X. Dopo il disastro
1.
La notizia della disfatta di Adrianopoli e della morte di Valente suscitò un’emozione
immensa nell’impero romano. Non tanto forse, come potremmo pensare con la nostra mentalità
moderna, per lo shock che un imperatore romano fosse stato ucciso combattendo contro
i barbari. Non era la prima volta che capitava: nel secolo precedente era successo
a Decio, fra l’altro proprio contro i Goti che già allora avevano fatto irruzione
nei Balcani; e un altro imperatore, Valeriano, era stato sconfitto e catturato dai
Persiani, ed era morto in vergognosa prigionia (il sovrano nemico, secondo le voci
che correvano, lo usava come sgabello per montare a cavallo). È vero che erano passati
più di cent’anni da allora, e nemmeno i vecchi si ricordavano più di un disastro di
tale portata; ma c’erano lo stesso buoni motivi per cui la morte di un imperatore
in battaglia non era da considerare un evento così raro. L’impero ne aveva conosciuti
tanti, di generali che prendevano il potere e si proclamavano imperatori, fino al
momento in cui qualche altro generale li sfidava; quelli che perdevano, di solito
venivano ammazzati e passavano alla storia come usurpatori, ma finché erano vivi anche
loro erano stati adorati dai sudditi come imperatori legittimi. In pratica, la sacralità
dell’imperatore era una finzione: o meglio, a essere sacra era la funzione, non l’uomo.
Erano sacri la porpora e il diadema, non il corpo che provvisoriamente li indossava.
Dunque, l’emozione provocata dalla notizia di Adrianopoli aveva altri motivi. Da due
anni l’opinione pubblica seguiva col fiato sospeso la tragedia delle province balcaniche;
la seguiva attraverso le poche notizie rilasciate dal palazzo imperiale, e molto di
più attraverso le voci che correvano, i sussurri e le leggende metropolitane. La paura
ancestrale dei barbari, che covava sempre in un fondo della mentalità romana, si era
risvegliata all’improvviso. La paura è una sensazione forte, e le notizie che arrivavano
dalle zone devastate dai Goti erano fatte apposta per rafforzarla ancora di più: basta
osservare l’avidità un po’ macabra con cui gli scrittori dell’epoca, compreso Ammiano
Marcellino, si soffermano sulle storie più orripilanti ed eccitanti, descrivendo la
crudeltà dei barbari, quello che facevano ai prigionieri, quello che facevano alle
donne. L’opinione pubblica seguiva col fiato sospeso, e non come facciamo noi quando
si tratta di orrori lontani, che vediamo in televisione ma che non ci toccano e non
ci toccheranno mai: lì l’eccitazione era accentuata dal sapere che quelle cose accadevano
vicino a te, dentro l’impero, e che potevano capitare anche a te, se la situazione
fosse peggiorata ancora un po’.
Ed ecco, alla fine l’imperatore si era mosso, con il fior fiore dell’esercito, un
reggimento dopo l’altro, scintillanti di ferro, per farla finita una volta per tutte,
e tutti davano per scontato che i barbari, finalmente, se la sarebbero vista brutta;
dopo tutto, il destino manifesto dell’impero era di vincere i suoi nemici, alla fine
la civiltà vince sempre e i barbari perdono, è così che è regolato il mondo. E invece
era successo l’impensabile, i barbari avevano vinto; e si capisce che la notizia abbia
provocato un trauma in tutto l’impero.
2.
Un altro motivo per cui la notizia di Adrianopoli suscitò un’emozione profonda è legato
alla personalità controversa di Valente. Sappiamo già che il fratello di Valentiniano
non era popolare. Quando si seppe che era stato sconfitto, e soprattutto quando si
capì che non sarebbe più tornato, e che sicuramente il suo cadavere era rimasto sul
campo di battaglia, la reazione della gente fu contrastante; sgomento, certo, perché
era pur sempre l’imperatore, ma anche una specie di cupa soddisfazione. Molti furono
pronti a dire: l’avevo detto, che prima o poi finiva male. Ammiano Marcellino apre
addirittura il suo racconto della guerra contro i Goti descrivendo i segnali nefasti
che avevano presagito la morte di Valente, e che secondo lui si erano diffusi in tutto
l’impero fin da quando si era saputo dell’arrivo dei Goti. Naturalmente anche queste
sono leggende metropolitane: gli antichi erano sinceramente convinti che i grandi
avvenimenti, e soprattutto le grandi disgrazie, la morte degli uomini illustri, fossero
preannunciati da presagi e da miracoli, e dopo che una catastrofe si era verificata,
tutti erano sicuri che i presagi c’erano stati.
