4.
L’Occidente visto dagli «altri»
Come dice così bene la Chanson de Roland, «Paien unt tort e chrestien unt dreit», i pagani hanno torto e i cristiani hanno
ragione: il mondo è diviso in bianco e nero e tutto è molto semplice. Certo, la Chanson de Roland, pur essendo un’opera di straordinaria poesia, non è esattamente il manuale di etica
che vorremmo per il XXI secolo: ma riflette abbastanza bene il modo in cui ragionavano
loro. Tutti, cristiani e musulmani, e fra i cristiani i cattolici latini come gli
ortodossi greci, ragionavano in termini di «noi» e «loro»; e ce ne accorgiamo subito
se ci chiediamo come erano visti i crociati, e in genere gli occidentali, dai bizantini
e dai musulmani.
Cominciamo dai bizantini, e presentiamo un testimone d’eccezione, che poi è una testimone:
una novità in questa storia che stiamo raccontando, che a parte la povera Sibilla
sorella del re lebbroso è quasi tutta storia di maschi. È una principessa bizantina,
Anna Comnena, figlia dell’imperatore, del basileus Alessio Comneno, vissuta fra XI e XII secolo, quindi proprio negli anni della Prima
Crociata. Era già adulta allora: ha visto arrivare i crociati, che per raggiungere
la Terrasanta sono passati attraverso l’impero bizantino e si sono fermati a Costantinopoli,
anche troppo a lungo per i gusti degli abitanti. Anna Comnena li ha visti, e non è
una persona qualunque ma una signorina estremamente colta, capace di citare Euripide
e Omero, cose che i nostri crociati non si sarebbero neanche immaginati: e in verità
fa un po’ effetto pensare che questi capi guerrieri che partivano dall’Occidente,
e ovviamente il greco non lo sapevano e la tragedia greca neanche sapevano cosa fosse,
durante quel viaggio hanno incontrato gente che invece Euripide lo leggeva e che era
capace di citarlo proprio parlando di loro.
Dunque Anna è un personaggio di straordinaria cultura che a un certo punto decide
di impiegare il suo tempo per scrivere un grande libro sulla vita di suo padre, l’imperatore,
e dato che Alessio ha avuto a che fare continuamente con i crociati, nel libro costoro
saltano fuori da tutte le parti. Ma prima di andare a vedere accenniamo rapidamente
a che cos’era l’impero bizantino, perché anch’esso nella nostra cultura occidentale
risente un po’ della tendenza a vedere in termini dispregiativi le culture diverse;
quindi è opportuno ricordare chi erano i bizantini, al di là del fatto che erano coltissimi.
Chi erano questi uomini e donne di cui stiamo per sentire la voce, e vedere che impressione
gli facevano i nostri antenati di mille anni fa? Erano i discendenti degli antichi
romani, quelli dell’impero d’Oriente. L’impero di Roma era diviso in due parti: una
a Occidente che parlava latino e una a Oriente che parlava greco. Quando cominciano
le invasioni barbariche e crolla, come si dice sempre da noi, l’impero romano, la
verità è che crolla l’impero d’Occidente, lasciando il posto ai regni dei goti, dei
longobardi, dei franchi, con la loro popolazione mista da cui, in qualche modo, tutti
noi discendiamo.
Ma l’impero romano d’Oriente non è crollato affatto. In origine era un impero immenso
che comprendeva i Balcani, la Grecia, tutta l’attuale Turchia, il Medio Oriente e
l’Egitto, e si estendeva fino alla Mesopotamia. Questo impero nel corso dei secoli
ha subito profonde trasformazioni, ha perduto molti dei suoi territori a vantaggio
degli arabi e dei turchi, ma non è scomparso. I suoi abitanti continuavano a chiamare
se stessi romani, e continueranno ostinatamente a farlo, in greco, per altri mille
anni. Sono dei romani d’Oriente che il latino non lo parlano più, e che si sentono
molto lontani dagli occidentali, eredi di Roma ma anche dei barbari. Anna Comnena
lo dice chiaramente: i crociati per lei sono i barbari dell’Occidente, i veri eredi
della tradizione culturale antica stanno a Costantinopoli. E non si chiamano certo
bizantini: quella è un’invenzione di noi occidentali per far finta che siano un popolo
strano, per dimenticare che sono gli eredi degli antichi greci e degli antichi romani.
È un impero multietnico, di lingua e cultura greca, ma di tradizione politica romana,
in cui vige il diritto di Giustiniano, e attira e assorbe gente di tutte le lingue:
persiani, armeni, ma anche vichinghi, come guardie del corpo per l’imperatore. Generali,
ministri, intellettuali vengono fuori da tutti i popoli dei Balcani e del Medio Oriente.
Un impero multietnico, dunque: tenuto insieme, però, da una fortissima ideologia imperiale
e cristiana. La loro è la Chiesa che si usa chiamare ortodossa: la Chiesa che prega
in greco anziché in latino, che legge i Vangeli nell’originale greco, anziché in traduzione
latina, e che pian piano si va allontanando dalla Chiesa latina. O meglio, le due
Chiese e le due Cristianità vanno sempre più divergendo, si capiscono e si amano sempre
meno: ma naturalmente sono tutti cristiani. Quanto all’ideologia imperiale, per capire
Anna bisogna aver presente che l’impero bizantino è un grande impero centralizzato,
con un sovrano autocratico: l’imperatore romano si considera padrone del mondo, e
governa in base a una fortissima ideologia statalista e centralista. È un impero dove
l’economia è rigidamente subordinata alla volontà del governo, dove non c’è quasi
commercio libero, ma soltanto commercio statalizzato, dove si pagano moltissime tasse
e gli intellettuali affermano che è un bene perché così i ricchi non saranno troppo
ricchi né i poveri troppo poveri: insomma uno straordinario impero che nei secoli
delle Crociate sarà divorato e fatto a pezzi dagli occidentali, i quali invece hanno
il capitalismo. Ci sono i veneziani, i genovesi, i pisani, mercanti spregiudicati,
la libera iniziativa e la libera impresa: una terminologia anacronistica, ma è quella
che usano i miei colleghi bizantinisti, ormai, perché più si va a fondo e più si vede
che questo impero centralistico, monolitico, poco attrezzato per la concorrenza, è
stato letteralmente spolpato dai mercanti occidentali, oltre che naturalmente dai
guerrieri occidentali, dai crociati.
