Io ci metto la faccia
Abbiamo parlato di vari paesi nei quali il popolo è stato proclamato sovrano nella
Costituzione, ma poi è stato desovranizzato dagli stessi governanti che aveva eletto.
Non mi pare che il popolo di ciò si sia mai doluto, visto che ha rinnovato la fiducia
al capo o ai capi che gli avevano sottratto la sovranità. Questo comportamento farebbe
nascere il dubbio che il popolo non tenga molto alla sua sovranità, né sia risoluto
a difenderla per conservare, con la sovranità, la garanzia di una vita libera e degna
d’essere vissuta. Ho voluto manifestarti questo dubbio perché ho in riserbo per te
una particolare domanda sul popolo sovrano. Ma prima, perché non mi parli del popolo
sovrano in Italia? Comincia anzi col raccontarmi quando è avvenuta in Italia la conquista
del popolo sovrano.
Certo, non è possibile trascurare l’Italia. Anzi le dedicheremo questa conversazione,
perché la mutazione della democrazia rappresentativa in democrazia recitativa ha avuto
nella politica italiana dell’ultimo ventennio un precoce e straordinario esperimento,
che dura tuttora. Tanto che molti osservatori e studiosi della mutazione in corso
nelle democrazie attuali hanno considerato l’esperimento italiano un caso molto istruttivo
per capire quel che sta accadendo o potrebbe accadere alle altre democrazie.
Per soddisfare la tua richiesta, comincio dalla conquista della sovranità popolare
in Italia.
In Italia, il popolo fece la sua prima grande esperienza di sovranità il 2 e il 3
giugno 1946, quando le italiane e gli italiani adulti votarono per decidere con un
referendum se conservare la monarchia o istituire la repubblica, e nello stesso tempo
elessero i deputati all’Assemblea costituente, scelti liberamente fra i candidati
dei vari partiti d’ogni orientamento ideologico e religioso che avevano contribuito
alla lotta contro il regime fascista, alcuni dei quali – come la Democrazia cristiana,
il partito socialista e il partito comunista – adunavano nella loro organizzazione
centinaia di migliaia di militanti.
La campagna elettorale fu turbolenta, ma le votazioni si svolsero nell’ordine e con
entusiasmo, come dimostrò la larghissima e imprevista partecipazione al voto. Gli
elettori furono 28.005.409, pari al 67 per cento della popolazione; la percentuale
dei votanti fu dell’89,1 per cento. Le elettrici furono 1.216.241 in più degli uomini,
anche se le donne elette alla Costituente furono soltanto 21 su 556.
Mai prima di allora il popolo italiano era stato chiamato a decidere sulla fondazione
del suo Stato. I plebisciti con i quali la monarchia sabauda aveva proceduto alla
unificazione della penisola fra il 1859 e il 1861 avevano infatti coinvolto soltanto
una parte esigua della popolazione maschile adulta.
I plebisciti erano comunque un riconoscimento del fatto che lo Stato italiano nasceva
con il consenso, sia pure quasi simbolico, del popolo sovrano. La Costituzione del
Regno non aveva un preambolo all’americana: “Noi, il popolo”, che sancisse la sovranità
popolare?
Dici bene, fu un riconoscimento simbolico, perché l’unificazione fu in realtà il risultato
congiunto dell’abilità politica del liberale Cavour, della forza armata del re del
Piemonte, dell’abilità militare del democratico generale Garibaldi, e dell’entusiasmo
di molti giovani patrioti e patriote, ma non fu conseguenza di una rivoluzione di
popolo come avrebbe voluto Giuseppe Mazzini. Sovrano del regno d’Italia fu il re “per
grazia di Dio e volontà della nazione”, come recitava lo Statuto del Regno di Sardegna
adottato dal nuovo Stato unitario.
Nello Stato italiano la partecipazione elettorale, unicamente maschile, rimase esigua:
solo nel 1912 il voto fu esteso e gli elettori maschi aumentarono da 3.329.47 a 8.672.249.
Nel 1919, dopo la Grande Guerra, alle prime elezioni con suffragio universale maschile
e sistema proporzionale furono chiamate alle urne 11.115.441 persone, ma votarono
solo 5.793.507, pari al 56,6 per cento degli aventi diritto. Nelle successive elezioni
del 1921, già funestate dalla guerriglia civile dello squadrismo fascista, i votanti
furono 6.701.496, pari al 58,4 per cento. Infine, nelle elezioni del 1924, dopo una
riforma elettorale che attribuiva al partito vincente un premio di maggioranza dei
due terzi dei seggi (riforma voluta da Mussolini dopo l’ascesa al potere nell’ottobre
1922), i votanti furono 7.614.451, pari al 63,1 degli elettori.
La libera partecipazione del popolo alla scelta dei governanti fu poi abolita. Le
elezioni per la Camera dei Deputati nel 1929 e nel 1934 furono votazioni plebiscitarie
per dire sì o no alla lista dei candidati fascisti proposta dal Gran Consiglio del
fascismo, il supremo organo costituzionale del regime totalitario. Il fascismo proclamò
la negazione della democrazia, definita da Mussolini un regime che “dà al popolo l’illusione
di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre forze talora irresponsabili
e segrete”. Per il fascismo, il popolo si esprime “nella coscienza e volontà di pochi,
anzi di Uno”. Alla libera partecipazione, il regime sostituì la mobilitazione coatta
di tutta la popolazione – uomini, donne, vecchi e bambini – nelle organizzazioni del
partito unico.
Considerando le precedenti esperienze di elezioni plebiscitarie monarchiche o totalitarie,
le elezioni del giugno 1946 hanno uno straordinario significato storico, perché per
la prima volta le italiane e gli italiani votarono con la coscienza e la dignità di
cittadini liberi ed eguali, ed elessero i rappresentanti ai quali affidarono il compito
di elaborare i principi, i valori, le istituzioni e le regole del loro Stato democratico.
