IX. L’attimo catturato
Come lo Stato liberale perse l’attimo fuggente per reprimere l’insurrezione, e ciò
consentì ai fascisti di proseguire spavaldi la loro marcia di conquista, mentre il
duce «fece fessi tutti», sventando l’ultima manovra per mutilare la sua vittoria.
Il governo delibera lo stato d’assedio
Verso le 4.30, al Viminale, cominciarono ad arrivare i ministri. Il capo di gabinetto
accolse Riccio, il più filofascista fra i membri del governo, dicendogli con un sorriso:
«I suoi amici sono alle porte». Ma il ministro reagì: «Che amici, che amici! Questa
è una cosa indegna. Mussolini si è lasciato prendere la mano. Stato d’assedio ci vuole,
stato d’assedio!»1. Giunse anche il generale Cittadini, inviato dal re per essere aggiornato sulla situazione,
che commentò dicendo «non mi pare ancora allarmante», ma Ferraris replicò: «Io mi
permetto di non condividere questo suo ottimismo». Il capo di gabinetto ha raccontato
che il generale Cittadini «si trattenne ancora un altro poco, mentre io mano a mano
gli segnalavo le notizie, naturalmente sempre peggiori, poi tornò a Villa Savoia.
Intanto il Consiglio dei Ministri aveva inizio»2. Invece, secondo le testimonianze di altri ministri, l’aiutante di campo del re fu
presente al Consiglio. Paratore, ministro del Tesoro, ha affermato che il generale
si presentò alle 6 del mattino, per annunziare «che S.M. il Re aveva avuto notizie
di incertezze sulla proclamazione dello stato d’assedio, e comunicò, per incarico
avuto dal Sovrano, l’assoluta necessità dello stato d’assedio»3. Secondo Bertone, ministro delle Finanze, il generale «si allontanò solo dopo che
vide deliberato lo stato d’assedio»4. Secondo Rossini, infine, il generale Cittadini si era recato al Consiglio dei ministri
e «aveva approvato tutto quello che si stava facendo»5.
Il Consiglio iniziò dopo le 5 e si concluse alle 6. Facta espose la situazione insurrezionale
iniziata nella notte, e Taddei illustrò le misure che erano state prese «per impedire
con tutti i mezzi l’occupazione di Roma e dei pubblici poteri esistenti in Italia
da parte dei fascisti», secondo le disposizioni date dal generale Pugliese. Gli altri
ministri si dichiararono solidali col ministro dell’Interno e approvarono le misure.
Quindi, il Consiglio deliberò unanime «di proporre al re la proclamazione dello stato
d’assedio»6. Alle 7.10 fu ordinato ai prefetti e ai comandi militari «di mantenere l’ordine pubblico
e di impedire occupazione uffici pubblici, consumazione violenze e concentramenti
e dislocazione armati, usando tutti i mezzi a qualunque costo, con arresto immediato
tutti senza eccezione capi e promotori del moto insurrezionale contro poteri Stato»7. Intanto alle 7, il generale Pugliese redasse un bando, approvato dal ministro dell’Interno,
col quale si rendeva noto il divieto di riunioni pubbliche con più di cinque persone,
la revoca delle licenze di portare armi, per cui nessuno poteva circolare armato e
i negozi di armi dovevano rimanere chiusi, si vietava la circolazione degli autoveicoli
e delle vetture tranviarie, la chiusura degli esercizi pubblici alle 21, la sospensione
di tutti gli spettacoli8. Alla stessa ora, Taddei comunicò a Pugliese la delibera dello stato d’assedio, aggiungendo
che il Consiglio aveva «assoluta fiducia nel Comandante della Divisione; doversi agire
con grande energia; essere certa la vittoria». Alle 7.20 Pugliese ricevette dal direttore
generale di pubblica sicurezza l’ordine di vietare la partenza dei giornali da Roma
e contemporaneamente ricevette da Facta e Taddei l’incarico di «provvedere alla difesa
della Capitale con tutti i mezzi disponibili, impedendo ad ogni costo l’ingresso delle
squadre fasciste nella città, e che girino comunque in città armati e in divisa»9. Infine, alle 7.50 fu trasmesso ai prefetti e ai comandanti militari il telegramma
n° 23859: «Consiglio dei ministri ha deciso proclamazione stato assedio in tutte provincie
Regno da mezzogiorno oggi. Relativo decreto sarà pubblicato subito. Frattanto SS.LL.
usino immediatamente di tutti i mezzi eccezionali per mantenimento ordine pubblico
e sicurezza proprietà e persone»10.
In seguito a questi provvedimenti, furono dislocati reparti militari con mitragliatrici
e cavalli di Frisia presso il Viminale, Montecitorio, il ministero della Guerra, il
Quirinale e Villa Savoia, oltre che presso le principali strade di accesso alla città
e presso i ponti. Pochi minuti dopo le 8, avendo appreso che da Pisa e da Cecina erano
partiti per Roma 2.250 fascisti con vari treni, Pugliese ordinò l’immediata interruzione
della ferrovia a Civitavecchia, e gli fu risposto che era stata già interrotta dal
comandante del presidio per impedire il proseguimento di un treno con 800 fascisti
che si erano rifiutati di scendere11. Alle 8.10 il ministero dell’Interno ordinava al generale Pugliese di occupare militarmente
la sede dei fascisti nella capitale e di «arrestare tutti i capi fascisti, anche se
appartenenti all’Esercito in posizione ausiliaria speciale»12. Alle 8.30 veniva affisso sui muri della capitale il manifesto del governo ai cittadini
per dare notizia delle manifestazioni sediziose «che avvengono in alcune provincie
d’Italia coordinate al fine di ostacolare il normale funzionamento dei poteri dello
Stato e tali da gettare il Paese nel più grave turbamento. Il Governo fino a quando
era possibile ha cercato tutte le vie di conciliazione nella speranza di ricondurre
la concordia negli animi e di assicurare la tranquilla soluzione della crisi. Di fronte
ai tentativi insurrezionali esso, dimissionario, ha il dovere di mantenere con tutti
i mezzi e a qualunque costo l’ordine. E questo dovere compirà per intero a salvaguardia
dei cittadini e delle libere istituzioni costituzionali»13. Alle 8.45 il ministero dell’Interno comunicò ai comandi militari che da quel momento
era istituita la censura telegrafica e alle 9.10 fu comunicata la sospensione del
servizio telefonico privato interurbano e internazionale14.
Il rifiuto del re
Verso le 9, Facta si recò a Villa Savoia con il testo del decreto che proclamava lo
stato d’assedio: ma il sovrano non volle firmarlo.
Non si sa nulla di preciso sui motivi che indussero il re a cambiare radicalmente
parere sullo stato d’assedio fra le 5 e le 9 del mattino. Le versioni sul contenuto
dei colloqui fra il re e il presidente del Consiglio sono molto contrastanti, e varie
sono le ipotesi formulate da testimoni e da storici per spiegare i motivi che avrebbero
indotto il re a mutare la sua decisione: la volontà di evitare una sanguinosa guerra
civile perché gli era stato detto che alle porte della capitale vi era una massa fascista
soverchiante rispetto alle forze armate preposte a difenderla; la sensazione di essere
stato abbandonato da un governo dimissionario e lasciato solo a decidere nella gravità
dell’ora; i consigli o le pressioni di esponenti nazionalisti e di personalità filofasciste
degli ambienti monarchici e militari; le simpatie fasciste della regina madre; i dubbi,
che sarebbero stati insinuati nella mente dubbiosa del re da Thaon di Revel, da Diaz
e da altri generali, sull’effettiva compattezza dell’esercito nell’obbedienza; la
preoccupazione di salvare il trono, temendo o sospettando un accordo fra i fascisti
e il duca d’Aosta per sostituirlo; la speranza di poter ancora disinnescare la carica
eversiva fascista con una combinazione governativa, che le molteplici trattative fra
Mussolini e i vari esponenti liberali facevano apparire possibile e prossima; e non
sarebbe mancato neppure l’intervento della massoneria, simpatizzante per il fascismo,
sul re e sui generali ad essa iscritti15. Fra i membri del governo, ci fu chi sospettò che fosse stato lo stesso Facta a consigliare
il re a non firmare, perché convinto di poter addivenire a un accordo con Mussolini
per un suo terzo ministero con partecipazione fascista16.
Ciascuno di questi motivi può aver influito sulla decisione del re. Nel 1941, parlando
con il generale Paolo Puntoni, il re disse: «Nel 1922 ho dovuto chiamare al governo
‘questa gente’ perché tutti gli altri, chi in un modo chi in un altro, mi hanno abbandonato.
Per 48 ore, io in persona ho dovuto dare ordini direttamente al questore e al comandante
del corpo d’armata perché gli italiani non si ammazzassero fra loro»17. Nel settembre 1945, a un’esplicita domanda sulla «ragione più valida, più forte,
più persuasiva che consigliò di non reagire alla marcia su Roma», domanda che gli
era stata posta in un questionario da un gruppo di senatori monarchici antifascisti,
Vittorio Emanuele aveva risposto: «Evitare spargimento di sangue, date le notizie
delle provincie che erano già nelle mani dei fascisti e l’impossibilità di impedire
l’occupazione di Roma. Nelle truppe e perfino nelle Guardie regie erano molti elementi
filofascisti. Le autorità assicuravano che i fascisti armati giunti presso Roma erano
più di centomila»18.
Forse fu veramente il timore di provocare una guerra civile la ragione che indusse
il re a rifiutare la firma al decreto di stato d’assedio. Lo stesso timore, del resto,
era stato manifestato da un uomo politico di lunga esperienza come Giolitti, così
come era condiviso da Facta e dagli altri aspiranti a succedergli, tutti contrari
a reprimere con la forza il fascismo e tutti disposti a formare un governo con i fascisti.
