Alessandro Barbero insegna Storia medievale presso l'Università del Piemonte Orientale, sede di Vercelli. Con Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo, ha vinto il Premio Strega 1996. Tra le sue opere per Laterza: Dizionario del Medioevo (con Chiara Frugoni); Medioevo. Storia di voci, racconto di immagini (con Chiara Frugoni); Il ducato di Savoia; La battaglia. Storia di Waterloo; 9 agosto 378 il giorno dei barbari; Barbari. Immigrati; profughi, deportati nell'impero romano; Terre d'acqua. I vercellesi all'epoca delle crociate; Benedette guerre. Crociate e jihad; Lepanto. La battaglia dei tre imperi; I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle; Donne, Madonne, mercanti e cavalieri. Sei storie medievali; Le parole del papa. Da Gregorio VII a Francesco; Caporetto; Dante.
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
La società in cui vissero i figli di Guglielmo il Vecchio era attraversata da una profonda tensione fra la durezza della competizione per la vita, la ricchezza e il successo, e il bisogno di ideali capaci di attribuire un senso più alto all’esistenza. L’entusiasmo suscitato dai cistercensi, con la loro faticosa scelta della povertà e della solitudine, era una delle forme in cui si manifestò quella tensione, anche se poi proprio il successo che incontravano e la crescita inarrestabile del loro ordine entravano in contraddizione con gli ideali che i monaci bianchi si sforzavano di incarnare. Un’altra forma è la popolarità della poesia cavalleresca, con le canzoni dei trovatori che girano per tutta la Cristianità esaltando i principi prodi in guerra e generosi coi loro fedeli, insultando i pavidi e gli avari, trasfigurando in imprese memorabili le scaramucce brutali combattute per sorprendere un castello o per vendicare uno sfregio, e trasformando in gioco erotico, leggero e raffinato, la cruda realtà degli accordi matrimoniali e della competizione per le ereditiere. Una misura della fama internazionale di cui godevano i marchesi di Monferrato è data proprio dal fatto che i loro nomi sono fra quelli che ricorrono più di frequente nelle canzoni; che dalla Provenza, dove è stata inventata qualche tempo prima questa nuova arte e che continua a conservarne il segreto, i trovatori in cerca di guadagno si spingono volentieri fino al Monferrato, per mettere alla prova la generosità dei marchesi.
Non è soltanto l’adesione spontanea ai modelli di ostentazione in cui sono stati allevati che spinge i figli di Guglielmo il Vecchio (non lui, forse troppo vecchio, davvero, per queste cose nel momento in cui diventano di moda anche in Italia) a proteggere i trovatori, con tanta larghezza che qualcuno di costoro, e fra i più famosi, si ferma stabilmente alla loro corte, riceve dalle loro mani l’addobbamento cavalleresco, e li accompagna nelle imprese d’oltremare insieme al gruppo ristretto dei fedelissimi. Essere amati dai trovatori è anche una questione d’immagine, una carta preziosa da giocare per chi intende svolgere un ruolo politico sullo scenario internazionale, e coltiva ambizioni che inevitabilmente portano a scontrarsi con una durissima concorrenza. La prova di quanto i marchesi di Monferrato abbiano creduto fino in fondo a una reinvenzione del proprio ruolo sulla scena mediterranea, a partire dal momento in cui la battaglia di Legnano dimostrò che non c’era futuro per chi limitava i propri orizzonti alla Pianura Padana, sta proprio nella precocità con cui, primi fra i principi d’Italia, i loro nomi ricorrono nella poesia provenzale giunta fino a noi.
Già Guglielmo Lungaspada aveva tra i suoi seguaci un trovatore, Peire Bremon, che dopo la sua partenza per Gerusalemme gli invia una canzone «Outramar»: e siamo nel 1176-1177, quando la poesia provenzale ancora non ha praticamente cominciato a penetrare in Italia. Due canzoni sono dedicate a Corrado durante le sue imprese in Terrasanta, e una in particolare, del celeberrimo Bertran de Born, ha un impatto politico e propagandistico particolarmente evidente. Il trovatore comincia affermando che si sa, finalmente, chi sia l’uomo più valoroso del mondo: è «Messers Conratz» che sta difendendo Tiro dal Saladino (ma in questo mondo che ama le convenzioni raffinate perfino l’arcinemico è trattato con rispetto: è «En Saladi», il «signor Saladino»). Bertran prosegue sfottendo i re di Francia e d’Inghilterra che da un pezzo hanno preso la croce e ancora non si sono mossi; e conclude inviando la canzone oltremare «al rei Conrat», anticipando dunque con disinvoltura quell’elezione al trono di Gerusalemme che a quella data non c’era ancora stata, ma a cui evidentemente si stava già preparando l’opinione pubblica.