Questo, dunque, è il mondo in cui vive la principessa Anna Comnena e questo è il mondo
in cui arrivano, a piedi, dal nord, le bande dei crociati: prima le bande disorganizzate
di Pietro l’Eremita, dei poveri che sono partiti un po’ a casaccio senza aspettare
che i principi si organizzassero, e poi, uno dopo l’altro, gli eserciti dei principi.
La Prima Crociata è una spedizione acefala, a cui non partecipa nessun re europeo,
perché i re sono molto deboli in quel momento: partono tanti principi, conti o duchi,
e Anna Comnena per semplificare li chiama i conti. Sono Goffredo di Buglione, il conte
di Tolosa, Boemondo d’Altavilla e tanti altri che non enumero: anche Anna non li enumera,
dopo aver elencato i primi arrivati non ce la fa più a tenere il conto e dice: «erano
numerosi come le foglie e i fiori della primavera, per citare Omero». E poi aggiunge:
mi piacerebbe menzionare tutti i loro capi ma preferisco non farlo, le parole mi mancano,
intanto perché i nomi sono impronunciabili, dato che parlano delle lingue barbariche
che io francamente non riesco a trascrivere; e poi sono troppi. E si capisce: quello
bizantino è un impero autocratico, mentre l’Occidente è nel momento più acuto della
dissoluzione feudale, con una moltitudine non solo di principi, ma di signori locali,
ciascuno dei quali la fa da padrone in casa sua e comanda il suo gruppetto di cavalieri.
Questo esercito rappresenta una società che è esattamente l’opposto rispetto a quello
a cui i bizantini sono abituati.
Dunque Anna Comnena li vede arrivare. Prima arrivano le voci dai confini: si dice
che nel lontano Occidente i popoli si sono mossi. Poi arrivano davvero e Anna osserva
che le voci non lasciavano intuire l’entità del fenomeno, erano molti di più di quelli
che si era creduto all’inizio, e in generale l’evento fu molto più terribile e gravido
di conseguenze di quello che ci si aspettava, «perché l’intero Occidente, e tutti
i barbari che vivevano fra l’Adriatico e le colonne d’Ercole, migrarono in massa verso
l’Asia». Esagera un po’, naturalmente, non sono partiti tutti, però evidentemente
a Costantinopoli hanno avuto la sensazione che fossero masse enormi di gente.
Il rapporto fra l’impero bizantino e i crociati è un rapporto ambiguo fin dall’inizio.
Quando il papa Urbano chiama i fedeli alla Crociata, invitando a liberare Gerusalemme
per aprire la strada ai pellegrini, il motivo è che nel mondo islamico si sono imposti
i turchi, che sono tribù nuove e bellicose, genti più rozze e barbare rispetto agli
arabi; e il papa sottolinea anche che i turchi stanno aggredendo i cristiani d’Oriente.
È un raro momento di solidarietà che la Chiesa di Roma dimostra nei confronti dei
fratelli ortodossi, con cui normalmente i rapporti sono pessimi; stavolta, invece,
i cristiani di laggiù sono menzionati espressamente dal papa come uno dei motivi per
cui bisogna partire, perché il mondo islamico è in fermento e i turchi, oltre a tormentare
i pellegrini che vanno a Gerusalemme, stanno anche aggredendo l’impero bizantino.
Perciò la gente che parte ha sentito dire dai predicatori che in Oriente ci sono i
nostri confratelli cristiani e che bisogna aiutarli, e l’imperatore bizantino a Costantinopoli
è informato che stanno arrivando, e bisogna organizzarsi per accoglierli.
I bizantini sono divisi. Qualcuno pensa che, tutto sommato, se davvero questa gente
va ad aggredire i turchi è una buona cosa, perché la pressione turca era un problema
di vita o di morte per l’impero. Però al tempo stesso l’idea di veder arrivare questa
enorme marea di barbari, come li chiamano loro, sgomenta. Sono cristiani, certo, ma
cristiani con cui non ci si capisce: una delle prime cose che deve fare l’imperatore
Alessio è cercare gli interpreti, gente che sappia almeno il latino; se poi sanno
le lingue barbare che parlano costoro, il francese antico o il genovese, meglio, però
senza interpreti non ci si capisce neanche, con loro. Poi bisogna reclutare delle
truppe che li scortino: per tutto il loro percorso all’interno dell’impero bizantino
i crociati sono scortati – per la loro sicurezza, si intende, però più gente c’è a
scortarli meglio è, e comunque gli incidenti sono continui perché tutta questa marea
di gente trova che i confratelli d’Oriente sono gente strana. Fanno fatica ad ammettere
che non son quelli i nemici, che bisogna andare ancora un po’ più avanti per trovare
i veri nemici, i turchi. I bizantini tirano un gran respiro di sollievo quando finalmente
i crociati passano oltre: solo che non finiscono mai, perché ne arrivano altri, dopo
Pietro l’Eremita arrivano i principi e poi ancora altri principi e poi ancora i rinforzi,
e per anni l’impero bizantino deve fare i conti con questa gente che passa.
Che tipi sono costoro? Anna Comnena riconosce che hanno delle motivazioni ideali,
almeno molti di loro: non tanto i capi, ma la massa. Anna conosce la storia, ha sentito
dire che il papa ha predicato la Crociata e dice che quest’idea «sorprendentemente
ebbe successo»; la Crociata è una novità, come sappiamo, e ai cristiani d’Oriente
sembra veramente una cosa bizzarra: però si sa, gli occidentali sono fatti a modo
loro. E dunque l’idea di Urbano II ha avuto successo, e i barbari partono in massa,
pieni di ardore ed entusiasmo: affollano le strade, guerrieri, civili, le famiglie,
le donne, «più numerosi dei granelli di sabbia del mare o delle stelle del cielo,
portando rami di palma», che è il tipico simbolo del pellegrino, «e croci sulle spalle»,
che invece è la novità, rappresenta il nuovo impegno di aprirsi la strada combattendo
fino alla liberazione del Sepolcro. Anna riconosce che «la gente semplice era mossa
con assoluta sincerità dal desiderio di pregare sul sepolcro di Nostro Signore e visitare
i luoghi santi»: nella massa lei coglie questo fermento di gente che non ha niente
da perdere, e che si è mossa per motivi davvero religiosi. Quanto ai capi, invece,
ha i suoi dubbi. I capi, fra l’altro, sono quelli che ha conosciuto meglio, li avevano
a palazzo tutti i momenti, anzi, come vedremo, non riuscivano a liberarsene: li ha
conosciuti bene ed è sicura che in realtà era soltanto l’avidità a spingerli.