Inoltre, la delibera dello stato d’assedio era stata presa all’ultimo momento da un
governo dimissionario che da tempo era stato dichiarato morto dal suo stesso presidente,
il quale nei mesi precedenti aveva dato ampia prova di essere impotente a fronteggiare
la violenza fascista; e che ancora giorni prima riteneva tramontata la marcia fascista
sulla capitale; e che persino poche ore prima di deliberare lo stato d’assedio era
andato tranquillamente a dormire come se nulla di grave stesse accadendo; e che alla
fine, improvvisamente destato alla realtà, si era reso conto del pericolo e aveva
deliberato le misure estreme per reprimere un movimento sedizioso capeggiato da un
uomo politico, col quale, tuttavia, tutti i candidati a presiedere il nuovo governo
stavano trattando.
Eppure, sapevano tutti che Mussolini era il capo di bande armate, che da due anni
spadroneggiavano nel paese proclamandosi milizia della nazione, anti-Stato, Stato
in potenza, operando come un esercito di conquista, che assaltava e occupava città;
distruggeva le organizzazioni avversarie; imponeva dimissioni a consigli comunali
e provinciali democraticamente eletti; perseguitava e metteva al bando dalla loro
città parlamentari e membri del governo; dileggiava e ricattava persino il capo dello
Stato, ponendogli come alternativa o la consegna del potere al duce del partito armato
o la fine violenta della monarchia. Perché – potrebbe aver pensato Vittorio Emanuele
III fra le 5 e le 9 del 28 ottobre – se tutti trattavano per andare al governo con
il duce del fascismo, proprio lui doveva assumersi la responsabilità di una decisione
che avrebbe precluso la via a una soluzione legalitaria e pacifica, e forse provocato
una guerra civile? Se a queste considerazioni si aggiungono i dubbi sul comportamento
dell’esercito, che per quanto fedele al re, aveva tuttavia già mostrato, dagli alti
gradi fino alla truppa, palesi simpatie per il fascismo; se si aggiunge la previsione
che, reprimendo il fascismo, si sarebbero rianimati il socialismo e il comunismo:
allora, sommando tutte queste considerazioni, è storicamente plausibile pensare che
il re, rifiutandosi di firmare lo stato d’assedio, abbia voluto mantenere la porta
aperta per una soluzione legalitaria.
Ma anche un’altra potrebbe essere stata la motivazione del rifiuto. Trovandosi in
uno dei momenti più agitati della sua vita di regnante, lasciato solo a dover prendere
una così grave e fatale decisione, un uomo profondamente scettico, chiuso e diffidente
per carattere e per educazione, qual era Vittorio Emanuele III, può aver ritenuto
giusto restituire alla classe dirigente la responsabilità di fare il possibile per
trovare una soluzione pacifica alla crisi, giungendo alla formazione di un governo
con la partecipazione dei fascisti, che era poi la soluzione caldeggiata da tutta
la classe dirigente, dagli alti gradi dell’esercito, dagli industriali, dall’opinione
pubblica liberale, dai nazionalisti, dai fascisti «antimarcia», fino allo stesso Mussolini.
Del resto, potrebbe aver pensato il re, Mussolini non aveva la pretesa di essere lui
– a soli trentanove anni, deputato solo da un anno, senza nessuna esperienza benché
minima di governo e di amministrazione della cosa pubblica, un ex socialista rivoluzionario
ferocemente antimonarchico, e per giunta capo di bande armate – a ricevere dal re
l’incarico di formare il governo. Dopo tutto, la crisi poteva comunque essere superata
concedendo ai fascisti qualche ministero in un governo presieduto da qualcuno dei
vecchi presidenti liberali fedeli alla monarchia, per incanalare il fascismo nello
Stato liberale: con lo stato d’assedio, questo non sarebbe stato più possibile. Forse,
alla conclusione di simili riflessioni, il re potrebbe aver pensato che rifiutare
la firma allo stato d’assedio fosse una decisione saggia e realistica nell’interesse
del paese, della monarchia e della sua dinastia.
Roma inneggia al re
Facta era «cereo in volto» quando tornò al Viminale e comunicò ai ministri il rifiuto
del re19. L’inattesa notizia suscitò «lo stupore e le proteste dei ministri, che ritennero
si dovesse insistere col re per la firma di quel decreto, costituente la sola misura
adeguata alla gravità della situazione di un assalto armato allo Stato»20. Ma il re fu irremovibile nel suo rifiuto. Oltre tutto, la comunicazione dello stato
d’assedio era stata già inviata ai prefetti e ai comandanti militari, e il proclama
era già affisso nella capitale. Repentinamente, il governo dovette revocare tutti
gli ordini relativi allo stato d’assedio che aveva inviato poche ore prima. Alle 12
il ministro Taddei comunicò ai prefetti e ai comandi di corpo d’armata e di divisione
che le «disposizioni odierno telegramma n° 23859 circa stato d’assedio non debbono
avere corso». Mezz’ora dopo, seguiva un secondo telegramma: «Ferme restando tutte
le altre disposizioni contenute telegramma odierno avvertesi che non dovranno avere
esecuzione quelle relative arresto dirigenti movimento»21. Alle 13 l’Agenzia Stefani fu autorizzata a diffondere la notizia della revoca dello
stato d’assedio.
Se il re aveva avuto qualche dubbio sulla validità del suo rifiuto, il modo in cui
la notizia fu accolta nella capitale dovette confortarlo. La città, che fino alla
mattina era stata sotto l’incubo di una guerra civile, semideserta, senza veicoli
in circolazione, senza comunicazioni telefoniche e telegrafiche, con soldati armati
di mitragliatrici e cavalli di Frisia che presidiavano strade, ponti ed edifici pubblici,
improvvisamente, alla notizia della revoca dello stato d’assedio, si rianimò e manifestò
il suo entusiasmo. I primi ad esultare, tornando spavaldi in circolazione, furono
naturalmente i fascisti, che insieme ai nazionalisti andarono sotto il Quirinale ancora
presidiato dalle truppe22. «Vi partecipai – ricordava un giovane giornalista fascista –; era un pomeriggio
piovoso; eravamo appena qualche centinaio di giovani; Piazza del Quirinale era ben
guardata con una prima fila di carabinieri schierata su via Ventiquattro Maggio; gli
ordini erano rigorosi, i carabinieri vedendo avanzare la turba di giovani che li acclamavano
fecero ginocchi a terra con i moschetti puntati; me ne trovai uno con la canna all’altezza della mia gola;
ma l’incertezza fu breve; venne l’ordine di lasciarci passare fino alla Piazza dove
lo schieramento era fitto e impenetrabile. Fu una dimostrazione di saluto e di entusiasmo»23. Ci furono altre manifestazioni e cortei, con comizi di fascisti e di nazionalisti
inneggianti al re che aveva evitato la guerra civile.
La sera, il sindaco, con tutta la giunta comunale, si recò al Quirinale, mentre alcune
migliaia di cittadini erano nella piazza in attesa di vedere il re al balcone. Ma
il sindaco, uscendo dal Quirinale, disse che il re ringraziava per la magnifica dimostrazione
e invitò la folla a sciogliersi al grido di «Viva l’Italia! Viva il re!». Si formò
allora un corteo che dal colle si recò all’Altare della Patria, applaudendo ai reparti
militari dislocati lungo la strada col grido «Evviva l’Esercito!». Alcuni fascisti
fecero dimostrazione ostile presso la sede del giornale «Il Mondo» tentando di invaderla,
ma furono bloccati dalla guardia regia.
Quel giorno «Il Popolo d’Italia» uscì con titoli e sottotitoli in prima pagina: La storia d’Italia a una svolta decisiva! La mobilitazione dei fasci è già avvenuta
in Toscana. Tutte le caserme di Siena occupate dai fascisti. I grigio-verde fraternizzano
con le «Camicie Nere».
E l’insurrezione continua
Intanto, i fascisti proseguivano la marcia di conquista senza incontrare quasi nessun
ostacolo da parte delle autorità politiche e militari. Inoltre, essi operarono in
modo da turbare il meno possibile l’ordine pubblico ed evitando di gettare nel panico
la popolazione, che in varie città neppure si accorse di quello che stava avvenendo.
Il codice di comportamento degli insorti prevedeva: «Rispetto sommo alle chiese, alle
caserme, ed alle truppe eguale sentimento fin dove possibile», come ricordava il capitano
Ulisse Igliori, comandante della colonna che doveva marciare su Roma da Monterotondo24. Inoltre, tutte le azioni squadriste si svolsero al grido di «viva il re, viva l’esercito!».
Dal moto insurrezionale furono investite l’Italia settentrionale e l’Italia centrale,
mentre nell’Italia meridionale ci furono solo concentramenti di squadristi senza occupazioni,
tranne che a Foggia. La dinamica dell’insurrezione, fra il 27 e il 30 ottobre, ebbe
caratteristiche diverse secondo le situazioni e le circostanze, ma complessivamente
seguì la pratica ormai consolidata delle precedenti offensive squadriste, solo che
ora furono condotte contemporaneamente in gran parte delle città dove gli squadristi
avevano già un dominio locale o contro le città ancora amministrate dai socialisti
o dove le offensive squadriste non avevano avuto successo. Nella maggior parte dei
casi, tuttavia, prima di procedere all’occupazione degli uffici governativi, gli insorti
proposero una trattativa con l’autorità politica o militare per procedere a un’occupazione
pacifica, sostenendo che si trattava di azione insurrezionale non contro lo Stato
monarchico, ma contro una classe politica e contro un governo di corrotti, di inetti
e di imbelli. Tuttavia, non mancarono scontri e incidenti, con alcuni morti e feriti
sia da parte fascista sia da parte della forza pubblica, ma nella maggior parte delle
situazioni o i fascisti, di fronte alla ferma resistenza incontrata, rinunciarono
all’attacco oppure la forza pubblica fu costretta a cedere perché esigua, quando non
cedette manifestando solidarietà con i sediziosi25.
