Edizione: 2010, VIII rist. 2017 Pagine: 218 Collana: Quadrante Laterza [163] ISBN carta: 9788842093992 ISBN digitale: 9788858115947 Argomenti: Storia contemporanea
Questo volume disegna un ponte tra l’antico regime e la modernità: il lungo Ottocento, il periodo tra le rivoluzioni (americana e francese) e la prima guerra mondiale. È il luogo di formazione delle nostre idee e del nostro mondo, di cui però non va nascosto il carattere antico, in cui vanno riconosciute tutte le incrostazioni di una storia secolare. La scintilla dell’industrializzazione genera soggetti sociali nuovi, anche se al centro della scena rimangono protagonisti che poco hanno a che fare con essa: aristocratici, proprietari fondiari, professionisti, contadini, artigiani. Si affermano le idee di libertà, democrazia, diritti individuali, ma persistono imperi antichi e se ne formano di nuovi. Nel momento in cui l’eguaglianza viene posta a fondamento della vita collettiva, viene con altrettanta forza giustificata l’ineguaglianza, a tutela delle gerarchie che regolano il funzionamento della società. Prospettive diverse, in apparenza incompatibili, si sovrappongono formando un mix complesso che tocca ancora al nostro tempo sciogliere.
Salvatore Lupo insegna Storia contemporanea all’Università di Palermo. Autore di numerosi studi sulla storia della società meridionale tra Otto e Novecento, ha pubblicato, tra l’altro: per Donzelli, Andreotti, la mafia, la storia d’Italia (1996); Partito e antipartito. Una storia politica della prima Repubblica (2004); Storia della mafia. Dalle origini ai giorni nostri (n.e., 2004); Il fascismo. La politica in un regime totalitario (2005); Che cos’è la mafia. Sciascia e Andreotti, l’antimafia e la politica (2007); per Einaudi, Quando la mafia trovò l’America (2008).
Questo libro parla di un grande mutamento dei tempi i cui effetti arrivano sino a
noi. Tratta della prima età contemporanea, cioè di un Ottocento lungo – per usare un’espressione molto presente nell’attuale storiografia – che affonda
le sue radici nel Settecento e finisce prima della Grande Guerra.
Mutamento. Non voglio sostenere che la storia precedente a quella di cui tratteremo possa essere
letta alla luce della pseudo-categoria dell’immobilità, soprattutto se ci riferiamo
alle aree cruciali della civilizzazione mondiale (Cina, India, Persia, Medio Oriente,
Europa) dove nei secoli si sono alternate raffinate fioriture culturali e fasi di
decadenza; dove si sono affermati e sono tramontati sistemi politico-istituzionali,
gerarchie sociali, economie. È vero però che prima i mutamenti erano graduali, se non magari quando assumevano forme negative: epidemie,
carestie o solo aumento del prezzo del pane, invasioni e guerre, inasprimento della
pressione fiscale, erosione insomma delle condizioni di vita e dei diritti delle comunità.
Non c’è da stupirsi che contadini e artigiani fossero affezionati alla stabilità,
che il più delle volte la loro cultura fosse di tipo tradizionalistico. Non solo la
loro, peraltro. Per tanti intellettuali l’antico rappresentava il punto più alto della
condizione umana: un’età originaria, felice, aurea, classica, alla quale – si pensava
– non poteva che seguire la decadenza.
Invece nel corso dell’Ottocento lungo il mutamento fu tale da essere percepito un
po’ da tutti. Come ha scritto David Landes, grande storico dell’economia, «nelle cose
materiali un inglese del 1750 era più vicino ai legionari di Cesare che ai propri
stessi pronipoti». Per gli attrezzi in uso, per le attività in cui erano impegnati
gli esseri umani, irriconoscibile sarebbe stato per lui il mondo già intorno al 1850.
La metà del Settecento non è poi così lontana da noi. Calcoliamo convenzionalmente
per ogni generazione la durata di 25 anni. Ciò vuol dire che un individuo nato nel
1975 è diviso da un suo avo nato nel 1750 solo da nove generazioni: arco di tempo
nel quale appunto sono avvenute nella vita quotidiana trasformazioni mai realizzatesi
in ere passate. Valutiamo anche l’impatto di uno dei macro-fenomeni della contemporaneità:
l’enorme incremento della vita media per cui generazioni diverse si sono trovate a
convivere, potendo più facilmente effettuare comparazioni tra le rispettive esperienze
e proiettandole sul futuro. Gli individui, in un numero via via maggiore, in parti
via via più estese del mondo, si sono aspettati di vivere meglio dei loro padri, hanno
previsto e anche preteso per i loro figli una condizione di vita migliore della loro.
L’Ottocento cercò le vie per allargare i confini e la portata del mutamento in corso,
per accentuarne i ritmi e per rimediare a ogni suo sia pur piccolo segnale di rallentamento.
Credette nella tecnologia e nelle scienze, ivi comprese quelle sociali cui governanti,
uomini d’affari e in generale la tipica creatura del mondo nuovo – l’opinione pubblica
– fecero ricorso per misurare quantitativamente e valutare qualitativamente il moto,
per averne lumi (possibilmente favorevoli) sul futuro. La trasformazione ne uscì come
santificata, assimilata alla provvidenza divina.
Ai mutamenti economici e sociali, fecero riscontro quelli culturali e politici. L’epoca
di cui parliamo cominciò con l’affermazione settecentesca, da parte della rivoluzione
americana e di quella francese, dei diritti umani, dei principi di eguaglianza civile,
libertà e sovranità popolare: principi inseparabili dai processi reali di trasformazione
politica del XIX secolo come del XX secolo. Così le varie facce della trasformazione
(economica, sociale, culturale, politica) furono raffigurate come un tutt’uno, attraverso
i termini progresso, evoluzione, rivoluzione, allora proposti dall’illuminismo, dallo storicismo, dal marxismo, dal positivismo.
Furono individuati meccanismi unitari basati su una serie di passaggi dal semplice
al complesso, dal peggio al meglio. Il liberalismo, la democrazia, il socialismo videro
in questo telos unitario l’occasione di riorganizzare il mondo secondo principi universalistici, cioè con vantaggio di tutti.
Il lungo Ottocento è il passato che più ha influenzato il nostro presente. Ha formato
la gran parte delle nostre idee. Ha dato inizio alle trasformazioni che hanno plasmato
il nostro mondo. Siamo però attenti a non pensare che il percorso fosse già compiuto
nel 1816, nel 1849 o nel 1871. Non perdiamo il senso delle grandi diversità tra società
ottocentesca e società novecentesca: fuori dall’Europa innanzitutto, ma anche all’interno
dell’Europa, come spiegano molti libri di storia scritti e pubblicati nell’ultimo
trentennio.
Questi studi ci descrivono un’economia costruita non tanto sull’industrializzazione,
quanto sui commerci, sulle manifatture tradizionali, sull’agricoltura; e di conseguenza
una società composta da mercanti e bottegai, artigiani e operai «di mestiere», professionisti,
soprattutto contadini e percettori di rendita fondiaria. Le aristocrazie svolgevano
un ruolo economico, sociale e politico importante un po’ dappertutto, e spesso le
borghesie guardavano a esse come a modelli. La famiglia sanciva la disuguaglianza
tra i sessi, i comportamenti erano pesantemente condizionati da censure sociali e
anche legali. L’emancipazione femminile e la libertà sessuale, propugnate da sparute
minoranze, venivano pensate dalle maggioranze come fantasmi minacciosi. Quanto alla
politica, ancora nel 1871 lo spazio europeo era organizzato in imperi e monarchie,
e c’erano due sole repubbliche. Solo nella parte centro-occidentale del continente
si erano affermati i principi liberali. I poveri e gli analfabeti erano esclusi dal
voto quasi dovunque, le donne dovunque.
Tutto questo parla di oppressive continuità, di durezze antiche, di conservatorismo,
più di quanto si sia soliti in genere ammettere. Non possiamo non registrare lo scarto
con l’immagine fornita già allora dalle grandi teorie sociali o politiche progressiste,
che (proveremo a dimostrarlo nel testo) spacciavano per superato quanto invece faceva
parte integrante del loro tempo. Non si trattava peraltro solo di un errore nella
tempistica, di un’anticipazione ininfluente sul risultato finale. Il progressismo
implica spesso – e particolarmente implicò allora – semplificazioni interpretative,
sottovalutazioni delle persistenze di lunga durata, delle ibridazioni tra vecchio
e nuovo.
L’Ottocento fu l’età in cui l’alta cultura prima, l’organizzazione sociale poi, si
emanciparono da molti dei più antichi e consolidati riferimenti al divino. Si rivelarono
però erronee le previsioni di un prossimo esaurimento della fede in dio. Un gran numero
di esseri umani ha conservato credenze religiose nell’Ottocento come nel Novecento,
e le conserva tutt’oggi. L’antropologia ci insegna d’altronde che la religione non
rappresenta solo una spiegazione pre-scientifica dei fenomeni naturali. Essa, come
in generale la cultura, svolge funzioni ben più complesse, risponde a bisogni permanenti
degli individui e delle comunità di dare un senso al proprio passaggio nel mondo.
Bisogna poi considerare la capacità della religione di fungere da modello per la politica.
In particolare ogni movimento o ideologia radicale, a cominciare dalla rivoluzione
francese, ha imitato le logiche delle appartenenze religiose e delle guerre di religione:
per cui i fedeli si convincono di essere assolutamente nel giusto, e attribuiscono
la qualifica di infedele agli avversari. La storiografia ha molto insistito sul riferimento
a queste «religioni politiche», il quale non deve peraltro farci dimenticare che le
religioni «vere» (il cristianesimo nelle sue varie confessioni, l’islamismo, l’ebraismo,
l’induismo) hanno continuato nel corso dell’Ottocento – e se è per questo anche nel
Novecento – a svolgere cruciali funzioni identitarie: ovvero, gli individui hanno
cercato nelle religioni ragioni per sentirsi membri di un gruppo solidale distinto
da altri gruppi pensati come estranei o magari nemici. Lo stesso può dirsi per altre
fondamentali questioni attinenti all’idea di cultura. La «globalizzazione» ottocentesca
omologò per molti versi i gruppi umani, li rese più simili tra loro; ma per un altro
verso li spinse a valorizzare, quasi per reazione, lo specifico o, come si dice, le
tradizioni di ognuno. Anche questo tema è stato molto presente nella storiografia
di questi ultimi anni: la quale ha ragionato in particolare sulle mitologie, sulle
fantasiose elaborazioni-idealizzazioni del passato che andarono a formare una delle
«religioni politiche», il nazionalismo.
Il discorso sul nazionalismo ci porta a quello, certo non coincidente ma collegabile,
sul razzismo. Ancora nella seconda metà dell’Ottocento, negli Stati Uniti d’America
– paese all’avanguardia del processo di democratizzazione – le popolazioni indigene
venivano sterminate, e quelle di pelle nera erano private dei diritti sia politici
che civili. D’altronde, sia in Europa che in America, ben pochi credevano che tali
diritti valessero davvero per i popoli «di colore». Anzi l’Occidente produsse una
quantità di teorie razziste atte a giustificare scientificamente l’inferiorità dei neri innanzitutto, ma anche dei semiti, presunta razza «orientale» nella quale furono compresi arabi ed ebrei. Appoggiandosi
(tra l’altro) a queste teorie, gli europei assoggettarono buona parte del mondo con
i loro imperi coloniali. All’interno stesso dell’Europa, l’antisemitismo si preparò
a fornire i suoi frutti più nefasti.