Esponente di una civiltà raffinata, che si trova ad avere a che fare con dei barbari,
Anna Comnena generalizza. Già il modo in cui li chiama è una generalizzazione: ogni
tanto li chiama i latini, quando pensa soprattutto alla differenza religiosa, ma in
realtà il termine che usa di più è «celti». Come mai? È semplice: perché sono quasi
tutti francesi o normanni gli uomini della Prima Crociata. Da dove vengono? Dalla
Gallia. Gli autori antichi, che Anna Comnena conosce benissimo e ha in biblioteca,
dicono che in Gallia abitano i celti, quindi Goffredo di Buglione è un celta. E i
celti per Anna, esponente di una cultura che è abituata a riflettere sui caratteri
nazionali dei vari popoli, hanno delle caratteristiche comuni. Intanto sono ambiziosissimi:
«ogni celta desidera sorpassare i suoi pari». Il fatto è che tutti questi capi sono
uguali, non hanno un re, ciascuno è deciso a farsi valere, a far vedere che è più
bravo degli altri e ad arraffare più degli altri. «Come razza sono avidissimi». Inoltre
sono teste calde, non come i «romani» di Bisanzio che hanno alle spalle una civiltà
antichissima e sono gente razionale: questi sono barbari, e come già gli antichi greci
e romani così Anna Comnena è convinta che i barbari per natura sono irrazionali, passionali;
e la prova è che sono partiti da casa inseguendo questa idea folle di andare a liberare
il Santo Sepolcro.
Ma proprio perché irrazionali e in preda alle passioni possono essere travolgenti.
«La razza latina dimostra sempre una eccezionale avidità di ricchezza, ma quando si
mette in movimento per invadere un paese non la trattengono né la ragione né la forza».
Sono dei grandi guerrieri: non per niente la Prima Crociata è un trionfo e i crociati
arrivano a conquistare Gerusalemme. Già allora gli occidentali erano un po’ più avanti
degli altri dal punto di vista della tattica e delle tecnologie militari: la cavalleria
dei crociati come armamento e modo di combattere si rivela assolutamente superiore
a qualunque cosa i bizantini o i turchi siano in grado di mettere in campo in quel
momento. Questo lo riconoscono tutti, e lo dice Anna Comnena che almeno tre volte
usa l’aggettivo «irresistibile»: quando partono e caricano a cavallo tutti insieme,
coperti di ferro con le lance, sono irresistibili, «sfonderebbero anche le mura di
Babilonia». Però, certo, son sempre barbari, non ragionano; se si resiste alla prima
carica, un generale intelligente può trovare il modo di sconfiggerli. Loro non studiano,
sono barbari, e invece un generale che ha studiato è in grado di tenergli testa e
prevalere; e queste cose le penserà anche il Saladino, qualche anno dopo.
Quali altre caratteristiche hanno i barbari? Sono maleducati e loquacissimi, non sanno
come ci si comporta dall’imperatore, ed è naturale, perché sono gran signori abituati
a non riconoscere niente sopra di sé: quando va bene prestano omaggio a un re o a
un imperatore, ma è una formalità, in realtà questi capi si considerano dei sovrani
indipendenti, e non sanno stare alla corte di un imperatore romano. Al palazzo del
basileus succedono scene da far rizzare i capelli in testa; l’imperatore è paziente, perché
anche se volesse ormai c’è questa massa di gente che arriva, e non si riuscirebbe
a fermarla con la forza, quindi è meglio accoglierli bene e lasciarli passare. Ad
Alessio tocca ricevere tutti i capi che arrivano, e sembra che tutti siano capi: arriva
uno con venti cavalieri ed è un capo, bisogna ricevere anche lui, e quindi a palazzo
ce ne sono continuamente, e si portano gli amici, del tutto ignari del cerimoniale.
Attaccano a parlare davanti all’imperatore, dice Anna, e non fanno come gli oratori
dell’Antichità che mettevano la clessidra, e quando era finita la clessidra finiva
anche il discorso: perché i celti sono loquaci per natura, gli piace ascoltarsi, non
sanno mai smettere. L’imperatore stava in trono dimostrando una immensa pazienza ad
ascoltare tutti gli infiniti discorsi di questi capi; e una volta che non era seduto,
uno di loro si è seduto sul trono al suo posto. Alessio, incredibilmente, ha trovato
la forza di pazientare, poi per fortuna qualcuno ha spiegato al tizio che alla corte
del basileus solo l’imperatore si può sedere, gli altri stanno in piedi: e lui se ne è andato
brontolando qualcosa nella sua lingua, e poi Anna se l’è fatto tradurre. Aveva detto:
«che rozzo! Siede solo lui mentre generali come questi stanno in piedi!» – dove si
vede bene, ancora, il contrasto tra l’ideologia bizantina del potere autocratico e
l’ideologia feudale per cui tutti i capi sono pari e tutti si siedono, se necessario.