Ma la pagina in cui Ammiano Marcellino descrive i presagi del disastro di Adrianopoli
e della morte di Valente è tutta da leggere. Intanto perché ci fa toccare con mano
quanto fossero superstiziosi i Romani, di una superstizione che noi associamo piuttosto
al Medioevo, e che invece era profondamente radicata nella mentalità antica; e poi
perché ci dà un’idea del clima che si era creato dopo la notizia, quando tutti erano
pronti a dire che Valente doveva andare a finir male per forza. L’elenco squadernato
dal cronista lascia stupefatti: previsioni circostanziate di indovini e àuguri, che
avevano preannunciato il disastro; lupi che ululavano, uccelli notturni che cantavano
in modo lugubre, perfino il sole che si levava più pallido del solito.
E poi: Valente, un po’ di tempo prima, aveva fatto uccidere con l’inganno il re d’Armenia,
e in un’altra occasione aveva fatto condannare a morte uno dei suoi ministri, con
un’accusa di tradimento, probabilmente inventata. Bisogna dire che questo clima da
processi staliniani era normale sotto l’impero, e non c’è quasi nessun imperatore
che non avesse sulla coscienza qualche processo politico e qualche morto ammazzato;
ma dopo la morte di Valente cominciò a correre voce che i fantasmi di quelli che lui
aveva fatto uccidere ingiustamente erano apparsi, stridendo i denti e bisbigliando
nenie funebri da far drizzare i capelli.
E ancora: vicino a Costantinopoli venne trovata una vacca morta, con la gola tagliata,
e per qualche ragione che ci sfugge la cosa fu considerata un presagio di grandi lutti
pubblici; e dei muratori che stavano scalzando delle vecchie pietre per reimpiegarle
in una nuova costruzione trovarono dei versi greci, incisi in tempi antichissimi,
che preannunciavano l’invasione dei Goti. Ma il presagio più interessante, fra quelli
che racconta Ammiano, è questo. «Ad Antiochia», dice, «nelle risse e nei tumulti del
volgo era invalso l’uso che chiunque avesse l’impressione di subire una violenza,
gridava sfacciatamente ‘Possa bruciar vivo Valente!’». Questa è davvero la prova che
in realtà storie di questo genere cominciarono a circolare solo dopo la battaglia:
dopo che tutti avevano sentito raccontare l’altra leggenda, anch’essa priva di qualunque
verifica, per cui Valente, appunto, era bruciato vivo in una fattoria. Ma gli antichi
a queste cose ci credevano.
3.
Quello romano, dunque, era un mondo superstizioso, un mondo che credeva ciecamente
agli indovini e ai presagi. Eppure quella era anche la società che pian piano stava
metabolizzando il messaggio cristiano, benché poi naturalmente trovasse il modo di
dividersi anche sul significato di quel messaggio. Valente, lo sappiamo, era cristiano,
ma a quell’epoca non bastava essere cristiani; bisognava scegliere, la confessione
ariana o quella cattolica. La concorrenza era durissima, e spaccava le comunità; la
posta in gioco era molto concreta, perché non si trattava soltanto di chi avrebbe
prevalso nell’opinione pubblica, e conquistato la maggioranza dei fedeli: in gioco
c’era anche il possesso materiale degli edifici ecclesiastici, e la gestione dei loro
possedimenti, che erano enormi. Valente stava con gli ariani, e non ne aveva mai fatto
mistero: quando si trattava di decidere se una basilica doveva essere gestita da preti
ariani o da preti cattolici, l’imperatore interveniva regolarmente a favore dei primi.