Scomparso tragicamente anche Corrado, l’uomo intorno a cui i trovatori tornano ad affollarsi, dando il tono alla sua corte, creando letteralmente la sua immagine eroica e diffondendola sul piano internazionale ben prima che sia impegnato in grandi imprese mediterranee, è l’ultimo sopravvissuto dei quattro fratelli, Bonifacio. Sono ben trentatré le canzoni provenzali dedicate a lui, e almeno uno fra i trovatori più famosi di tutti i tempi, Raimbaut de Vaqueiras, appartenne stabilmente al suo entourage, condividendo con lui i piaceri della vita di corte e quelli della guerra. Nelle sue canzoni i lunghi anni in cui Bonifacio si incaricò della difesa del principato di famiglia, accanto al padre sempre più vecchio e, poi, da solo, mentre i suoi fratelli partivano uno dopo l’altro incontro al loro destino, sono trasfigurati dalla luce dell’epopea. Le faticose cavalcate attraverso le colline dell’Astigiano o gli acquitrini del Vercellese, le scaramucce brevi e feroci con i milites dei comuni nemici, le case dei contadini bruciate e i buoi portati via, i negoziati logoranti e gli intrighi pericolosi alla corte del Barbarossa e poi, dopo la sua partenza per la crociata, a quella di suo figlio Enrico VI, il lungo viaggio al seguito di quest’ultimo per la presa di possesso del regno di Sicilia, gli scontri violenti di Messina e poi il fasto dell’incoronazione a Palermo: tutta la vita di Bonifacio in quegli anni fu un alternarsi di successi e frustrazioni, non troppo dissimile da quella di qualunque altro grande barone; ma nelle canzoni di Raimbaut di Vaqueiras tutto si tramuta in meravigliosa, fiabesca avventura.
È soprattutto grazie a questa straordinaria copertura mediatica che il grido di guerra dei marchesi, «Montferrat!», divenne famoso in tutta la Cristianità. E così la vita di Bonifacio, a un certo punto, ebbe una svolta clamorosa, che lo portò a operare (com’era già accaduto ai suoi fratelli; ma più a lungo e, tutto sommato, con più successo di loro) in orizzonti internazionali in confronto ai quali il Monferrato scompariva. Perché quando, nell’estate 1201, i principi e i baroni francesi che avevano preso la croce sospinti dall’instancabile papa Innocenzo III e si preparavano a partire per la Terrasanta si riunirono per eleggere un capo che li guidasse, Geoffroy de Villehardouin poté alzarsi in mezzo a loro e cominciare il suo discorso così: «Signori, ascoltatemi; io vi consiglierei una cosa, se siete d’accordo. Il marchese Bonifacio di Monferrato è un uomo molto valoroso e uno dei più famosi che vivano al tempo nostro...».
Quella nuova crociata, la quarta, era stata voluta da Innocenzo III subito dopo la sua elezione al trono di Pietro, nei primi mesi del 1198. Dopo il successo soltanto parziale della terza, che aveva sì salvato quel che restava del regno di Gerusalemme dall’annientamento, ma non era riuscita a riconquistare il Santo Sepolcro, la necessità di una nuova spedizione era evidente a tutti; ma soltanto allora, sei anni dopo, si erano presentate le condizioni politiche favorevoli: un nuovo papa giovane e pieno di energia, e una situazione di stallo in Germania che per la prima volta a memoria d’uomo, grazie alla morte improvvisa dell’imperatore Enrico VI a Messina alla fine del 1197 e alla minore età di suo figlio Federico II, faceva del papa l’unica e indiscussa autorità suprema della Cristianità latina. Innocenzo III, dunque, aveva bandito la crociata, e avviato l’enorme mobilitazione morale e materiale necessaria per radunare un esercito e trasportarlo oltremare.
