti sessuali occasionali
con uno, o anche con diversi, di loro.
Quando il fenomeno sembra diventare incontrollato, nelle reazioni delle autorità militari
o degli organi di stampa mainstream, tipo «Newsweek», «Time» o «Life», le preoccupazioni
moralistiche si trasformano in ansie sanitarie, alimentate da una campagna ossessiva
volta a proteggere i giovani soldati dalle infezioni veneree. L’intera questione viene
affrontata impiegando uno schema concettuale semplice, anche se alla fine piuttosto
contraddittorio84: (1) le donne sono considerate naturalmente più inclini degli uomini alla sensualità;
e le donne nere lo sono più di quelle bianche; (2) le donne – prostitute o no – sono
considerate i principali vettori delle malattie veneree, e per questo devono essere
controllate, curate, e – soprattutto – represse, poiché è proprio la loro sensualità
a causare il diffondersi delle infezioni; le donne nere sono ritenute costituzionalmente
più recettive nei confronti delle infezioni; (3) i soldati hanno diritto alle loro
soddisfazioni sessuali, un tratto comportamentale che fa di loro dei «veri uomini»85; (4) il comportamento sessuale dei soldati non è reputato causa di infezione; piuttosto,
i militari infetti sono delle vittime e per questo non vanno repressi, ma solo curati.
Quest’ultima considerazione si basa sul fatto che al momento dell’arruolamento i coscritti
vengono sottoposti a screening medici e coloro che sono affetti da gonorrea e sifilide
vengono scartati e indirizzati verso istituti di cura; tuttavia non si prende mai
in considerazione l’ipotesi, peraltro altamente probabile, che un soldato infettato
dopo l’arruolamento diventi egli stesso vettore di infezione attraverso rapporti sessuali
con ragazze sane: la tenacia con la quale le autorità militari escludono questa ipotesi
mostra il sessismo di fondo che guida tutte le loro iniziative operative, la principale
delle quali consiste nel compiere delle retate con l’arresto di tutte le ragazze «sospette»
che si aggirano intorno ai campi militari, o che sono sorprese in locali pubblici
o per strada con dei soldati in atteggiamento «promiscuo». Una volta operato l’arresto,
le donne vengono visitate da un medico; poi sono forzosamente detenute in campi di
prigionia in attesa dei risultati dei test; infine, se risultano malate, sono sottoposte
a un periodo di cura e di quarantena in istituti appositi. Sebbene non ci sia una
statistica complessiva, è certo che durante il periodo della guerra molte migliaia
di donne e di ragazze, a volte anche giovanissime, vengono sottoposte a questo trattamento86.
In tutta questa vicenda le donne sono considerate dei soggetti pericolosamente sensuali.
Si tratta di un’idea molto diffusa, che si era già fatta strada nella cultura popolare
come in quella accademica sin dalla fine del XIX secolo87. Ed è un’idea che ovviamente viene contrastata dal suo «doppio positivo», attraverso
le rappresentazioni femminili utilizzate dall’Owi per spingere le donne a partecipare attivamente allo sforzo di guerra. Si tratta
di immagini di donne al tempo stesso rassicuranti e volitive, impegnate a occupare
i posti di lavoro lasciati dagli uomini, dedite alla famiglia e non particolarmente
dotate di attrattiva sessuale. Su quest’ultimo aspetto si insiste molto perché si
vuole essere sicuri che la figura della donna che va a lavorare in ambienti ancora
prevalentemente maschili non sia associata a un’inaccettabile licenziosità sessuale.
Rosie the Riveter, l’immagine dipinta da Norman Rockwell per la copertina del «Saturday Evening Post»
del 29 maggio 1943, è una delle più note e popolari declinazioni di questo tipo di
retorica iconografica e di etica civica. Rockwell la disegna come una massiccia operaia
in salopette di jeans, con un volto non particolarmente seducente, ma con l’espressione
decisa di una vera democratica (sotto i piedi ha una copia del Mein Kampf); è in pausa pranzo e il suo nome – Rosie – è scritto sulla valigetta per la colazione,
che lei tiene in braccio insieme a «un grosso martello pneumatico molto fallico»88.