Perciò i cattolici si fidavano poco di lui, e anzi nelle grandi città dove c’era una
forte comunità cattolica – compresa la capitale, Costantinopoli – era odiato. Si può
dunque immaginare la reazione del mondo cattolico quando si seppe che Valente era
morto, ed era morto così male, e per giunta, con crudele ironia, proprio per mano
di barbari che in parte erano eretici come lui.
I cristiani disapprovavano gli indovini e i presagi, che almeno ufficialmente appartenevano
alla tradizione pagana, anche se poi in realtà ci credevano tutti; ma se le predizioni
erano fatte da santi uomini e contenevano un avvertimento morale, era tutta un’altra
cosa. Negli ambienti ortodossi, dopo la battaglia, si diffuse la voce che quando Valente
stava per partire da Costantinopoli per andare ad affrontare i Goti, un santo monaco,
Isacco, uno che parlava chiaro anche ai potenti e non aveva paura di niente, si era
presentato all’imperatore e gli aveva detto all’incirca: «Guarda che questo è il momento
di smettere di difendere gli eretici e di perseguitare gli ortodossi; restituisci
ai cattolici le chiese che hai confiscato per darle ai loro nemici, e la vittoria
sarà tua». L’imperatore si era offeso, e aveva ordinato di arrestare il monaco e tenerlo
in prigione fino al suo ritorno, e allora avrebbe deciso in che modo punirlo; ma il
monaco rispose: «Se non restituisci le chiese, non tornerai».
Quanto ci possa essere di vero in questa storia, è difficile dirlo; ma quando si seppe
che Valente, effettivamente, non sarebbe tornato, i cattolici cominciarono a divulgarla
come se fosse Vangelo. La morte dell’imperatore, a questo punto, diventava un giudizio
di Dio. Il vescovo di Milano, sant’Ambrogio, si rivolse all’imperatore d’Occidente,
Graziano, garantendogli che Dio gli avrebbe dato la vittoria contro i Goti, paragonati
ai popoli biblici di Gog e Magog: la fede ortodossa, infatti, garantiva la vittoria,
mentre la rovina di Valente era la giusta punizione per le persecuzioni inflitte ai
cattolici.
Sarebbe interessante sapere come la presero gli ariani, che a quell’epoca erano numerosissimi
e forse addirittura la maggioranza in gran parte dell’impero d’Oriente, ma non lo
sappiamo e non lo sapremo mai, perché com’è noto, alla fine fra le due confessioni
è quella ortodossa che ha prevalso, e pochi testi di parte ariana hanno avuto la possibilità
di arrivare fino a noi. Sappiamo, in compenso, come reagirono i pagani: accusando,
com’era inevitabile, la nuova religione di aver provocato la collera degli dei e privato
l’impero della loro protezione. Che non vengano a dirci, tuona il retore Libanio,
che i generali erano degli incapaci o i soldati dei vigliacchi; al contrario dobbiamo
celebrare il ricordo della loro lotta, il coraggio con cui hanno versato il sangue
e sono morti nei ranghi. Il loro valore era lo stesso dei loro antenati, e per amore
della gloria hanno sopportato il caldo e la sete, il fuoco e il ferro, e hanno preferito
la morte alla vergogna. «Se il nemico li ha battuti», conclude il vecchio retore greco,
«io sono convinto che la causa è la collera degli dei contro di noi».
4.
La battaglia di Adrianopoli, dunque, fu un trauma per il mondo antico. Ammiano Marcellino
decide di chiudere la sua opera col racconto di quella battaglia, perché la valenza
simbolica di Adrianopoli gli sembra decisiva; il resto, dice, lo scriva qualcuno più
giovane, se ne ha ancora voglia, ma è chiaro che per lui la storia dell’impero romano
finisce lì, come se fosse arrivata a un punto fermo.