Fra il 1198 e il 1201, mentre Bonifacio di Monferrato, tornato anch’egli da Messina, riprendeva a guerreggiare con scarso successo contro Asti, e poi si rassegnava ad avviare negoziati di pace con l’odiato comune, numerosi principi francesi presero la croce, capeggiati dal conte di Champagne, che era allora potente quasi quanto il re di Francia; e nella Quaresima del 1201 la pianificazione dell’impresa era così avanzata che inviati dei crociati (fra cui quel Geoffroy de Villehardouin che era uno dei maggiori vassalli del conte di Champagne e che ci ha lasciato un memorabile resoconto dell’impresa) cavalcarono fino a Venezia per negoziare i costi del passaggio oltremare. Dopo una lunga contrattazione si giunse all’accordo, e si decise che il giorno di San Giovanni dell’anno seguente, 1202, i pellegrini (giacché così preferivano chiamarsi, piuttosto che crociati) si sarebbero radunati a Venezia, dove una flotta di circa 200 legni li avrebbe attesi per portarli in Terrasanta.
Ma ritornando in Champagne, Geoffroy de Villehardouin trovò il suo signore, il conte Thibaut, inchiodato a letto dalla malattia; e il 24 maggio 1201 il leader designato della crociata moriva, ad appena venticinque anni. Diversi altri principi, contattati perché prendessero il suo posto, rifiutarono di assumersi quella responsabilità; finché i crociati, radunati a Soissons, decisero di offrirla a Bonifacio di Monferrato. Ricevute le loro lettere, il marchese partì per la Francia, andò a consigliarsi con il re, «che era suo cugino», come annota con rispetto Villehardouin, e prima della fine dell’estate si presentò a Soissons a una nuova assemblea, o parlamento, come si diceva allora. C’erano con lui, ci informa ancor sempre Villehardouin, «due abati bianchi che aveva portato dal suo paese»; ed erano certamente l’abate di Tiglieto, di cui sappiamo però poco di più, e quello di Lucedio, Pietro, di cui invece avremo ancora molto da dire.
I cistercensi erano da sempre una delle forze maggiormente coinvolte nella promozione delle crociate, fin da quando Bernardo di Clairvaux si era impegnato anima e corpo nell’organizzazione della seconda. D’altra parte l’abate Pietro di Lucedio, appartenente alla famiglia vercellese dei signori di Magnano, si era affermato da tempo come uno degli ecclesiastici più influenti in Lombardia. Già molte volte il papa lo aveva nominato membro di commissioni arbitrali incaricate di giudicare litigi fra enti ecclesiastici, e talvolta anche fra comuni cittadini; era il modo con cui i pontefici, non disponendo ancora di un articolato apparato di governo, facevano sentire la propria autorità sul territorio, ed essere nominati in queste commissioni significava svolgere un ruolo politico di estrema visibilità (a Pietro di Lucedio capitò di giudicare cause in cui erano coinvolti ad esempio l’arcivescovo di Genova, il monastero e la basilica milanese di Sant’Ambrogio, il vescovo di Tortona e il maestro dei Templari in Lombardia, o i comuni di Parma e Piacenza). Pietro era certamente un uomo di grandi capacità, ma è un fatto che per i monaci bianchi di Cîteaux si stava ripetendo il meccanismo che già aveva inguaiato i loro rivali, i monaci neri di Cluny: il loro stesso successo ne faceva degli interlocutori indispensabili per il potere politico, e impediva di fatto di realizzare quell’ideale di solitudine e distacco dal mondo cui s’erano ispirati, appannando il fascino che in un primo tempo avevano saputo esercitare sull’opinione pubblica.
Quando immaginiamo i monaci di Lucedio nella loro routine quotidiana di lavoro e preghiera, i conversi intenti nell’amministrazione delle grange loro affidate, i contadini e i pastori che lavoravano per loro, e il ritmo monotono con cui le loro greggi transumavano ogni primavera verso le Alpi, per poi tornare nell’autunno ai pascoli lungo il Po, dobbiamo insomma evitare l’errore di immaginare che tutto questo avvenisse in un angolo di mondo sperduto e lontano da tutto, e in un tempo ciclico e sempre uguale. Non solo perché dalla pianura delle grange, nelle giornate serene d’inverno, si vede la cerchia delle Alpi luccicanti di neve, così vicine che sembra di toccarle, e chiunque le vedesse, allora, sapeva che al di là di quelle montagne c’erano altri paesi, altri monasteri, altri re, e poteva organizzare intorno a quell’immagine la propria concezione del mondo: ma perché la quiete della routine era interrotta fin troppo spesso dall’arrivo d’un corriere venuto fin lì a Lucedio, risalendo la via Romea dei pellegrini, a portare una lettera del papa, e fin troppo spesso la comunità dei monaci si trovava a lavorare e pregare senza la guida del suo abate, impegnato a discutere una causa importante in qualche città del Nord Italia.