Prefetto di Mantova, 28 ottobre, ore 11.10
Stanotte ore 3.30 improvvisamente masse più migliaia fascisti armati anche di mitragliatrici
occuparono questo capoluogo bloccando caserme Comando presidio Prefettura, davanti
la quale avvenne con Guardia Regia scambio fucilate con due guardie regie ed otto
fascisti feriti non gravemente. Attesa questa preponderanza forze fasciste, ulteriore
resistenza avrebbe determinato inutile spargimento di sangue e funeste conseguenze
nella città inevitabile quindi trattative in seguito alle quali On. Buttafochi rimane
meco Prefettura.
Prefetto di Padova, 28 ottobre, ore 12
Ore due scorsa notte con treno merci giunti qui circa mille fascisti da Vicenza, che
uniti forze locali Fascio combattimento, vincendo resistenza opposta da personale
polizia preposto vigilanza occuparono accessi uffici centrali postelegrafonici lasciando
peraltro che servizio continuasse regolarmente. Successivamente, mentre gruppo oltre
quattrocento stazionava adiacenze Prefettura, presentossi a me Commissione composta
Generale Divisione posizione ausiliaria Bertolini Francesco, capo direttorio locale
Sezione; Comm. Augusto Calore, dirigente Associazione Agraria e direttore giornale
«Provincia» nei cui uffici ha preso stanza Comando squadre fasciste operanti e Avv.
Alessandro Nova, chiedendo fossero ceduti poteri polizia autorità militare, ciò che
a norma istruzioni Ministeriali avevo già fatto appena iniziatosi movimento. Paghi
di tale assicurazione in numero di oltre un migliaio recaronsi diretti dalla Commissione
predetta Comando Divisione Militare dove conferirono con Generale Boriani che ha assunto
direzione servizi tutela ordine pubblico. Finora nessun incidente grave si è verificato,
fatta eccezione esplosione avvenuta presso caffè Pedrocchi producendo lesioni non
gravi a tre fascisti. Comandante Divisione disposto ritorno loro sedi Carabinieri
che erano stati concentrati dalla Provincia, facendo integrare vigilanza pubblici
uffici con picchetti venti militari ciascuno. Fascisti adunati qui si calcolano circa
quattromila e movimento insieme Direttorio locale è diretto da Sciaccaluga qui venuto
da Venezia e Favaron Mario Console Sezione fascista.
Prefetto di Alessandria, 28 ottobre, ore 13
A completamento mie comunicazioni radiotelegrafiche odierne, ieri seguito istruzioni
ministeriali conferii con capi fascisti e ebbi assicurazione formale che nessun movimento
insurrezionale preparavasi per Alessandria, ma che a Milano erano riuniti deputati
e consoli fascisti. On. Torre Edoardo ritornò nella notte da Milano con ordine segreti
ed immediatamente ordinò segreta mobilitazione fascisti. Ore sei numerosi fascisti,
dopo aver prima invasa caserma 38° Fanteria malmenato ufficiale picchetto e piantone
di Guardia si impossessarono circa duecento fucili, dieci mitragliatrici con numerose
munizioni. Così armati invadevano Prefettura e Questura che era vigilata da dieci
carabinieri che vennero disarmati: quindi Uffici dei Telefoni, Poste e Telegrafi.
Questore subito informato recavasi caserma carabinieri e riuniti carabinieri disponibili
circa trenta uomini comandati da Tenente Colonnello Divisione Interna recavasi Prefettura
per liberarla dai fascisti ma lungo strada giungeva ordine Colonnello Comandante Legione
concentrare Carabinieri Comando Divisione Militare ove maggiore Generale Breganze
prima impiegare truppa e Carabinieri seguito esplicita richiesta Questore per sgombero
Prefettura e Questura sotto sua direzione, volle conferire meco che ero sequestrato
in Prefettura. Intanto visto aggravarsi situazione per manifesta insurrezione contro
poteri Stato, giusta istruzioni alle ore 9 cedevo poteri civili Autorità Militare.
Conferii subito nel mio Gabinetto con Generale che dichiarò non avere forze sufficienti
per affrontare conflitto con fascisti avendo a sua disposizione duecento carabinieri,
uno o due compagnie di appena cento uomini e mille reclute che non hanno prestato
giuramento. Insistetti perché ad ogni costo fossero sgombrati uffici Prefettura subito
e Questura nonché uffici telegrafici e telefonici e generale assicurò vi avrebbe provveduto
dopo esperite pratiche conciliative con On. Torre e dirigenti fascisti. Fino a questo
momento fascisti non hanno sgomberato Prefettura e Questura ma hanno lasciato libero
ingresso impiegati. Uffici sono stati anche evacuati da fascisti e funzionano regolarmente
colle limitazioni ordinate dal Ministero competente. Finora nessun conflitto e nessun
incidente fra fascisti e forza pubblica.
Prefetto di Bari, 28 ottobre, ore 12.30
Nel dubbio che a codesto Ministero non siano giunte comunicazioni da Foggia causa
interruzione telegrafica e telefonica informo che notizie qui giunte fascisti avrebbero
occupato Uffici Pubblici compresa Prefettura e stazione ferroviaria ove Guardie e
Carabinieri colà di transito vengono fermati, disarmati e costretti indossare camicia
nera.
Generale comandante del Corpo d’armata, Bologna, 28 ottobre
DIVISIONE DI BOLOGNA
Il Prefetto di Bologna sino dal ventisei comunicava all’autorità militare quali sarebbero
stati gli obiettitivi dell’occupazione fascista et cioè: Prefettura-Poste et telegrafi-Telefoni-Banca
d’Italia-Tesoreria. Con la cessione dei poteri avvenuta alle ore quattordici di oggi
l’autorità militare ha, con le poche forze disponibili, adempiuto ai suoi compiti
superando non lievi difficoltà.
Episodi notevoli ed impreveduti della giornata sono stati quelli della formale occupazione
della stazione ferroviaria; con disarmo di qualche Regia Guardia; dei Magazzini di
Borgo Panigale contenenti materiali a disposizione dell’Associazione tubercolotici
di guerra; con disarmo di pochi militari di guardia.
Al carcere civile ed alla Direzione centrale automobilistica i fascisti poterono impossessarsi
di quattro mitragliatrici e per tali fatti sono già in corso le relative inchieste
disciplinari a carico dei responsabili. I fascisti riuscirono ad occupare il Campo
d’Aviazione. Sono stati già emanati gli ordini perché all’alba il campo venga sgombrato.
Da Rovigo sono state segnalate sottrazioni di armi al locale presidio ed anche per
tale fatto est in corso la relativa inchiesta.
A Ferrara fascisti occuparono Poste-Telegrafi-Telefoni-Stazione et Tribunale.
Da varie stazioni di Carabinieri Reali viene segnalato disarmo dei militari. [...]
A Venezia i poteri sono stati passati all’autorità militare alle ore quattordici,
ma la città si mantiene calma.
DIVISIONE DI RAVENNA
L’autorità politica della provincia di Ravenna ha ceduto il potere alla autorità militare
senza che sia avvenuto nulla di notevole. A Forlì sei ufficiali tra cui un tenente
dei Carabinieri, furono dai fascisti, nella notte dal ventisette al ventotto, messi
nella impossibilità di difendersi e sequestrati per breve tempo.
Sono stati segnalati forti concentramenti fascisti nei maggiori centri urbani senza
però nulla di grave.
DIVISIONE DI TREVISO
Sino da questa mattina è stata segnalata la occupazione fascista degli Uffici Telegrafici
et Telefonici et temporanea occupazione Prefettura. Prefetto di Treviso ha ceduto
poteri alla autorità militare. Nulla di notevole è stato fino ad ora segnalato.
Ho questa sera conferito col Prefetto e mi ha comunicato possibilità prossima soluzione
attuale crisi. Ho disposto che date esigue forze disponibili mantengasi ad ogni costo
intangibilità centri vitali sopra indicati e caserme e, con disponibile riserva, essere
pronti eventuali atti aggressivi.
Una marcia resistibilissima
Nelle giustificazioni addotte da Vittorio Emanuele per il rifiuto dello stato d’assedio
vi erano gravi inesattezze, non si sa quanto dovute a convinzione o a convenienza:
l’aver dovuto dare personalmente ordini al comandante del corpo d’armata, l’impossibilità
di impedire l’occupazione di Roma, la presenza di oltre 100.000 fascisti alle porte
della capitale. In verità, non risulta alcun contatto diretto fra il re e il generale
Pugliese, comandante ad interim del corpo d’armata di Roma; l’eventuale occupazione della capitale fu resa impossibile
dalla mattina del 28 ottobre e lo rimase fino alla sera del 29, grazie alle misure
adottate dal generale con l’interruzione delle linee ferroviarie nelle stazioni di
Civitavecchia, Orte, Avezzano e Segni, che bloccarono i treni con i fascisti, soprattutto
toscani, umbri, marchigiani e abruzzesi, costringendoli ad accamparsi a un’ottantina
di chilometri da Roma. Inoltre, secondo i calcoli di Pugliese, i fascisti giunti nei
dintorni della capitale la mattina del 28 ottobre non erano più di 26.000, secondo
altre stime il loro numero oscillava fra 5.000 e 14.000. Quale che fosse il loro numero,
la forza armata a disposizione del comandante della Divisione per la difesa della
capitale ammontava complessivamente a circa 28.000 uomini fra soldati, carabinieri,
guardie di finanza e guardie regie; disponeva di 60 mitragliatrici, 26 cannoni, 15
autoblindate, e avrebbe quindi potuto sbaragliare le schiere fasciste se avessero
veramente tentato l’assalto alla capitale: «sarebbero bastati pochi colpi di cannone
a salve, per disperdere e disarmare quelle torme», ha ricordato il generale Pugliese
rievocando il suo operato nei giorni della «marcia su Roma»26.