Così facendo, compirono una rivoluzione pacifica per creare una repubblica di cittadini
liberi ed eguali di fronte alla legge. Fu “un miracolo della ragione”, come lo definì
Piero Calamandrei, uno degli artefici della Costituzione italiana.
La libera e cosciente partecipazione delle italiane e degli italiani fu l’atto di
nascita della repubblica democratica “fondata sul lavoro”. Nell’articolo 1 la Costituzione
affermava: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti
della costituzione”. E il popolo era definito nell’articolo 3 come una collettività
di liberi ed eguali: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti
alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere
gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza
dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Ho sentito dire che la stesura finale del testo costituzionale fu rivista da dotti
italianisti, che resero più facilmente comprensibile il linguaggio della Costituzione,
così che tutti i cittadini potessero apprendere direttamente i loro diritti e i loro
doveri nel nuovo Stato, dove essi erano il popolo sovrano.
È vero, i costituenti furono molto attenti allo stile del testo costituzionale. Il
popolo reale, che aveva partecipato direttamente alla elezione dei costituenti, aveva
il diritto di leggere e comprendere il contenuto della Costituzione senza essere costretto
a recarsi in biblioteca per consultare dizionari ed enciclopedie né chiedere spiegazioni
a persone di cultura. Anche se non so quante italiane e italiani abbiano letto la
Costituzione, i costituenti vollero che tutti fossero in grado di leggere e comprendere
quel che c’era scritto.
Questo accadde settant’anni fa, quando un’Assemblea costituente di uomini e donne
che militavano in partiti antagonisti, con grande senso di responsabilità di cittadini
e competenza di giuristi, posero le fondamenta di una repubblica democratica alla
quale affidarono il compito di consentire al popolo italiano “il pieno sviluppo della
persona umana”. E lo fecero pensando, ragionando, discutendo molto animosamente.
Nessuno dei nuovi governanti, mentre elaboravano e approvavano la Costituzione della
Repubblica italiana, disse: “Io ci metto la faccia”.
Cosa intendi dire? Non mi sembra che questa sia un’espressione da usare in riferimento
a un atto così importante, qualcuno direbbe addirittura sacro, come la stesura della
Costituzione, e non capisco però come ti sia venuto in mente di usarla a questo proposito.
L’ho citata perché è divenuta espressione frequente, anzi rituale, nel linguaggio
attuale dei politici e soprattutto dei governanti, quando mirano a convincere il popolo
italiano che essi sono pronti a impegnarsi interamente, mente e corpo, per il bene
comune.
“Io ci metto la faccia” è l’immagine fisica di un impegno che vuole essere non solo
mentale, ma anche morale. Mancare all’impegno significa “perdere la faccia”. E, in
genere, il politico e il governante che dicono “io ci metto la faccia” accusano gli
avversari di “parlare alla pancia della gente”, cioè di eccitare emozioni e passioni
per sfruttarli a proprio vantaggio. Anche la diffusione di questa espressione nel
politichese attuale sembra essere un sintomo stilistico della genesi di una democrazia
recitativa all’italiana.
Ma vedo che stai sorridendo, caro il mio Genio del libro. Cosa ti fa sorridere: i
politici e i governanti che si impegnano di fronte al popolo sovrano dicendo “Io ci
metto la faccia”, oppure l’espressione in sé?
Sorrido perché mi sono ricordato che tu ami molto l’attore Totò, e vedo che negli
scaffali della tua biblioteca hai molti libri di lui e su di lui. E mentre parlavi
e ripetevi quell’espressione a proposito della faccia mi è tornata in mente una sua
battuta, quando nel film Che fine ha fatto Totò Baby? dice: “Volete sapere che faccia faccio? Una facciaccia!”.
Sì, amo molto Totò, perché i suoi film mi hanno fatto compagnia fin dall’infanzia,
e fin dall’infanzia l’ho sentito come un amico; ma non mi pare sia questo il caso
di celiare su un’espressione del linguaggio politico, che rivela secondo me – al pari
dell’espressione “parlare alla pancia della gente”, per citare solo la più frequente
tra le più becere – la profonda mutazione avvenuta nella politica italiana, nella
sua cultura innanzi tutto, e poi nella mentalità, nell’atteggiamento, nel comportamento
e persino nel modo di intendere la democrazia, il popolo sovrano e il ruolo del governante.
L’espressione “Io ci metto la faccia” può essere assunta a emblema della democrazia
recitativa italiana, visto che in una recita la faccia è sempre fondamentale.
A me pare che tu stia ora un po’ esagerando nell’attribuire tanta importanza al significato
di un’espressione che sarà sfuggita a qualche politico o a qualche governante in un
momento di leggerezza discorsiva, magari in una cena fra amici o in qualche comizio
davanti a gente comune, con linguaggio popolaresco, come fanno i venditori al mercato
quando vogliono rassicurare il cliente che non imbrogliano se dicono che la camicia
o il pantalone o la frutta o il pesce o l’utensile che stanno proponendo è il migliore
del mercato.
Non so se te ne rendi conto, ma hai fatto un’osservazione molto appropriata, con la
tua citazione del venditore al mercato. Con un esempio quasi banale hai in realtà
sintetizzato bene quello che molti studiosi delle democrazie malate considerano una
delle principali manifestazioni della malattia stessa, e nello stesso tempo una delle
sue cause. Cioè la trasformazione della comunicazione politica fra i governanti e
il popolo sovrano in una sorta di vendita pubblicitaria. Quanto alla tua obiezione
che si tratti di un’espressione sfuggita dalla bocca di qualche politico o governante
in vena di eloquio popolaresco, hai torto e te lo dimostro con alcuni esempi. Sono
esempi di politici investiti delle più alte cariche dello Stato italiano. Citandoli,
dovrò dire qualcosa sulle vicende politiche di cui sono stati protagonisti, così da
far comprendere al nostro lettore che cito i governanti che hanno avuto e hanno un
ruolo decisivo nella mutazione in corso della democrazia italiana.