Mentre godeva della piena fiducia del papa, l’abate di Lucedio restava legato a doppio filo al marchese di Monferrato, dalla cui protezione dipendeva nel concreto la tranquillità del monastero, coi suoi possessi, i suoi dipendenti e il suo bestiame. E anche questo è un capolavoro di abilità politica, perché legami di questo genere erano rischiosi e anzi potevano addirittura tradursi in comportamenti illegali. Capitò anche a Pietro di Lucedio di andare troppo oltre e farsi riprendere: nel 1193 il capitolo generale dell’ordine cistercense gli inflisse una sanzione disciplinare (tre giorni di penitenza, di cui uno a pane e acqua) perché aveva accettato di prestare la sua fideiussione al marchese di Monferrato in una faccenda puramente secolare, un comportamento proibito per i monaci, a cui era vietato giurare. Ma quando attraversò le Alpi e accompagnò il marchese fino al parlamento di Soissons, nell’estate del 1201, Pietro sapeva di non correre alcun rischio del genere: e quando, insieme ad altri religiosi, gli cucì la croce sulla spalla nella chiesa di Notre-Dame di Soissons, sparì ogni contraddizione fra gli obblighi della sua vocazione monastica e la sua fedeltà alla dinastia. Pochi giorni dopo, il 14 settembre, festa dell’Esaltazione della Santa Croce, il marchese di Monferrato partecipò insieme a lui al capitolo generale di Cîteaux, in un clima ben diverso da quello che otto anni prima aveva visto criticare l’abate di Lucedio per i suoi rapporti troppo stretti con lui.
L’elezione di Bonifacio a capo dei crociati fu accolta con entusiasmo dai trovatori della sua cerchia. Ora si vede, esulta Raimbaut de Vaqueiras, che alla fine Dio ricompensa chi lo merita; e noi intravvediamo in questi versi il contrasto fra la frustrazione di tanti anni di guerra logorante per tenere a bada gli astigiani o i vercellesi, e l’improvvisa proiezione internazionale che ha trasformato Bonifacio nel più famoso di tutti i principi cristiani. E giustamente, conclude il trovatore: perché «all’onorato marchese Dio ha dato potenza / di buoni vassalli e di terra e di avere / e di cuore grande, per compiere meglio il suo dovere». Un altro trovatore tra i più famosi, Peire Vidal, garantisce il Paradiso a «quelli che andranno col marchese / oltre il mare, per servire Dio», e paragona favorevolmente Bonifacio ai re cristiani che invece esitano a unirsi all’impresa.
Ma per prepararsi a una spedizione del genere non bastava l’entusiasmo; occorreva prendere in prestito molto denaro, ottenere garanzie dai potenti comuni vicini con cui si era così spesso combattuto, convincere con un paziente lavoro un numero adeguato di vassalli a partire insieme al loro signore, comprare cavalli e assumere gente. Mesi e mesi di lavoro paziente, e qualche volta anche frustrante, per Bonifacio, se non fosse stato sostenuto dall’entusiasmo che respirava intorno a sé, e dalla presenza di Pietro di Lucedio che intravvediamo qualche volta al suo fianco; lavoro reso ancora più faticoso dai lunghi viaggi che il marchese compì in quei mesi in Germania e poi a Roma, per concordare col candidato al trono imperiale, Filippo di Svevia (che era poi suo cugino) e col papa Innocenzo III i dettagli politici e finanziari della spedizione.
Per gli abitanti delle terre d’acqua, quei mesi comportarono qualcosa di più dell’eccitazione d’una grande impresa che si preparava, e a cui qualcuno di loro avrebbe certamente partecipato, che fosse il figlio d’uno dei notabili di Trino deciso a prendere la croce, o semplicemente uno dei tanti uomini di fatica che trovarono lavoro nella spedizione. È precisamente in quel momento, e per finanziare la sua partenza, che il marchese Bonifacio vendette al comune di Vercelli, per 7.000 lire pavesi, tutto ciò che possedeva «nel luogo di Trino», e in generale nella foresta di Lucedio, trasferendo di colpo tutti gli abitanti della zona dalla sua sovranità a quella del comune cittadino. Ed è singolare constatare come ancora una volta, grazie al ruolo cruciale giocato dai marchesi di Monferrato, una grande vicenda di respiro internazionale si ripercuotesse con puntuali conseguenze sulla vita locale di Trino e delle terre d’acqua.