A Roma, l’autorità militare aveva già assunto i pieni poteri e provveduto a bloccare
le strade di accesso alla capitale e i ponti principali. In aggiunta alle forze armate
regolari, erano pronte a difendere la capitale e la monarchia le milizie in camicia
azzurra dell’Associazione nazionalista italiana27. Il capo dei «Sempre pronti», Raffaele Paolucci, ha dichiarato: «noi dovevamo schierarci
a difesa del Capo dello Stato. Se questi avesse accettato di chiamare Mussolini al
potere noi avremmo seguito; se avesse dichiarato lo stato d’assedio noi ci saremmo
uniti alla forza pubblica». Paolucci fece adunare i circa 4.000 «Sempre pronti» della
capitale e fece arrivare «dalla campagna romana i reparti della cavalleria azzurra
dell’agro» e ordinò «che le legioni più vicine alla capitale raggiungessero Roma di
urgenza con qualunque mezzo. [...] I miei uomini erano tutti perfettamente equipaggiati,
e questa volta, armati con fucili fornitimi dal comando di Corpo d’Armata di Roma»28. Impegnati a favorire un nuovo governo presieduto da Salandra, i dirigenti nazionalisti
intendevano non soltanto difendere la monarchia, ma ostacolare una conquista integrale
del potere da parte dei fascisti. «I nazionalisti – ha ricordato Soleri – avevano
chiesto di partecipare in camicia azzurra alla difesa di Roma. I reticolati dinanzi
al Quirinale erano stati posti proprio da loro, ed essi intendevano di presidiarli.
Molti ex combattenti si erano presentati al ministro della Guerra per mettersi a sua
disposizione, e gli esponenti dei mutilati – i Delcroix, gli Host-Venturi, i Romano
– avevano chiesto di comandare i reparti dell’esercito che avrebbero dovuto fronteggiare
i fascisti»29.
Gli squadristi accampati nei dintorni di Roma erano male equipaggiati, poco armati,
appiedati, sprovvisti di alloggio sotto una pioggia torrenziale, «sporchi di fango
e di polvere, affamati e assetati», come li descriveva il generale Sante Ceccherini,
associato a Perrone Compagni nel comando della colonna stanziata a Santa Marinella30. A Civitavecchia, ricordava uno squadrista toscano, «la stazione e le adiacenze sono
occupate dalle truppe regolari che hanno un ordine categorico: resistere. Il treno
non può proseguire; le squadre del Genio hanno tagliati i binari che giacciono ammassati
a cataste, parallelamente alla via. [...] I comandanti delle unità sono a colloquio
con le autorità militari. Colloquio cortese, ma freddo, di drammatica intensità. Da
una parte una volontà ferma, che nessuna forza avrebbe potuto rimuovere; dall’altra
dei soldati italiani con un ordine da far rispettare. Il treno non avrebbe proseguito:
erano stati tagliati i binari e massicce locomotive poste traverso la via, per impedire
i possibili allacciamenti; mitragliatrici piazzate in posizione e moschetti di carabinieri
pronti... L’arma della fedeltà, magari con la morte nell’anima, avrebbe mantenuto
la consegna». I fascisti furono lasciati proseguire a piedi per Santa Marinella lungo
la via Aurelia: «Piove: scroscia l’acqua, di traverso, investe in pieno i volti che
appena si corrugano, penetra fra le pieghe delle mantelline, schiocca sulle pozzanghere,
sollevando una spruzzaglia fangosa». A Santa Marinella, gli squadristi stanchi e assetati
non trovarono acqua potabile perché erano state bloccate le condotte31. Non erano molto diverse le condizioni delle colonne radunate a Monterotondo e a
Tivoli32.
La mattina del 28 ottobre non avvenne lo «scatto sincrono» delle tre colonne per dare
l’assalto alla capitale, secondo il piano deciso a Napoli il 24 ottobre33. Fino alle prime ore del pomeriggio del 29, le colonne squadriste accampate nei dintorni
della capitale ignoravano ancora quel che avrebbero dovuto fare. Le notizie che ricevevano
dalla capitale erano confuse e contraddittorie, erano quasi inesistenti gli ordini
del quadrumvirato per mancanza di collegamento, e le condizioni in cui si trovavano
le legioni, mentre pioveva ininterrottamente da tre giorni, erano peggiorate, come
riferiva Perrone Compagni nel rapporto inviato alle 21 del 29 a Perugia tramite uno
squadrista in motocicletta34.
A tutt’ora sono presenti in Santa Marinella n. 6143 camicie nere così dislocate: in
Santa Marinella 2413; parte della legione di Pisa; manipoli di Livorno e Carrara.
A Civitavecchia (stazione) n. 3730. Legione di Grosseto e parte della legione di Lucca.
La forza presente è divisa a cagione dell’orribile tempo e della impossibilità di
ricoverare persone a Santa Marinella.
Deficienze: Mancano acqua, viveri e danaro.
Informazioni: La truppa – regio esercito – ha tolta parte della ferrovia fra Civitavecchia
e Santa Marinella.
Alcuni ferrovieri mi informano che tale atto è stato compiuto in altre località della
linea Pisa-Civitavecchia. Dalle ore 16 ad ora non sono passati che due treni completamente
vuoti sul percorso Roma-Santa Marinella.
Collegamento: Impossibile il collegamento con codesto superiore Comando. Da Perugia
a qua, con macchina Fiat 510 abbiamo impiegato circa 9 ore. Prego disporre collegamento
immediato con Roma, con la quale può essermi facile comunicare.
Durante i giorni delle operazioni, ricordava Igliori, «mancarono a Monterotondo, a
Tivoli e credo anche a Santa Marinella, gli ordini di Perugia, sede del Quadrumvirato»35. Igliori aveva criticato la scelta di Perugia come sede del comando generale fascista,
prevedendo che la «possibilità di comunicazione fra le colonne operanti e Perugia
sarebbe stata estremamente difficile, essendo quella città tagliata fuori dalle grandi
linee ferroviarie, scarse e lunghissime le vie ordinarie, e non potendosi fare alcun
assegnamento sul telegrafo e sul telefono». Igliori avrebbe voluto spostare il comando
a Orte, non lontano da Tivoli e con possibilità di comunicazione con Santa Marinella.
«La cosa fu trovata giusta ma non si poté attuare perché mancava la possibilità in
quel momento di chiedere il parere del Duce». Lo stesso De Bono, valutando da generale
la situazione, paventò un insuccesso: «Se devo parlare come generale devo confessare
che i collegamenti non hanno certo funzionato alla perfezione. So che il concentramento
è compiuto; ma non ho nessun elemento che mi conforti circa l’opportunità e il momento
di mettere in marcia le colonne. Va bene fidarsi della iniziativa dei comandanti;
ma in questo caso la iniziativa potrebbe portare slegamento nell’azione e quindi anche
possibile insuccesso»36.
Quadrumvirato in confusione
Fra gli stessi quadrumviri mancò concordia e coordinamento. Intanto, giunsero a Perugia
in tempi differenti: Balbo e De Bono arrivarono la notte del 26 e alloggiarono all’Hotel
Brufani, scelto come sede del quartier generale insurrezionale, di fronte al palazzo
della prefettura; Bianchi arrivò alle 10 del 27 partendo da Roma senza saper nulla
di De Vecchi37. Quando, poco dopo la mezzanotte, fu occupata la prefettura, Balbo era dovuto correre
in auto a Firenze per controllare il moto insurrezionale scoppiato in anticipo, riuscendo
a impedire un assalto alla prefettura, dove era il generale Diaz, ospite del prefetto,
e ritornò a Perugia la mattina del 2838. E solo quella mattina arrivarono a Perugia anche De Vecchi e Grandi39. Ma appena furono insieme, sorsero contrasti fra De Vecchi e gli altri quadrumviri
sostenitori dell’insurrezione. «Al Comando – annotava Balbo – c’è molto nervosismo.
Sappiamo che non tutti i capi fascisti erano fino a ieri decisi per l’azione. Qualcuno
la giudicava prematura, qualche altro pensava che fosse preferibile una soluzione
parlamentare»40.
Contrastanti sono anche le versioni da essi date in diari e memorie su quel che dissero
e fecero a Perugia41. Ma le versioni concordano nel rievocare la confusione regnante nel comando generale.
«La situazione era quanto mai confusa e al Comando le idee erano poco chiare e discordi»,
ha raccontato De Vecchi42. De Bono annotava il 28 ottobre nel diario di campagna tutto quel che non funzionava
nel comando dell’insurrezione43.
De Vecchi ha fatto qui un’apparizione stamane e poi è ritornato a Roma. È bene che
lui sia là. Non si capisce ancora precisamente come si svolgeranno le cose. Io non
mi intrigo di politica, se non in quanto voglio il completo nostro trionfo, con Mussolini
al potere. Sento vociferare di accordi con Salandra: niente, niente.
Michelino, che ha un profondo senso politico, è perfettamente del mio parere.
Vaghissime notizie da fuori; si sa di conflitti a Cremona e Bologna.
Come mi immaginavo il Quadrumvirato, e quindi il Comando supremo, è quasi isolato
dalle azioni che si svolgono nelle provincie. Del resto noi non vi potremmo praticamente
intervenire.
Con le colonne marcianti su Roma siamo abbastanza in contatto mediante automobili
e motociclette.
La radunata procede bene. È segnalata una interruzione ferroviaria a sud di Orte;
ma è presto riparata.
Zamboni mi notifica da Foligno di aver radunato circa tremila uomini, dei quali però
poco più di trecento armati. Bisogna andare a caccia di fucili.
Bianchi prova invano a telefonare a Milano e a Roma.
Dall’ufficio dei telegrafi ci vengono comunicati tutti i telegrammi e verso le 10
ne arriva uno poco allegro: È proclamato lo stato d’assedio e vi è l’ordine di arrestare
i capi del movimento ovunque si trovino e qualunque siano.
Balbo non è tornato; ma giunge notizia che i concentramenti di Santa Marinella e Monte
Rotondo si completano.
A Spoleto s’è fatto un colpo di mano su una caserma asportandone tremila fucili.