Insomma, la politica moderna coinvolge passioni e crea mitologie, prendendo forma
in sfere più profonde di quanto voglia una rappresentazione semplificata secondo la
quale tutto si ridurrebbe a programmi di governo razionalmente elaborati, periodicamente
presentati al vaglio dell’opinione pubblica e dell’elettorato, recepiti in una forma
altrettanto asettica.
È vero in particolare che, oggi come ieri, la politica ha bisogno di legittimazione – ovvero, gli esseri umani hanno bisogno di sentire come legittimo il potere, il comando
e l’obbedienza. Si pensi al paternalismo, evocazione della relazione tra padri e figli attraverso la quale governanti, sacerdoti,
possidenti, imprenditori cercano di convincere sudditi, fedeli, contadini, lavoratori
ad accettare appunto come legittimo l’ordine sociale. Si tratta di un’ideologia, o
solo di una retorica più o meno sincera, che trae la sua forza dal richiamo alla famiglia,
l’istituzione umana in cui l’obbedienza all’autorità appare più «naturale». Credo
non ci sia epoca storica, compresa la nostra, che non ne abbia fatto uso.
Non siamo davanti a fossili storici, a mere sopravvivenze. Molta parte della storiografia
attuale lavora in maniera meno condizionata dal giudizio, ed eventualmente dal pregiudizio
progressista dell’Ottocento lungo. Rileva come il più delle volte le stesse grandi
utopie, i progetti e le speranze di un mondo futuro migliore si siano nutriti di riferimenti
anche mitici a diritti antichi, o supposti naturali, ad armonie sociali originarie:
così nelle idee giusnaturaliste che hanno ispirato le rivoluzioni settecentesche,
così in quelle socialiste. Spiega come il presente prenda il più delle volte forma,
e il futuro venga immaginato, attraverso l’idealizzazione del passato.
Questo libro ha un approccio – manca un’espressione migliore – di storia generale. È il caso di avvertire che con il suo incipit settecentesco vuole solo indicare
un antefatto, il luogo e il modo in cui certe questioni cominciano a porsi. Nemmeno
sull’Ottocento, però, aspira alla completezza: come accade per ogni lavoro del suo
genere, molto o troppo personale è infatti la selezione degli eventi, dei temi, dei
problemi e delle interpretazioni. La selezione vuol essere sintetica, lo strumento
vuol essere agile. Presenta eventi, ma anche idee del tempo: conservatorismo, liberalismo
e democrazia, liberismo e protezionismo, socialismo e nazionalismo, imperialismi del
più diverso conio. La stessa attenzione, va detto con rammarico, non è prestata a
storie altrettanto importanti, quelle più direttamente attinenti alla vita quotidiana,
alle pratiche sociali, alle relazioni di genere.
Credo possa essere condivisa la scelta di dare un rilievo particolare alla storia
italiana. Per il resto, ho cercato di evidenziare la dimensione complessiva dei processi;
non penso però di essere esente da accuse di etnocentrismo, mi rendo conto cioè di
aver privilegiato la storia occidentale (europea-statunitense). La scelta corrisponde
a un bisogno di compattezza interpretativa: a rischio di lasciare fuori questioni
di per sé degnissime di ricostruzione storica, volevo basarmi su materiali di valore
probatorio analogo, aggregare gli eventi intorno a nuclei problematici comparabili,
ricostruire strutture materiali e culturali omogenee.
S.L.
Undici paragrafi del volume sono catalogati alle voci «Il discorso politico», «Il
discorso letterario», «Il discorso storiografico». Sotto le prime due voci si troveranno
sintesi e commento di opere coeve di carattere rispettivamente politico e letterario.
C’è appena bisogno di dire che la selezione non vuole minimamente basarsi su criteri
di eccellenza saggistica, né tanto meno ha intento critico-artistico: si tratta solo
di un espediente espositivo, inteso a restituire al lettore il sapore di certi linguaggi
e schemi interpretativi. Quanto ai paragrafi catalogati alla voce «Il discorso storiografico»,
si tratta di un’operazione fatta agli stessi fini su testi relativamente recenti,
di carattere storiografico. Qui tra l’altro il lettore potrà trovare qualche applicazione
di concetti anticipati nell’Introduzione: la religione politica nel paragrafo su Furet,
il nazionalismo come costruzione mitica in quello su Anderson, la globalizzazione
in quello su Bayly, la costruzione razziale e razzista in quello su Said. La bibliografia
alla fine del volume è davvero minima: vi si troveranno solo i riferimenti ai testi
che sono stati particolarmente presenti all’autore al momento della scrittura.
Francesco Benigno e Igor Mineo hanno letto parti del testo in via di elaborazione.
Le loro osservazioni si sono rivelate preziose. Un altro ringraziamento va a Carlo
Fumian, nel ricordo di un lavoro comune lontano nel tempo, ma che può essere considerato
propedeutico a questo.
I. Fuori dall’Antico regime
Al centro del discorso sta qui la rivoluzione, grandiosa discontinuità storico-politica
in due atti: il primo consumatosi a partire dal 1776 in America, il secondo a partire
dal 1789 in Francia. I rivoluzionari di entrambi i paesi sono convinti di aver aver
gettato le basi per la costruzione di un mondo nuovo; in più, i francesi pensano di
essersi lasciati alle spalle l’«Antico regime». A noi resta da valutare anche il peso
di medio o di lungo periodo dei fattori di inerzia o conservazione, per capire i caratteri
dell’originale impasto non solo politico e giuridico, ma anche economico e sociale,
venutosi a creare alle origini dell’età contemporanea.
1. Il discorso politico: lo spirito delle leggi
Introdurremo alcune delle questioni base della politica moderna partendo da un’opera
celeberrima, Lo spirito delle leggi del francese Charles-Louis de Secondat barone di Montesquieu, stampata nel 1748 nella
protestante e svizzera città di Ginevra per sfuggire alla censura, proibita in effetti
dalla Chiesa cattolica ma approvata dai dotti della Sorbona, l’università parigina.
Un uomo libero, spiega Montesquieu, è quello che si sente sicuro facendo «tutto quello
che le leggi permettono»; uno Stato libero è quello in cui il potere è sottoposto
alle leggi prima che ai governanti, quello in cui i singoli non sono oggetto di giudizi
arbitrari e la gravità delle pene è proporzionata a quella dei reati. Dunque sia le
repubbliche che le monarchie possono essere libere o dispotiche, a seconda che rispettino
o no questi principi.
Il nostro autore colloca in Europa (ma vuol dire Europa occidentale) il concetto di
«monarchia moderata», cioè vincolata al rispetto di norme e consuetudini, rispettosa
delle libertà dei sudditi. A essa contrappone il «dispotismo asiatico» prevalente
a suo dire negli imperi russo, ottomano, cinese, caratterizzati dall’arbitrio dei
governanti e insieme dall’insicurezza, dalla paura dei governati. Spiega le differenze
con le diversità degli ambienti storici e geografici, da cui derivano i diversi caratteri
dei popoli. «Le leggi sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose»,
non il frutto dell’arbitrio dei legislatori: leggi politiche, collettivamente intese
come costituzioni degli Stati, ma anche leggi civili, che regolano la posizione degli individui.
Ogni Stato, spiega Montesquieu, ha tre poteri: quello di fare le leggi o legislativo, quello esecutivo che garantisce la sua autoconservazione in guerra o in pace, quello che applica le
leggi o giudiziario. La tirannide deriva dalla concentrazione dei tre poteri in un’unica persona o in
un unico «corpo» (assemblea), sia composto da maggiorenti, da nobili o dallo stesso
popolo. Il governo moderato si caratterizza proprio per la divisione e per il reciproco
equilibrio dei poteri.
La variante che Montesquieu preferisce è quella inglese, in particolare per quanto
riguarda il potere legislativo, affidato a due diverse assemblee: la Camera dei Comuni
che è elettiva, rappresentativa dei vari territori del regno; la Camera dei Lord o
dei Pari, in cui siedono di diritto i membri della nobiltà. L’autore reputa giusto
che non siano ammessi a eleggere la prima assemblea «quelli che sono in stato di inferiorità
tale da essere reputati privi di capacità politica» (i poveri e gli analfabeti). Giustifica
anche il ruolo assegnato nella seconda a un potere ereditario che – ammette – potrebbe
sembrare «odioso di per sé»: sostiene che i nobili, abituati a trattare autonomamente
con i re, sono gli unici in grado di contrastarne il potere, di «temperarlo».
Sarà a questo punto utile fornire qualche sommaria informazione sulla storia precedente
dell’Inghilterra (o «Gran Bretagna», se vogliamo usare il termine introdotto nel 1707
con l’unificazione dei regni di Inghilterra e Scozia). Partiamo dalla Riforma protestante,
rappresentata nell’isola dalla Chiesa anglicana più moderata, da quelle calviniste o puritane più radicali: la prima si limitò a sostituire il re al papa, mentre le seconde insistevano
sul diritto dei singoli fedeli ad accostarsi mediante un «libero esame» ai testi sacri
e alle questioni di coscienza, e si organizzavano su base egualitaria. Nel 1714, al
termine di una serie di conflitti assai aspri, religiosi e politici insieme, la dinastia
cattolica degli Stuart venne sostituita con quella protestante degli Hannover. Il
parlamento aveva nel frattempo assunto il ruolo autonomo e centrale cui Montesquieu
si riferisce, giustificando la propria azione, all’atto della deposizione di Giacomo
II Stuart (1688), con una motivazione rivoluzionaria: il re aveva violato il «contratto»
che lo legava al popolo, i suoi successori dovevano impegnarsi a rispettarlo.
Siamo alla recezione dei principi del contrattualismo e del giusnaturalismo affermati in campo teorico intorno al 1690 dal filosofo John Locke, e che possiamo
così sintetizzare: la società si crea, ponendo fine allo «stato di natura», mediante
un contratto tra popolo e sovrano, ma i diritti dei sudditi, essendo naturali, restano
inviolabili anche dopo la sottoscrizione di quel contratto. Ne deriva il diritto alla
«resistenza», ovvero alla ribellione contro i sovrani ingiusti.
Queste concezioni, ai nostri occhi così innovative, si appoggiavano su alcune peculiarità
politico-istituzionali del «modello inglese». Su scala locale prevaleva il self-government (autogoverno): ovvero l’amministrazione e la giustizia erano affidate a una classe
dirigente locale dai confini abbastanza fluidi, comprendente membri della gentry (piccola nobiltà) e yeomen (proprietari di condizione civile). Il sistema giuridico, che diciamo di common law, era geloso della propria tradizione consuetudinaria e non si piegava facilmente
a imposizioni regie. Per esso toccava al popolo, organizzato nelle giurie, sorvegliare che le sentenze dei tribunali fossero eque. L’Habeas corpus, ovvero la proibizione di incarcerare qualcuno senza prove, rappresentava una prima
affermazione del principio dei diritti individuali. C’era una certa libertà nel dibattito
pubblico.
Detto dei pregi del modello inglese, ci tocca rilevare anche i suoi limiti. Il primo
riguarda proprio il sistema parlamentare. Di fatto l’aristocrazia dominava anche la
Camera dei Comuni, perché in occasione delle elezioni i suoi esponenti riuscivano
sistematicamente a ottenere i consensi della gentry e dei rappresentanti delle città: costoro pensavano naturale farsi rappresentare
da illustri personaggi, offrivano i loro voti in cambio di protezione (in una logica
di clientela), e al peggio si lasciavano corrompere. Va aggiunto che la struttura dei collegi
elettorali attribuiva alle città più popolose lo stesso numero di rappresentanti dei
borghi cosiddetti «putridi», dove i votanti erano poche decine e il controllo clientelare
molto agevole. Veniamo alla tolleranza politico-religiosa, che era limitata alle confessioni
protestanti. Dalla maggioranza degli inglesi, i cattolici erano considerati affiliati
a una potenza straniera e ostile, il papato. L’esclusione dalla vita pubblica e le
altre discriminazioni nei loro confronti durarono sino a Ottocento inoltrato, pesando
particolarmente dove essi erano maggioranza, come nell’isola di Irlanda allora sotto
dominio della corona britannica.