Ma Anna è colpita anche dal clero latino. Certo, lei lo vede in azione durante la
Crociata, e non vede gli esempi migliori, i grandi intellettuali o i monaci famosi
per la loro spiritualità. Però vede, o glielo raccontano, preti che seguono l’esercito
crociato e portano anche loro le armi: sarebbe proibito, anche in Occidente, dai canoni
della Chiesa, ma in questi secoli in cui l’Europa è dominata da una casta di cavalieri,
che per definizione riconoscono i valori più alti nel coraggio, nella lealtà e nel
valore in guerra, anche il clero, che in gran parte è reclutato nella stessa aristocrazia
cavalleresca, non disdegna di combattere. Anna generalizza, secondo lei i latini non
badano a queste sottigliezze, non ci arrivano; noi, dice, i nostri preti non ci sogneremmo
mai di farli combattere, noi rispettiamo i canoni e l’insegnamento del Vangelo, «ma
il barbaro latino è capace allo stesso tempo di maneggiare oggetti sacri, imbracciare
lo scudo col braccio sinistro e impugnare la lancia colla destra. Comunica il corpo
e il sangue della Divinità e allo stesso tempo assiste allo spargimento di sangue
e diventa lui stesso ‘un uomo di sangue’, come dice Davide nei Salmi. Così la razza
non è meno devota alla religione che alla guerra». Grande parola, la razza, quando
si tratta di generalizzare; resta il fatto che i latini sono ben diversi dai «romani»,
agli occhi di Anna.
Eppure a un certo punto Anna viene fuori con una frase, una sola frase, che ci apre
tutto un altro squarcio su come i bizantini potevano guardare ai capi crociati e ai
loro cavalieri. Anna, ricordiamolo, è una principessa porfirogenita, «nata nella porpora»,
erede di una dinastia imperiale e di una grandissima cultura antica; è un’intellettuale
che legge i tragici greci, e naturalmente è una donna: questi rozzi omaccioni che
arrivano a cavallo, impugnando la lancia, non la seducono affatto. Ma suo padre era
un combattente anche lui, sapeva quanto fosse importante la capacità guerriera per
la difesa dell’impero, e apprezzava anche altre qualità, come la forza fisica, il
valore, il coraggio, la lealtà cavalleresca: e a un certo punto Anna Comnena si lascia
scappare che suo padre una certa ammirazione per i barbari ce l’aveva eccome. Alcuni
capi crociati erano caduti prigionieri dei turchi, e il basileus Alessio Comneno ne aveva sofferto: «per lui», dice Anna, «questi uomini, nel fiore
degli anni, al colmo della loro forza, di nobile lignaggio, sembravano rivaleggiare
con gli eroi dell’Antichità». Il mondo bizantino, dal punto di vista della costruzione
di una cultura cavalleresca e guerriera, è più indietro rispetto a quello occidentale,
anche se proprio sotto i Comneni sta cercando di recuperare: Alessio ha letto o ha
sentito leggere tante volte di Achille e di Aiace, e nel suo mondo civilizzato non
c’è niente di paragonabile; e invece quando incontra i crociati li ritrova, proprio
come se fossero usciti armati dalle pagine dei libri.
Dopo aver attraversato l’impero bizantino, i crociati entrano in contatto con i musulmani,
con un mondo bellicoso e cavalleresco dove, come abbiamo accennato, i gruppi dirigenti
non sono più arabi, ma turchi. Gli arabi sono quelli che hanno fatto le grandi conquiste
dopo che Maometto ha predicato la fede islamica, nel VII-VIII secolo hanno conquistato
tutto il Medio Oriente, il Nord Africa, la Spagna, poi la Sicilia; hanno fondato una
civiltà che continuerà a parlare arabo, così come il Corano è in arabo, però all’interno
di questo mondo musulmano, quando parte la Prima Crociata, da un po’ di tempo sono
arrivati anche popoli nuovi che vengono dall’Asia, i turchi. I turchi non sono affatto
arabi, parlano una lingua che non c’entra per niente con l’arabo, però si convertono
all’Islam e impongono la loro egemonia in gran parte del mondo musulmano; un po’ dappertutto
il sultano, gli emiri, i capi locali, i guerrieri sono turchi, o qualche volta curdi,
come il Saladino.
Ora, questo mondo di cultura araba, dove l’arabo resta la lingua della religione e
della politica, ma dove le élites militari sono turche, è più attrezzato rispetto
a quello bizantino per capire i crociati: ci sono più somiglianze, in realtà. Anche
questo è un mondo dominato da guerrieri, che apprezzano molto i bei cavalli, le belle
armi, il coraggio in guerra. Anche questo è un mondo feudale, perché con le invasioni
turche l’impero arabo si è frantumato, il califfo a Baghdad ormai conta pochissimo:
ci sono, appunto, un sultano turco, che però conta abbastanza poco anche lui, diversi
califfi e tanti emiri locali più o meno indipendenti. È anche per questo che la Prima
Crociata è un successo, perché incontra un mondo islamico diviso fra tanti principati
separati, spesso in guerra fra loro. Ma questo vuol dire una mentalità feudale, per
usare un termine che gli specialisti giudicherebbero una semplificazione indebita,
e diciamo allora una mentalità nobiliare, guerriera e cavalleresca, che fa sì che
i turchi non siano poi così diversi dai guerrieri occidentali: quando si incontrano,
come vedremo più avanti, c’è addirittura un elemento di riconoscimento reciproco.
Come reagiscono, dunque, i musulmani all’arrivo dei crociati, e che impressione hanno
di loro? In primo luogo, non riescono assolutamente a convincersi che vengano per
motivi ideali: no, sono venuti a invadere, a occupare la terra dell’Islam e sono,
come dicono anche i bizantini, la razza più avida che si sia mai vista. Sono molto
bravi in guerra, questo i musulmani lo ammettono tranquillamente, quella tal carica
della loro cavalleria è veramente irresistibile: i capi che riescono a tener testa
ai crociati, ai «franchi» come dicono di solito in Oriente, diventano subito popolari.
Col successo della Prima Crociata e la fondazione del regno di Gerusalemme comincia
un’epoca di guerriglia continua, di scontri ma anche di tregue, di negoziati, di commerci,
come è inevitabile. Il regno crociato non avrebbe potuto durare due secoli, sia pure
dissestato dal continuo conflitto con il mondo musulmano, senza che ci fossero anche
innumerevoli momenti di incontro, momenti in cui si è costretti a dialogare, in cui
un singolo emiro non ha più voglia di fare il jihad e preferisce mettersi d’accordo col singolo principe cristiano, suo confinante. Momenti
del genere ce n’è tanti e noi abbiamo la fortuna che uno di questi principi turchi,
l’emiro di Cesarea, in Siria, abbia scritto un libro in cui racconta un gran numero
di aneddoti tratti dalla sua esperienza personale, di capo musulmano che ha molto
combattuto contro i crociati, ma che ha anche molto negoziato e trattato con loro.