Il primo esempio riguarda Silvio Berlusconi, il protagonista principale della politica
italiana dell’ultimo ventennio.
Il 17 maggio 2011, alla vigilia delle elezioni amministrative di Milano, il presidente
del Consiglio Berlusconi, capo indiscusso del Popolo della libertà, che era il maggior
partito del centrodestra, disse: “A Milano, ci metto la faccia solo se serve”. Il
suo partito aveva come principale antagonista il candidato delle sinistre, che alla
fine risultò vincitore. Probabilmente o il presidente del Consiglio pensò di non metterci
la faccia perché era sicuro di perdere, e pertanto non voleva perderci la faccia,
oppure non si rese conto che serviva che lui ci mettesse la faccia per vincere. Sei
mesi dopo, il governo Berlusconi fu costretto alle dimissioni perché il paese era
sull’orlo della bancarotta.
Si concluse così la vicenda governativa quasi ventennale dell’uomo politico più potente
e più influente nella vita italiana fra la fine del secondo e l’inizio del terzo millennio,
sia come proprietario di un vasto impero privato pubblicitario, televisivo ed editoriale,
sia come fondatore e capo del più forte partito del centrodestra, che vantava il primato
della guida di due dei governi più longevi dell’Italia repubblicana. Nessun altro
uomo politico e governante della Repubblica italiana ha dato un impulso così forte
alla personalizzazione della politica, come ha fatto Berlusconi, non esitando a presentare
la propria persona fisica come la corporizzazione del popolo sovrano.
Che abbia usato poco o spesso l’espressione “io ci metto la faccia”, quella di Berlusconi
è stata probabilmente la faccia politica più diffusa in Italia dai tempi di Mussolini:
esposta pubblicamente in enormi manifesti, nei settimanali illustrati e nei programmi
televisivi della sua azienda privata, oltre che nei programmi della televisione di
Stato, sia quando era all’opposizione, sia soprattutto quando era al governo.
Inoltre, negli anni in cui fu presidente del Consiglio, Berlusconi pretese di avere
un’autorità privilegiata nei confronti degli altri organi costituzionali dello Stato
italiano e dello stesso presidente della Repubblica, perché si considerava l’unico
governante che incarnasse la volontà popolare essendo stato l’unico eletto direttamente
dal popolo sovrano.
Berlusconi è stato anche il governante più controverso della storia italiana, soprattutto
per le accuse di frode fiscale, di corruzione e di scandalosi comportamenti quando
ricopriva l’alta carica di governo. Condannato a quattro anni di reclusione il 1°
agosto 2013 con sentenza passata in giudicato, Berlusconi fu interdetto per due anni
dai pubblici uffici e il 27 novembre fu dichiarato decaduto da senatore.
Ma mi risulta che il presidente Berlusconi abbia sempre respinto le accuse, a sua
volta accusando i giudici di essere comunisti e di perseguitarlo per impedirgli di
governare secondo la volontà del popolo che lo aveva eletto.
Non abbiamo tempo di occuparci delle vicissitudini giudiziarie che hanno accompagnato
Berlusconi prima e dopo la sua entrata in politica, creando artificialmente un partito
personale, modellato sulla struttura della sua azienda pubblicitaria, e sostenuto
dalle reti televisive e dai periodici di sua proprietà con una assillante propaganda
quotidiana.
Ma per quel che attiene invece al nostro tema, va detto che Berlusconi, benché condannato
e decaduto da senatore, ha continuato a essere il capo indiscusso del maggior partito
del centrodestra, che ha votato la fiducia sia al governo Monti sia al governo Letta.
Ed è anche opportuno ricordare che Berlusconi ha sempre rivendicato, nei confronti
dei suoi successori alla guida del governo, di essere stato l’ultimo presidente del
Consiglio eletto dal popolo, volendo sottintendere che i tre successivi presidenti
del Consiglio nominati dal capo dello Stato sono in verità usurpatori della sua legittima
investitura popolare alla guida del paese.
Per tutto l’arco della sua carriera politica, Berlusconi ha attuato come pochi la
personalizzazione della politica, facendo coincidere il partito da lui fondato con
la sua persona, la persona con il suo corpo fisico, esibito per prestanza, avvenenza
e rifacimenti estetici, e aureolato di un presunto carisma in massima parte costruito.
Per Berlusconi, la sua persona coincideva con la massa dei suoi elettori, trasfigurati
come incarnazione dell’Italia tutta. Associata alla potenza pubblicitaria e propagandistica
del suo impero mediatico, alla quale si aggiunsero il controllo e l’influenza personale
esercitati sulla radio e soprattutto sulla televisione di Stato, la politica personalizzata
di Berlusconi mirò a personalizzare anche il governo, attraverso ripetuti tentativi
di modificare la Costituzione per concentrare un maggior potere nelle sue mani. Il
fallimento di questi tentativi non ha impedito al suo progetto di personalizzazione
del potere di lasciare una impronta duratura sulla politica italiana, diventando,
sia in Italia sia all’estero, un modello per altri politici aspiranti a un potere
fortemente personalizzato.
Forse, da italiano, attribuisci a Berlusconi una statura internazionale, sia pure
in negativo, che mi pare esagerata. So che all’estero, per certe sue stravaganti esibizioni
e per la nomea dei suoi comportamenti sessuali esibiti anche quando era presidente
del Consiglio, Berlusconi è stato pesantemente criticato con divertito o persino sprezzante
sarcasmo. E dipinto come la solita macchietta del solito teatrino della solita politica
del solito popolo italiano, che non è mai diventato democraticamente maturo, e continua
a lasciarsi incantare dalle esibizioni dell’uomo forte, del duce carismatico, del
fortunato seduttore e del furbo vincitore.