Gli storici moderni sono stati fin troppo pronti a riprendere questo punto di vista:
si sa che le date simboliche, capaci di segnare in modo netto la fine di un’epoca
e l’inizio di un’altra, non sono poi tante nella storia, e quando ce n’è una che sembra
adatta gli storici non se la lasciano sfuggire. Gli autori dei secoli scorsi, quelli
che hanno plasmato la nostra immagine dell’Antichità e del Medioevo, hanno visto subito
che Adrianopoli aveva tutte le caratteristiche per essere una data di questo genere:
era il punto di partenza di una crisi che alla lunga si sarebbe conclusa con la sparizione
dell’impero romano d’Occidente. Prima di allora, l’impero aveva già conosciuto parecchi
disastri, ma si era sempre risollevato; dopo le invasioni barbariche e le guerre civili
del III secolo erano venuti grandi imperatori come Diocleziano e Costantino, e uomini
così facevano ancora parte della grande storia dell’impero romano. Ma dopo Adrianopoli
sembrava di poter dire che quella storia era finita, e semmai ne cominciava un’altra,
assai meno gratificante secondo il punto di vista di allora: quella dell’impero bizantino.
Ma c’è anche un altro motivo per cui Adrianopoli è sembrata agli storici una svolta
decisiva della storia; per impulso, stavolta, dell’immaginazione più che del ragionamento.
È forte, infatti, la tentazione di vedere in questa battaglia il trionfo della cavalleria,
che preannuncia già il Medioevo, contro la fanteria, incarnazione della Roma antica.
Adrianopoli appare come l’ultima battaglia delle legioni, la fine dell’esercito romano,
che dopo quella disfatta non sarà mai più lo stesso; come l’avvento non solo di un
modo di combattere, ma di tutto un universo di valori e di simboli che viene dalla
barbarie, e che si contrappone a quello antico.
Ora, chi ha avuto la pazienza di seguirci fin qui sa che queste interpretazioni drammatiche,
da scontro di civiltà, se vogliamo chiamarle così, quando si vanno a vedere le cose
un po’ più da vicino, reggono poco. L’esercito romano era un organismo troppo grande
per morire in una sola battaglia, e infatti continuò a combattere ancora per parecchi
secoli, e anche piuttosto bene; e d’altra parte si stava già trasformando per conto
suo, perché nella storia non c’è niente che rimanga fermo. Immaginare una diversità
radicale fra l’esercito di Valente e quello di Fritigerno, identificando l’uno col
passato romano e l’altro col futuro medievale, è come credere che Roma e i barbari
fossero due realtà estranee l’una all’altra; e noi sappiamo che non era così. In realtà
quei due eserciti erano quasi identici, composti più o meno allo stesso modo e armati
con le stesse armi. Ma allora, tutto questo significa che la rottura rappresentata
da Adrianopoli dev’essere ridimensionata, e che dopo tutto la battaglia non fu così
decisiva? In realtà non è così: le conseguenze, sul lungo periodo, ci sono, e di enorme
portata; ma forse sono un po’ più complesse di quel che si crede di solito.
5.
Il mattino dopo la battaglia, i Goti cominciarono a rendersi conto dell’entità della
loro vittoria. Se davvero il corpo dell’imperatore Valente scomparve in mezzo ai mucchi
di morti e non fu mai più ritrovato, può darsi che i barbari non abbiano saputo subito
di averlo ucciso; ma l’esercito romano che aveva marciato contro di loro il giorno
prima non esisteva più. C’erano così tanti caduti che non valeva neanche la pena di
spogliarli, molte più armi e armature di quelle che potevano servire per riarmare
tutti i Goti. I popoli barbarici, in genere, dopo una vittoria come quella si fermavano,
anche per molto tempo: per festeggiare, per celebrare riti religiosi, o semplicemente
perché non avevano nessun altro progetto, nessuna idea di come continuare. Ma sappiamo
già che i Goti non erano più dei barbari, erano in contatto da troppo tempo con il
mondo romano e stavano imparando in fretta, e i loro principi, soprattutto Fritigerno,
avevano una visione strategica della situazione. E così la mattina stessa i Goti,
invece di trattenersi sul campo di battaglia, si misero in marcia verso la città di
Adrianopoli.