Questo signore si chiama Usama; la grafia consueta è con la U ma naturalmente è lo
stesso nome islamico ben più noto oggi grazie ad un altro Osama. Si chiama Usama Ibn
Munqidh e ora vedremo alcuni brani dal suo libro che un grande arabista italiano,
Francesco Gabrieli, parecchio tempo fa ha tradotto in italiano, nel suo Storici arabi delle Crociate. Brani che tracciano un percorso nell’osservazione di questa strana gente che sono
i franchi. Che siano gente strana non c’è dubbio: sono rozzi e ignoranti, anche i
turchi su questo concordano con i bizantini. Usama ci offre anche delle testimonianze
di questa loro rozzezza e ignoranza, per esempio nella pratica della medicina. Racconta,
dunque, Usama che un certo capo crociato gli aveva chiesto di mandargli un medico,
perché c’erano dei malati che i medici franchi non riuscivano a curare; era un periodo
di tregua e l’emiro manda un medico, un arabo cristiano, a nome Tabit. Il medico,
però, «dopo nemmeno dieci giorni fu di ritorno. Noi gli dicemmo: hai fatto presto
a curare quei malati! Ed egli raccontò: Mi presentarono un cavaliere che aveva un
ascesso a una gamba e una donna afflitta da una consunzione. Feci un impiastro al
cavaliere e l’ascesso si aprì e migliorò. Prescrissi una dieta alla donna, rinfrescandone
il temperamento. Quand’ecco arrivare un medico franco che disse: Costui non sa affatto
curarli, e rivolto al cavaliere gli domandò: cosa preferisci, vivere con una gamba
sola o morire con due gambe? E avendo quello risposto che preferiva vivere con una
sola gamba, ordinò: conducetemi un cavaliere gagliardo e un’ascia tagliente. Vennero
il cavaliere e l’ascia, ed io» – è sempre il medico arabo che racconta – «ero lì presente.
Colui adagiò la gamba su un ceppo di legno e disse al cavaliere: dagli giù un gran
colpo di ascia che la tronchi netto. E quegli sotto i miei occhi la colpì d’un primo
colpo e, non essendosi troncata, di un secondo colpo. Il midollo della gamba schizzò
via, e il paziente morì all’istante. Esaminata quindi la donna disse: costei ha un
demonio nel capo, che si è innamorato di lei; tagliatele i capelli. Glieli tagliarono
e quella tornò a mangiare dei loro cibi, aglio e senape, per cui la malattia le aumentò.
Il diavolo è entrato nella sua testa, sentenziò colui; e preso il rasoio le aprì la
testa a croce, asportandone il cervello fino a farne apparire l’osso del capo, che
colui strofinò col sale; e la donna all’istante morì. A questo punto io domandai:
avete più bisogno di me? Risposero di no, e io me ne venni via, dopo aver imparato
della loro medicina ciò che prima ignoravo».
Molto istruttivo: ma c’è anche un rovescio della medaglia. Perché è chiaro che il
nostro Tabit, arabo cristiano, ha alle spalle una cultura raffinatissima, che è quella
greca, naturalmente: gli arabi conoscono gli autori greci, li leggono, li usano. La
loro è una medicina fondata sulla teoria degli umori, dell’equilibrio degli umori:
quella stessa medicina di Ippocrate e Galeno che sarà poi riscoperta in Occidente
e che nel Rinascimento e nell’età moderna sarà praticata anche in Europa. Una medicina
che si basa su una straordinaria tradizione culturale, ma che in realtà è completamente
inefficace, perché la teoria galenica non ha il minimo fondamento scientifico e quindi
nessun medico, antico o del Rinascimento, ha mai curato nessuno se non per caso, seguendo
quei precetti. Certo che la medicina di Tabit suona molto più raffinata rispetto alla
chirurgia degli occidentali: e tuttavia quando parlo di chirurgia non esagero, perché
l’operazione di trapanazione del cranio descritta da Usama fa certo un po’ impressione,
però noi sappiamo che in quei secoli in Occidente si comincia davvero a studiare la
possibilità di trapanare il cranio, e di guarire i traumi cranici in quel modo. Forzando
un po’ le cose, ma neanche troppo, potremmo quasi dire che quei rozzi franchi che
non sanno curare se non tagliando e segando siamo ancora noi: e infatti quali malattie
sappiamo guarire? Soprattutto quelle dove è possibile intervenire chirurgicamente.
È una propensione fondamentale della civiltà occidentale, questa verso la pratica,
che si profila già nel Medioevo dei crociati.
Oltre che barbari, i franchi hanno una caratteristica assolutamente sorprendente agli
occhi dell’emiro Usama: non hanno nessuna gelosia delle loro donne, a cui concedono
una libertà assolutamente scandalosa e vergognosa. «Presso i franchi non c’è ombra
di senso dell’onore e di gelosia. Se uno di loro va per la strada con sua moglie e
un altro lo incontra, questi prende per mano la donna e si tira in disparte con lei
per parlarle, mentre il marito se ne sta da un lato aspettando che lei abbia finito
di conversare; e se la fa troppo lunga, la lascia col suo interlocutore e se ne va».
È facile immaginare lo stupore e il disprezzo dell’ascoltatore o del lettore arabo
nel sentir raccontare queste cose. «Una mia diretta esperienza in proposito è questa»,
continua Usama. «Quando venni a Nablus stavo in una casa che serviva da albergo ai
musulmani, con finestre che si aprivano sulla strada; dall’altra parte della via c’era
la casa di un franco che vendeva il vino per conto dei mercanti». Seguono tre righe
che non sono necessarie per capire la storia ma che vale la pena di citare lo stesso:
«Questo franco prendeva una bottiglia di vino e gli faceva pubblicità annunciando:
il tale mercante ha aperto una botte di questo vino, chi ne volesse acquistare, si
trova nella tale via e io gli farò assaggiare il vino che è in questa bottiglia».