Tuttavia il problema che si pone all’Owi è che dar sostegno all’immagine di donne serie e determinate, che si trovano un lavoro
o si arruolano nei corpi femminili, risulta minaccioso per molti uomini che temono
che a guerra finita le donne non se ne tornino docili a casa, o che ritengono francamente
respingente l’idealtipo di genere trasmesso da immagini come quella della Rosie di Rockwell: si tratta di preoccupazioni mostrate molto chiaramente da diversi sondaggi
compiuti sin dall’inizio della guerra89. È così che si preferisce una diversa figura femminile, più graziosa e seducente.
Il processo si avvia autonomamente nella grafica pubblicitaria: in molte immagini
pubblicitarie del periodo di guerra si vedono giovani donne attraenti, con una struttura
corporea slanciata, impiegate per promuovere le merci più varie (nel caso della Fig. 3, l’immagine pubblicizza pratici vestiti prodotti dalla Realsilk per donne che vogliono
partecipare allo sforzo bellico andando a lavorare in una fabbrica o in un ufficio);
oppure si vedono immagini di ragazze con un corpo «a clessidra» (seno prominente e
vita stretta) accogliere il loro uomo «in licenza» (come nella pubblicità dei costumi
Jantzen, riprodotta in Fig. 4, edita su «Life» negli stessi giorni in cui il «Saturday Evening Post» pubblica la
copertina con Rosie the Riveter); o abbracciare il «loro» soldato che torna dal fronte portando in regalo con sé
una bella scatola di cioccolatini (pubblicità della cioccolata Whitman’s)90.
La nuova immagine viene accolta anche dalla propaganda militare ufficiale, com’è mostrato
dallo spot radiofonico per il reclutamento nel Waves (Women Accepted for Volunteer Emergency Service), il corpo di ausiliarie volontarie
attive nella marina militare americana, che recita:
Le ragazze nel Waves sono delle vere donne americane – del tipo che ama le feste e i vestiti carini, e
sanno anche cucinare e cucire. E sono anche molto femminili, ed orgogliose di esserlo91.
Ed è in questo particolare contesto retorico che fanno irruzione le pin-up92.
5. Pin-up
Immagini di ragazze da attaccare al muro: queste sono le pin-up che popolano i sogni
di milioni di soldati (e di civili) americani a partire dagli anni della guerra. Infatti,
nell’intento di diffondere una rappresentazione seducente della «vera donna americana»,
così come se la immaginano all’Owi, le cartoline o i manifesti con le pin-up inondano i servizi della posta destinata
ai soldati impegnati nella guerra contro le forze dell’Asse. Le immagini sono di due
tipi: da un lato si tratta di foto di giovani attrici in voga, prodotte dagli uffici
promozionali delle case cinematografiche, come quella che Frank Powolny scatta nel
1941 a Betty Grable per la 20th Century Fox, richiestissima tra i soldati, tanto che
si stima ne siano state diffuse 5 milioni di copie tra i militari al fronte (Fig. 5)93.
Dall’altro lato, hanno un grande successo i disegni che, sin dall’ottobre del 1940,
vengono realizzati da Alberto Vargas per «Esquire», una rivista orientata soprattutto
verso un pubblico maschile. Sin dal 1939, per un accordo stretto tra l’editore e le
forze armate americane, «Esquire» pubblica un’edizione gratuita per i soldati, priva
di pubblicità, e in qualche caso con retrocopertine appositamente preparate per queste
edizioni: e anche in questo caso si stima che le copie della rivista diffuse tra le
truppe nel corso della guerra siano state 9 milioni94. Al centro di ogni numero di «Esquire» c’è un manifesto a doppia pagina che riproduce
la Varga Girl del mese95, con una breve poesiola in rima, scritta da Phil Stack, a commento della figura:
ed è uno degli oggetti più ambiti e attesi da molti soldati americani.
Molto più delle foto delle attrici, le Varga Girls sono esplicitamente sessualizzate; hanno un corpo attraente, di proporzioni quasi
impossibili; un seno prosperoso, una vita strettissima, delle gambe lunghissime; e
guardano quasi sempre in direzione di chi le osserva con un’aria di gioiosa provocazione.