La vendita di Trino è del 16 maggio 1202, poco più d’un mese prima dell’appuntamento che era stato fissato a Venezia per il giorno di San Giovanni Battista. A quella data, i crociati stavano già affluendo al grande porto, nell’inevitabile disordine d’una spedizione che aveva, sì, eletto un capo militare comune, ma dove ogni barone poi interveniva con la propria gente, a proprie spese e dunque con larga autonomia (benché l’organizzazione veneziana, in confronto efficientissima, avesse preparato alloggi per tutti nell’isola di San Nicolò, come allora si chiamava quello che oggi è il Lido). Ci volle un po’ prima di accorgersi che non tutti i conti tornavano: forse era partita meno gente di quel che s’era creduto, benché la spedizione fosse pur sempre imponente; qualche contingente, poi, aveva deciso d’imbarcarsi da altri porti più comodi, come Marsiglia («per cui ricevettero grande onta, e molto furono biasimati, e gli avvenne poi gran disavventura», deplora Villehardouin); fatto sta che alla fine a Venezia si radunarono meno uomini e meno cavalli di quelli che la flotta veneziana s’era preparata a traghettare – e le loro risorse e il loro credito non furono sufficienti per mettere insieme l’enorme somma di 85.000 marchi d’argento, che era stata concordata con il doge come prezzo forfettario del trasporto. Poiché gli accordi parlavano chiaro, e i veneziani avevano già sostenuto forti spese per costruire le navi, non fu possibile semplicemente accordarsi per una riduzione del prezzo; e la spedizione rischiò di arenarsi prima ancora di salpare.
La soluzione che i leader della crociata, compreso Bonifacio di Monferrato, finirono per trovare a questo incaglio provocò una delle vicende più straordinarie, e più tragiche, nella storia della Cristianità. Il doge Enrico Dandolo concordò coi baroni che l’esercito crociato avrebbe aiutato i veneziani a riconquistare la città di Zara, sulla costa adriatica, che era stata tolta loro dal re d’Ungheria; e in cambio di questo aiuto la flotta li avrebbe poi trasportati in Egitto, anche se mancavano ancora 34.000 marchi al saldo del prezzo concordato. Innocenzo III, che da Roma si teneva quotidianamente informato dei negoziati in corso a Venezia, fu costernato da questa trovata e incaricò due degli abati cistercensi che accompagnavano i capi crociati, fra cui Pietro di Lucedio, di comunicare loro il suo assoluto divieto di attaccare una città cristiana e un re cristiano, che anzi aveva appena preso la croce. Eppure i baroni, nel caldo di quell’estate lagunare, non ascoltarono il papa; impazienti di andarsene di lì, di veder fruttare alla fine l’enorme investimento economico ed emotivo, di sfogare in qualche modo la tensione accumulata, accettarono la proposta veneziana.
C’era, del resto, anche qualcos’altro che bolliva in pentola, sebbene la maggior parte dei cavalieri e della gente comune che aveva seguito i propri signori a Venezia non potesse neppure immaginarlo. Pochi anni prima, nel 1195, l’imperatore Isacco II Angelo (quello stesso che aveva dato in sposa a Corrado di Monferrato la sorella Teodora) era stato deposto e accecato dal fratello, che era salito al trono col nome di Alessio III. Ora un figlio di Isacco, chiamato anch’egli Alessio, era riuscito a fuggire da Costantinopoli e nei mesi precedenti era stato sia in Germania, dal re Filippo di Svevia che aveva sposato sua sorella, sia a Roma dal papa, sia infine nell’Italia settentrionale, a chiedere aiuto contro lo zio usurpatore; in ciascuna di queste occasioni aveva incontrato qualcuno dei capi crociati e in particolare, più volte, Bonifacio di Monferrato. L’idea che dopo aver attraversato l’Adriatico e ripresa Zara per conto terzi i pellegrini avrebbero forse potuto aiutare il giovane pretendente a rivendicare i suoi legittimi diritti al trono di Costantinopoli, prima di avviarsi finalmente a compiere il proprio voto in Terrasanta, era dunque già balenata fra i capi della spedizione; e più di tutti deve averci pensato Bonifacio, che di tutti questi sovrani e pretendenti bizantini, sconosciuti a molti Occidentali, era invece stretto parente.