Abbiamo appena detto che all’epoca delle Crociate i mercanti italiani spolpano l’impero
bizantino: e ora ci accorgiamo che fra loro c’è già una capacità di gestire gli affari
che arriva fino alla pubblicità. Questo mercante è il protagonista dell’aneddoto:
un giorno, tornando a casa, trova un uomo con sua moglie nel letto. «Gli domandò:
cos’è che ti ha fatto venir qui da mia moglie? Ero stanco, replicò colui, e sono entrato
qui a riposarmi. E com’è che sei entrato nel mio letto? Ho trovato un letto fatto
e mi son messo a dormire. E questa donna dorme con te? Il letto è suo, rispose, non
potevo mica impedirle di entrare nel suo letto. Affè mia, concluse il primo, se lo
fai un’altra volta litigheremo. E questa fu tutta la sua reazione e il massimo sfogo
della sua gelosia».
Anche qui immaginiamo i lettori musulmani che sghignazzano, oppure che scuotono gravemente
il capo, pensando che al mondo esiste gente così svergognata. Beninteso è lecito chiedersi
se una storia del genere abbia mai potuto succedere davvero, e anzi è quanto mai improbabile:
per quanto liberali fossero i costumi dei nostri antenati, certamente non reagivano
così quando trovavano la moglie a letto con un altro. Ma al musulmano piace molto,
invece, immaginarli così; e d’altra parte è vero che queste storie, anche se non sono
realistiche, fanno parte dell’immaginario medievale, perché le ritroviamo poi in Boccaccio
o nei fabliaux. Il fatto, comunque, che i franchi non sono gelosi delle loro donne colpisce così
tanto Usama che il nostro emiro ci ritorna sopra con un altro aneddoto scabroso. «Un
altro caso consimile è questo, narratoci da un bagnino di Ma’arra, a nome Salim, che
stava in un bagno di mio padre». Si tratta di un bagno turco, uno stabilimento termale:
un principe così come possiede case d’affitto e botteghe può possedere un bagno e
avere dei bagnini che lavorano per lui. Questo bagnino Salim poi si mette in proprio,
e apre un bagno, ed ecco quello che racconta. «Entrò nel locale un cavaliere dei franchi»,
perché i franchi arrivati in Oriente trovano anche questa delizia che da loro non
si usa più tanto, il bagno turco. Non che i bagni fossero scomparsi in Occidente come
si crede talvolta, non è affatto vero, però l’impianto termale al modo antico in Occidente
non c’era più; mentre invece nel Medio Oriente è rimasto comune. Dunque i crociati
sono grandi frequentatori di questi bagni turchi che trovano luoghi piacevolissimi.
«Entrò nel locale un cavaliere dei franchi», racconta dunque il bagnino, «ai quali
non piace cingersi un panno alla vita nel bagno». Ecco in verità un passo strabiliante,
perché quale autore cristiano di quest’epoca, quando oltre tutto quelli che scrivono
sono ancora in gran parte ecclesiastici, ci racconta che quando i cavalieri facevano
il bagno lo facevano nudi? E invece qui è testuale, e chi più del bagnino Salim può
saperlo? È un fatto, ai franchi piace fare il bagno nudi. Ma sono anche gente un po’
rozza e manesca: per scherzo il cavaliere allunga la mano e strappa il panno anche
alla vita del bagnino. «Così mi vide che da poco mi ero rasa la zona del pube. Salim!,
esclamò; così mi avvicinai a lui ed egli, tesa la mano: Salim, disse, magnifico! Affè
mia, fai anche a me questo servizio; e si stese supino sul dorso. Aveva in quel posto
un vello lungo come la sua barba. Lo rasai ed egli, passatavi sopra la mano, lo trovò
bello liscio. E riprese: Salim, affè mia, fai lo stesso alla dama, e dama», commenta
Usama che evidentemente usa una parola sentita davvero in bocca ai crociati, in francese
antico, dame, «nella loro lingua vuol dire signora, cioè sua moglie». La dama è mandata a chiamare,
viene rasata anche lei, il bagnino viene ricompensato largamente, il cavaliere è contentissimo.
Ma quello che è affascinante è la conclusione di Usama, dopo aver raccontato questa
storia. «Guardate un po’ che contraddizione: non hanno gelosia, né senso d’onore»,
che lui evidentemente non riesce a separare dalla gelosia: un uomo che non tiene ben
custodita sua moglie non può avere onore. Eppure, continua, «al tempo stesso hanno
tanto coraggio: che non nasce, di solito, se non dal senso dell’onore e dal disdegno
per ogni cosa mal fatta». Ebbene, qui si vede davvero lo scontro di civiltà, se vogliamo:
si vede, cioè, come un uomo che sta chiuso dentro i valori della sua civiltà non riesce
ad interpretare il comportamento degli altri. Il fatto che i franchi siano al tempo
stesso così privi di gelosia maritale e così coraggiosi in guerra è una contraddizione
che li rende incomprensibili.
Non tutti i franchi però sono uguali. Usama è molto chiaro sul fatto che quelli appena
arrivati sono i peggiori; ma quando è da un po’ che stanno in Oriente, e hanno iniziato
a conoscere le usanze del posto, migliorano molto. Quelli che sono qui da sempre,
perché ci sono nati, spesso sono persone di cui ci si può fidare. I migliori di tutti,
e questo può sorprendere, sono i templari. È inatteso questo giudizio di Usama, perché
i templari sono precisamente quelli che hanno fatto voto di combattere i musulmani,
hanno creato un ordine monastico apposta per poter combattere. Ma proprio per questo
sono gente che passa tutta la vita in Terrasanta, metà del tempo a combattere e l’altra
metà a negoziare, come si fa sempre. Perciò sono quelli che hanno più esperienza,
sono più capaci di stare con i capi musulmani e apprezzano di più i loro modi di fare,
non si stupiscono della diversità, mentre quelli appena arrivati dall’Europa sono
molto più intolleranti. Racconta Usama: «Un tratto della rozzezza dei franchi, Dio
li confonda» – in buono stile arabo classico è bene quando si parla dei miscredenti
aggiungere pie esortazioni di questo tipo – «è questo. Quando visitai Gerusalemme
io solevo entrare nella moschea Al Aqsa...». Notiamo che in questo momento Gerusalemme
è in mano crociata, è la capitale del regno, Saladino non l’ha ancora riconquistata:
e tuttavia noi qui apprendiamo che a Gerusalemme i musulmani entrano e vanno a pregare
in moschea, qualcosa che in Europa sarebbe stato assolutamente impensabile. Invece
qui la moschea c’è ancora, solo di fianco alla moschea i franchi hanno costruito una
chiesa; e certamente non ci sarà stato un culto pubblico musulmano con tanto di richiamo
dal minareto, ma i singoli musulmani e cristiani usavano gli stessi spazi per pregare.