Non solo Montesquieu pensava che gli inglesi fossero il popolo più libero del mondo;
di certo questo era il nucleo dell’idea che gli inglesi avevano di sé, della loro
identità. Vale però anche per loro una considerazione generale di cui misureremo man mano
la validità: l’identità si costruisce e si cementa in positivo intorno a valori intesi come comunitari, nella fattispecie quelli religiosi, ma contemporaneamente
anche in negativo, escludendo qualcuno.
E la Francia? Nella Francia di metà Settecento c’erano 13 parlamenti, situati in diverse
città, il più importante dei quali era quello di Parigi. Non si trattava però di organismi
legislativi, ma di corti di giustizia alla cui verifica erano sottoposti i provvedimenti
governativi. Il diritto di farne parte veniva inizialmente comprato (come accadeva
d’altronde per altri uffici pubblici e titoli nobiliari) per poi divenire ereditario:
dando vita a una sezione particolare della nobiltà, detta parlamentare, cui lo stesso
Montesquieu apparteneva.
Non possiamo attribuire a questi parlamenti la stessa funzione rappresentativa che
attribuiamo a quello inglese. Ragionando delle istituzioni francesi del tempo, è difficile
(non impossibile) ritrovare una strada, analoga a quella britannica, che ci conduca
verso il concetto attuale di diritti individuali. I parlamenti francesi difendevano quella che gli storici definiscono «costituzione
cetuale»: laddove il termine costituzione vuole ancora indicare l’insieme (sia pure
disarmonico) di ordinamenti giuridici che avevano per oggetto i ceti o gruppi sociali – aristocratici, ecclesiastici, mercanti, artigiani – nel quale
ogni gruppo aveva obblighi differenti e differenti diritti.
Nella seconda metà del XVII secolo, Luigi XIV di Borbone, il «re sole», si era creato
uno spazio di potere personale senza precedenti e aveva proposto la monarchia come
soggetto privilegiato, se non unico, nella produzione del diritto, ignorando appunto
le proteste dei parlamenti. Aveva perseguitato la minoranza protestante, o ugonotta, convinto che il pluralismo religioso rappresentasse di per sé una minaccia alla
compattezza politica del regno. L’apparato amministrativo controllato dal centro,
dalla capitale Parigi, era stato rafforzato per limitare le autonomie dei vari ceti,
di regioni, città, feudi, comunità locali; donde l’aumento delle necessità di denaro
che negli anni successivi avrebbe portato la monarchia a mettere in discussione i
privilegi fiscali della nobiltà e della Chiesa.
Nel corso del XVIII secolo la grande cultura illuminista francese, che possiamo identificare nei nomi di «philosophes» come Diderot e Voltaire,
sostenne la necessità di sottoporre gli ordinamenti politici e sociali all’unico criterio
della ragione, propugnò la logica universalistica dei diritti a scapito di quella
particolaristica dei privilegi, minacciò le antichissime rappresentazioni del potere
– e più in generale del mondo – basate sulla religione, non temette la reazione della
Chiesa cattolica. Le persone colte si sentirono «illuminate» leggendo grandi opere
come l’Enciclopedia o partecipando alle attività di una rete associativa più o meno segreta: la massoneria.
Gli illuministi guardarono con favore al potere sovrano-statale. Gli proposero idee
di riforma razionale che furono da esso interpretate come stimoli per l’imposizione
di una legge unica. Le due parti si impegnarono nella fase politica che diciamo dell’«assolutismo
illuminato».
Torniamo a Montesquieu. È ragionevole pensare che volesse in origine difendere le
prerogative antiche dei parlamenti, o in generale la costituzione cetuale, e che tuonasse
contro il dispotismo «orientale» col vero intento di contrastare l’offensiva centralizzatrice
della monarchia francese. Forse solo strada facendo si lasciò affascinare dall’esempio
offerto in Gran Bretagna dalla divisione dei poteri. Sta di fatto che i parlamenti
francesi non si mostrarono mai favorevoli ad allargamenti della pubblica libertà come
accadeva oltre la Manica, e comunque non certo nella direzione indicata dagli illuministi;
molti dei quali, infatti, si mostrarono critici del modo in cui Montesquieu rivalutava
il privilegio.
Noi però dobbiamo a lui la convinzione che le sorti della moderna libertà, qualunque
significato si dia alla parola, non possono essere affidate all’assolutismo.
2. Rivoluzione in America
La prima rottura rivoluzionaria settecentesca si registrò in un dominio marginale
della corona britannica, nella fascia costiera atlantica mediana del Nord America.
Diciamo, per completare il quadro, che l’attuale Canada era anch’esso dalla metà del
Settecento sotto sovranità britannica; mentre l’area meridionale del Nord America,
il Centro America e il Sud America (a esclusione dell’attuale Brasile, possesso portoghese)
costituivano il grande impero spagnolo.
Al pari degli spagnoli e dei portoghesi, gli inglesi colonizzarono i loro possedimenti americani, ovvero vi insediarono immigrati provenienti dall’Europa.
Dove il clima lo consentiva (ad esempio nell’attuale Virginia), proprietari molto
agiati crearono piantagioni di tabacco e cotone, coltivate da schiavi neri che gli
inglesi stessi deportavano dall’Africa in condizioni orrende, o discendenti da quegli
sventurati. In altre parti del paese si creò un’economia commerciale e piccolo-contadina.
Più verso l’interno il territorio restava «selvaggio», abitato da popolazioni indigene
che vivevano di caccia e raccolta (qualche volta anche di agricoltura), puntellato
solo di avamposti militari e percorso da pochi bianchi: cacciatori, mercanti di pellicce,
pionieri. Sia i prodotti delle piantagioni che le pellicce andavano ad alimentare
fruttuosi commerci con la madrepatria.
Le 13 «colonie» anglo-americane si autoamministravano, entro certi limiti, attraverso
proprie assemblee rappresentative, e milizie locali contribuivano alla difesa comune.
I coloni si sentivano pari agli abitanti della lontana isola d’origine e condividevano
molto della sua cultura politica, anche nelle sue punte radicali e non conformiste.
In particolare il calvinismo radicale aveva ispirato i primi immigrati nella zona
settentrionale detta del New England, e particolarmente nella colonia del Massachusetts.
Viene spesso richiamato il documento sottoscritto dai puritani che nel lontano 1620,
sulla nave Mayflower, si erano impegnati a contribuire a un «corpo politico» nuovo da costruirsi in quel
mondo selvaggio: fornendo quasi un riscontro empirico-storico alle teorie sul contratto
sociale come superamento dello «stato di natura». Noi non possiamo però non rilevare
la forte contraddizione tra le idee di tolleranza e quelle prevalenti nel Massachusetts
puritano del XVIII secolo: che diremmo teocretiche o integraliste perché impegnate
a creare una comunitàdi «santi», escludendo e perseguitando non solo gli infedeli
ma anche coloro che si mantenevano tiepidi nei confronti dei precetti religiosi.
La società anglo-americana era ben più egualitaria di quella della madrepatria. Più
della metà della popolazione maschile era composta da agricoltori proprietari: gente
che, non avendo padroni, rappresentava un materiale umano straordinariamente favorevole
– stando a molte teorie politiche del tempo, ispirate all’antichità classica – per
produrre buoni cittadini di una repubblica. Anche qui, rileviamo però le stridenti
contraddizioni dovute alla grande presenza di schiavi nelle colonie meridionali: particolare
importante, i grandi proprietari di piantagioni e di schiavi della Virginia rappresentavano
quanto di più simile potesse aversi nel Nuovo Mondo all’aristocrazia della vecchia
Europa, e da qui vennero alcuni dei personaggi di punta dell’élite politica americana,
come Thomas Jefferson e George Washington.
Gli anglo-americani reputarono molto dannose per la loro economia varie misure prese
a cavallo tra anni ’60 e anni ’70 dal governo britannico. Protestarono per le limitazioni
poste alla loro libertà di commercio in un crescendo di polemiche giornalistiche,
manifestazioni, boicottaggi e infuocati documenti redatti dalle assemblee rappresentative
coloniali. Utilizzarono argomenti analoghi a quelli usati in Gran Bretagna da Adam
Smith, che proprio nell’anno della rivolta americana scrisse il suo celeberrimo testo
la Ricchezza delle nazioni (1776), sostenendo che la ricchezza dipendeva dalla possibilità di commerciare liberamente
e dall’efficienza dei procedimenti produttivi. Fecero ricorso anche a concetti più
politici, stando ai quali il governo britannico stava violando antiche libertà «degli
inglesi»: se i compatrioti d’oltreoceano, dimentichi delle virtù dei padri, erano
inclini a subire, al di qua dell’oceano si era pronti alla resistenza. Gli americani
si rifiutarono dunque di pagare le imposte votate dal parlamento britannico, nel quale
non erano rappresentati, e invocarono il principio «niente tassazione senza rappresentanza».
Cadde in un momento di cruciale importanza (il 1776) anche la pubblicazione del libretto
Senso comune di Thomas Paine, un democratico inglese sbarcato da appena due anni nel Nuovo Mondo.
Paine non aderisce al coro degli apologeti dell’antica Costituzione inglese. Spiega
che essa è per due terzi (quelli che sanciscono il potere personale del monarca e
il potere dell’aristocrazia) di tipo tirannico; che solo in parte è controbilanciata
dalla «virtù» repubblicana situabile nella Camera dei Comuni. Invita il popolo a rovesciare
la tirannia, dimostrando l’assurdità di un’idea di società divisa in oppressori e
oppressi, liberandosi dal rispetto superstizioso nei confronti del governo. La società
– rileva Paine con magnifico crescendo retorico – viene prima del governo, e le sue
esigenze sono qualitativamente superiori: la prima deriva dalla nostra volontà, il
secondo è creato per rimediare alle nostre debolezze; la prima ci fa operare in positivo,
il secondo impedisce che operiamo in negativo; la prima crea interrelazioni, il secondo
divisioni; la prima protegge, il secondo punisce. La causa americana, aggiunge, è
in una certa misura quella di tutto il genere umano, che ha il diritto naturale di
dichiarare guerra a chi «dichiara guerra ai diritti naturali del genere umano».
Lo scritto di Paine ebbe un travolgente successo. Sancì l’innesto di temi universalistici
sulla rivendicazione particolaristica dei diritti spettanti agli inglesi e soltanto
a loro. Diede corpo al discorso rivoluzionario, alla scelta repubblicana e indipendentista
come concretizzazione del diritto all’autogoverno.
L’indipendenza venne proclamata nello stesso 1776 con solenne dichiarazione, insieme
a una serie di principi definiti secondo una logica che fu detta «autoevidente»: gli
uomini sono uguali, godono di diritti alla libertà e alla ricerca della felicità inalienabili, che vanno difesi anche armi alla mano. E furono le armi a sancire la
vittoria degli indipendentisti sull’esercito inglese, ma grazie al decisivo sostegno
militare e politico francese, nel 1783.