Gli aspetti grotteschi del personaggio Berlusconi hanno alimentato il sarcasmo caricaturale
di molti osservatori stranieri. Tuttavia, al di là della caricatura, ciò che ha sollecitato
l’attenzione degli studiosi stranieri è stato il fenomeno della personalizzazione
della politica e del potere in un potente imprenditore, uno degli uomini più ricchi
d’Italia e nel mondo, proprietario di strumenti per influire sull’opinione pubblica
e manipolare la mentalità e il comportamento di milioni di persone per trasformarli
in consumatori dei suoi prodotti, dai programmi televisivi ai programmi di governo.
Gli effetti del “berlusconismo” sulla trasformazione della democrazia italiana furono
giudicati molto severamente nella valutazione dell’“Economist”, che nell’aprile 2001,
prima delle elezioni politiche, dedicò la copertina a Berlusconi definendolo nel titolo
“inadatto a governare l’Italia”.
Nel rapporto Democracy Index del 2010 si constatava che, col ritorno di Berlusconi al potere nel 2008, la situazione
del sistema di informazione mediatica in Italia “si era notevolmente deteriorata”,
perché “oltre a possedere e controllare Mediaset, che ha tre canali televisivi nazionali,
il signor Berlusconi ha anche il controllo indiretto sulla Rai, l’emittente pubblica.
Rai1, il canale statale con il pubblico più numeroso, ha sistematicamente deciso di
limitare o ignorare del tutto le notizie negative sul signor Berlusconi e sui suoi
più stretti accoliti. Ci sono state inoltre pressioni sulla Rai per cancellare o limitare
alcuni popolari programmi con orientamento a sinistra perché erano critici del signor
Berlusconi e del suo governo”. Per questi motivi, il settimanale inglese degradava
l’Italia dalla categoria delle “democrazie compiute” alla categoria delle “democrazie
difettive”.
Forse la degradazione dell’Italia è stata conseguenza dell’antipatia del settimanale
inglese per il politico italiano, e non andrebbe presa come una valutazione imparziale
ma come una delle tante spocchiose sentenze di pregiudizio di stranieri sull’Italia.
Può darsi. Ma la valutazione negativa dell’esperimento berlusconiano di personalizzazione
del potere è condivisa da altri studiosi stranieri non pregiudizialmente ostili né
all’Italia né al politico italiano, i quali hanno visto nel fenomeno Berlusconi un
rischio per la democrazia. Per esempio, il filosofo liberale tedesco Ralf Dahrendorf,
divenuto cittadino britannico e membro della Camera dei Lords, lo ha definito “oggettivamente”
un rischio per la democrazia:
È la sua natura, più che la sua volontà, che lo porta a rappresentare un rischio per
la democrazia, perché lo spinge ad abusare del suo ruolo duplice di leader politico,
proprietario di media e di un partito che non esisterebbe senza di lui. [...] Questa
pericolosa ambiguità nasce dal fatto di detenere il potere e di controllare allo stesso
tempo un delicato strumento intermediario tra popolo e potere: un impero mediatico.
A mio parere ciò è totalmente contrario all’ordine liberale.
Un altro osservatore straniero, autorevole studioso della storia del sistema politico
dell’Italia contemporanea, il francese Marc Lazar, animato da sentimenti tutt’altro
che polemici, ha scritto che la “persona sulfurea” di Berlusconi ha “provocato rotture
fondamentali” nella politica italiana. “Ormai in Italia la comunicazione mediatica
è essenziale, la personalizzazione svolge un ruolo accresciuto nella sfera pubblica,
il potere esecutivo tende a rafforzarsi. [...] L’Italia è uno dei grandi malati dell’Europa
e la terapia del ‘dottor Berlusconi’ non gli ha permesso di ristabilirsi”, mentre
è certo, per lo studioso francese, che il “momento Berlusconi” ha “verosimilmente
significato un cambiamento completo nell’universo delle rappresentazioni mentali,
se non ideologiche”. Ciò è avvenuto soprattutto nello stile della comunicazione politica
e nel rapporto fra il capo e l’opinione pubblica, fortemente concentrati sulla personalizzazione
come fattore dominante, accompagnata da una semplificazione della cultura politica
a frasi pubblicitarie di sconcertante vacuità, genericità e insulsaggine, ma efficaci
nel suscitare fra il pubblico un consenso emotivo più che razionale, tutto mirato
all’esaltazione del capo.
Lo stile politico berlusconiano, prosegue Lazar, “si propone di fare della politica
una vasta scena, occupata in primo luogo da lui e dai suoi amici, minacciata dalle
macchinazioni sornione dei nemici, agitata dai drammi, dalle gioie, dai sentimenti
che lui stesso, grande direttore di scena, crea per tutte le opere”:
Non c’è dunque niente di sorprendente se il suo messaggio è centrato sulla sua persona,
fino a precipitare in una megalomania accettata consapevolmente: “Non c’è nessuno
sulla scena mondiale che possa pretendere di confrontarsi con me. La mia abilità,
le mie qualità umane, il mio passato sono fuori discussione. Tutti ne parlano come
di un sogno, e spetta a loro dimostrare che sono migliori di me, e non il contrario”.
Chi non è con lui è contro di lui. [...] La comunicazione di Berlusconi non è solo
una questione di discorsi e di messaggi. Essa si estende anche alla sua persona fisica,
perché egli propone il proprio corpo all’identificazione, addirittura all’adorazione.