Sebbene non siano esplicitamente pornografiche (non ci sono nudità esposte, e le ragazze
rappresentate sono quasi sempre sole, in atteggiamenti provocatori ma non eroticamente
connotati), il messaggio inviato è evidente, e in qualche caso è reso pesantemente
esplicito dalle didascalie di Stack o dai titoli attribuiti alle immagini, come nel
caso di Something for the Boys, titolo del manifesto centrale pubblicato nel numero di giugno del 1943 di «Esquire»,
o di Target for Tonite, del marzo 1944 (Fig. 6 e Fig. 7).
Immagini di questo genere adornano gli alloggiamenti dei soldati, li accompagnano
nelle azioni di guerra, e decorano le fusoliere dei loro aerei. Tra tutti gli usi,
questo è il più ambivalente di tutti: da un lato, l’immagine della bella donna dovrebbe
far vedere ai nemici per chi si sta combattendo; dall’altro, le didascalie che talora
vi sono collegate («The Dark Angel», «Double Trouble», «War Goddess», ecc.) trasferiscono
la «pericolosa sensualità» della ammaliante ragazza alla pericolosità dello strumento
da guerra che deve decorare96.
Tuttavia, la retorica che circonda tutte queste immagini tende a ricontestualizzare
l’esplosività erotica che le caratterizza entro un quadro molto più rassicurante,
giacché diverse Varga Girls sono concepite in modo da suggerire che la loro attrattiva erotica non è «per tutti»,
ma solo per «lui», solo per l’uomo speciale che lei aspetterà fino alla fine della
guerra. È questo il messaggio contenuto, per esempio, in Peace, It’s Wonderful, manifesto centrale di «Esquire», aprile 1943 (Fig. 8), accompagnato da questa poesia di Stack:
Quando questa bellezza militare
Suona un taratatata
Come segnale che la Vittoria è nostra...
E il suo soldato si rilassa
Dopo aver abbattuto l’Asse
E poi la conduce al volo all’altare...
Lei lo lascerà dormire pesantemente
Mentre una volta si svegliava alla squilla
E non lo rimprovererà mai per il suo cedimento;
Ma, a meno che i miei occhi non mi ingannino,
Lui non sarà così moscio, credetemi,
Quando la sveglia sul loro caminetto segnerà l’ora di spegnere la luce!
Più ovvio e rassicurante il significato di Hail and Farewell, pagina centrale del numero di luglio 1943 (Fig. 9).
La retorica disciplinante che circonda le immagini fotografiche delle attrici non
è diversa da quella che sostiene questi disegni. Nel caso di Betty Grable, di Donna
Reed e di altre star del cinema, il ruolo che viene costruito intorno a loro è quello
delle ragazze belle, giovani e forse un po’ ingenue, ma in fondo per bene, le classiche
«ragazze della porta accanto». Si tratta di una retorica che Betty Grable declina
sino in fondo, nella modalità più didattica possibile, quando in un’intervista del
1943 dispensa consigli alle ragazze su come comportarsi con gli uomini:
Ricordatevi di seguire la loro guida, dal ballo alla conversazione. Parlate di loro.
Le ragazze più popolari, alla Hollywood Canteen, per esempio, sono delle ottime ascoltatrici:
sono quelle che pendono dalle labbra di un uomo come se fosse l’Oracolo della Guerra
e l’unica persona nella stanza97.
Il disciplinamento morale delle pin-up riesce perfettamente: la popolarità di Betty
Grable non diminuisce affatto quando si sposa con il musicista swing Harry James (1943),
e si consolida definitivamente l’anno seguente, quando la coppia ha un figlio98. D’altronde, nelle lettere che i soldati indirizzano direttamente a questi oggetti
del loro desiderio, risuona spesso una casta nota sentimentale. In una cartolina spedita
a Donna Reed il 18 agosto 1944, il sergente William F. Love, impegnato in Nuova Guinea,
scrive: «I ragazzi della nostra unità pensano che tu sia la tipica ragazza americana,
una dalla quale vorrebbero tornare, una volta a casa!!!!!». Il sergente John C. Dale,
in servizio come mitragliere di coda su un B-17, le scrive, il 28 marzo del 1944,
che la considera la ragazza della porta accanto, per la quale si sente di dover combattere99.