Dopo le 10 del 28 ottobre, De Vecchi, con Grandi, ripartì in auto per Roma, sotto
la pioggia, dopo una telefonata del generale Cittadini che gli chiedeva a nome del
re di rientrare subito nella capitale, ma senza dirne il motivo44. Fu probabilmente prima della sua partenza che i quadrumviri firmarono, in quanto
membri del «quadrumvirato supremo fascista investito di pieni poteri politici e militari»,
una dichiarazione, con la quale si impegnavano a non accettare altra conclusione dell’insurrezione
che la formazione di un governo presieduto da Mussolini: «1. Data l’avvenuta mobilitazione
delle forze fasciste, la sola soluzione politica accettabile è un ministero MUSSOLINI;
2. Nel caso la soluzione politica suaccennata, dovesse incontrare delle difficoltà,
si procederà nelle operazioni militari necessarie per il raggiungimento della vittoria;
3. Quale che sia la forma e il metodo della soluzione vittoriosa, la MILIZIA FASCISTA
dovrà attraversare Roma; 4. Per l’indicazione e l’assegnazione dei portafogli si delegano
con pieno mandato di fiducia il Segretario generale del Partito ed il Presidente del
Gruppo parlamentare Fascista»45.
Balbo pubblicò nel libro del suo diario una foto della dichiarazione, senza precisare
quando fu scritta e firmata, e ne attribuì l’idea a De Bono, il quale però non ne
parlava nel suo diario di campagna46. Nessuna menzione della dichiarazione da lui sottoscritta fu fatta da De Vecchi nelle
memorie, anche se fu probabilmente la sua preferenza per un governo Salandra a indurre
gli altri a vincolarlo, con un impegno scritto, alla richiesta di un governo Mussolini.
Ma, nonostante l’impegno sottoscritto, appena giunto a Roma De Vecchi riprese a manovrare
con Grandi per un governo Salandra con partecipazione fascista47.
«Fece fessi tutti»
Alle 11 del 28 ottobre Facta tornò al Quirinale per rassegnare le dimissioni del governo.
Alle 13.30 il re iniziò le consultazioni col presidente della Camera. Alle 14.30 ricevette
Salandra. Anche Giolitti, che non era a Roma, fu sollecitato da Facta a partecipare
alle consultazioni: l’ottantenne parlamentare rispose d’essere raffreddato, ma si
sarebbe comunque mosso se invitato dal re; tuttavia, dopo aver fatto annunciare alle
12.40 la sua partenza da Torino, alle 15 fece sapere che il prefetto lo aveva avvertito
che era impossibile per lui recarsi a Roma48. Alle 16 il re ricevette De Vecchi e gli disse di aver rifiutato di firmare lo stato
d’assedio «per non buttare gli italiani nella guerra civile», e che si orientava verso
l’incarico a Salandra, anche se avrebbe preferito Giolitti. De Vecchi rispose che
Mussolini si era dichiarato favorevole a un governo presieduto da Salandra, ma si
riservava di chiedergli conferma. Alle 18 Salandra ebbe l’incarico.
Le manovre per convincere Mussolini ad accettare un governo con Salandra erano iniziate
dalla mattina del 28, quando ancora non si sapeva che il re avrebbe rifiutato di firmare
lo stato d’assedio. Federzoni gli aveva telefonato verso le 8 per sollecitarlo ad
andare immediatamente a Roma, dicendogli che c’era lo stato d’assedio e il re minacciava
di andarsene se non gli si lasciava libertà di agire senza la pressione di un’insurrezione.
Mussolini rispose che non poteva lasciare Milano perché l’azione era già in corso;
che il movimento era «serio in tutta Italia» e che egli avrebbe accettato «quelle
soluzioni che il comando supremo deciderà», ma aggiunse che la crisi doveva avere
come soluzione «un governo di fascisti»49. Alla telefonata assistette Cesare Rossi, al quale Mussolini, prima di mettersi la
cuffia, aveva detto: «C’è qualche manovra in vista», e quando finì la conversazione,
commentò: «Te lo dicevo io?! Manovra preveduta»50. Alle 9.45, Federzoni telefonò di nuovo per dire a Mussolini che avrebbe ricevuto
«prestissimo l’invito da parte del Re per venire a Roma, capisci bene!», ma ottenne
solo un generico assenso. Alle 11 Federzoni telefonò a Lusignoli per far sapere a
Mussolini che doveva andare subito a Roma perché c’era «ancora la possibilità di risolvere
la cosa nella maniera come egli desidera, ma senza creare perturbazioni»; Mussolini
gli fece dire che sarebbe andato a Roma in aeroplano51.
Intanto, si moltiplicarono a Milano le pressioni per indurlo ad accettare Salandra.
Intervenne personalmente il deputato nazionalista Alfredo Rocco, che lo andò a trovare
a «Il Popolo d’Italia» con un gruppo di importanti esponenti del mondo politico ed
economico, per dirgli che a Roma prevaleva l’idea di un ministero Salandra o Orlando
con lui come ministro dell’Interno. Mussolini replicò che non era più tempo per un
governo Salandra o Orlando, ma intendeva formare un suo ministero, e diede a Rocco
la lista delle persone che intendeva chiamare a farne parte52. Alle 16, Lusignoli telefonò a Facta per riferirgli una telefonata di Mussolini:
«non viene a Roma se non ha espressamente l’incarico di formare lui il Ministero.
Di più mi ha detto che adesso mi manda la lista dei ministri dal deputato Rocco, lista
che ti comunicherò»53. Nello stesso tempo, Lusignoli scriveva a Giolitti per informarlo che le cose stavano
precipitando «in tutta Italia. Qui a Milano con grandi sforzi tento di evitare eccessi
e spargimenti di sangue. Ma la situazione si è improvvisamente aggravata dopo che
Mussolini ha saputo che l’incarico è stato dato a Salandra. Il Mussolini non vuole
assolutamente che Salandra faccia il suo Gabinetto. Egli vuole farlo personalmente,
ed è già pronta una lista di Ministri e Sottosegretari», tra i quali lo stesso Lusignoli,
che però aveva già detto a Mussolini di non poter accettare. A voce, poi, Mussolini
aveva confermato a Lusignoli «che se qualora non fosse possibile una soluzione mussoliniana,
non vi è altra soluzione che quella che fa capo a V.E. Ora, io ho la sicura persuasione
che ogni minuto di ritardo produca danni che possono essere irreparabili». Lusignoli
pertanto sollecitava Giolitti a non sospendere la partenza, come gli era stato telegrafato,
ma a recarsi al più presto a Roma54.
Nonostante l’allusione a un governo con Giolitti come ripiego, Mussolini mantenne
ferma la sua richiesta, che confermò al generale Cittadini, quando gli telefonò alle
17.10 per pregarlo di aderire, «attraverso la garanzia di De Vecchi», all’invito del
re a recarsi a Roma: De Vecchi faceva dire a Mussolini che per ordine del re «e in
pieno accordo con colleghi comando generale prego di venire immediatamente a Roma
con ogni mezzo». Mussolini replicò secco: «Dica a De Vecchi che io non posso muovermi
da Milano se non ho l’incarico ufficioso di comporre il Governo». Circa un’ora dopo,
un incaricato di De Vecchi telefonava a De Bono per fargli sapere che le notizie a
Roma erano «buone, molto buone, la soluzione della crisi sarà indubbiamente orientata
nel senso desiderato» e perciò raccomandava «la massima calma. L’ordine di stato d’assedio
non esiste ed è stato proprio S.M. a non volerlo, quindi le cose non potevano andare
in modo più soddisfacente»55.
L’allusione di De Vecchi a una soluzione che si stava orientando nel senso desiderato,
non si riferiva certamente a un incarico a Mussolini, perché nella notte del 28 il
quadrumviro, con Grandi e Ciano, continuò a manovrare in favore di Salandra. A sera
tarda «Il Giornale d’Italia» pubblicò un’edizione straordinaria per annunciare la
costituzione di un governo Salandra-Mussolini con quattro portafogli ai fascisti:
forse era un’altra manovra per fare pressione su Mussolini. A mezzanotte, Salandra
ricevette De Vecchi, Grandi e Ciano ai quali chiese di intervenire su Mussolini per
fargli avere una risposta definitiva per la mattina successiva56. Fra la mezzanotte del 28 e le prime ore del 29 De Vecchi, Grandi e Ciano fecero
un ultimo tentativo per avere il consenso di Mussolini a un governo Salandra, convincendo
altri deputati e dirigenti fascisti a sostenere la loro richiesta. Riuscirono a mettersi
in contatto telefonico con Mussolini tramite il Viminale, ma la risposta fu sarcastica,
come ha ricordato uno dei presenti, Giovanni Marinelli, segretario amministrativo
del PNF: «Non valeva la pena – disse Mussolini – di mobilitare l’esercito fascista,
di fare una rivoluzione, di avere dei morti, per una soluzione Salandra-Mussolini.
Non accetto». E Marinelli aggiungeva: «Si sentì il colpo secco del ricevitore battere
forte sull’apparecchio»57. La stessa secca risposta diede a Federzoni che all’1.25 del 29 fece un ultimo tentativo
per convincerlo ad accettare il governo Salandra: «Non si tratta di mutilare la vittoria
– disse il nazionalista a Mussolini – ma di affermarci con senso di responsabilità,
di equilibrio e di forza...; questo anche a nome di De Vecchi, Ciano ed altri, e anche
noi che siamo qui presenti». E Mussolini: «io non accetto assolutissimamente questa
soluzione [...] non ho intenzione di andare al governo con Salandra. [...] Piuttosto
che andare con un Ministero Salandra, avrei preferito molto volentieri un Gabinetto
Giolitti»58. E per troncare ogni altro tentativo manovriero per sottrargli il potere che vedeva
ormai a portata di mano, la mattina del 29 ottobre «Il Popolo d’Italia» usciva con
un conciso editoriale di Mussolini, che annunciava la vittoria ormai prossima della
rivoluzione fascista59.