Le singole colonie si trasformarono in repubbliche, tra loro fu creata una Confederazione,
gli «Stati Uniti d’America», destinata a occuparsi degli affari comuni, difesa e politica
estera, mentre ai singoli Stati toccava la competenza su tutto il resto. Il paese
aveva all’incirca due milioni di abitanti. Nel 1787 un’assemblea confederale, detta
«Convenzione», stilò in nome del popolo (tanto che nel testo il popolo parlava in
prima persona – we, the people) una legge fondamentale chiamata Costituzione. Il compito di elaborare le leggi federali venne affidato a un parlamento diviso
in due rami, il Senato rappresentativo degli Stati, la Camera rappresentativa dei
cittadini di sesso maschile, alla gran parte dei quali era riconosciuta la qualifica
di elettore. Un presidente, eletto da apposite assemblee i cui membri erano a loro
volta eletti dal popolo (elezione indiretta), avrebbe guidato il governo federale.
Un’«Ordinanza del Nord-ovest» del 1787 venne a regolamentare il continuo spostamento
verso Ovest delle popolazioni bianche (cacciatori e mercanti prima, agricoltori poi),
ovvero la colonizzazione: a ogni singolo territorio fu dato il diritto, una volta
popolato da un certo numero di abitanti «bianchi», di formare un nuovo Stato che si
sarebbe aggiunto con parità di diritti ai 13 originari. Nel 1791 dieci emendamenti
costituzionali, riuniti in un Bill of Rights, vennero a sancire i diritti dei cittadini di fronte allo Stato.
Il primo presidente fu Washington, già citato esponente dell’élite dei piantatori
virginiani che aveva guidato le armate americane nella guerra di indipendenza. Si
formarono due partiti: quello repubblicano, che voleva conservare le leve fondamentali
del potere ai singoli Stati per tutelare la versione radicale americana del principio
dell’auto-governo; e quello federalista, che puntava sul rafforzamento appunto del
governo federale-centrale per garantire la difesa comune, l’ordine, lo sviluppo economico.
E le popolazioni indigene? Forse dai britannici si sarebbero potute aspettare una
protezione. Dagli Stati Uniti vennero invece definite, nella stessa dichiarazione
di indipendenza, come «indiani selvaggi», nemici non conciliabili. Furono progressivamente
espropriati delle loro terre, costretti alla fuga o deportati verso l’interno, sterminati.
Per loro non valsero i diritti affermati dalla rivoluzione. Non valsero neppure per
i «lealisti», cioè i coloni mantenutisi fedeli alla madrepatria per tutta la durata
del conflitto, che furono costretti a tornare in Europa o a rifugiarsi nel Canada
rimasto sotto sovranità britannica: sentendosi non protagonisti di una guerra di indipendenza
ma vittime di una guerra civile. Non valsero di certo per i neri che restarono in
condizione di schiavitù.
Noi rileviamo nel processo rivoluzionario il meccanismo base di costruzione delle
identità collettive che definisce la comunità insieme al suo confine, e che includendo
l’amico esclude il nemico. Ribadiamo peraltro anche la svolta cruciale segnata dalla
rivoluzione: la declinazione universalistica dell’idea dei diritti, grazie alla quale
gli eventi americani poterono influenzare nel profondo quelli europei e in particolare
le passioni politiche in Francia: cioè nel paese che, con i suoi ben 28 milioni di
abitanti, era il più potente e popoloso del continente.
3. Rivoluzione in Francia
Nel 1788 il governo francese, alla ricerca di un sistema per razionalizzare la fiscalità
e aumentare le entrate, sciolse i parlamenti da cui (come sappiamo) veniva la maggiore
opposizione a ogni progetto innovativo. Seguì un’ondata di proteste e di richieste
di una convocazione degli «stati generali»: tre assemblee rispettivamente riservate
alla nobiltà, al clero e al popolo (ovvero alla sua parte colta e agiata), quanto
di più simile esistesse nell’antica costituzione del regno a istituti di rappresentanza
politica dei ceti e degli ordini, che non si riunivano dal 1614. Un ritorno a quel
sistema rappresentava un grande passo indietro rispetto a un secolo e mezzo di assolutismo.
Nondimeno, il ministro riformista nominato dal re Luigi XVI, il banchiere Jacques
Necker, si convinse a convocare gli stati generali per il 1789.
Come se fosse saltato un tappo, si aprirono d’un tratto dinamiche incontrollabili,
col moltiplicarsi di documenti, petizioni, proteste e proposte di mutamenti politici
radicali. Al momento della riunione effettiva delle tre assemblee, quella del «terzo
stato» tagliò corto con le antiche regole e proclamò se stessa unica Assemblea nazionale
costituente, assumendosi il diritto di dissentire dal potere monarchico, e magari
di opporsi a esso. Venne a sostenerla, il 14 luglio, il popolo in armi che per prevenire
un possibile intervento dell’esercito diede l’assalto alla Bastiglia, la fortezza-prigione
parigina simbolo dell’assolutismo. I due eventi segnarono l’inizio della rivoluzione.
Nel generale entusiasmo, l’Assemblea costituente emanò una solenne «Dichiarazione
dei diritti dell’uomo e del cittadino».
Gli uomini nascono uguali e tali devono restare, si legge in questo documento cruciale
nella storia mondiale; le distinzioni sociali valgono solo per «l’utilità comune»;
tutti godono di diritti naturali e inalienabili quali la libertà e la proprietà. Tutto
ciò che non è espressamente proibito dalla legge è consentito; i diritti naturali
di ciascuno possono essere limitati solo quando vanno a ledere i diritti altrui. «Il
principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione. Nessun corpo, nessun
individuo può esercitare un’autorità che da essa non emani espressamente».
La sovranità passa così dal monarca alla nazione (o popolo), ovvero da un concreto essere umano a un’entità collettiva in qualche
modo astratta, partendo dalla quale il diritto viene riunificato e gerarchicamente
ordinato. Quanto all’ordinamento politico, viene varata come negli Stati Uniti una
legge fondamentale o Costituzione, e la Francia è trasformata in monarchia costituzionale. In ossequio al principio della divisione dei poteri, il potere regio è controbilanciato
da un’unica assemblea cui è riservato il potere legislativo e che viene eletta col
sistema del suffragio ristretto, cioè col voto dei maschi adulti appartenenti ai ceti medio-superiori.
Finì in quel momento nel dimenticatoio il contrasto tra monarchia e ordini privilegiati,
e venne sulla ribalta il conflitto dell’una e degli altri con la neonata nazione.
Già la primissima fase della rivoluzione aveva visto in molte regioni la rivolta contadina,
gli assalti ai castelli dei nobili. Per rendere concreto il concetto dell’eguaglianza
dei cittadini davanti alla legge, l’Assemblea costituente votò l’abolizione dei privilegi
e di tutti i diritti particolari, ivi compreso l’intero sistema feudale.
Soffermiamoci su questo concetto che apparve a molti contemporanei come il fulcro
di un passato pre-rivoluzionario esecrabile, definito Antico regime. Nell’Antico regime, sia le famiglie aristocratiche, sia le istituzioni ecclesiastiche
(monasteri, vescovati, enti di beneficenza) erano titolari in certe zone di diritti signorili. Gli abitanti di quelle zone, cioè, dovevano elargire loro denaro, o una quota del
raccolto, o anche prestazioni lavorative gratuite (corvées) per poter usufruire di terre da coltivare, strade, ponti, mulini, frantoi.
Questi rapporti erano definiti dal diritto feudale. Si voleva che la loro origine fosse molto remota, che essi fossero necessari a remunerare
le funzioni pubbliche (minori) amministrative, giudiziarie e militari, spettanti ai
signori. Si sosteneva che nemmeno i sovrani potessero modificarli se non in casi estremi.
Tra le varie fantasiose pseudo-spiegazioni di questi istituti, ne segnaliamo una tipicamente
francese stando alla quale i nobili, al pari dei re, traevano i loro diritti dall’appartenenza
alla stirpe germanica che alla dissoluzione dell’impero romano aveva conquistato la
Gallia, mentre i contadini discendevano da coloro che erano stati allora conquistati
– donde la loro soggezione e i loro obblighi. Anche il signore, peraltro, almeno in
linea di principio, aveva obblighi. Doveva comportarsi con l’onore che contraddistingueva il suo rango: ovvero mostrare coraggio, disinteresse, fedeltà
al sovrano e alla parola data. Tra i segni di benevolenza cui era tenuto verso le
popolazioni dei suoi feudi c’era la concessione di terre coltivabili in forma stabile,
divise in piccole quote; a sua volta, la popolazione aveva diritti legalmente riconosciuti
all’uso di quelle terre, nonché dei pascoli e dei boschi sui quali praticava l’allevamento
e la raccolta di legna o frutti spontanei.
È difficile dire quanto e su quali terre gravassero i diritti signorili. Si stima
comunque che i nobili possedessero il 30% circa del territorio francese, mentre gli
ecclesiastici arrivavano forse al 10%. I giuristi cercavano di distinguere i beni
feudali da quelli definibili come proprietà privata. I primi, al contrario dei secondi,
non potevano essere comprati o venduti, né suddivisi: bisognava tenerli insieme, andavano
trasmessi per via ereditaria e in linea maschile, perché altrimenti sarebbe venuta
a mancare la ragione stessa della loro originaria concessione (la garanzia del servizio
al re). A tal fine, istituti giuridici come il maggiorasco garantivano al primogenito maschio il titolo e il fulcro del patrimonio, a scapito
delle figlie e dei figli minori o «cadetti».
Si voleva creare una sensazione di immutabilità, accreditare l’idea per cui le grandi
famiglie non potevano decadere e le ascese dal basso della società erano impossibili.
Nella realtà, il sistema non era quello che pretendeva di essere. C’era una mobilità sociale sia discendente che ascendente nelle due frazioni basilari della nobiltà francese:
la nobiltà «di spada» e la nobiltà «di toga». La prima era più consolidata, più collegabile
alle tradizioni e agli istituti feudali. Alla seconda appartenevano i membri di alcune
istituzioni e soprattutto dei parlamenti. Accadeva che i nobili dell’uno e dell’altro
genere vivessero nei centri urbani, dove spendevano denaro che giungeva loro, in un
modo o nell’altro, dalle campagne. Le città per alcuni aspetti erano sottoposte alla
giustizia e all’amministrazione regia ma per altri si autoamministravano attraverso
propri magistrati, a loro volta espressione dei diversi ceti. Erano in particolare
il campo d’azione delle corporazioni, istituzioni di mercanti e artigiani che regolamentavano
i prezzi e gli standard di qualità delle merci, gli orari di lavoro, i salari.
Tutto questo complesso sistema politico, giuridico e sociale volle cancellare l’Assemblea
costituente. Già al momento della convocazione degli stati generali, d’altronde, alcuni
rappresentanti del popolo si erano detti stanchi delle prepotenze dei nobili. L’abate
Emmanuel-Joseph Sieyès, nell’opuscolo Che cos’è il terzo stato? (gennaio 1789), aveva rovesciato polemicamente l’argomento a noi già noto del diritto
feudale: «Perché non rispedire nei boschi della Franconia [della Germania] tutte queste
famiglie, imbevute dalla delirante pretesa di discendere dalla razza dei conquistatori
e di averne ereditato i diritti? Io credo che la nazione, così purgata, si consolerà
facilmente». Un conflitto «razziale» viene sentito come più radicale di un conflitto
sociale. La rudezza dell’argomento di Sieyès preannunciava radicalizzazioni a venire.