Comunque, tu stesso hai detto che la carriera politica di Berlusconi di fatto si è
conclusa con la sua espulsione dal Senato. Immagino che i suoi successori, chiamati
a guidare il governo per rimediare ai guasti prodotti dalla lunga gestione berlusconiana,
abbiano intrapreso un risanamento del costume politico, avviando con il popolo sovrano
una relazione meno emotiva e più razionale, più di mente che di corpo, e soprattutto
priva della pretesa che una persona possa incarnare la volontà del popolo soltanto
perché ha una maggioranza elettorale che gli consente di assumere la guida del governo.
In realtà, pur se condannato e decaduto da senatore, come capo di un partito personale che gli
restava comunque fedele con un notevole numero di parlamentari, Berlusconi ha continuato
a far sentire il suo peso. Devi tener presente, per capire quel che accadde dopo le
sue dimissioni, che queste avvennero nel novembre 2011 senza un voto di sfiducia del
Parlamento eletto nel 2008, dove il partito berlusconiano deteneva ancora la maggioranza.
Questo fatto diede a Berlusconi il pretesto per protestare contro un passaggio di
potere che non era stato deciso dalla volontà del popolo sovrano, ma da una manovra
di palazzo. Nonostante ciò, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, prossimo
alla scadenza del suo mandato, decise di conferire al professor Mario Monti, un economista
nominato per l’occasione senatore a vita, l’incarico di formare un governo di tecnici
per salvare l’Italia dalla bancarotta.
Il governo Monti si insediò il 16 novembre con la fiducia di una larga maggioranza parlamentare, compresi il Partito democratico e il Popolo della
libertà. Anche gli italiani accolsero con largo consenso il professor Monti, un economista
di prestigio internazionale, un tecnico di esperienza e competenza, che nella sua
stessa immagine fisica di personaggio sobrio nel linguaggio e nel costume appariva
l’antitesi dell’esuberante, loquace e disinvolto predecessore.
Se i simboli hanno un significato e una funzione pubblica, si può dire che fu oculata
la scelta di una persona così diversa dal politico precedente, e modello per gli italiani
d’uno stile diverso di atteggiamento, di comportamento e soprattutto di cultura politica.
Molti di coloro che non avevano apprezzato lo stile politico del berlusconismo plaudirono
all’avvento del professor Monti. Tuttavia, anche il nuovo presidente del Consiglio
finì col seguire la traccia del predecessore, certo con minori esibizioni ed esuberanza,
ma con lo sforzo di apparire anche lui popolare e a suo modo popolaresco, se non altro
nel modo di rivolgersi al pubblico. Così, anche il sobrio e serio professore sentì
l’esigenza di dire “io ci metto la faccia” sul severo programma di riforme economiche
e sociali che imposero gravi sacrifici agli italiani.
Annunciando il 17 ottobre 2012 un decreto per combattere la corruzione dilagante in
Italia, Monti disse: “io non ho mai usato in vita mia l’espressione ‘metterci la faccia’,
ma lo faccio in questo caso”. Per non essere da meno, il ministro per lo Sviluppo
economico promise il completamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria entro il
2013: “Come in tante altre cose ci metto la faccia”. Alla fine del 2013 l’autostrada
non era ancora finita. Né era finita la corruzione.
Ma l’impegno governativo del professore durò appena un anno. Infatti il 12 dicembre
2012 Monti diede le dimissioni e sei giorni dopo annunciò la decisione di “salire
in politica” (è sua l’espressione), cioè di candidarsi alle elezioni politiche del
2013 con una propria lista, denominata Scelta civica.
Le elezioni si svolsero il 24 e il 25 febbraio 2013. I risultati furono un terremoto.
Prima di tutto, il vincitore principale fu il “partito dell’astensione”, con la più
bassa affluenza alle urne nelle elezioni politiche dell’Italia repubblicana, con oltre
cinque punti percentuali in meno rispetto alle elezioni del 2008 e oltre otto punti
in meno rispetto a quelle del 2006. Il Partito democratico, al quale i sondaggi attribuivano
la vittoria con oltre il 30 per cento dei voti, ottenne alla Camera il 25,5 per cento,
perdendo circa il 30 per cento rispetto alle politiche del 2008. Invece il Popolo
della libertà, che i sondaggi avevano dato in forte calo, pur subendo una notevole
perdita di voti rispetto al 2008, ebbe comunque il 21,3 per cento, grazie al ritorno
sulla scena del vecchio capo ancora capace di riscuotere consensi.
Grande fu la delusione del segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani,
estroso facitore di metafore astruse, che aveva lanciato la campagna elettorale con
la frase: “Dobbiamo smacchiare il giaguaro”, intendendo dire con questo che avrebbe
sconfitto il potente Berlusconi.
La sorpresa più clamorosa fu il successo strepitoso del Movimento 5 Stelle, fondato
dal comico Beppe Grillo nel 2009. Sottovalutato dagli altri partiti e dal presidente
della Repubblica come un effimero movimento di protesta rumorosamente volgare, il
Movimento ottenne il 25,1 per cento alla Camera, dove divenne il secondo partito.
Bersani rassegnò le dimissioni da segretario del Partito democratico perché, dissero
i giornali, aveva “perso la faccia” dopo aver fallito la missione di “smacchiare il
giaguaro”. Al suo posto fu eletto Guglielmo Epifani, un ex sindacalista.
Mi spiace interrompere il tuo racconto delle vicende politiche, ma ancora una volta
citi una frase, “smacchiare il giaguaro”, di un autorevole politico, il segretario
del maggior partito di sinistra, che per me non ha alcun senso e mi domando cosa possano
aver capito gli elettori. Forse è perché non l’hanno capito, che il partito di Bersani
ha perso qualche milione di voti e il partito di Berlusconi non è crollato.
Dovrai abituarti al nuovo linguaggio della politica italiana, al politichese dell’era
berlusconiana e postberlusconiana, che ha già partorito altri estrosi facitori di
nuove metafore per esporre le loro idee e i loro programmi.