Fatto sta che mentre la flotta veneziana salpava per Zara, e con l’aiuto decisivo dei crociati conquistava la città, nel novembre 1202, il marchese di Monferrato rimase a Venezia, «per certi affari che aveva», dice oscuramente Villehardouin; e quando poi, nell’inverno, raggiunse gli altri a Zara, dove era stato deciso di svernare, lo seguirono quasi subito gli inviati del re Filippo di Germania, che invitava caldamente i pellegrini a sostenere suo cognato nella sacrosanta riconquista del suo impero usurpato, e garantiva a nome del giovane Alessio che a cose fatte l’impero bizantino avrebbe potentemente contribuito alla crociata, fra l’altro con l’enorme somma di 200.000 marchi. Questa proposta, che risolveva le difficoltà finanziarie in cui l’impresa si era finora dibattuta, bastò a persuadere molti, ma non tutti; perfino gli abati cistercensi si divisero aspramente, fra quelli che consideravano criminale questa deviazione della crociata per combattere altri cristiani, e quelli che al contrario la consideravano come l’unico modo per tenere insieme l’esercito, salvare la spedizione e alla fine condurla, in un modo o nell’altro, in Terrasanta.
Il ruolo svolto in questa occasione da Bonifacio di Monferrato e Pietro di Lucedio è emblematico di come intorno a un’impresa di queste dimensioni, per quanto mossa da ragioni ideali che sarebbe fuorviante ridurre a motivazioni politiche o economiche, si fosse comunque già intrecciato un groviglio di interessi politici ormai impossibile da districare. L’abate di Lucedio, seguendo le istruzioni del papa, tentò di esplorare una terza via, che avrebbe permesso di scongiurare la deviazione della crociata verso Costantinopoli senza per questo far perdere la faccia a coloro che l’avevano proposta, primo fra tutti il suo protettore Bonifacio: si trattava di contattare l’imperatore-usurpatore Alessio III, fargli capire il pericolo che correva, e convincerlo con questa minaccia a riconoscere la supremazia di Roma, mettendo fine allo scisma della Chiesa ortodossa, e ad allearsi con Venezia, rendendo a questo punto inutile l’intervento dei crociati. Il basileus non mancò di rispondere ai primi, cauti contatti, e qualcosa avrebbe forse potuto venirne fuori, se ci fosse stato più tempo; ma ci sono momenti in cui il passo della storia accelera, e i tempi lunghi della politica non riescono a fargli fronte.
Bonifacio, da parte sua, giocò un ruolo più ambiguo nello scioglimento del nodo. Grazie anche al suo rapporto privilegiato con un uomo prezioso come Pietro di Lucedio, si tenne in stretto contatto col papa; sicché è a lui che Innocenzo III scrisse informandolo di aver scomunicato i veneziani in seguito all’affare di Zara, e che tutti i pellegrini correvano lo stesso rischio se si fossero ancora trattenuti nell’impero bizantino anziché proseguire verso la Terrasanta. Fidandosi di lui, il pontefice lo incaricò di comunicare questo suo avvertimento all’esercito. Ma Bonifacio decise, di propria iniziativa, di tenere segreta la comunicazione papale; e contribuì così in modo decisivo a precipitare la decisione dei baroni, la maggioranza dei quali stabilì di riportare a Costantinopoli il pretendente Alessio. Nell’aprile 1203, Bonifacio scrisse al papa assumendosi la piena responsabilità di quel che aveva fatto, l’unico modo, affermò, di tenere insieme l’esercito ed evitare il fallimento della crociata. Entro la fine di quel mese, Alessio aveva raggiunto i crociati e la flotta era salpata verso sud.