In effetti la rivoluzione era destinata a continuare, e a radicalizzarsi. Venne l’aggressione
internazionale, austriaca e prussiana innanzitutto, intenzionata a riportare la Francia
sulla strada dell’Antico regime, sostenuta occultamente o palesemente da molti aristocratici
e alti ufficiali francesi. Il conflitto esterno inasprì quello interno, che a Parigi
ebbe per protagonisti, oltre che impiegati e intellettuali, gli artigiani, i lavoratori
manuali, il «popolo minuto». Luigi XVI, sospetto di tradimento, venne arrestato insieme
a un gran numero di aristocratici. Il panico dilagò, molti «reazionari» furono massacrati
dalla folla inferocita. Esplose il cumulo dei rancori verso l’arroganza del regime
«antico», accusato di tramare contro la nazione. Volontari e cittadini, chiamati alle
armi con la «leva in massa», formarono un’armata di nuovo tipo, fronteggiarono gli
eserciti professionali stranieri entrati nel loro paese e li sconfissero una prima
volta nella battaglia di Valmy.
Nell’autunno 1792 fu eletta una nuova assemblea, la cosiddetta Convenzione, per la
quale stavolta votarono tutti i maschi adulti, col sistema del suffragio universale. Va rilevato che la limitazione all’elemento maschile esclude che si possa veramente
parlare di universalità del diritto di voto; nondimeno, quella svolta fu di straordinaria
importanza. Venne proclamata la repubblica.
4. Il discorso storiografico: pensare la rivoluzione francese
Nella Convenzione emerse il partito radicale giacobino, nonché un «Comitato di salute pubblica» da esso dominato e guidato da Maximilien
de Robespierre, personificazione dell’intransigenza della rivoluzione impegnata in
una lotta sempre più aspra. Contro i suoi nemici, il Comitato fece ricorso al «Terrore»,
ossia alla compilazione di liste di «sospetti» destinati a essere eliminati al più
presto.
I rivoluzionari condannarono a morire sulla ghigliottina Luigi XVI e, insieme a lui,
molti aristocratici. Massacrarono anche i preti «refrattari» che non volevano giurare
fedeltà alla repubblica e i contadini che in alcune regioni, come la Bretagna e la
Vandea, erano insorti ritenendo Chiesa e monarchia gli unici poteri legittimi (donde
il termine legittimismo). In molti casi, la guerra civile fu senza pietà da entrambe le parti. Si venne a
un conflitto frontale anche tra giacobini e girondini, membri di un raggruppamento più moderato della Convenzione.
Alla fine, quando i più pensarono non si potesse procedere oltre sulla strada del
Terrore, Robespierre e altri capi giacobini furono vittime della loro stessa logica:
accusati anch’essi di fantomatici tradimenti, furono arrestati e immediatamente ghigliottinati.
Era il 27 luglio 1794, periodo ribattezzato «Termidoro» nel calendario inventato dalla
rivoluzione – e col nome di Termidoro è passata alla storia la svolta che segnò il
termine del periodo giacobino.
Le brusche accelerazioni, le drammatiche contraddizioni della rivoluzione (altre ne
seguirono) resero arduo il consuntivo degli eventi per i contemporanei. La maggior
parte degli storici invece ha considerato le rivoluzioni – questa e le altre già realizzate
o ancora da realizzarsi – passaggi traumatici però inevitabili, lo scotto da pagarsi
al trionfo di nuove civiltà, al prevalere delle forze del progresso su quelle della
conservazione. Molti hanno visto in particolare nella rivoluzione francese il momento
risolutivo di un secolare conflitto tra feudalesimo e capitalismo.
Questa logica è stata riconsiderata, e rovesciata, in un saggio di storia scritto
e pubblicato quasi due secoli dopo gli eventi (1978), Pensare la rivoluzione francese di François Furet, il quale non ritiene la rivoluzione una tappa inevitabile, né
forse utile, del processo storico.
Quanto al feudalesimo, Furet afferma che al 1789 si trattava di un residuo del passato,
di ben scarsa importanza. Lo storico si rifà in questo alla tesi formulata già nel
1856 dal grande intellettuale liberale Alexis de Tocqueville (su cui avremo modo di
tornare) in un libro intitolato L’Antico Regime e la rivoluzione, secondo il quale il centralismo e l’assolutismo monarchico avevano, già nel secolo
precedente, ridotto al minimo le funzioni politico-amministrative della nobiltà «di
spada»; avevano soprattutto emancipato i contadini dai canoni signorili più pesanti,
facendone in moltissimi casi i proprietari (di fatto o di diritto) delle terre che
coltivavano.
Quanto al capitalismo, Furet rileva che tra i protagonisti della rivoluzione non c’erano
esponenti della borghesia imprenditoriale. In effetti, se guardiamo all’autoproclamata
Assemblea costituente del 1789, troviamo avvocati, magistrati, impiegati statali,
possidenti benestanti: soggetti sociali definibili con larga approssimazione borghesi,
ma non capitalisti. In alcune regioni (come si è detto, non in tutte) si ribellarono
i contadini, figure tutt’altro che borghesi per identità sociale, cui non si possono
attribuire obiettivi capitalistici. A Parigi si mobilitarono ceti popolari la cui
distanza dalla borghesia si vede sin dal nome con cui li si ricorda: sanculotti, ovvero quelli che non portavano la culotte, appunto l’abito borghese. I giacobini tuonarono contro gli «speculatori» e provarono
a bloccare i prezzi; correnti ancor più radicali proposero soluzioni di tipo comunista.
Il punto di Furet comunque è un altro. Nessuno, sostiene, aderì al fronte rivoluzionario
solo a causa della posizione occupata nella gerarchia sociale dell’Antico regime:
siamo di fronte a gruppi in larga parte nuovi, soprattutto a nuove «passioni». Luogo
cruciale di questa neo-formazione, la politica rivoluzionaria, fu Parigi con le sue
masse tumultuanti, le sue assemblee, i suoi club. Tra questi ultimi, alcuni vennero addirittura intitolati all’«antipolitica», termine
che voleva sottolineare la non conciliabilità tra lo stile vecchio e quello nuovo.
La storiografia precedente riteneva che l’estremismo giacobino andasse addebitato
all’estrema necessità di difendere la patria messa in pericolo dall’alleanza tra lo
straniero, la monarchia e l’aristocrazia. Il nostro autore sostiene al contrario che
la guerra rappresentò l’occasione scientemente ricercata dai rivoluzionari per mobilitare
il popolo prospettando a esso (non importa se e quanto strumentalmente) un nemico:
il complotto regio e aristocratico. Riconduce la drammatizzazione degli eventi a un
rovello interno alla loro ideologia. Vede nella prevalenza di frazioni via via più estremiste, impegnate
a esercitare il potere in forma sempre più dittatoriale, una materializzazione del
pensiero del grande filosofo ginevrino Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), secondo
il quale la nazione non doveva lasciare spazio a «consorterie e associazioni particolari»,
insomma dividersi in partiti e progetti politici diversi.
Furet individua nella sostituzione della fede alla ragione, nella creazione di una
religione politica, il senso profondo di questa come delle altre rivoluzioni venture:
«se la politica è divenuta la sfera del bene e del falso, del bene e del male, se
è la politica che segna il confine tra i buoni e i cattivi, ci ritroviamo in un universo
storico la cui dinamica è completamente nuova». Dipinge insomma la politica delle
passioni e delle convinzioni radicali o ideologiche – di qua i buoni, di là i cattivi
– come un’aberrazione della mente moderna. Dimentica – va detto – che anche in precedenza
c’erano stati conflitti politici che, assumendo forma di guerre di religione, avevano
diviso il mondo in fedeli e infedeli, e si erano risolti in massacri; che anche ai
nostri giorni esiste una politica radicale ispirata al trascendente e alle religioni
in senso stretto. Coglie invece benissimo come alla base della nuova politica stiano
meccanismi di comunicazione pubblica e convincimento collettivo propri della modernità.
Noi rileviamo come il caso francese proponga un’altra versione del meccanismo di inclusione
e nel contempo di esclusione che abbiamo visto operante in quello americano. I rivoluzionari
vantarono i loro criteri come ispirati alla ragione e bollarono quelli avversari come
frutto di superstizioni. Definirono se stessi «patrioti» e i loro avversari traditori.
Crearono un’idea di nazione che per affermarsi ebbe bisogno di un’idea di antinazione.
Gli eccessi del Terrore furono la manifestazione più evidente di questo crescendo.
Eppure lo slogan della rivoluzione, Libertà, Uguaglianza, Fratellanza, lasciò un’eco incancellabile nella coscienza europea e mondiale.
5. L’eredità rivoluzionaria
Consumato il Termidoro, il potere fu assunto in Francia dal cosiddetto Direttorio,
mentre continuavano le guerre contro le coalizioni formate dalle monarchie europee.
Citiamole. C’era innanzitutto l’impero asburgico, esteso su un’area comprendente l’Austria
propriamente detta, la Boemia, la Slovacchia, la Galizia, la Croazia, la Slovenia,
l’Ungheria e, in Italia, la Lombardia. C’era il regno di Prussia, collocato in una
sezione nord-orientale della Germania oggi in gran parte compresa nella Polonia. C’era
la Gran Bretagna. C’era l’impero degli zar, comprendente innanzitutto l’attuale Russia
e poi la Finlandia, i Paesi baltici, l’Ucraina, la Bielorussia e in parte la Polonia,
che si preparava a consolidare il proprio controllo sulla regione caucasica, che si
espandeva in Asia centrale, negli enormi spazi semi-desertici della Siberia sino all’oceano
Pacifico e più in là, in Alaska.
La classe dirigente francese formatasi nei rivolgimenti del decennio restò incerta
sulla strada da prendere. Non voleva tornare indietro cedendo alle monarchie europee
e alla loro pretesa di restaurare l’Antico regime; ma nemmeno subire o imporre di
nuovo alla nazione stravolgimenti come quelli del Terrore. Sentiva il bisogno di stabilizzare
il processo rivoluzionario e di consolidare i suoi risultati.
Trovò l’uomo del «destino» in uno dei comandanti dell’armata rivoluzionaria, Napoleone
Bonaparte, protagonista di una sequenza straordinaria di vittorie sul campo di battaglia.
Bonaparte si proponeva di riportare ordine nel caos ma non poteva, lui plebeo, provinciale
di origine corsa, uomo della rivoluzione, promuovere un ritorno all’Antico regime.
Assumendo la carica di «Primo console» (1799), fece il primo passo per svuotare dall’interno
l’idea democratica e repubblicana, partendo dal controllo dell’esercito, e per instaurare
un potere personale: operazione che non a caso è stata assimilata a quella fatta da
Giulio Cesare nei confronti delle istituzioni repubblicane di Roma antica – donde
il termine cesarismo. Alla fine anche Bonaparte finì per creare al posto della repubblica una monarchia
ereditaria di cui, non volendo essere da meno dei suoi nemici austriaci e russi, si
proclamò imperatore col nome di Napoleone I (1804).
Il bonapartismo rappresentò una soluzione autoritaria e liberticida, che però non cancellò ma anzi
sancì alcuni dei mutamenti introdotti dalla rivoluzione. Citiamone due.
In primo luogo abbiamo la centralizzazione dell’apparato statale. Dal centro parigino,
il governo e in particolare il ministero degli Interni irradiavano la loro azione
verso le periferie, omogeneamente divise in circoscrizioni territoriali dette dipartimenti
e circondari, alla cui testa stavano funzionari governativi chiamati prefetti o sottoprefetti,
i quali a loro volta dirigevano una burocrazia reclutata e regolata con gli stessi
criteri. Le periferie venivano governate in maniera uniforme, ovunque con gli stessi
criteri.
In secondo luogo abbiamo la codificazione, ossia la compilazione di raccolte di leggi
(civili, penali e amministrative) omogenee, coerenti, valide per tutti. In particolare,
il Codice civile disegnò nel 1804 una nuova società composta non da gruppi ma da individui.