Dunque Usama entra nella moschea di Al Aqsa che è gestita dai templari, lui dice addirittura
«i miei amici templari»; loro, dice, mi lasciavano pregare tranquillamente nella moschea.
«Un giorno entrai, dissi la formula Allah Akbar, Dio è grande», e sta per cominciare a pregare, rivolto verso la Mecca, quando arriva
un franco, si precipita verso di lui e lo sposta, in modo che guardi verso Oriente:
perché nel Medioevo da noi si dà per scontato che mentre si prega ci si deve rivolgere
a Oriente, e il principio è così fortemente interiorizzato dalla gente, che vedere
qualcuno che prega senza rivolgersi a Oriente suscita scandalo. Il franco spinge
Usama e lo volta a forza verso Oriente, «dicendo: così si prega». Per fortuna arrivano
i templari che prendono l’energumeno e lo allontanano, così Usama può continuare a
pregare come vuole lui; ma dopo un po’ l’altro torna e vuole di nuovo costringerlo
a voltarsi verso Oriente. «E di nuovo i templari intervennero, lo allontanarono e
si scusarono con me, dicendo: È un forestiero, è arrivato in questi giorni dal paese
dei franchi e non ha mai visto nessuno pregare fuorché col viso rivolto ad Oriente».
Ma naturalmente la difficoltà di accettare le differenze è la stessa da entrambe le
parti, e lo prova lo scandalo di Usama di fronte a un aspetto per noi così familiare
della devozione cristiana com’è la figura di Gesù Bambino in braccio a Maria. Per
Usama invece non era familiare affatto, perché prima di incontrare i crociati non
aveva la minima idea che ci fosse della gente che fabbricava delle immagini di una
donna con un bambino in braccio sostenendo che quello era Dio; e la volta che glielo
spiegano c’è di nuovo lo shock culturale, Usama non riesce a credere a una cosa del
genere. C’è un grande emiro che è andato a pregare alla moschea della Roccia: siamo
sempre in questa Gerusalemme multietnica e multireligiosa che i crociati, lode a loro,
erano riusciti a gestire. L’emiro va a pregare alla moschea – evidentemente è un momento
di tregua – ed ecco che arriva uno e gli dice: Vuoi vedere Iddio bambino? L’emiro,
incuriosito, accetta, e Usama va con lui. «E quegli ci precedette fino a mostrarci
l’immagine di Maria col Messia piccolo in grembo: Questo, disse, è Iddio bambino».
Usama racconta questa storia per far capire quanto sono incredibilmente superstiziosi
i cristiani, capaci di credere che Dio, il quale è inattingibile e ultraterreno, e
secondo l’Islam non si può neanche raffigurare, possa addirittura essere rappresentato
come un bambino. E infatti conclude: «Ben più in alto è Iddio altissimo, di ciò che
gli infedeli sostengono!».
Eppure anche in Usama scatta quella stessa riluttante ammirazione che abbiamo ritrovato
nell’imperatore Alessio Comneno, il riconoscimento che certo questi crociati sono
diversi, rozzi, barbari, però che belli che sono! Sui loro cavalli, in armatura, quando
caricano tutti insieme sono irresistibili, e in battaglia sono così coraggiosi: Usama
lo ripete più volte. Del resto, nonostante le enormi differenze religiose e culturali,
uomini come lui hanno molto in comune con i loro nemici/ospiti cristiani. Usama nei
periodi di tregua capita spesso a casa di qualche capo crociato, addirittura del re
di Gerusalemme, il re Folco, successore di Goffredo di Buglione; ci sono momenti in
cui discutono e scoprono di avere un terreno di conversazione in comune, parlando
di cavalli per esempio, o di falconi, perché la caccia col falcone li appassiona tutti
e sono tutti intenditori di questo sport. Ora, gli occidentali del tempo di Usama
sono infatuati della cavalleria, nel senso tecnico che il termine assume in Occidente:
i giovani nobili non solo passano la vita imparando a cavalcare e a combattere, ma
vengono addobbati cavalieri, con un rito di iniziazione che conferisce anche una condizione
giuridica privilegiata. La cavalleria intesa in questo senso istituzionale i musulmani
non la conoscono, però apprezzano i bravi cavalieri, e questo può provocare degli
equivoci. Usama è alla corte del re Folco a Gerusalemme, e chiacchierano, e il re
gli dice: mi congratulo, perché ho saputo che sei cavaliere. E Usama risponde: sono
un cavaliere al modo della nostra gente. Evidentemente lui intuisce che per i franchi
essere cavaliere vuol dire qualcosa di più complesso, però l’equivoco interculturale
questa volta funziona in senso positivo: il re pensa che questo principe bello e coraggioso
sia stato armato cavaliere come accadrebbe in Europa.
Nonostante la feroce volontà di non capirsi e di massacrarsi a vicenda, le élites
turche e quelle Crociate finiscono dunque per trovare, inevitabilmente, un terreno
comune, e pazienza se si basa sull’equivoco. Non c’è dubbio che si ammirano reciprocamente;
quel tal cavaliere anonimo che scrive una storia della Prima Crociata, e che abbiamo
già incontrato nelle pagine precedenti, a un certo punto ha un’uscita sbalorditiva.