Torniamo alle vicende italiane. Alle elezioni seguirono travagliate trattative e intrighi
per formare il nuovo governo. Il 20 aprile il Parlamento elesse di nuovo Napolitano
alla presidenza della Repubblica: era il primo caso di un secondo mandato. Quattro
giorni dopo, il presidente rieletto diede a Enrico Letta, deputato del Partito democratico,
l’incarico di formare un governo di “larghe intese”, con la partecipazione di esponenti
del Partito democratico, del Popolo della libertà e di Scelta civica. Il governo Letta
si insediò il 28 aprile. Nel candidarsi alla segreteria del Partito democratico, Epifani
aveva approvato il governo delle “larghe intese”: “È stato giusto prendere questa
strada. Una strada che non va percorsa con paura, altrimenti non dovevamo metterci
in questa avventura. Mettiamo la nostra faccia in questo governo”.
Ormai in Italia, come vedi, a tutti quelli che fanno politica, e specialmente ai governanti,
scappa sempre più spesso di dire: “io ci metto la faccia”. Anche il presidente del
Consiglio Letta, in un dibattito pubblico, giustificò il governo delle “larghe intese”,
nettamente in contrasto con la volontà espressa dalla maggioranza degli elettori,
e specialmente degli elettori del suo partito, dichiarando: “io sono qui in una situazione
eccezionale, al termine di questa fase riprenderà il confronto bipolare. Ci metto
la faccia e chiedo a tutti coloro che hanno a cuore la buona politica di avere fiducia.
Non ci sono sotterfugi dietro questo nostro tentativo”.
Il governo Letta durò meno di un anno. Una prima crisi lo colpì nel novembre 2013,
quando il presidente del Consiglio si oppose alle dimissioni della ministra della
Giustizia, coinvolta in un caso di telefonata imbarazzante per favorire la scarcerazione
della figlia di un suo amico. “Letta ha sbagliato a metterci la faccia”, commentò
Matteo Renzi, sindaco di Firenze, che l’8 dicembre 2013 fu eletto segretario del Partito
democratico, conquistando una larga maggioranza alla testa di giovani politici rampanti
decisi a “rottamare” – era questo il grido di battaglia di Renzi – i vecchi dirigenti
del partito, con l’ambizione di riformare tutto il paese.
Sembra che tu voglia prendermi in giro con le sorprese del nuovo politichese. Ora
chi ci mette la faccia dice anche che vuole rottamare i vecchi dirigenti. So che rottamare
significa demolire un veicolo e utilizzarne le parti ancora funzionanti. Non capisco
in che senso si possa rottamare la dirigenza di un partito, e neppure penso che sia
questo un linguaggio appropriato a un giovane politico, che aspira a conquistare la
guida di un partito per poi conquistare il governo di un paese come l’Italia, che
vanta letterati di fama mondiale, moltissimi dei quali sono corregionali del sindaco
fiorentino.
Se tu avessi consultato il Nuovissimo vocabolario illustrato della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, avresti letto alla voce “rottame” che in senso
figurato la parola viene usata “a proposito di persona stremata e logorata nel fisico
o nel morale”. Era in questo senso probabilmente che la parola “rottamazione” è stata
usata dal sindaco di Firenze nella battaglia per la conquista del Partito democratico.
Anche i seguaci di Renzi cominciarono a “metterci la faccia”.
Durante la campagna del sindaco di Firenze per la segreteria del partito, una giovane
deputata e sua stretta collaboratrice, Maria Elena Boschi, intervistata sulle riforme
che gli aspiranti governanti intendevano attuare, rispose: “su queste ci metto la
faccia”.
Vinta la “scalata del partito” (come lui stesso la definì), il nuovo segretario promise
un leale sostegno al governo delle “larghe intese”, ma subito cominciò a darsi da
fare per “scalare” anche il governo. Nel gennaio successivo, infatti, avviò personalmente
con Berlusconi una trattativa, il cosiddetto “Patto del Nazareno” (così chiamato dalla
piazza dove è la sede del Partito democratico), per progettare insieme una nuova legge
elettorale e un ampio rifacimento della Costituzione italiana per dotare il presidente
del Consiglio di maggiori poteri e porre fine al cosiddetto “bicameralismo perfetto”
riformando il Senato.
Il primo incontro della trattativa riservatissima fra il decaduto senatore Berlusconi
e il segretario del Partito democratico, che non era un parlamentare, fu preceduto
da un messaggio inviato da Renzi al presidente del Consiglio per rassicurarlo sul
sostegno del partito al suo governo: #enricostaisereno.
Due mesi dopo, preannunciata da riservati colloqui del segretario del Partito democratico
prima col presidente della Repubblica poi col presidente del Consiglio, avvenne la
fine del governo Letta. Il 13 febbraio la direzione del Partito democratico con larghissima
maggioranza approvò la proposta del segretario di proseguire il governo delle “larghe
intese”, ma sostituendo il presidente del Consiglio. Il 22 febbraio si svolse al Quirinale,
con gelida formalità, la cerimonia del passaggio di consegne da Letta a Renzi.
Anche Renzi, divenuto presidente del Consiglio senza essere stato eletto dal popolo
sovrano, iniziò a dire: “io ci metto la faccia” a ogni annuncio e approvazione di
una riforma del suo programma di “rottamazione”, esteso dalla classe dirigente del
suo partito al Senato e a tutto quello che nell’ordinamento costituzionale e nella
legislazione esistente fosse ritenuto da Renzi un ostacolo alla rivoluzione intrapresa
per assicurare all’Italia un governo stabile ed efficiente.