Come osserva Nancy Cott, «le pin-up preferite tra i soldati suggeriscono che non era
solo l’attrattiva sessuale, ma le visioni del matrimonio, della famiglia e del comfort
domestico che rendevano desiderabili queste icone della femminilità»100. Il modello diventa talmente popolare da essere proposto esplicitamente come standard
di bellezza nelle pubblicità di prodotti cosmetici indirizzati alle ragazze101: e nel caso di una pubblicità per i prodotti Jergens, significativamente accompagnata
dallo slogan «Be his Pin-up Girl!» (pubblicata su «True Story» nel giugno del 1944),
l’autore del disegno è proprio Alberto Vargas.
Come hanno mostrato Robert B. Westbrook e Maria Elena Buszek, numerosi esempi di foto
che varie ragazze inviano ai loro fidanzati al fronte mostrano che il modello si è
imposto al punto da far assumere anche a loro delle pose da pin-up «fatte in casa»:
niente di esageratamente provocante, ma nondimeno qualcosa che sia allegramente seducente,
come lo sono le foto di Betty Grable o i disegni meno osé di Vargas102.
Certo non tutta l’opinione pubblica statunitense è pronta ad accettare senza batter
ciglio il «modello pin-up», specie nella declinazione «Esquire»103. E difatti, Frank Walker – un avvocato del Montana, democratico e cattolico, che
nel 1940 è stato nominato Postmaster General (cioè ministro delle Poste) da Franklin
D. Roosevelt – nel settembre del 1943, in virtù della sua carica istituzionale, intenta
una causa contro «Esquire» per cercare di bloccarne la diffusione, sulla base della
scarsa moralità delle immagini pubblicate104. La causa procede attraverso diversi livelli di giudizio, ma non ferma la diffusione
della rivista tra le truppe; e soprattutto si conclude, nel 1945, con una definitiva
sentenza della Corte Suprema che riconosce l’infondatezza delle pretese censorie del
Postmaster General e conferma la legittimità della libera circolazione della rivista.
A quel punto, ormai, nonostante le voci critiche che di tanto in tanto avrebbero continuato
ancora a levarsi anche negli anni seguenti, la figura delle pin-up si è definitivamente
imposta nelle riviste per le donne o per le adolescenti, nelle pubblicità e negli
articoli di costume delle riviste mainstream, come lo standard normativo femminile
di riferimento105. E la sequenza di star del cinema che si impone subito dopo la guerra (Elizabeth
Taylor, Jane Russell, Marilyn Monroe, Jayne Mansfield, Doris Day, Janet Leigh, Lana
Turner, Susan Hayward, Ann Sothern, Kim Novak, Ava Gardner) traduce in realtà corporea
l’ideale delle Varga Girls, fin allora rimasto solo un’astratta fantasia106.
Questo modello normativo, che diviene ubiquitario man mano che la guerra si avvicina
alla fine, è particolarmente esigente: le donne devono essere seducenti, ma al tempo
stesso capaci di conservare la propria rispettabilità, in un estenuante esercizio
di autocontrollo. Alle giovani donne si chiede di essere attraenti, di restare vergini
(o far credere di esserlo) prima del matrimonio, di trovare il «principe azzurro»,
di sposarsi, fare figli e stare (o tornare) a casa – se appena il reddito del «principe
azzurro» lo permette – e di conservarsi caste e virtuose. La stessa propaganda bellica
rilancia, con insistente tenacia, la centralità valoriale del matrimonio: d’altronde
negli anni di guerra l’età al matrimonio si abbassa, soprattutto per le donne, e il
numero di matrimoni – spesso celebrati in fretta e furia, prima che il fidanzato parta
per il fronte – aumenta rispetto agli anni precedenti.
Intanto la retorica bellica esalta la assoluta necessità di difendere la «home» –
intesa come patria e come nucleo familiare – contro le pretese imperialiste e razziste
dei giapponesi e dei nazisti. Ma, così facendo, si descrive nuovamente la «home»/casa
come un luogo esclusivamente femminile, lo spazio deputato per la realizzazione della
femminilità. Nel corso di un programma radio intitolato To the Young, sponsorizzato dal governo federale e trasmesso da tutti i network nel corso del
1942, si può sentire una giovane voce maschile che dice: «Questa è una delle ragioni
per le quali si combatte la guerra». Al che una voce femminile risponde: «La ragione
siamo noi?». E il ragazzo replica: «La ragione siamo tutti noi giovani. La ragione
è l’amore, e lo sposarsi, e l’avere una casa e qualche bambino, e respirare l’aria
fresca dei sobborghi... è vivere e lavorare in modo decente, come un popolo libero».