Qui il legislatore regolamentava in particolare la proprietà privata, cercando di
agevolarne il frazionamento con la proibizione del maggiorasco e degli altri sistemi
intesi a tenere compatti i patrimoni, garantendo su di essi pari diritti ai cadetti
e (ma con significative restrizioni) alle femmine. Stabiliva che si potesse ereditare,
comprare, vendere e liberamente utilizzare qualsiasi proprietà.
Napoleone continuò a trionfare, in una sequenza di guerre che apparve senza fine,
sui nemici della Francia. La Gran Bretagna si salvò solo per la sua condizione insulare
e la sua supremazia navale. Prussia e Austria vennero ridotte in condizione subordinata.
Furono inglobati nell’impero il Belgio, l’Olanda, parti della Germania e dell’Italia,
e furono creati Stati vassalli (Confederazione del Reno, regno d’Italia, regno di
Napoli, ducato di Varsavia). In condizione di vassallaggio fu ridotta nel 1808 anche
la Spagna, il cui re (appartenente a un ramo della dinastia borbonica) fu sostituito
sul trono da un fratello di Napoleone. Il sistema può essere osservato nella figura
1.
Fig. 1. L’Europa napoleonica nel 1812.
Nella parte d’Europa sottoposta al controllo francese, diretto o indiretto, venne
posto fine all’Antico regime. Ne risultarono sanciti il concetto dello Stato regolamentatore-ordinatore
e quello della (più o meno completa) eguaglianza giuridica tra i cittadini. Si ebbe
tra l’altro l’«emancipazione» degli ebrei, ovvero vennero concessi loro diritti di
cittadinanza e libertà personale.
Prendiamo la parte occidentale della Germania, dove venne abolito il feudalesimo soprattutto
laddove esso consisteva in servitù personali o in corvées. Fu semplificata la geografia politica con l’eliminazione di entità statali, barriere
doganali e amministrative irrazionali, bizzarri residuati del passato. In questa logica,
l’imperatore di casa Asburgo dovette rinunciare al titolo, ormai fuori dal tempo,
di sacro romano imperatore. Sintomatico il caso della Prussia, che combatté i francesi
anche recependo (parzialmente) il loro modello: modernizzò dunque l’apparato statale
a cominciare dall’esercito, e varò leggi antifeudali che non eliminarono la locale
aristocrazia degli junker, ma le consentirono di rinnovarsi.
Venne strappata da Napoleone al suo tradizionalismo anche l’Italia, sia nelle parti
nord-occidentale e centrale direttamente annesse all’impero, sia nei due Stati formalmente
indipendenti creati rispettivamente al Centro-nord e al Sud, il regno d’Italia e il
regno di Napoli (Sardegna e Sicilia restarono invece sottoposte alle dinastie dei
Savoia e dei Borbone, sotto protezione della flotta britannica). Citiamo in particolare
le leggi di «eversione» della feudalità nel regno di Napoli. Per esse i beni della
Chiesa vennero venduti, e le terre ex feudali divise in due parti: la prima restò
patrimonio di diritto privato degli ex feudatari, la seconda fu dichiarata demaniale,
cioè pubblica, e destinata a essere distribuita ai poveri in piccole quote a compenso
dei perduti «usi civici» (ovvero dei diritti di allevamento e raccolta). Non tutti
gli obiettivi furono conseguiti, in particolare quello della creazione di un vasto
ceto di contadini proprietari alla francese. Si trattò comunque di un’iniziativa di
grande portata innovativa.
Segnaliamo un effetto indiretto delle guerre napoleoniche, che diede anch’esso un
colpo poderoso all’Antico regime. I britannici, forti della loro antica tradizione
politica, incoraggiarono (per convinzione? per propaganda?) le monarchie loro alleate,
in territori da loro controllati come (in parte) la Spagna o la Sicilia, a concedere
qualcosa all’idea della rappresentanza politica, in contrapposizione all’autoritarismo
dei regimi filonapoleonici. Prevedeva istituzioni parlamentari, elette addirittura
a suffragio universale, la Costituzione spagnola di Cadige del 1812, alla cui redazione
parteciparono anche rappresentanti delle colonie latino-americane. Nel complesso però
l’occupazione francese della Spagna interruppe i rapporti tra la madrepatria e i suoi
possedimenti d’oltremare, inducendo una parte almeno delle élites creole (di origine spagnola) latino-americane a puntare su idee indipendentiste e repubblicano-costituzionaliste.
Sembrò necessario un rafforzamento dell’autorità statale, tra l’altro per prevenire
rivolte come quelle degli schiavi neri esplose ad Haiti sul finire del XVIII secolo,
o quelle dei contadini poveri e degli indios messicani nel 1810-1815. Ne seguì comunque
una stagione di rivoluzioni e guerre civili, nella quale emerse sul versante indipendentista
la leadership di Simón Bolívar, reduce dalla Francia e seguace delle teorie degli
illuministi.
Va detto infine che il sistema francese dell’accentramento amministrativo e della
codificazione non venne adottato allora, né sarebbe stato adottato poi, in Gran Bretagna
e negli Stati Uniti. Nei due paesi la proprietà privata aveva già trionfato da gran
tempo senza bisogno di particolari sanzioni legislative. Rimase in auge il sistema
di self-government locale e quello di common law, nel quale i magistrati giudicavano sulla base della consuetudine e dei precedenti
giudiziari conservando ampio spazio di interpretazione.
6. Restaurazione, compromesso, ripartenza
Napoleone non fu in grado di incrinare lo strapotere marittimo britannico. Dovette
fare i conti con un’interminabile resistenza popolare spagnola. La sua invasione della
Russia del 1812 si risolse in un disastro. L’ennesima coalizione riuscì finalmente
a sconfiggerlo nel 1813 nella battaglia di Lipsia, e lo vinse nuovamente a Waterloo
nel 1815. Finì i suoi giorni prigioniero degli inglesi.
Le potenze vincitrici, riunite a congresso a Vienna nel 1815, non assunsero un atteggiamento
punitivo verso la Francia, che dovette solo rientrare nei suoi confini anteriori al
1789. Puntavano infatti a realizzare un duraturo equilibrio. La Gran Bretagna riprese
a guardare all’Europa come dall’esterno. Le tre maggiori potenze militari continentali
– gli imperi zarista e asburgico, la monarchia prussiana – tornarono a dominare tutta
l’Europa centro-orientale, mentre i Balcani rimasero in possesso di un altro impero,
quello ottomano. Possiamo osservare la geografia politica europea nella figura 2.
Fig. 2. L’Europa dopo il Congresso di Vienna.
L’equilibrio delle forze era condizionato dalla temporanea eclissi della Francia.
Quanto alla Spagna, aveva perduto definitivamente il suo ruolo di grande potenza e
anche il suo impero latino-americano, dove alla fine si formarono quindici nuove repubbliche
indipendenti. Si ebbe dunque nell’Europa centro-occidentale una sorta di vuoto di
potere. C’erano in questa parte del continente (come in quella settentrionale) entità
statali di piccola dimensione: Belgio e Olanda, unificate in un unico regno destinato
a rivelarsi poco vitale (i due paesi si sarebbero separati nel 1830), Portogallo,
Danimarca, Svizzera, Svezia. Tornarono in vita molti degli staterelli in cui Germania
e Italia erano suddivise in età pre-napoleonica, e il più delle volte furono restaurate
le dinastie dell’Antico regime.
Facciamo un quadro della situazione italiana, da Nord a Sud. Il Piemonte tornò sotto
la casata dei Savoia insieme alla Sardegna (donde il nome ufficiale di questo Stato:
regno di Sardegna), con l’aggiunta dei territori liguri che in età pre-napoleonica
avevano formato la repubblica di Genova. Al centro della penisola la Toscana fu affidata
a un «granduca» di origine austriaca, mentre il papa tornò a governare lo Stato della
Chiesa (comprendente il Lazio, l’Umbria, le Marche, nonché l’Emilia e la Romagna).
C’erano poi alcuni staterelli minori. Al Sud venne rimessa sul trono la casata dei
Borbone. La Lombardia tornò all’impero asburgico, nel quale furono inglobati exnovo i territori veneti che avevano formato l’antica repubblica di Venezia.
Lo zar Alessandro I invocò la formazione di una «Santa Alleanza» per la restaurazione della monarchia assoluta ma anche degli altri ordinamenti antichi, definiti legittimi perché benedetti dalla volontà divina. I russi cercarono il sostegno di prussiani
e austriaci. Non ottennero quello degli inglesi, che si tennero stretti il loro parlamento,
la loro monarchia temperata, le loro tradizionali «libertà»; anche se non mancavano
in Gran Bretagna le manifestazioni di autoritarismo e di conservatorismo sociale –
con l’aristocrazia installata in una posizione di predominio sia alla Camera dei Lord
che alla Camera dei Comuni, e in entrambi i partiti, Tory (conservatore) e Whig (progressista).
Possiamo dire che, al di là della propaganda, nessuno dei vincitori puntava davvero
al ritorno all’Antico regime. Tutti cercavano piuttosto di individuare i termini del
necessario compromesso tra restaurazione ed eredità della rivoluzione. D’altronde,
come sappiamo, un problema di questa natura se l’era posto già Napoleone, che aveva
sì abolito la repubblica ma ne aveva anche salvato alcuni risultati storici, consegnandoli
al futuro.
Queste esigenze contrastanti condizionarono in particolare i caratteri della restaurazione
«incompleta» francese del 1815. Venne riaffermato il principio tradizionalistico con
il ritorno sul trono della dinastia dei Borbone nella persona di Luigi XVIII, ma i
poteri sovrani furono limitati mediante una Costituzione scritta, sia pure presentata
come una concessione del monarca, non come una conquista del popolo stesso secondo
il principio sancito dalle Assemblee costituenti dell’America e della Francia rivoluzionarie.
La carta addirittura intimava a vincitori e vinti l’«oblio» sul passato, giudicandolo
evidentemente un antidoto al riproporsi all’infinito di conflitti interni. Prevedeva
l’istituzione di un parlamento dai modesti poteri, diviso in due rami: la Camera dei
Pari i cui membri erano nominati dal re, e la Camera dei Deputati i cui membri erano
eletti su base «censitaria», ovvero da un ristrettissimo numero di elettori (circa
90.000) individuati sulla base della loro ricchezza.
Il compromesso non era destinato a resistere a lungo. Nel 1820 i francesi si impegnarono
in un intervento militare in sostegno dell’assolutismo nella vicina Spagna, dove il
re Ferdinando VII era stato costretto da un’insurrezione a consentire la libera elezione
di un parlamento secondo i dettami della Costituzione del 1812. Era logico che anche
in Francia gli elementi estremi (ultras) del legittimismo si sentissero incoraggiati a invocare una piena restaurazione.
Sembrarono trionfare nel 1824, quando ascese al trono un reazionario come Carlo X
di Borbone.
Si ebbe invece a Parigi, nel luglio 1830, il clamoroso ritorno in scena della rivoluzione
e il suo ancor più clamoroso trionfo. Gli insorti volevano la repubblica, invece prevalse
una soluzione monarchica con un semplice cambio di dinastia che portò sul trono Luigi
Filippo d’Orléans, figlio di un aristocratico favorevole nel 1789 alla rivoluzione.
Costui fu proclamato non re di Francia per volontà divina ma «re dei francesi per
volontà della nazione»: il paese cominciò così a riconciliarsi con la grande esperienza
compiuta tra il 1789 e il 1815, mentre dall’altro lato l’Europa conservatrice tirava
un sospiro di sollievo.