In prossimità del referendum sulla riforma della Costituzione da lui proposta e approvata
dal Parlamento, contenente, fra l’altro, la trasformazione del Senato in organo parlamentare
non più eletto direttamente dal popolo sovrano, il 4 luglio 2016 Renzi ha dichiarato
alla direzione del suo partito: “chi ha paura di confrontarsi con i cittadini vada
a fare altro. Quelli che immaginano di cibarsi di veline e sondaggi che girano in
Transatlantico sappiano che non abbiamo paura di metterci la faccia”.
In molte altre occasioni il presidente-segretario ha detto “io ci metto la faccia”.
Per esempio nel maggio 2014, alla vigilia di una visita ai cantieri per l’Expo di
Milano, mentre sull’esposizione si abbatteva l’inchiesta giudiziaria per un nuovo
scandalo di corruzione, dichiarò che intendeva far proseguire i lavori: “Tutti dicono
‘chi te lo fa fare, perché non ti conviene mischiare la tua faccia pulita con quello
che è accaduto’, ma preferisco rischiare qualche punto nei sondaggi per le elezioni
che investimenti e posti di lavoro”. E subito un giornale riportò la notizia col titolo:
Renzi: Ci metto la faccia. Stop ai delinquenti ma i lavori non si fermano.
In quell’occasione, le parole del presidente del Consiglio ebbero l’eco solidale del
presidente della Repubblica il quale, incontrando al Quirinale una rappresentanza
di volontari impegnati per l’Expo 2015, disse: “Governanti, rappresentanti delle istituzioni,
prima e dopo il 2008, sulla grande carta dell’Expo la faccia ce l’abbiamo messa tutti”.
Anche quando nel 2016 è stato contestato con fischi rumorosi durante un’assemblea
della Confcommercio, il presidente Renzi ha reagito dicendo: “Io ho preso fischi dal
primo giorno e continuerò a prenderli, mettendo la faccia ovunque”.
E come lui, altri governanti e politici dicono continuamente: “io ci metto la faccia”,
per dimostrare al popolo sovrano che sono seri e sinceri quando promettono di operare
per il bene comune. Direi insomma che l’espressione “io ci metto la faccia” potrebbe
diventare l’emblema della personalizzazione della politica e del potere, che sta sostituendo
negli attuali Stati democratici la sovranità del popolo.
Insomma, mi pare evidente che a te proprio non piace sentire un governante dire: “io
ci metto la faccia”. Dovresti essere un po’ più adeguato ai tempi e accettare il linguaggio
innovativo, che tutto sommato può essere anche simpatico e manifestare tante buone
intenzioni.
Non sono contro le innovazioni del linguaggio, ma contro un linguaggio alquanto becero
che degrada la cultura e la comunicazione politica alla stregua d’una vendita al mercato.
“Io ci metto la faccia”, al di là delle buone intenzioni del governante e del politico
che ce la mette, è la manifestazione di un impoverimento del linguaggio politico,
che lascia trapelare una più generale decadenza della cultura politica, del senso
civico, del senso dello Stato, del governo e della stessa democrazia rappresentativa,
quasi fosse ridotta a una faccenda personale. “Alla faccia” – permettimi di dirlo
– del popolo sovrano.
Forse tu hai ragione nell’assumere l’espressione “io ci metto la faccia” a emblema
di una personalizzazione della politica e del potere da parte di governanti democratici
che non sembrano avere lo stile di un Roosevelt, di un Churchill o di un de Gaulle,
i quali in fatto di personalizzazione sia della politica sia del potere non erano
certo da meno dei politici e governanti italiani. Ma pensi che basti questa carenza
di stile per parlare addirittura di decadenza del senso dello Stato e della democrazia?
Certo che non basta. Così come, parlando della decadenza del senso dello Stato e della
democrazia non mi riferisco soltanto ai politici e ai governanti. È purtroppo un atteggiamento
che sembra oggi diffuso fra la maggioranza della popolazione italiana, che nei confronti
delle istituzioni democratiche, del governo, del Parlamento, della classe politica,
dei partiti mostra la stessa sfiducia rilevata in altre democrazie occidentali dove
il “demos è assente” e i cittadini sono “non-sovrani”, adottando comportamenti conseguenti: abbandono dei partiti, indifferenza,
denigrazione e disprezzo per la classe politica e per la politica in generale, astensione
dalle elezioni.
Alcuni dati basteranno a mostrarti lo stato di salute dello Stato democratico in
Italia, che nel 2011 ha celebrato i suoi centocinquant’anni di vita come Stato, e
nel 2016 ha festeggiato i settant’anni come repubblica democratica. Il dato più rilevante
è il costante calo della già debole fiducia degli italiani nelle istituzioni: fra
il 2010 e il 2014, la fiducia nello Stato è scesa dal 30 al 15 per cento; nel Parlamento,
dal 13 al 7 per cento; quella nel presidente della Repubblica è precipitata dal 71
al 44 per cento, e nella magistratura dal 50 al 33 per cento; è scesa anche, pur rimanendo
alta, la fiducia nelle forze dell’ordine dal 74 al 67 per cento; e al punto più basso
della fiducia degli italiani erano i partiti, scesi dall’8 al 3 per cento. Nel 2015
c’è stata una lieve ripresa di fiducia, pur rimanendo quasi per tutte le istituzioni
al di sotto del 50 per cento: per lo Stato, la fiducia è risalita al 22 per cento;
per il presidente della Repubblica al 49 per cento; per le forze dell’ordine al 68
per cento; per il Parlamento al 10 per cento, e persino per i partiti al 5 per cento,
mentre è calata al 31 per cento la fiducia nella magistratura.
Non pensi che questo recupero della fiducia sia un segno di ripresa della democrazia
italiana, e che potrebbe essere l’inizio di un miglioramento nei rapporti fra il popolo
sovrano e i governanti, la classe politica, le istituzioni democratiche?