L’avevano già assediata una volta in passato, e senza successo, tanto da indurre il
loro capo a quella famosa affermazione, che a loro non conveniva fare la guerra alle
mura; ma stavolta c’era un motivo preciso per andarci. I Goti infatti sapevano dai
traditori e dai disertori che ad Adrianopoli erano rimasti i membri del concistoro,
e le insegne imperiali, e soprattutto il tesoro di Valente. È chiaro che valeva la
pena di riprovarci, ed è solo un luogo comune quello impiegato da Ammiano Marcellino
quando descrive i barbari che si dirigono verso la città decisi a distruggerla, «simili
ad animali resi più selvaggi dall’eccitante odore del sangue»: in realtà non era affatto
un comportamento da selvaggi, ma una mossa perfettamente razionale.
Alle dieci del mattino i barbari erano già lì, e questo vuol dire che erano partiti
presto e si erano mossi molto in fretta. La città aveva serrato le porte, ma tutti
i soldati e gli addetti ai bagagli, che Valente aveva lasciato lì il giorno prima,
erano rimasti fuori, nell’accampamento. Non li avevano lasciati entrare, e non c’è
da stupirsene troppo, perché sappiamo già che i magistrati di Adrianopoli erano particolarmente
sospettosi quando si trattava della sicurezza della loro città; perciò i soldati si
erano trincerati nel loro accampamento sotto le mura, e lì tennero testa all’attacco.
Si combatté per parecchie ore, intorno ad Adrianopoli, e a un certo punto un numeroso
gruppo di soldati romani, trecento, dice Ammiano, disertarono tutti insieme e passarono
al nemico. Trecento uomini sono quasi un reggimento, ed è impressionante la facilità
con cui potevano avvenire queste diserzioni di massa, in un esercito dove troppi reggimenti
erano reclutati quasi al completo all’interno di uno stesso gruppo tribale. Quel tentativo
però finì molto male, perché i Goti, forse davvero eccitati, stavolta, dall’odore
del sangue, dopo aver aperto le file per far passare i disertori li ammazzarono tutti;
e dice Ammiano che da quel momento, anche quando erano in una situazione disperata,
ai soldati non venne più in mente di disertare.
6.
Il combattimento intorno alle mura di Adrianopoli durò parecchie ore, mentre il cielo
pian piano si rannuvolava e diventava nero; finché, per fortuna dei difensori, venne
giù un acquazzone violentissimo, un temporale estivo con tuoni e fulmini, e i Goti,
forse più che altro per uno spavento superstizioso, interruppero l’assedio e andarono
a ricoverarsi nel loro accampamento di carri. Ma la giornata era ancora lunga e mentre
i guerrieri si rifocillavano e si curavano le contusioni e le ferite i capi goti non
stavano con le mani in mano. Innanzitutto mandarono alla città un parlamentare per
notificare un ultimatum: se gli abitanti volevano salva la vita, dovevano aprire le
porte e arrendersi. Il parlamentare, però, non osò entrare in città, per paura che
i Romani gli facessero la pelle; solo l’ultimatum fu portato dentro e letto ai comandanti
romani, ma tutti decisero di non tenerne conto. Allora i Goti ricorsero a un altro
stratagemma, e mandarono una nuova delegazione; stavolta era composta di ufficiali
romani, che avevano disertato (anche loro!) il giorno prima, passando dalla parte
dei barbari. Costoro dovevano presentarsi alle porte della città e cercare di entrare,
sostenendo che erano stati fatti prigionieri dal nemico, ma erano riusciti a scappare
dall’accampamento e ora volevano ritornare dai loro.
È impressionante constatare come il racconto di Ammiano Marcellino ormai non parli
d’altro che di disertori che passavano dalla parte dei Goti; e stavolta non si tratta
di soldati semplici, ma di quelli che si chiamavano candidati, un corpo di ufficiali scelti che costituiva al tempo stesso una specie di guardia
personale dell’imperatore e un vivaio di ufficiali di stato maggiore, destinati a
fare carriera. Anche fra i candidati, naturalmente, c’erano molti barbari; in un libro di san Girolamo, la Vita di Ilarione, si incontra appunto uno di questi alti ufficiali, un candidatus, che è di nazionalità franca, ed è mandato in missione in Siria: ha i capelli rossi
e la pelle lattea, parla latino e franco, ma non greco o siriaco, e certamente dev’essere
apparso abbastanza esotico agli occhi degli indigeni. Ma che ad Adrianopoli parecchi
candidati abbiano disertato e siano passati ai barbari, è davvero incredibile, e ci dà la misura
dello sbandamento morale dell’esercito al momento della catastrofe.