Coerentemente, pubblicità come quella della Union Central Life Insurance Company descrivono
l’impegno bellico come «una lotta per fare del nostro paese un posto sicuro per le
mogli che amiamo, un posto in cui i nostri figli possano crescere liberi e sereni».
Sulla stessa linea è lo spot per l’aspirapolvere Eureka che, rivolgendosi alle donne
impegnate al lavoro, dice che anche loro stanno combattendo «per la libertà e tutto
ciò che essa significa per tutte le donne. State combattendo per una casetta tutta
vostra, e per un marito da aspettare ogni sera sulla porta... per il diritto di crescere
i vostri bambini libere dall’ombra della paura»107.
Proiettata verso la fase del dopoguerra, una retorica di questo genere vuol dire che
ci si aspetta che – a guerra vinta – le donne che lavorano tornino a casa a fare le
mogli, per lasciar spazio ai giovani uomini reduci dal fronte, i veri e unici breadwinners108: una gerarchia etica e relazionale che stabilisce precedenze su cui nessuno – dai
leader politici ai creativi pubblicitari – manifesta il sia pur minimo dubbio, giacché
la retorica patriottica ha presentato i soldati secondo le linee tracciate dalla cultura
di massa mainstream degli anni prebellici, trasformandoli in eroi che hanno rischiato
un consapevole martirio e hanno combattuto come guerrieri probi e virili, sbaragliando
sia i minacciosi «musi gialli» (come la propaganda definisce, con sovratoni razzisti,
i giapponesi) che gli invasati nazisti109.
In questo contesto, le ragazze che tra la fine degli anni Trenta e la guerra sono
impazzite per il jitterbug, che hanno immaginato di potersi conquistare una loro autonomia
sessuale, che hanno assaporato la libertà dai controlli familiari, adesso devono rigare
dritto (se ci riescono). D’altronde anche gli spazi per le musiche e le danze che
hanno portato la cultura della gioventù bianca a contatto con tradizioni e pratiche
afroamericane sembrano chiudersi ermeticamente. Durante la guerra lo stesso swing
cambia identità quando diventa una sorta di musica ufficiale dell’esercito americano.
Glenn Miller, arruolatosi in aviazione, si trasferisce in Europa e con la sua band
suona per i soldati americani uno swing sempre più sentimentale e sempre più simile
alla musica orchestrale delle sweet bands di Guy Lombardo o di Sammy Kaye. Inoltre la composizione della sua orchestra, nella
quale non c’è alcun musicista nero, si adatta perfettamente alla struttura di un esercito
come quello americano, in cui vige una rigida segregazione razziale110.
Niente di sorprendente, in tutto ciò, per le comunità afroamericane, per le quali
però la guerra ha l’effetto di un trauma definitivo. Andare a combattere in nome di
ideali antirazzisti, subendo al tempo stesso, anche nell’esercito, l’esperienza della
segregazione razziale, per molti neri risulta davvero insopportabile. Vi è chi reagisce
cercando una propria radicale via espressiva: per esempio, allontanandosi dalle forme
ormai irrigidite dello swing, per sperimentare un nuovo tipo di jazz, ritmicamente
complesso, armonicamente innovativo, melodicamente spigoloso – il bebop –, che musicisti
come Dizzy Gillespie, Charlie Parker o Thelonious Monk vivono come una deliberata
e consapevole opposizione alla musica e alla società bianca111. Altri, invece, reagiscono pensando che sia arrivato il momento di prendere iniziative
che portino i neri fisicamente, psicologicamente e normativamente fuori dai ghetti.
Ed entrambe queste traiettorie avranno un ruolo importante nello sviluppo della nostra
storia. Ma per il momento, subito dopo la fine della guerra, quello che si prospetta
all’orizzonte è qualcosa di ben diverso, qualcosa che non prevede né creatività sessuale,
né opposizione politica radicale, né libertà dal razzismo: è un vero e proprio tentativo
di normalizzazione politica e morale della società americana in tutte le sue articolazioni,
quello che è annunciato dalla costruzione di lunghe serie di linde villette nei nuovi
sobborghi che portano le ideali famigliole da American dream via dai fatiscenti centri urbani, verso luoghi residenziali più salubri, piacevoli
e graziosi.