Ogni sia pur lieve aumento della fiducia nella democrazia rappresentativa e nei governanti
è atteso in Italia come l’annuncio di una svolta, dopo quasi quarant’anni di una lunga
transizione senza meta, che ho descritto sei anni fa nel saggio Né Stato né Nazione. Italiani senza meta, pubblicato alla vigilia delle celebrazioni dell’Unità d’Italia. In una nuova edizione,
tre anni dopo, scrissi nelle Conclusioni: “non si può escludere che gli italiani e le italiane, vergognandosi delle malsane
condizioni del loro Stato degradato, possano essere nuovamente capaci di rinnovare
la simbiosi fra italianità, unità e libertà e costruire finalmente uno Stato nazionale
di cittadini liberi ed eguali, del quale essere fieri non per orgoglio, ma per dignità”.
Come vedi, sono tutt’altro che afflitto da pessimismo cronico. Purtroppo è la realtà
che si diverte a deludere le speranze, come spesso avviene nella vita. Io penso che
la speranza sia l’ultima a morire, come dice il proverbio: se non l’ammazzano prima,
aggiungo io.
I sintomi di ripresa della fiducia contrastano purtroppo con altri dati, i quali confermano
che il senso di alienazione del popolo sovrano dalla democrazia rappresentativa, dai
governanti e dalle istituzioni è rimasto, o addirittura è cresciuto, come dimostra
la costante tendenza all’astensionismo elettorale, che si è accelerata proprio negli
ultimi anni, nonostante i lievi segni di crescita della fiducia. Nelle elezioni politiche
del 2013, come ho già ricordato, l’affluenza alle urne è stata la più bassa in tutta
la storia della Repubblica, calata al 75,2 per cento rispetto al 94 per cento degli
anni Cinquanta. Nelle elezioni europee del 2014, l’affluenza è crollata dall’86 per
cento nel 1979 al 58 per cento. Nelle elezioni regionali parziali dello stesso anno
l’astensionismo ha sfiorato il 60 per cento. Persino in una delle regioni italiane
considerate fra le più dotate di tradizione civica, l’Emilia Romagna, in quell’occasione
ha votato appena il 37,7 per cento degli elettori, mentre quattro anni prima si era
recato alle urne il 68 per cento.
Se le elezioni sono l’unica forma di espressione concreta della sovranità popolare,
dobbiamo concludere che nella condizione attuale della democrazia italiana una larga
maggioranza del popolo non esercità la sua sovranità, mentre una legge elettorale
definita Porcellum (una porcata) dal suo stesso inventore, benché dichiarata incostituzionale dalla
Corte costituzionale, ha portato in Parlamento una classe politica votata dagli elettori
ma nominata dalle oligarchie di partiti, diventati sempre più “partiti personali”
o personalizzati. Contemporaneamente, il comportamento dei parlamentari – sui quali
si abbattono con frequenza quasi quotidiana le accuse di corruzione, accumulo di benefici
da “casta” intoccabile, disprezzo per la volontà dell’elettore – sembra rinnovare,
in tempi di immigrazione verso il nostro paese, la tradizione migrante degli italiani:
infatti, sono stati oltre duecentocinquanta (e il numero sembra destinato ad aumentare)
i deputati e i senatori che, nei primi tre anni della attuale legislatura, sono passati
da un partito all’altro, da un gruppo all’altro, da una maggioranza all’altra, contribuendo
a rendere il governo simile a una barca che galleggia e naviga a vista, guidata da
un capitano che per rimanere saldo al comando recluta marinai dove capita e li obbliga,
con continui voti di fiducia, nella scia dei suoi predecessori, a seguire la rotta
che egli vuole verso una meta tuttora ignota.
Come vedi, non è solo per questioni di stile o di linguaggio se penso che il popolo sovrano in Italia si senta in larghissima parte ormai desovranizzato
da istituzioni democratiche nelle quali non ha più fiducia.
Mentre ti ascoltavo, a me che sono un Genio del libro che non vive imprigionato nelle
biblioteche, è tornata in mente una canzone scritta all’inizio del ventennio berlusconiano
da Giorgio Gaber, che considero un cantante, poeta e filosofo dotato di straordinaria
preveggenza. Direi infatti che egli ha previsto molto prima di te la trasformazione
della democrazia parlamentare in democrazia recitativa, l’avvento dei politici che
dicono “io ci metto la faccia”, e l’alienazione del popolo sovrano da parte di “tutti
quelli – dice Gaber – che fanno il mestiere della politica, che ogni giorno sono lì
a farsi vedere”: “Ma certo, hanno bisogno di noi, che li dobbiamo appoggiare, preferire,
li dobbiamo votare, in questo ignobile carosello, in questo grande libero mercato
delle facce. Facce facce… […] E voi credete ancora che contino le idee. Ma quali idee?”
Hai ragione a dire che Gaber aveva previsto la democrazia recitativa. Ma, per non
essere accusati di predicare l’antipolitica, diciamo che non tutti i politici hanno
le facce che lui descrive né tutti pensano di sedurre il popolo sovrano dicendogli
“io ci metto la faccia”. Ma il numero di questi ultimi non è certo irrilevante.
Tuttavia, per concludere sul nuovo linguaggio politico italiano, mi limito a ricordarti,
caro Genio del libro, e mi piacerebbe poterlo ricordare anche ai parlamentari e ai
governanti italiani, che quando essi dichiarano di assumere un impegno davanti al
popolo sovrano, dovrebbero metterci non la faccia, ma la dignità, la cultura, la competenza,
l’onestà. E soprattutto la fedeltà alla Costituzione sulla quale hanno giurato. La
quale prescrive che non con “la faccia”, ma “con disciplina ed onore”, il cittadino
deve adempiere la funzione pubblica che gli è stata affidata dal popolo sovrano.