Non è il caso di raccontare qui, ancora una volta, l’arrivo dei crociati davanti alla capitale, il primo, lungo assedio concluso con la fuga ingloriosa dell’usurpatore Alessio III, la liberazione del vecchio e cieco imperatore Isacco II e l’incoronazione di suo figlio, associato al trono col nome di Alessio IV; né lo stupore dei crociati davanti all’immensa città, alle sue mura ciclopiche, alla successione ininterrotta di palazzi, giardini e chiese piene d’oro; né la sottomissione forzata del patriarca di Costantinopoli al papa, voluta dal nuovo basileus per adempiere ai propri impegni verso i crociati, nonostante l’opposizione di tutto il suo popolo; né il crescere dell’ostilità reciproca fra gli abitanti e quell’esercito straniero acquartierato alle porte della metropoli, fino al colpo di stato che portò all’imprigionamento e poi allo strangolamento del giovane Alessio IV e alla presa del potere da parte di un altro nobile bizantino, Alessio Ducas Murzuflo, che fu incoronato in Santa Sofia col nome di Alessio V; né la ripugnanza che questa usurpazione alimentò fra i capi crociati, alla cui etica cavalleresca e feudale appariva innanzitutto come un tradimento diabolico di cui non solo Murzuflo, ma l’intera popolazione greca si era macchiata contro il suo legittimo signore; né la decisione di dichiarare guerra all’usurpatore, il nuovo assedio posto alla capitale imperiale, l’inferiorità drammatica delle navi e dei reggimenti mercenari bizantini davanti alle galere veneziane e ai cavalieri occidentali coperti di metallo «come statue di bronzo», la seconda sanguinosa presa di Costantinopoli, gli incendi che devastarono i quartieri più ricchi, il saccheggio catastrofico di basiliche e palazzi, il cumulo di bottino ammassato in tre chiese della città e la sua spartizione fra i crociati in mezzo a infiniti abusi e recriminazioni, con uno strascico mai più sopito di rancori reciproci.
Raccontiamo, piuttosto, i sentimenti contraddittori che agitavano un po’ tutti, l’ebbrezza e al tempo stesso lo spavento davanti a una preda così colossale, la cattiva coscienza messa a tacere spavaldamente e tuttavia sempre pronta a riaffiorare. È ancora una volta Raimbaut de Vaqueiras (che con un anacronismo più apparente che reale potremmo chiamare il capo dell’ufficio propaganda del marchese) a lasciar trasparire questo contrasto perfino un po’ morboso. «Perché noi siamo tutti peccatori / delle chiese e dei palazzi bruciati, / dove ho visto peccare chierici e laici; / e il Sepolcro non è liberato!» scrive il trovatore, quando ancora sembra possibile che l’esercito rafforzato dall’immenso bottino riparta fra poco per l’Egitto, e di lì per Gerusalemme. Ma col trascorrere dei mesi quella ripartenza si fa sempre più improbabile: assassinato il legittimo imperatore Alessio IV, in fuga l’usurpatore Alessio V, morto anche il vecchio e cieco Isacco II, i capi crociati si trovano sulle braccia un impero, e non possono semplicemente andarsene, sarebbe da irresponsabili. La spinta a restare, a governare, a spartirsi territori e ricchezze, a insediare nel paese una gerarchia ecclesiastica latina per rendere irreversibile il suo ritorno all’obbedienza di Roma, è troppo forte, e in essa giustificazioni religiose apparentemente inattaccabili si mescolano a quell’esaltazione della gloria e della conquista come fini in sé, obiettivi sacrosanti e addirittura doverosi per principi e cavalieri, che è così radicata nella mentalità aristocratica.
Bastano pochi mesi perché cambi il tono di Raimbaut de Vaqueiras, perché sia dimenticato il rimorso per la devastazione d’una città cristiana, ed emerga trionfante l’esaltazione d’una conquista e d’una promozione di massa quale mai nessuno aveva sognato. «Da buoni vassalli, valenti, arditi, / il nostro impero è stato conquistato»; mai, continua il poeta, Alessandro o Carlo Magno hanno fatto nulla di simile, nessun altro ha saputo conquistare a forza «un impero così potente come abbiamo fatto noi, / per cui si innalza la nostra fede; / che abbiamo fatto imperatori e duchi e re, / e munito castelli in faccia ai Turchi e agli Arabi, / e aperto i cammini e i porti / da Brindisi fino al Bosforo». Che tutto questo sia avvenuto a spese di altri cristiani nessuno vuole ricordarselo, è meglio inebriarsi nella persuasione d’aver cambiato la faccia del mondo, spalancandolo alla conquista militare ed economica d’un Occidente trionfante: ora che i principi latini, partiti da casa loro coll’umiltà dei pellegrini, grazie al favore evidente di Dio si ritrovano tramutati in imperatori e re nell’Oriente favoloso, e i mercanti veneziani sono finalmente padroni d’un immenso spazio economico unificato, che mette in comunicazione diretta il Mediterraneo con l’Asia.