La situazione è questa: gran parte dell’Italia settentrionale è in pieno potere dei
fascisti. Tutta l’Italia centrale, Toscana, Umbria, Marche, Alto Lazio, è tutta occupata
dalle «Camicie Nere». Dove non sono state prese d’assalto le questure e le prefetture,
i fascisti hanno occupato stazioni e poste, cioè i gangli nervosi della vita della
nazione. L’autorità politica – un poco sorpresa e molto sgomentata – non è stata capace
di fronteggiare il movimento, perché un movimento di questo genere non si contiene
e meno ancora si schiaccia. La vittoria si delinea vastissima, tra il consenso quasi
unanime della nazione. Ma la vittoria non può essere mutilata da combinazione dell’ultima
ora. Per arrivare a una transazione Salandra non valeva la pena di mobilitare. Il
Governo dev’essere nettamente fascista.
Il fascismo non abuserà della vittoria ma intende che non venga diminuita – Ciò sia
ben chiaro a tutti. [...] Ogni altra soluzione è da respingersi. [...] L’incoscienza di certi politici di Roma oscilla tra il grottesco e la fatalità. Si
decidano! Il fascismo vuole il potere e lo avrà.
Mussolini era deciso a giocare il tutto per tutto, stroncando definitivamente ogni
manovra dei fascisti «antimarcia», dei nazionalisti, dei conservatori per costringerlo
ad accettare la soluzione Salandra, caldeggiata dal re, dagli alti gradi dell’esercito,
da esponenti autorevoli del mondo politico, economico e industriale. Dopo essere riuscito
a eliminare dalla strada verso il potere Giolitti, Orlando, Facta, Nitti, e anche
D’Annunzio, era impossibile per Mussolini lasciarsi irretire da Salandra, con una
manovra ordita da uno dei quadrumviri della «marcia su Roma» e dal capo di stato maggiore
del comando generale dell’insurrezione fascista. Quando De Vecchi, Grandi e Ciano
fecero un ultimo tentativo, inviandogli un telegramma per dire che il governo Salandra
era voluto dal re, la risposta di Mussolini «arrivò subito, secca, concisa: ‘Fate
pure. Io non parteciperò mai a un simile Ministero. Mussolini’». De Vecchi riferì
la risposta ultimativa di Mussolini a Salandra, il quale disse: «E se io formassi
un Ministero senza i Fascisti?», ma il quadrumviro replicò: «Mi avrebbe contro». De
Vecchi fu poi ricevuto dal re, che gli disse che i fascisti rifiutando il governo
Salandra stavano «commettendo un gravissimo errore», e il quadrumviro rispose che
continuava a pensarla come Salandra ma «Mussolini, però, rifiuta e ci dice che se
vogliamo possiamo entrare senza di lui. In tali condizioni, però, è come non entrare.
In questo momento, quindi, non c’è altra soluzione che una Presidenza Mussolini»60.
La domenica 29 ottobre, alle 9, Salandra andò al Quirinale per rimettere l’incarico.
A mezzogiorno, il direttore del «Corriere della Sera» raccontava in una conversazione
telefonica di aver parlato con Mussolini, assolutamente deciso «a non entrare in un
ministero Salandra, vuol farlo lui e non viene a Roma fino a che non gli sarà dato
l’incarico». Stando così le cose, Albertini riteneva che sarebbe stato bene affrettare
il conferimento dell’incarico a Mussolini, consolandosi al pensiero che, «una volta
venuto a Roma per formare il ministero, si potrà influire su di lui perché faccia
un gabinetto migliore di quello che aveva già annunciato ieri sera. [...] Una volta
che sarà venuto a Roma, si potrà influir molto di più»61. Quest’ultima convinzione era probabilmente l’eco di una presunzione corale di tutta
la classe dirigente liberale, costretta a dover accettare un governo presieduto da
Mussolini, che essa non aveva auspicato, non aveva voluto e aveva fatto il possibile
per evitare.
Nella tarda mattinata, Polverelli e Grandi telefonarono a Mussolini dal Quirinale,
per comunicargli che il re aveva deciso di affidargli l’incarico di costituire il
nuovo Gabinetto, perciò doveva recarsi al più presto a Roma. Mussolini domandò se
la notizia era autentica, ma non si accontentò della loro conferma: «Prima di partire
desidero avere un telegramma di Cittadini in cui mi sia confermata la comunicazione
che mi hai dato. Appena ricevuto il telegramma partirò subito con qualunque mezzo;
anche in aeroplano». Polverelli lo assicurò che la notizia era «assolutamente ufficiale»
perché il re aveva chiamato De Vecchi per dirglielo e De Vecchi aveva incaricato Polverelli
di telefonare a Mussolini. Ma questi, parendogli forse sospetto che non gli avesse
telefonato direttamente De Vecchi, ribadì: «Va bene, va bene. Ma io ho bisogno assoluto
di avere un telegramma di Cittadini. Appena avrò il telegramma parto subito in aeroplano»62. Il telegramma arrivò poco dopo: «Sua Maestà il Re la prega di recarsi subito a Roma
desiderando offrirle l’incarico di formare il Ministero». Ma Mussolini non partì subito
in aeroplano. Non partì subito neanche in treno, rifiutando un treno speciale predisposto
da Lusignoli che partiva alle 15. E prese ancora tempo per varare un’edizione straordinaria
del suo giornale con l’annuncio della vittoria63. Preferì poi viaggiare in vagone letto, con un treno normale, il direttissimo 17,
che partiva dalla stazione centrale di Milano alle 20.30 per giungere a Roma, secondo
l’orario, alle 9.10.
La vittoria di Mussolini era completa, a coronamento di un’impresa che aveva preparato
in una ventina di giorni con straordinaria abilità. «In quei venti giorni – ha scritto
Cesare Rossi che gli fu vicino quotidianamente – Mussolini fu veramente grande nell’arte
di muovere fili. Fece tutti fessi, per dirla volgarmente»64.
Il successo di un’insurrezione
destinata al fallimento
Se Mussolini riuscì a «fare tutti fessi», ciò gli fu possibile non soltanto per la
sua straordinaria abilità di manovratore politico e per la credulità che ebbero nei
suoi confronti astuti e consumati anziani uomini politici, ma perché tutte le abili
manovre del duce si svolgevano mentre era in corso l’insurrezione delle «camicie nere».
Una volta iniziata, l’insurrezione proseguì ovunque, nonostante i draconiani provvedimenti
presi dal governo, ancor prima della proclamazione dello stato d’assedio, come l’arresto
dei capi e dei promotori e l’uso delle armi contro i sediziosi. Le azioni insurrezionali
fasciste avvennero mentre erano in vigore gli ordini che prevedevano, al primo movimento
sedizioso, il passaggio dei poteri dall’autorità politica all’autorità militare: ma
furono pochi i casi in cui ciò valse a prevenire o impedire il moto insurrezionale.
Nessun dirigente fascista fu arrestato. Nei giorni dell’insurrezione, Mussolini fu
spesso in prefettura a Milano: secondo Cesare Rossi, se Lusignoli, nelle prime ore
del mattino del 28, avesse ottemperato agli ordini ricevuti, facendo arrestare Mussolini,
«tutto si sarebbe svolto diversamente»65.
I provvedimenti decisi dal governo prima di deliberare lo stato d’assedio, se rigorosamente
applicati, sarebbero stati sufficienti a stroncare sul nascere i moti insurrezionali.
Nelle poche città dove le autorità politiche e militari furono risolute nel contrastare
l’insurrezione, esse impedirono agli squadristi di occupare prefetture, uffici pubblici,
stazioni ferroviarie e di dare l’assalto alle caserme, senza per questo provocare
una guerra civile né spargimento di sangue, se non in qualche caso, come a Cremona
e a San Ruffillo, vicino Bologna, dove il 29 ottobre due squadristi furono uccisi
dai carabinieri mentre assaltavano la caserma66. Nei giorni della «marcia su Roma», ci furono complessivamente 30 morti di parte
fascista, dei quali 10 a Cremona, 8 a Bologna e in provincia, e 3 a Roma67.
Prefetto di Pavia, 28 ottobre, ore 18.10
Stamattina verso le ore 9.30 avvenuto questo capoluogo improvviso concentramento circa
4000 fascisti di cui varie centinaia armati moschetto, fucili e bombe. Stamane stesso
come avevo già telegrafato codesto Ministero poteri passarono Autorità Militare. Fascisti
tentarono irruzione Prefettura ed altri pubblici uffici, ma forza posta a protezione
impedì che tentativo avesse effetto. Soltanto circa dieci fascisti riuscirono clandestinamente
penetrare edifici provincia passando poi corridoio interno adiacente Prefettura che
resta presidiata da esigua truppa qui disponibile e guardie regie. Mercé opera persuasiva
svolta funzionari, ufficiali forza pubblica evitati conflitti mantenendo ordine pubblico
salvo lievissimi incidenti. Annunziasi per stasera arrivo altri 2000 fascisti. Ho
già chiesto Autorità militare che provveda sollecito sgombro detti dieci fascisti
penetrati adiacenza prefettura68.
Prefetto di Novara, 28 ottobre, ore 18.50
Riassumo notizie mobilitazione fascista anche qui iniziatasi stamane. Fino ore otto
nessun incidente mentre mobilitazione andava intensificando. Ore otto trasmessi poteri
Autorità Militare ed iniziatosi ritiro armi da armaioli e società tiro a segno. Ore
12 occupato qui senza violenza ufficio telegrafico centrale quasi subito sgombrato
e presidiato autorità militari. A Galliate stamane fascisti occuparono adiacenze caserma
carabinieri permanendovi ed inoltre asportarono sette fucili di quella società tiro
a segno. A Pallanza ufficio postale occupato fascisti, ma poi sgombrato e occupato
carabinieri. A Biella occupato da fascisti ufficio telegrafico. Finora nessun’altra
notizia dalla provincia.
Prefetto di Ravenna, 28 ottobre, ore 20.55
Stamattina trascorsa tranquilla. Nel pomeriggio forte colonna fascista inquadrata
sfilò dinanzi palazzo prefettura e commissione chiese, ma non ottenne, essere ricevuta
da me. Fu pure chiesta esposizione bandiere prefettura ma anche questo rifiutai avendo
tale esposizione significato evidente riconoscimento moto diretto contro poteri dello
Stato. Commissione venne più tardi ricevuta dal Generale Comandante Divisione Militare
cui chiese consegna pacifica uffici prefettura per affermare azione fascista. Generale
naturalmente oppose energico e reciso rifiuto avvertendo che avrebbe usato tutti i
mezzi a sua disposizione per impedire violenze. Finora non si è verificato alcun incidente
in città. Da Lugo arrivami notizia occupazione ufficio telefonico da parte fascisti.