Nel frattempo in Gran Bretagna le tendenze riformatrici avevano ripreso vigore, con
la parificazione dei diritti civili tra anglicani e protestanti dissidenti, col miglioramento
– sia pure parziale – della condizione dei cattolici. La svolta si ebbe nel 1832,
con la riforma delle circoscrizioni elettorali intesa a dare il giusto peso alle città
fittamente popolate, con il riconoscimento del diritto di voto a 800.000 persone,
un ventiduesimo della popolazione totale.
Francia e Gran Bretagna furono a quel punto accomunate da un sistema parlamentare
bicamerale: laddove la Camera alta, vitalizia, era chiamata in Francia Senato (i suoi
membri erano nominati dal re tra le personalità più illustri) e in Gran Bretagna sempre
Camera dei Lord (i suoi membri erano tali per diritto ereditario). La Camera bassa
era elettiva ma il suffragio era ristretto, ovvero il voto era riservato a una minoranza di ricchi e/o istruiti: di fatto in
Francia i 160.000 elettori rappresentavano una percentuale della popolazione molto
più bassa che in Gran Bretagna. I due paesi si trovarono insomma a convergere sul
modello della monarchia costituzionale, per quanto le loro Costituzioni corrispondessero rispettivamente a un documento
scritto (Costituzione formale) e a un insieme di radicate consuetudini (Costituzione
informale), in rispetto delle opzioni dei due paesi: accentramento amministrativo
e codificazione nell’uno, self-government e common law nell’altro.
Sotto quest’ultimo aspetto, peraltro, il modello francese fu molto più influente nell’Europa
continentale di quello inglese. Sistema amministrativo e Codice civile vennero mantenuti
dalle monarchie restaurate non solo in Francia ma un po’ in tutti i paesi che avevano
subito l’influenza napoleonica.
Così fecero, ad esempio, i Borbone di Napoli, tornati dopo il 1815 a regnare da sovrani
assoluti, nell’intento di conservare strumenti utili di governo e per non alienarsi
le figure sociali (amministratori, militari, nobiltà di nuovo conio, proprietari borghesi
e i pochi contadini proprietari) venute alla ribalta nel decennio precedente. Addirittura
i Borbone restaurati applicarono ex novo le riforme napoleoniche alla Sicilia, della quale come si è detto non avevano mai
perduto il controllo. Provarono così a realizzare l’obiettivo da loro vanamente inseguito
nel Settecento: superare le resistenze dei ceti privilegiati, ponendo fine alla secolare
autonomia sancita dalla «costituzione» delregno di Sicilia. Ordinarono tutti i sudditi
e le parti del loro Stato secondo un’unica legge, riunificando i loro due antichi
possedimenti –ilregno di Napoli e appunto il regno di Sicilia – in un unico Stato
in un certo senso nuovo, chiamato regno delle Due Sicilie.
Comunque l’esperienza napoleonica, e l’influenza postuma del modello francese, portarono
anche questa estrema periferia mediterranea all’interno di un quadro giuridico definibile
come occidentale. Tutta la storia dell’Europa continentale ottocentesca può essere
letta a partire dalla linea di demarcazione tra area occidentale e area orientale
venutasi a creare in quel primo quindicennio del secolo. Da un lato collochiamo le
regioni sottoposte al sistema giuridico generato dalla rivoluzione: Francia, Italia,
Paesi Bassi, Germania occidentale, Spagna. Dall’altro abbiamo i paesi che subirono
una sua influenza solo indiretta e dunque attenuata: Prussia e impero asburgico. Le
differenze attengono in particolare all’eguaglianza giuridica tra i cittadini, che
nel primo caso fu pienamente sancita, mentre nel secondo restavano situazioni e aree
di dipendenza personale dei contadini dai signori. Caso estremo, la servitù contadina
era generalizzata nell’impero zarista.
Nella parte centro-orientale del continente restò in vita qualcosa del sistema cetuale
dell’Antico regime; la nobiltà in particolare continuò a godere di privilegi giuridicamente
riconosciuti che, sebbene destinati a ridursi progressivamente, le conservarono un
ruolo particolare nella società e nel sistema politico. È vero peraltro che anche
nell’Europa occidentale, dove il titolo nobiliare si trasformò in mero riconoscimento
onorifico, l’aristocrazia restò ai vertici della scala della distinzione sociale:
con le antiche casate che magari trassero nuove leve dalla più ricca borghesia attraverso
intrecci matrimoniali, oppure con ingressi (nobilitazioni) del tutto nuovi di elementi borghesi.
Tutti gli Stati europei della prima metà dell’Ottocento, Svizzera esclusa, avevano
ordinamenti monarchici, costituzionali o assoluti, comunque più forti che in passato
per l’iniezione amministrativa centralista, socialmente omogeneizzante, post-rivoluzionaria.
Il neo-conservatorismo si ispirò a questo modello, piuttosto che alle nostalgie dell’Antico
regime.
7. Il potere della rendita
Chiamiamo rendita la remunerazione spettante al proprietario che concede in uso un suo bene ad altri
soggetti. Nel primo Ottocento, e negli anni successivi, sia la nobiltà (vecchia o
nuova) che la borghesia dei possidenti vivevano soprattutto di rendita fondiaria: ovvero di una certa quota-parte (in denaro o in prodotto) del frutto delle attività
di contadini e/o imprenditori agricoli, cui fornivano terra da coltivare. L’entità
di tale quota, nell’uno come nell’altro caso, non era più regolata da leggi consuetudinarie
come avveniva in passato, ma veniva lasciata alla libertà di contrattazione tra le
parti secondo le regole del Codice civile.
Tra il XVIII e il XIX secolo, l’estensione della terra coltivabile nell’Europa centro-occidentale
era più o meno uguale a quella che era stata nei secoli precedenti. Invece la produzione
agricola crebbe grandemente, grazie all’introduzione prima nei Paesi Bassi, poi in
Gran Bretagna, infine in diversi altri paesi, di nuovi sistemi basati sull’integrazione
tra coltivazione e allevamento razionale, che consentirono grandi incrementi delle
rese – ovvero della quantità di prodotto ottenuta da ogni singolo seme su una singola
estensione di terreno. Si ebbe dunque un grande incremento della produzione e della
disponibilità di alimenti, scomparve lo spettro della carestia, migliorarono le condizioni
(non solo economiche, ma igieniche e sanitarie) di vita. Si determinò peraltro anche
una delle condizioni per la crescita della rendita, perché troppe persone premevano
su quel bene finito, non moltiplicabile a piacere, che è la terra, ed erano disposte
ad accettare condizioni anche sfavorevoli pur di coltivarla.
In alcuni casi le durezze padronali potevano essere temperate dal paternalismo, dall’antica ideologia stando alla quale tocca al ricco trattare i poveri con l’affetto
di un padre verso i figli, e dal clientelismo, per cui i proprietari si assicuravano la fedeltà dei contadini a costo di qualche
concessione economica. Alla rendita non dovevano nulla, per definizione, i contadini
proprietari che erano numerosi in Francia ed erano presenti anche in poche altre aree
europee, dove si registravano fattori storici, economici e ambientali favorevoli.
Nel complesso, la rendita pesava di più, o di meno, al variare di condizioni sia politiche
che economiche.
Prendiamo l’Inghilterra, dove la proprietà aristocratica poteva avere dimensioni enormi,
ma senza che questo venisse avvertito come un grande problema. Infatti molte persone
trovavano impiego nei commerci, interni e internazionali, altre nella proto-industria, grazie all’attivismo di mercanti-capitalisti che fornivano lana o cotone ad artigiani
o anche a famiglie contadine, le quali a casa propria ne ricavavano tessuti nei periodi
«morti» del calendario agricolo. (Diremo tra poco delle possibilità offerte dalle
prime manifestazioni del «sistema di fabbrica»). Un certo numero di inglesi (ma anche
di tedeschi) emigrava ogni anno negli Stati Uniti alleggerendo la situazione nel paese
di partenza.
Interessante, a fini comparativi, è la grande differenza tra Inghilterra e Irlanda,
che pure si trovavano sotto il medesimo governo. L’Irlanda era nota per la miseria
delle popolazioni e la diffusione dei latifondi (grandi proprietà terriere coltivate
in maniera «estensiva» con scarsi investimenti di capitale): problemi aggravati da
contrasti religiosi e nazionali (i latifondisti erano in genere protestanti inglesi,
i contadini cattolici irlandesi). Comunque il peso del latifondo, sull’agricoltura
come sul complesso della società, appariva spropositato non solo in Irlanda ma anche
in paesi di diritto «francese» come la Spagna e l’Italia meridionale (trascuriamo
per ora l’Europa orientale). Il sistema consentiva alle classi superiori di arricchirsi
senza fornire alla produzione, e dunque al benessere di tutti, contributi in ingegno
imprenditoriale o in capitale. La terra restava monopolio delle classi superiori.
I contadini erano poverissimi e sottomessi. Sembrava quasi che in quei paesi non fosse
mai finito il «feudalesimo» – termine inappropriato, ma nondimeno usato ancora per
tutto l’Ottocento, e anche da molti storici attuali.
Situazioni di questo genere rappresentavano uno scacco per l’idea di una società nuova
in cui i gruppi sociali avrebbero dovuto contaminarsi, la terra cambiare di mano,
la ricchezza diffondersi. Non bastavano i consigli degli economisti ai possidenti
usciti dal collasso dell’Antico regime ricchi di terre, ma poveri di denaro: vendete
una parte del vostro patrimonio per realizzare il capitale necessario a far fruttare
la parte che resta in mano vostra. Non bastavano le disposizioni del Codice civile,
intese a imporre il frazionamento della terra attraverso le successioni ereditarie,
con la proibizione del maggiorasco e l’obbligo dei genitori a concedere a ogni figlio
almeno una quota-parte dell’eredità.
La società tradizionale in un certo senso resisteva, in un altro si adattava manipolando
le nuove norme. Non soltanto: nelle aree di latifondo adeguate politiche matrimoniali
consentivano, ad esempio, alle famiglie possidenti da un lato di conservare compatti
i loro patrimoni, dall’altro di rallentare l’ingresso degli intrusi nell’élite. Certo,
queste strategie sminuivano la libertà individuale, sancita in linea di principio
dalla legge, e mettevano nuovamente in primo piano il gruppo di cui l’individuo faceva
parte: innanzitutto la famiglia propria, poi quella con cui bisognava allearsi e,
ancora, il reticolo degli amministratori, dei consulenti religiosi o legali dell’una
e dell’altra. Non bisogna dimenticare il vaglio e spesso anche la censura «morale»
nei confronti dei devianti messi in atto dalla comunità nel suo complesso, convinta
che le responsabilità dell’individuo verso la famiglia dovessero prevalere su quelle
dell’individuo verso se stesso. Lo stesso Codice civile, limitando la facoltà dei
genitori di lasciare i beni a chi volessero, considerava il singolo come usufruttuario
pro tempore di un patrimonio collettivo, quello familiare. Sentiva evidentemente il bisogno di
individuare una piramide gerarchica, ai cui vertici stava il capofamiglia maschio,
per evitare che la famiglia si disintegrasse in una serie di spinte incoerenti. Perciò,
pur avendo sancito in linea generale l’eguaglianza tra gli individui, nella gestione
del patrimonio limitava drasticamente l’autonomia della moglie rispetto al marito,
cui erano forniti poi strumenti coercitivi non indifferenti sui figli anche maggiorenni.
Il nuovo ordine andava ancorato allo strato più profondo della società.
Sembra, stando ad accreditati studi storici, che la condizione femminile sia per questi
aspetti peggiorata e nelle classi superiori l’istituto familiare abbia assunto nel
corso dell’Ottocento vesti più gerarchiche e autoritarie rispetto al secolo precedente.