Questi disertori d’alto rango, dunque, dovevano presentarsi alle porte di Adrianopoli
e chiedere di entrare, fingendo di essere dei prigionieri fuggitivi; e una volta dentro,
i loro nuovi padroni gli avevano ordinato di appiccare degli incendi in città, in
modo che mentre la popolazione e i soldati erano impegnati a spegnerli, gli assedianti
avrebbero potuto fare irruzione.
Quando i candidati si presentarono davanti ai fossati, tendendo le mani e gridando che erano Romani,
le sentinelle li fecero entrare senza nessun sospetto; poi però, una volta dentro,
li portarono negli uffici per interrogarli. Quelli che li interrogavano si resero
conto che c’era qualcosa di strano nella loro storia, che fra una testimonianza e
l’altra affioravano troppe contraddizioni; e allora li misero alla tortura. Sotto
il basso impero i torturatori erano dei professionisti, sicché alla fine i disertori
confessarono il loro tradimento, e finirono decapitati tutti quanti.
7.
Dentro Adrianopoli, intanto, si lavorava febbrilmente a rafforzare le difese, perché
ci si aspettava che i Goti l’indomani avrebbero attaccato di nuovo. Si bloccavano
le porte con grossi macigni, si ammucchiavano pietre e terra contro i settori più
deboli delle mura, si montavano macchine da guerra sugli spalti e sulle torri, e si
raccoglievano riserve d’acqua, perché il giorno prima, combattendo nella calura, i
soldati avevano sofferto la sete e qualcuno era addirittura morto disidratato. In
realtà i Goti attaccarono già quella notte, sperando nell’effetto della sorpresa;
ma le difese erano pronte, e non solo i soldati, ma gli abitanti della città e perfino
il personale della corte imperiale erano sugli spalti a combattere. Ad Adrianopoli,
fra l’altro, c’era un grande arsenale, una fabbrica statale di armi, con una manodopera
di operai che le armi le conoscevano bene e sapevano usarle, non solo fabbricarle;
perciò la popolazione civile era in grado di collaborare efficacemente alla difesa.
Contro gli assalitori che si affollavano alle porte cercando di sfondarle piovevano
pietre e frecce, e le macchine da guerra scagliavano massi; i Goti a loro volta tiravano
senza interruzione contro gli spalti, e si sforzavano di demolire le mura. Si combatté
per tutte le ultime ore della notte e poi anche durante la giornata, ma gli attacchi
erano sempre più fiacchi e alla fine cessarono del tutto: ancora una volta, i Goti
si erano resi conto che senza macchine da assedio era impossibile prendere una città.
Le perdite, in un attacco del genere, erano sempre molto alte e i Goti cominciavano
a perdersi d’animo; del resto i Romani avevano sempre pensato che una caratteristica
dei barbari fosse appunto quella di scoraggiarsi facilmente, mentre sono gli uomini
civilizzati quelli che si pongono un obiettivo e poi lo perseguono ostinatamente,
senza lasciarsi scoraggiare dagli insuccessi. Rientrati nel loro accampamento i Goti
curavano i feriti, «con i loro rimedi da barbari», dice Ammiano, che sembra piuttosto
scettico sulla loro efficacia, anche se in verità la medicina romana non era molto
più rassicurante. Ma più che altro i guerrieri litigavano, accusandosi a vicenda di
aver dimenticato il consiglio di Fritigerno. Qualcuno cominciava a dire che assediare
le città era uno sbaglio, e sarebbe stato molto meglio ricominciare a saccheggiare
la campagna, dove c’era ancora tanta roba da portare via. Ammiano conferma che i transfughi
e i disertori avevano descritto certe zone casa per casa, e addirittura gli interni
delle case più ricche; e possiamo immaginare che gli schiavi fuggitivi provassero
un gusto tutto particolare a guidare i barbari a casa del padrone. Perciò alla fine
i Goti decisero di lasciar perdere Adrianopoli, e ricominciarono a battere la campagna.
Fra i Romani, intanto, nessuno sapeva con sicurezza cosa fosse capitato a Valente.