Mantengomi continuamente contatto con comandante divisione.
Prefetto di Novara, 28 ottobre, ore 23.30
Questa sera forte gruppo di circa 200 fascisti tentò invadere Prefettura ma tentativo
fu sventato. Nessun’altra novità viene segnalata.
In gran parte delle città coinvolte nel moto insurrezionale, gli squadristi riuscirono
a occupare prefetture, questure, uffici postali e telegrafici, stazioni ferroviarie,
senza incontrare una forte resistenza, anche perché in molti casi la forza pubblica
disponibile era esigua a fronte degli insorti e costretta a cedere. Ci furono anche
numerosi assalti alle caserme della fanteria e dei carabinieri per prelevare le armi,
e assalti alle prigioni per liberare i fascisti arrestati. In quasi tutte le città
dove avvenne l’insurrezione, i dirigenti fascisti locali si recarono a parlamentare
con il prefetto o con il comandante militare per trattare le condizioni per un’occupazione
pacifica, anche soltanto simbolica, degli edifici governativi e degli altri uffici
pubblici. E quasi sempre l’accordo fu raggiunto.
Il movimento insurrezionale ebbe una rapida accelerazione quando si diffuse la notizia
che lo stato d’assedio era stato revocato, e soprattutto quando, fra la sera del 28
e la mattina del 29 ottobre, cominciò a diffondersi la voce di un possibile incarico
a Mussolini. Alle 22.30 del 28 ottobre, il ministero della Guerra comunicava ai comandanti
dei corpi d’armata che dato «l’attuale orientamento verso un probabile Gabinetto Mussolini,
le direttive date ai vari Corpi d’Armata da questo Ministero (Gabinetto) sono di evitare
possibilmente spargimento di sangue, usando mezzi pacifici e persuasivi»69. La repentina revoca di tutti i provvedimenti contro gli insorti, il rapido susseguirsi
di ordini e contro ordini nel giro di poche ore, disorientò le autorità militari,
mentre incoraggiò i fascisti, resi spavaldi dall’impunità, a proseguire l’azione senza
più incontrare alcuna resistenza, ma trattando con le autorità politiche e militari
per procedere a occupazioni pacifiche e simboliche, come l’esposizione del gagliardetto
fascista dal palazzo della prefettura, ma senza rinunciare ad azioni violente o persecutorie,
come la messa al bando o il sequestro di qualche prefetto o questore, devastazioni
di sedi delle organizzazioni dei partiti avversari, imposizione delle dimissioni alle
amministrazioni comunali.
Prefetto di Padova, 29 ottobre
Direttorio fascista recatosi da me comunicavano richiesta fascisti qui concentrati
mio allontanamento da Padova e pregavami assentarmi per qualche giorno scopo evitare
violenze. Essendomi riservata risposta ho consultato generale comandante corpo armata
cui ieri trasmisi poteri P.S. per vedere se era caso rintuzzare imposizione con forza.
Generale dichiaratomi che conflitto causalmente gravissimo non avrebbe evitato violente
rappresaglie mio carico consigliandomi fingere mia urgente chiamata Roma da parte
Ministero per dignità personale Governo. Date queste condizioni non mi resta che per
evitare fatti irreparabili cui conseguenze potevano essere anche[illeg.] nell’interesse del Governo. Presenterommi domani V.E. per maggiori spiegazioni.
Prefetto di Bergamo, 29 ottobre, ore 13.05
Da ieri poteri per mantenimento ordine pubblico questa provincia furono assunti, come
già telegrafai, dall’Autorità militare. La notte scorsa fascisti armati, vincendo
facilmente resistenza forza pubblica, occuparono uffici postali e telegrafici, per
modo che momentaneamente questo capoluogo trovasi completamente isolato. Autorità
disponesi però ricuperare detti uffici colla forza. Rivoltosi armati tentano e talora
riescono a disarmare ufficiali, guardie regie e carabinieri. Appena si riuscirà ristabilire
comunicazioni, riferirò sulla situazione, finora incerta.
Generale comandante Divisione di Ancona, 29 ottobre, ore 18.35
Circa ore dieci 400 fascisti inquadrati militarmente e armati ripartiti in tre gruppi
assalirono contemporaneamente tre caserme Regia Guardia Finanza. Sorpresi pochi uomini
in turno riposo asportarono senza violenza circa sessanta moschetti e poche munizioni.
Comandante circolo procede inchiesta per accertare eventuali responsabilità guardie.
Prefetto ritenendo ciò costituire atto insurrezione ha rimesso poteri autorità militare.
Verso ore 12 fascisti presentatisi caserma Regia Guardia per la P.S. chiedendo armi
non conseguirono intento energico rifiuto Regia Guardia. Fascisti qui convenuti circa
mille vestono loro speciale uniforme percorrono frequentemente città apparentemente
disarmati e ostentano ossequio autorità militare. Popolazione mantiensi estranea movimento
conducendo vita normale. In Fabriano nazionalisti e fascisti hanno posto un presidio
scalo ferroviario e locale Regie Poste e Telegrafi. Ordine pubblico normale. Amministrazione
popolare Ostravetere seguito pressioni fascisti deciso rassegnare dimissioni, nessun
incidente. In Macerata, Fano, Pesaro, Ascoli Piceno cortei fascisti e comizi senza
incidenti. Contegno ufficiali e truppa nulla da segnalare. Ministeri informati.
Prefetto di Genova, 29 ottobre, ore 20.15
Oggi verso ore 16 mentre commissione dirigenti fascisti conferiva con me in ufficio
squadristi di sorpresa in numero rilevante improvvisamente irruppero nel palazzo provincia
dopo colluttazione con RR.GG. e con marinai di guardia disarmo momentaneo di alcuni
di questi ultimi. Commissione che trovavasi presso di me a mie proteste mi diedero
parola d’onore che se avessi fatto esporre bandiera nazionale avrebbero fatto subito
sgombrare cortile palazzo ove erano radunati fascisti. Risposi che bandiera nazionale
ero sempre pronto esporla senza bisogno condizioni. Dopo di che dirigenti fascisti
ritiraronsi facendo opera persuasione presso fascisti di sgombrare cortile. Commissione
quindi si recò comando divisione seguita da fascisti dei quali piccolo nucleo rimase
nel porticato del pianterreno ove hanno sede uffici amministrazione provinciale. Al
comandante della divisione che lo richiese promisero far ritirare in breve tempo anche
questo piccolo nucleo come di fatti già è avvenuto. Uffici Prefetture che hanno sede
piano superiore nello stesso palazzo non furono occupati. Nessun incidente grave.
Prefetto di Como, 30 ottobre
Il 29 verso 10.30, due ore dopo affidamento ordine pubblico militari, numerosi fascisti
convenuti da provincia irruppero nella Prefettura senza incontrare resistenza da parte
truppa, con la quale subito fraternizzarono. Cedendo invito autorità lasciarono Prefettura,
sgombrati anche uffici poste telegrafi telefoni, ma lasciato due incaricati fascisti
con consenso autorità militari. Nel pomeriggio corteo inneggiante re ed esercito.
Nei tre giorni di insurrezione, i fascisti erano riusciti a imporre il loro controllo
in alcune città del Piemonte, in molte città della Valle Padana e in varie città del
Veneto, nella Venezia Giulia, in Liguria, in Toscana, nelle Marche, mentre nelle regioni
meridionali, a parte la Puglia e la Campania, non ci furono significative azioni squadriste.
Non ci furono tentativi di occupazione né a Torino né a Milano. A Torino la mobilitazione
era iniziata nella giornata del 28, «senza però vi sia finora direttiva precisa. Nuclei
fascisti hanno percorso città scortati forza pubblica. Continuano servizi vigilanza.
Presi accordi con autorità militari», riferiva il prefetto la sera del 28. Tre ore
dopo, il prefetto confermava che la città era tranquilla. «Verso 22 forte gruppo fascisti
aveva percorso ordinatamente la città entra stazione Porta nuova senza occupare uffici
e binari, mezz’ora dopo intervento funzionario e pubblica forza abbandonarono e si
sciolsero»70.
A Milano, l’autorità militare mantenne il controllo della situazione, anche se ci
furono momenti di tensione quando gli squadristi, la notte del 28, tentarono di assaltare
la sede dell’«Avanti!» presidiata dalle guardie regie «che con forte azione fuoco
hanno obbligato assalitori resistere loro divisamento. Nel conflitto rimasero feriti
leggermente sette guardie regie e undici fascisti di cui uno gravemente. Verso successive
ore 20 altro nucleo fascisti postelegrafonici hanno occupato senza incidenti locali
poste centrali»71. Altri momenti di tensione ci furono fra squadristi e guardie regie presso le sedi
del Fascio e de «Il Popolo d’Italia», protette con barricate da fascisti armati, e
uno scontro violento fu evitato con l’intervento di Mussolini, che fece retrocedere
gli squadristi di fronte all’irremovibile fermezza del comandante delle guardie regie.
Neanche a Bologna i fascisti riuscirono a occupare la prefettura, ma in provincia
furono occupate varie caserme di carabinieri e nella città gli squadristi capeggiati
dal deputato fascista Leandro Arpinati, comandante della legione bolognese, nel pomeriggio
del 28 fecero irruzione nelle carceri giudiziarie, e «bloccati armata mano ufficiale
esercito addetto a mitragliatrice collocata a difesa cortile carceri e direttore carceri,
impadronironsi chiavi cancello sfondavano porta reparto detenuti fascisti, ne liberarono
34 e allontanavansi poscia asportando le due mitragliatrici e tre fucili dei soldati
mitraglieri»72. La situazione si aggravò nel pomeriggio del 29, quando giunse a Bologna la notizia
che i carabinieri a San Ruffillo avevano ucciso due fascisti mentre tentavano l’assalto
alla caserma; ma con accortezza, e mostrando atteggiamento conciliante verso i fascisti,
il generale che aveva assunto i pieni poteri evitò altri incidenti73.