La famiglia si proponeva come un nucleo compatto di conservazione riservandosi in
particolare il controllo della vita affettivo-sessuale dei maschi e ancor più delle
femmine, lasciando che la scelta matrimoniale (sposarsi o no? a che età sposarsi?
con chi sposarsi?) fosse dominata da meccanismi di scambio estranei ai sentimenti
e alle passioni individuali. Come ci dimostrano tante testimonianze letterarie ottocentesche,
si vennero così a creare nella vita privata contraddizioni laceranti.
Anche queste erano manifestazioni del compromesso tra rivoluzione e conservazione
che contribuì all’identità della borghesia ottocentesca. Tale identità, peraltro, non è facile da definire. Possiamo dire, in
via di prima approssimazione, che il borghese non lavorava con le proprie mani, possedeva
una qualche istruzione formale e indossava un abito – sia in senso proprio che in
senso metaforico – civile. Inseriamo dunque in questa categoria gli impiegati pubblici e privati, gli insegnanti
o gli intellettuali in genere, i professionisti (medici, notai, avvocati) per cui
si stavano creando nuove funzioni e appositi curricula, albi, riconoscimenti legali
e sociali; e che erano in larga parte reclutati tra i percettori di rendita fondiaria,
o tra i loro figli.
Le fonti indicano concordi che un individuo agiato con buona disponibilità di «terre
al sole» godeva di maggiore considerazione pubblica rispetto a un industriale o a
un commerciante di pari reddito. Il compromesso economico-sociale si incrocia qui
col compromesso socio-culturale. Le strategie proprietarie da noi descritte indicano
che una parte almeno della borghesia voleva vivere more nobilium, cioè secondo la consuetudine dei nobili: i quali da sempre ragionavano nei termini
della casata e non degli individui, da sempre erano convinti che l’alienazione dei
beni ereditati dagli avi li avrebbe disonorati, da sempre traevano dal monopolio fondiario
le proprie fortune.
8. L’industria. Un’altra rivoluzione?
Il termine rivoluzione industriale è stato introdotto, e ha riscosso grandissima fortuna,
per sottolineare il legame tra trasformazione politica e trasformazione economica
alle origini della modernità. La svolta decisiva andrebbe collocata nel tardo Settecento,
periodo relativamente breve, sappiamo quanto ricco di sommovimenti. Gli studi storici
recenti hanno però messo molto in discussione questo concetto. L’immagine che ci siamo
fatti della società ottocentesca nel suo complesso non giustifica infatti l’idea di
un brusco passaggio, di una totale trasformazione trainata dall’industria, che sarebbe
partita dall’Inghilterra intorno al 1760 per poi allargarsi all’Europa occidentale.
Inducendoci a concentrare oltre modo l’attenzione su questo momento d’inizio così
precoce, il termine rivoluzione rischia di occultare i fattori di gradualità e continuità,
segnati dall’evoluzione relativamente lenta ma decisiva dell’agricoltura, della proto-industria,
del commercio a lunga e a breve distanza. Non possiamo poi non rilevare un paradosso:
l’Inghilterra, che sarebbe la patria di questa particolare rivoluzione, era vista
dall’Europa sette-ottocentesca come il paese dell’antirivoluzione, in cui dinamismi politici e aperture sociali assumevano il volto del progresso alieno
da brusche discontinuità.
Nella percezione comune, il sommovimento sarebbe caratterizzato da un inedito protagonismo
della borghesia. Però da quanto abbiamo detto nel precedente paragrafo, si vede come
il termine borghesia non possa essere riferito in maniera esclusiva, come troppo spesso
si fa, al concetto di impresa e tanto meno a quello di industrializzazione. Sappiamo
anche che non necessariamente i borghesi erano portatori di una cultura economica
nuova, anche se esistevano tra loro gruppi che si sentivano impegnati nell’innovazione,
che non subivano il fascino del modello aristocratico e redditiero, con i suoi consumi
di lusso e i suoi eccessi mondani, e che anzi lo percepivano come disvalore.
Già prima della rivoluzione industriale, tra mercanti e finanzieri, imprenditori dell’agricoltura
e dell’industria, possiamo trovare gli interpreti di un’etica borghese in varie possibili accezioni, compresa quella indicata dal grande sociologo Max Weber
nel suo celeberrimo testo del 1904-1905, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Weber ha concentrato la propria attenzione sulla cultura religiosa della Riforma,
sui calvinisti in Gran Bretagna, Stati Uniti, Olanda, Svizzera e Francia, tra i quali
sarebbero rinvenibili in misura assai superiore alla media attitudini come sobrietà,
laboriosità, capacità di rinuncia e sacrificio: insomma particolari predisposizioni
all’imprenditoria. Ai calvinisti possiamo d’altronde aggiungere mercanti o finanzieri
ebrei, tedeschi nel Baltico, greci nel Mediterraneo. Molti furono i soggetti che dalla
coscienza di una propria diversità culturale vennero incoraggiati sulla strada del
duro lavoro e del calcolo razionale.
Col lavoro e con l’ingegno erano possibili ascese da strati sociali medio-bassi fino
ai ranghi della borghesia. Fu il percorso degli artefici delle prime innovazioni tecniche
nell’industria tessile inglese della seconda metà del Settecento: meccanici di genio
genericamente al corrente delle conoscenze scientifiche del tempo; frutti tipici,
insomma, dei dinamismi sociali e culturali della nuova epoca.
Spieghiamo dunque sinteticamente in cosa consistette quell’innovazione. Nella produzione
di tessuti derivati soprattutto dal cotone vennero introdotte nuove macchine mosse
da forze inanimate, con l’utilizzazione prima della naturale caduta dell’acqua, mentre
solo più tardi (intorno al 1820) assunse importanza il vapore ricavato dalla combustione
del legno o del carbone. Le macchine furono concentrate all’interno di impianti che
allora si chiamavano opifici e che noi chiamiamo fabbriche. Qui lavoravano operai
sottoposti a durissima disciplina, impegnati in ritmi massacranti di dodici e più
ore giornaliere. Si trattava spesso di donne e bambini, che erano più docili, più
suscettibili a piegarsi a quel nuovo stile di lavoro e di vita e che potevano essere
pagati di meno; poco importava la loro mancanza di abilità o esperienza perché chiunque
poteva in breve tempo imparare il lavoro alle macchine.
Chiamiamo industrializzazione il processo di allargamento e generalizzazione del sistema di fabbrica. Ne derivò uno straordinario aumento della produttività, ovvero della produzione per singola unità: grazie alle nuove tecnologie, un singolo lavoratore, in una singola frazione di
tempo, riusciva a ottenere una maggior quantità di prodotto col risultato di produrre
più merci e a minor prezzo. Ne seguivano più consumo e più profitto.
L’Inghilterra conservò a lungo una supremazia schiacciante nel settore tessile e ancor
più in quello siderurgico: al 1850, ad esempio, la sua produzione di ghisa e ferro
greggio era pari a quasi i due terzi del totale europeo. L’industrializzazione, all’inizio
del XIX secolo, cominciava appena ad allargarsi sul continente, a partire dal Belgio
e poi verso Sud soprattutto lungo la valle del Reno. Facilitarono la sua diffusione
lo scarso divario tra le tecniche tradizionali e quelle più avanzate, la modesta entità
dell’investimento necessario per mettere su un impianto di tipo «nuovo». Nel complesso,
possiamo dire che si crearono aree di prima industrializzazione, oltre che in Inghilterra
e in Belgio, in Francia e in Svizzera e in parti più limitate della Germania, dell’impero
asburgico (Boemia), della Spagna (Catalogna). Lo sguardo insomma va concentrato sulla
dimensione regionale più che su quella statale: parliamo di regioni meglio predisposte
per disponibilità di ferro e carbone o di più agevoli vie di comunicazione, in molti
casi tra loro geograficamente contigue, ragion per cui si è parlato di una «conquista
pacifica».
Va precisato però che, nella stessa Inghilterra, stando al censimento del 1851, in
grande maggioranza i lavoratori erano impiegati come domestici, o nell’agricoltura,
o nelle manifatture tradizionali. Decine di migliaia di telai a mano erano in attività
nelle abitazioni private. A maggior ragione, nel continente, ovvero nella gran parte
dell’Europa centro-occidentale della metà del XIX secolo, gli impianti restavano in
maggioranza di piccola dimensione, utilizzavano ruote ad acqua piuttosto che vapore,
e legna piuttosto che carbone. Un gran numero di merci continuava poi a essere prodotto
con i metodi proto-industriali, con il lavoro contadino a domicilio. Prevalevano ancora
i mercati locali, per la modestia dei redditi dei potenziali consumatori e per le
difficoltà delle comunicazioni via terra. Com’era antica tradizione, si commerciava
soprattutto via acqua: attraverso i fiumi navigabili come il Reno, grazie alla rete
via via più fitta dei canali interni, e ovviamente via mare. Qui alla crescente sofisticazione
delle tecniche di navigazione a vela si aggiunsero le risorse della navigazione a
vapore, che però divenne un fattore economico rilevante non prima della metà del secolo.
Dopo quella data vennero peraltro spezzate le diseconomie tradizionali dei trasporti
via terra, ancora grazie al vapore cioè alle ferrovie – la cui costruzione era iniziata
alla fine degli anni ’20 in Gran Bretagna e all’inizio degli anni ’30 in Francia.
Alla metà del secolo, la Gran Bretagna raggiungeva il 40% di popolazione urbana, mentre
la Francia si fermava al 20% e la Germania al 15%. Possiamo però dire che le città
europee stavano ovunque crescendo per numero, dimensione e importanza. C’erano le
città-fabbrica, di cui Manchester può essere considerata il modello ideale, con la
sua borghesia imprenditoriale, con i suoi «bui e diabolici opifici», per riusare espressioni
già proprie delle polemiche del tempo; con i suoi miserabili sobborghi popolati in
maniera compatta da operai, un proletariato (gente che non possiede nulla se non la sua prole) poverissimo, bruscamente strappato alle sue precedenti forme di vita. Nondimeno,
neppure il fenomeno dell’urbanizzazione può essere identificato interamente con quello
dell’industrializzazione. Altre città si svilupparono per la maggiore facilità dei
movimenti delle persone, per l’aumento delle funzioni pubbliche e la conseguente concentrazione
di personale burocratico, per l’incremento dei flussi commerciali: citiamo un po’
a caso Berlino, capitale dello Stato prussiano, Napoli, capitale politica e culturale
del regno delle Due Sicilie, Marsiglia, grande porto mediterraneo francese.
Non che mancassero le attività produttive in città di questo genere, o in metropoli
come Londra o Parigi. Però si trattava essenzialmente di un fitto artigianato e, accanto
a esso, di un tipo di industria che poco aveva a che vedere con il sistema di fabbrica:
piccole imprese che producevano oggetti di lusso e beni di prima necessità per la
crescente popolazione (utensili, scarpe, mobili, farina), che contribuivano alla stessa
espansione urbana (edilizia). Qui continuavano a trovare impiego lavoratori qualificati (in possesso cioè di un’abilità di mestiere) che potevano essere anche discretamente
retribuiti, mantenendo una condizione sociale ed economica superiore a quella della
miriade di garzoni e facchini, della coorte dei miserabili.
Consegue da quanto abbiamo detto che nell’Europa occidentale della metà del secolo
solo una minoranza dei proletari lavorava in fabbrica: meno del 10% nella stessa Inghilterra,
una percentuale enormemente più bassa altrove. Il discorso che abbiamo fatto per la
borghesia vale anche per loro.
Molti operai impiegati stagionalmente in attività industriali o proto-industriali
vivevano per il resto dell’anno di agricoltura; non mancavano i contadini proprietari
di piccoli app...