Appena i barbari tolsero l’assedio, tutti i cortigiani e i funzionari e gli eunuchi
che erano rimasti assediati dentro Adrianopoli lasciarono la città e di notte, per
vie traverse, si rifugiarono nell’Illirico e in Macedonia, preoccupandosi di portare
in salvo il tesoro imperiale. Erano ancora convinti che lì avrebbero ritrovato il
loro imperatore, alla testa delle truppe sfuggite alla catastrofe: ci volle un po’
perché si rendessero conto che non l’avrebbero rivisto mai più.
8.
L’incertezza regnava anche nella capitale. I Goti erano vicini e anche se tutti sapevano
che finora non erano mai riusciti a espugnare una città, la paura che incutevano era
ingigantita dagli ultimi avvenimenti. Si può immaginare il panico che travolse la
popolazione di Costantinopoli quando si venne a sapere che dopo aver saccheggiato
le campagne tutt’intorno, e ammazzati o fatti schiavi la maggior parte dei contadini,
i barbari si stavano avvicinando. L’attrazione delle ricchezze concentrate nella metropoli
era troppo forte, e i Goti avevano deciso di tentare il colpo grosso. Si spostavano,
a dire la verità, con prudenza, come se non credessero davvero che l’esercito romano
era stato liquidato; in passato avevano fatto delle brutte esperienze e temevano sempre
di essere attaccati di sorpresa durante la marcia. Alla fine, però, arrivarono ad
accamparsi davanti alle mura di Costantinopoli.
In città, naturalmente, erano rimaste delle truppe, ma non abbastanza per uscire a
dare battaglia; tutt’al più i comandanti romani potevano sperare di impegnare gli
assedianti con qualche azione di disturbo. D’altronde avevano sottomano proprio le
truppe giuste per questo; nella capitale, infatti, stazionavano dei reparti di cavalieri
arabi, o meglio saraceni, come li chiamavano all’epoca. Com’è noto, l’esercito romano
reclutava mercenari nei paesi più lontani; e gli Arabi, poi, non erano un popolo particolarmente
esotico. C’erano Arabi sudditi dell’impero, e cristiani, e c’erano Arabi nomadi che
però da molto tempo avevano dei trattati con Roma, e fornivano mercenari, appunto,
e facevano la scorta alle carovane per conto dei Romani. L’esercito che Valente aveva
radunato per la guerra contro i Goti comprendeva delle bande di cavalleria araba,
e può darsi che qualcuna di quelle bande abbia combattuto anche ad Adrianopoli, e
sia stata distrutta lì; almeno una, però, era rimasta nella capitale. Ammiano Marcellino
osserva che in battaglia questi Saraceni non valevano poi molto, ma la razzia ce l’avevano
nel sangue, e infatti i generali romani li usavano soprattutto per l’esplorazione
e per le spedizioni a grande distanza, alla ricerca di viveri e di foraggio. Stavolta,
però, capitò che un reparto di Goti si stava avvicinando un po’ troppo alle mura,
e i Saraceni furono fatti uscire per attaccarli; durante il corpo a corpo uno di loro
sopraffece un Goto, gli tagliò la gola col coltello, e poi accostò la bocca alla ferita
e bevve il suo sangue.
Non abbiamo idea del significato rituale o magico che questo gesto poteva avere per
i Beduini, ma i Goti ne furono sgomenti: questi energumeni coi capelli lunghi, che
combattevano praticamente nudi, cacciando urla selvagge, e bevevano il sangue dei
nemici erano decisamente troppo barbari per gente ormai in parte romanizzata e cristianizzata,
com’erano i Goti. A partire da quel momento, dice Ammiano, cominciarono a perdersi
di coraggio; vedevano l’immensità delle mura che difendevano Costantinopoli, e dietro
le mura i blocchi di case d’abitazione, a molti piani, che sembravano estendersi a
perdita d’occhio; e più si rendevano conto delle dimensioni della città, più finivano
per scoraggiarsi. Alla fine rinunciarono all’assedio e se ne andarono: era destino
che almeno per il momento le grandi città dell’impero si rivelassero una preda superiore
alle loro forze.