A Roma, dopo la revoca dello stato d’assedio, ci fu un repentino capovolgimento della
situazione per quanto riguardava la difesa della capitale dai fascisti. Alle 22.30
del 28 ottobre, il comando del corpo d’armata trasmise la seguente comunicazione del
ministero della Guerra: «Dato l’attuale orientamento verso un probabile Gabinetto
Mussolini, le direttive date ai vari Corpi d’Armata da questo Ministero (Gabinetto)
sono di evitare possibilmente spargimento di sangue, usando mezzi pacifici e persuasivi»;
alle 14.30 del 29, il ministro dell’Interno ordinava telefonicamente al generale Pugliese,
il quale ne riferiva al comandante di corpo d’armata mezz’ora dopo, che «data la nuova
situazione, deve assolutamente evitarsi spargimento di sangue». Di conseguenza, alle 15, il generale rendeva noto ai comandi dipendenti che «essendo
variata la situazione, e conseguentemente gli ordini superiori, tutti i reparti dipendenti
del Presidio dovranno astenersi dall’uso delle armi, qualora i fascisti cercassero
di entrare in Roma» e quando fossero giunti ai posti di sbarramento, bisognava inviare
presso di loro «ufficiali superiori adatti a svolgere opera persuasiva, intesa a dimostrare
a detti fascisti, l’assoluta necessità che essi si astengano dall’entrare in città,
in attesa dell’arrivo dell’on. Mussolini, incaricato della formazione del nuovo Ministero»74. Il generale Pugliese obbedì, «costretto a dare un ordine così contrario a quello
precedente, e così mortificante per l’Esercito, il quale, pur essendo padrone della
situazione, doveva, a causa degli ordini del Governo, cercare di svolgere opera di
persuasione presso i fascisti al fine di non turbare quella legalità, che l’Esercito
stesso con la sola dimostrazione della propria forza avrebbe saputo pienamente ristabilire»75.
In questo modo, un’insurrezione che pareva destinata a fallire, sia per gravi difetti
di concezione e di attuazione da parte dei suoi promotori, sia per la scarsa possibilità
di resistere di fronte a una reazione armata della forza legale dello Stato, si avviò
al completo successo, con la conquista del potere.
In regime fascista
Il rifiuto di firmare il decreto dello stato d’assedio, mentre l’insurrezione era
in marcia, consentì al partito fascista di afferrare l’attimo fuggente per conquistare
il potere centrale, senza dovere nulla cedere del potere locale già conquistato, e
senza dover neppure recedere dalle sue pretese e dalle sue ambizioni di Stato in potenza
che sfidava e ricattava uno Stato impotente, che aveva rinunciato a usare la sua forza
legale per reprimere la forza illegale di un esercito di partito, lasciando al duce
del partito armato la prerogativa di dettare le condizioni per la sua ascesa al potere.
La sera del 27 ottobre gli squadristi di Piacenza avevano iniziato l’insurrezione
con un messaggio al prefetto in cui proclamavano: «La città da questo momento è in
regime fascista. I fascisti riconoscono la monarchia e lo Stato e disconoscono il
Governo parlamentare, ritenendolo esautorato, perché non risponde ai sentimenti del
Paese»76. A Bologna, il 28 ottobre, il comando insurrezionale fascista fece affiggere un manifesto
che proclamava l’assunzione del potere nella città da parte della milizia fascista:
«Da questo momento la città e la provincia di Bologna sono sottoposte al controllo
della milizia fascista che ne prende possesso riaffermando propria devozione al Re
e all’Esercito vittorioso e alla Patria. Tutti i servizi pubblici e privati debbono
funzionare regolarmente. I negozi debbono rimanere aperti. Chiunque approfittasse
dell’attuale situazione per rialzare i prezzi delle merci o per turbare in qualsiasi
modo l’andamento della vita cittadina verrà punito in maniera esemplare». Dopo l’uccisione
dei due fascisti a San Ruffillo, Arpinati fece affiggere per la città un manifestino
nel quale affermava che «tutti i carabinieri che circolano per le strade di Bologna
sono responsabili del duplice assassinio di San Ruffillo. I Fascisti hanno l’obbligo
di agire di conseguenza»77.
Contro uno Stato impotente, con la «marcia su Roma» aveva vinto lo Stato in potenza
di un partito armato. Il comportamento dei fascisti nei giorni dell’insurrezione mostrava
chiaramente che essi si consideravano i detentori di un potere irrevocabile al di
sopra della legge, e come tali avevano trattato alla pari con le autorità politiche
e militari, ottenendo così una sorta di legittimazione alla loro pretesa di essere
la milizia della nazione, che poteva impunemente usare la propria forza illegale contro
il legittimo governo parlamentare per imporre l’ascesa al potere del loro duce e il
riconoscimento del predominio privilegiato del partito fascista nello Stato italiano.
Il presidente incaricato partì da Milano alle 20.30 e giunse a Roma il 30 ottobre
alle 10.50, con oltre un’ora di ritardo dovuta alle soste che Mussolini fece lungo
il percorso per rispondere alle manifestazioni che gli squadristi tributarono al loro
duce. A Civitavecchia, il duce sostò per essere acclamato e passare in rassegna gli
squadristi che inneggiavano alla vittoria. Alla stazione della capitale fu accolto
da Bianchi, Acerbo, il prefetto e il questore di Roma. Dopo una breve sosta in albergo,
Mussolini, in camicia nera, si diresse con Bianchi e Acerbo al Quirinale dove arrivò
alle 11.15. Il colloquio col re durò meno di un’ora. La sera, alle 19.20, il nuovo
presidente del Consiglio tornò dal re con la lista dei ministri del suo governo: ne
facevano parte tre ministri fascisti, due popolari, due democratici, un nazionalista,
un demosociale, un liberale, un indipendente e due militari; su diciotto sottosegretari,
nove erano fascisti, quattro popolari, due nazionalisti, due demosociali e un liberale.
Mussolini tenne per sé il ministero degli Esteri e il ministero degli Interni. Bianchi
fu nominato segretario generale agli Interni e De Bono direttore generale della pubblica
sicurezza.
Intanto, le colonne degli squadristi accampati nei dintorni di Roma ebbero finalmente
da Mussolini l’autorizzazione a entrare nella capitale. Il 31 ottobre, con una spettacolare
sfilata durata cinque ore da piazza del Popolo al Quirinale e poi all’Altare della
Patria, i fascisti celebrarono trionfalmente l’avvento del loro duce al governo.
La sera del 31 ottobre, dopo la sfilata di alcune decine di migliaia di camicie nere
provenienti da tutta l’Italia, Mussolini il trionfatore si concesse un momento di
riposo nel suo appartamento all’Hotel Savoia. Sprofondato in una poltrona con i piedi
appoggiati su un’altra poltrona, rilassato, «schietto, calmo, anzi, freddo, umanissimo,
smobilitato», si abbandonò confidenzialmente a pacate riflessioni col suo amico Cesare
Rossi, facendo ad alta voce ragionevoli e oneste considerazioni sui motivi del successo
fascista, sul comportamento degli uomini che avversavano il fascismo e sulle circostanze
propizie che gli avevano consentito di afferrare l’attimo fuggente78.
Bisogna riconoscere che le altrui divisioni ci hanno potentemente aiutato. Ah! Tutti
quei candidati al Governo: Bonomi, De Nicola, Orlando, Giolitti, De Nava, Fera, Meda,
Nitti... Sembrava il disperato appello nominale dei santoni del parlamentarismo in
agonia. E quel povero Facta che apre una crisi ministeriale dopo la nostra adunata
di Napoli?!... Ti raccomando poi la passività dell’antifascismo. Sì, va bene, dopo
lo «sciopero legalitario» quella barca faceva acqua da tutte le parti; l’«Alleanza
del Lavoro» l’aveva portata a picco. Ma, insomma, anche uno scioperetto generale purchessia,
gettato fra le nostre gambe ci avrebbe assai entravés. Certo, se al Governo ci fosse stato Giolitti forse le cose non sarebbero andate
così liscie. Quell’uomo sa dare ai prefetti la sensazione della sicurezza e della
stabilità... Nelle nostre zone, in Toscana, e nella Valle Padana, ci sarebbero state
delle fiere resistenze, ma non so se ce l’avremmo fatta davvero. Quando uno Stato
vuol difendersi può sempre difendersi ed allora esso vince. La verità è che lo Stato
in Italia non esisteva più. Intanto ce n’erano due: il nostro in embrione, e quello
ufficiale che andava per forza d’inerzia, grazie alle scartoffie dei suoi funzionari.
In fondo sono loro che rappresentano la continuità degli Stati a regime parlamentare...
La «marcia su Roma» non era avvenuta come il piano insurrezionale fascista aveva previsto
e immaginato, ma l’insurrezione, denominata con quella mitica formula, aveva avuto
successo e si era conclusa con una vittoria completa. E la vittoria della «marcia
su Roma» non consisteva soltanto nell’incarico conferito a Mussolini, ma fu soprattutto
il consolidamento e l’estensione del dominio del partito fascista, detentore della
forza illegale che aveva consentito al suo duce di pretendere e ottenere dal re quel
che nessuno, fino alla mattina del 29 ottobre, aveva immaginato né pensato di concedergli:
l’ascesa del fascismo al potere non fu il risultato di un compromesso, ma di una resa
dello Stato liberale al ricatto insurrezionale di un partito armato, che in cambio
non concesse altro che generiche e ambigue promesse di restaurare la legalità costituzionale.
Di fatto, la vittoria della «marcia su Roma» esaltò nei fascisti la convinzione di
essere l’unico partito che impersonava la volontà della nazione col diritto di governare
il paese, al di fuori e al di sopra della legge, dello Stato costituzionale e del
regime parlamentare.