Sta raccontando la prima grande battaglia, sotto le mura di Antiochia, in cui i crociati
hanno sconfitto i turchi a gran fatica e dopo aver creduto di essere perduti; e il
nostro cavaliere commenta: «Chi sarà mai così saggio e dotto da riuscire a descrivere
la prudenza, le capacità militari e la forza dei turchi?». Ci vorrebbe la penna di
un altro, io non sono capace di spiegarlo quanto sono in gamba questi turchi. Questo
apprezzamento è tanto più importante in quanto i turchi combattono in un modo molto
diverso dai cavalieri occidentali: combattono a cavallo ma con arco e frecce, non
praticano la carica a sfondare con le lance, ma si tengono a distanza, bersagliano
il nemico con le frecce, si allontanano e poi tornano, una tattica che si pratica
fin dall’Antichità in Medio Oriente. I crociati all’inizio li disprezzano, ma poi
capiscono che questo modo di combattere è efficace quanto il loro, e che ci vogliono
abilità e coraggio anche per combattere così. Infatti il nostro continua: «Loro credevano
di spaventare la gente dei franchi con la minaccia delle loro frecce, come hanno spaventato
gli arabi, i saraceni, e gli armeni, e i siriani, e i greci, ma se a Dio piace non
varranno mai quanto i nostri», che è come dire, noi siamo meglio, ma è una bella gara.
Ma la parte più sbalorditiva è la conclusione: «i turchi dicono di essere della razza
dei franchi, e che nessun uomo per natura deve essere cavaliere se non i franchi e
loro».
È lo stesso equivoco in cui cadrà pochi anni dopo Usama: per i crociati essere cavaliere
ha un significato giuridico, prodotto da quel rituale dell’addobbamento che sancisce
come l’ingresso in una confraternita o una corporazione, la più onorifica che si possa
immaginare; e sta cominciando anche ad assumere, grazie soprattutto agli sforzi della
Chiesa, una valenza ideologica, quella d’un impegno a combattere per difendere la
Cristianità e anche per aiutare i re e i principi a mantenere la pace e proteggere
i deboli. Ebbene, i crociati ammirano talmente i turchi che a un certo punto si convincono
che anche loro sarebbero degni di essere cavalieri: non i greci, che noi chiamiamo
bizantini, perché nella loro civiltà intellettualistica e sofisticata i cavalieri
occidentali percepiranno sempre qualcosa di fondamentalmente irriducibile ai loro
valori, ma i turchi sì. E il nostro conclude che se solo fossero cristiani, non ci
sarebbe nessuno capace di tenergli testa.
Una conseguenza molto istruttiva di questa riluttante ammirazione per l’altro consiste
in questo, che non si riesce più ad accettarne l’alterità, e si finisce per convincersi
che tanto altro in fondo non è. Non si tratta, sia chiaro, di riconoscere il valore
dell’alterità e, per così dire, la pari dignità del diverso, ma di ricondurlo a sé.
Fra i cronisti delle Crociate il fatto che i turchi siano un popolo così palesemente
superiore ai greci o agli arabi porta alla nascita della leggenda secondo cui anche
loro, come i romani e come i franchi, discendono dai troiani. È possibile che anche
fra i turchi, che della guerra di Troia avevano certamente sentito parlare anche loro
entrando in contatto con i bizantini dell’Asia Minore, sia nata una leggenda di questo
genere; dopo tutto, lo abbiamo appena visto, il cavaliere anonimo della Prima Crociata
attribuisce ai turchi stessi la pretesa di essere «della stessa razza dei franchi».
Di fronte alle figure più ammirate, poi, scatta un altro bisogno compulsivo, quello
stesso che al nostro tempo, alla morte di una personalità notoriamente non credente,
induce le pretese rivelazioni sulla sua conversione in extremis: l’invenzione consolatoria per cui anche loro alla fine si sono fatti cristiani.
Il nemico che i crociati ammirano di più, il Saladino, è anche quello che gli ha dato
più filo da torcere, è quello che ha sbaragliato l’esercito di Guido di Lusignano
presso il lago di Tiberiade e ha riconquistato Gerusalemme; il Saladino che è rimasto
impresso nella nostra memoria collettiva, fino al «feroce Saladino» delle figurine
Perugina di tanti anni fa. Ebbene, subito dopo la sua morte cominciano a circolare
in Occidente una quantità di leggende su di lui: il Saladino è venuto segretamente
in Europa, e si è fatto armare cavaliere; ha avuto una storia con Eleonora di Aquitania,
la formidabile principessa che accompagnava i crociati e che è passata anche lei alla
leggenda. Meglio ancora: il Saladino in realtà era figlio di cristiani, è stato scambiato
in culla, e questo spiega come mai era così valoroso e così cavalleresco. E infine:
il Saladino, in punto di morte, si è convertito al Cristianesimo.
Ma del resto lo stesso Usama non aveva forse fatto amicizia, nel campo di re Folco,
con un nobile franco «che era venuto dal loro paese in pellegrinaggio e tornava poi
indietro»? Erano così amici che si chiamavano fratelli; e quando il franco ripartì,
propose a Usama di affidargli suo figlio, così come si usava tra i nobili in Occidente,
perché lo educasse a casa sua: «che conosca i cavalieri, e impari il senno e la cavalleria».
Per Usama la proposta è insensata, perché «andarsene al paese dei franchi» per suo
figlio non sarebbe meglio che cadere in prigionia; ma è troppo beneducato per dirlo,
e così inventa che sua madre, la nonna del ragazzo, gli è troppo affezionata, e lui
ha promesso di riportarglielo. Nell’immaginario degli occidentali, evidentemente,
questo rammarico che i turchi, così nobili e valorosi, non conoscessero l’Europa e
non apprezzassero le sue usanze era frequente; un rammarico che, va detto, non sembra
altrettanto comune fra i musulmani, i quali tendono piuttosto a trovare incomprensibili
le contraddizioni dei cristiani. Non è facile dire quale dei due atteggiamenti testimoniasse
una maggior chiusura in se stessi e una maggiore impermeabilità al diverso. Eppure
fra i crociati venuti in Oltremare c’erano anche quelli che s’erano avvezzati ai modi
di vita del posto e li preferivano a quelli della patria lontana; come quel «cavaliere
di quelli antichi, venuti con la prima spedizione dei franchi», e cioè con la Prima
Crociata, che un amico ebreo di Usama fece in tempo a conoscere ad Antiochia, che
teneva cuoche egiziane, e si vantava di non mangiare carne di maiale. Uomini venuti
a conquistare e massacrare, e poi conquistati essi stessi, che potevano dire di sé,
come dirà più tardi Giacomo di Vitry, «Nos qui fuimus occidentales»: noi che un tempo
eravamo occidentali, e non lo siamo più.