Già prima della conquista s’era affermata l’idea, fra i capi crociati, che poiché quel paese ch’essi non esitavano a definire «barbaro» (benché ricchissimo) doveva essere riportato alla fede latina, era meglio che anche il suo imperatore fosse un latino. La costituzione di questo futuro impero latino di Costantinopoli era stata delineata in un accordo che stabiliva in anticipo la spartizione di possessi, ricchezze e uffici fra i baroni crociati e i veneziani, e la nomina dell’imperatore da parte di una commissione paritetica di dodici elettori. Quando, compiuta la conquista, la commissione si riunì, parve che Bonifacio di Monferrato avesse le carte migliori di tutti, tanto più che uno degli elettori era Pietro di Lucedio; ma stavolta l’abate bianco non seppe servire bene il suo protettore. I veneziani non avevano interesse a conferire tanto potere al marchese, con la sua lunga tradizione familiare di amicizia con l’impero d’Oriente e i suoi rapporti di parentela con la grande aristocrazia greca: i loro voti si concentrarono sul conte Baldovino di Fiandra, e fu lui a essere incoronato imperatore. Bonifacio, che s’era già addirittura installato nel palazzo imperiale di Boukoleon, e che la povera gente di Costantinopoli, confondendosi sul suo nome ma implorando comunque la sua protezione, salutava già «santo imperatore Marchese», accettò lealmente di giurargli fedeltà. Ma in cuor suo dovette cominciare a provare la sensazione gelida che anche lui, come i suoi fratelli, fosse destinato ad arrivare a un pelo dal trionfo per poi fallire.
Fallimento relativo, tuttavia; perché l’imperatore Baldovino non poteva permettersi di scontentare un vassallo così potente, e Bonifacio ebbe da lui addirittura un regno, incentrato sulla ricca città di Tessalonica, e comprendente tutta la parte continentale della Grecia attuale, inclusa Atene. Che non per questo avesse rinunciato a sperare, un giorno, nella corona imperiale, lo dimostra il fatto che subito dopo aver perduto l’elezione sposò la vedova del defunto Isacco II Angelo, in cui erano confluiti dopo la morte di Alessio IV i legittimi diritti dinastici all’eredità dell’impero greco. Non che mancassero altri pretendenti, perché tanto Alessio III quanto Alessio V erano ancora vivi, e avevano entrambi fondato un governo in esilio; ben presto, però, il primo attirò il secondo in un tranello, lo fece arrestare a tradimento e gli cavò gli occhi. Era una pratica consueta nell’impero bizantino e anzi considerata addirittura umanitaria, poiché accecando un rivale non era più necessario metterlo a morte; ma bastò a convincere definitivamente i baroni latini che i «barbari» greci non meritavano alcun rispetto («Vedete un po’ se questa gente doveva governare un paese oppure perderlo, che si trattavano con tanta crudeltà l’uno con l’altro», commenta sdegnato Villehardouin).
Sarebbe bastata un po’ di fortuna a Bonifacio per concretizzare le sue aspirazioni; ma i figli di Guglielmo il Vecchio, bisogna ben dirlo, non erano fortunati. La disgregazione dell’impero bizantino aveva lasciato campo libero nei Balcani a una potenza che per molto tempo solo i basileis avevano saputo tenere a bada, quella dei Bulgari. Contro il loro zar Kalojan e le moltitudini di cavalieri che gli fornivano i nomadi delle steppe, Valacchi, Cumani, Peceneghi, i capi latini dovettero immediatamente cominciare una guerra logorante. Combattendo contro i Bulgari fu catturato, e morì poi in prigionia, l’imperatore Baldovino, dopo appena undici mesi di regno. Bonifacio non poteva decentemente pretendere di subentrargli, poiché il defunto aveva un fratello, Enrico conte di Hainaut, che infatti fu incoronato imperatore; ma anche il nuovo sovrano dovette dare qualcosa in cambio al più potente dei suoi vassalli, e accettò di sposare sua figlia, Agnese. Il matrimonio tra la figlia del re di Tessalonica e l’imperatore di Costantinopoli fu celebrato in Santa Sofia il 4 febbraio 1207. Come in una partita a scacchi, a dama o a backgammon, tutti giochi che i nobili dell’epoca amavano, Bonifacio muoveva le sue pedine con pazienza e le collocava in posizioni sempre più vantaggiose. E poi, all’improvviso, tutto finì: il 4 settembre 1207, in una scaramuccia con una banda di Bulgari, il marchese diventato re venne ferito, catturato e subito ucciso. Anche l’ultimo dei figli di Guglielmo il Vecchio non aveva goduto a lungo della sua corona.