1. Una società clientelare
a) L’insufficienza delle classificazioni giuridiche
Un messo dominico chiese un giorno istruzioni a Carlo Magno per decidere un delicato
processo, in cui era in gioco la condizione giuridica dei figli d’uno schiavo e di
una colona; una contadina, cioè, che lavorava per il fisco regio per obbligo ereditario,
ma secondo regole stabilite ancora dagli imperatori romani e che sulla carta avrebbero
dovuto distinguerla dai veri e propri schiavi. L’imperatore rispose che il messo non
doveva sottilizzare troppo e risolvere il caso come avrebbe fatto se la madre fosse
stata schiava: «perché non c’è altro che liberi e schiavi». Il responso è così netto
che siamo tentati di prenderlo come guida per descrivere la società dell’epoca, in
cui in effetti la schiavitù antica era ancora, formalmente, in vigore, e dunque l’opposizione
giuridica fra liberi e schiavi potrebbe apparire decisiva per determinare le condizioni
sociali.
In realtà, le cose non stanno proprio così. Tanto per cominciare, la secchezza del
responso dipende dal fastidio con cui Carlo sta rispondendo ai quesiti del messo,
di cui non appare per nulla soddisfatto: poco più in là, in risposta a un altro interrogativo,
gli fa scrivere addirittura: «questo ve l’abbiamo già ordinato prima a voce, e non
l’avete ancora capito!». L’affermazione per cui non esistono se non liberi e schiavi,
inoltre, non è originale, ma è una citazione dal diritto romano, sfogliato frettolosamente
alla ricerca non d’una teoria generale della società, ma soltanto di un’indicazione
pratica con cui risolvere alla svelta un caso individuale. Infine, non è affatto ovvio,
come ci accorgeremo nel corso di queste pagine, che il latino servus, qui, vada tradotto con schiavo, e non con un termine più generico come servo. Anche
se, come vedremo, la schiavitù aveva grande importanza nell’impero di Carlo Magno,
non è partendo dalle definizioni giuridiche che possiamo capire meglio il mondo contadino
del suo tempo.
Lo stesso vale all’estremo opposto della società, fra i nobili. Che nell’impero esistesse
una cerchia di famiglie straricche, tutte più o meno imparentate fra loro e magari
anche con l’imperatore, che nelle loro province facevano il bello e il cattivo tempo,
comandando da padroni a folle di contadini e accaparrandosi incarichi comitali e cattedre
vescovili, è più o meno sicuro; come pure non c’è dubbio che molte di queste famiglie
si vantavano d’essere antiche, e guardavano dall’alto in basso chi non apparteneva
alla loro cerchia, anche quando il favore imperiale lo faceva diventare ricco e potente.
Quando Ludovico il Pio nominò arcivescovo di Reims appunto un uomo nuovo, Ebbone,
che era addirittura un liberto nato da contadini che faticavano sulle terre demaniali,
il vescovo di Treviri, Tegano, commentò sprezzantemente: «L’imperatore ti ha fatto
libero, ma non ti ha fatto nobile, perché è impossibile!».
Questo stesso esempio dimostra, peraltro, che perfino la ristretta classe dirigente
dell’impero non era costituita esclusivamente da nobili. E comunque, la nobiltà di
cui si vantavano Tegano e i suoi pari non era una condizione giuridica, come accadrà
invece alla fine del Medioevo: nascere nobili significava nascere in una famiglia
non solo ricca ma conosciuta e influente, che aveva le parentele e le amicizie giuste,
possibilmente da parecchio tempo, ma non significava aver diritto a privilegi sanzionati
dalla legge. Almeno non presso i Franchi, giacché c’erano anche popoli, come i Sassoni,
fra i quali esisteva un ceto nobiliare così nettamente separato dai semplici liberi
da meritare un riconoscimento giuridico: nelle sue leggi, Carlo Magno non introduce
mai disposizioni o tariffe separate per i nobili, tranne in quelle relative alla Sassonia,
dove questa distinzione diventa invece la regola. Ma è evidente che agli occhi dell’imperatore
si trattava sempre e comunque di eccezioni, mentre l’impianto legislativo dell’impero
rispecchiava nel complesso la tradizione giuridica franca, e non prevedeva un trattamento
separato per i nobili.
b) La vischiosità dei rapporti sociali
Una rassegna delle condizioni giuridiche non è dunque il modo migliore per descrivere
la società al tempo di Carlo Magno. Lui stesso, quando si sforzava di riflettere sulla
composizione dell’umanità da lui governata, non ricorreva a questo criterio; ciò che
lo colpiva era piuttosto il fatto che gli uomini, fossero nobili o plebei, liberi
o schiavi, erano quasi tutti coinvolti in rapporti di dipendenza, talvolta ereditari,
talvolta invece liberamente scelti, quasi sempre, comunque, di natura clientelare;
e che alla fin fine erano proprio queste dipendenze personali a determinare, più d’ogni
altra cosa, la condizione sociale. Vediamo, ad esempio, con che criterio venne organizzato
dal re, nel 793, il giuramento collettivo di fedeltà che tutti i sudditi dovevano
prestargli. Carlo Magno ordina ai messi di far giurare innanzi tutto i vescovi e gli
abati, i conti e i vassi dominici, i visdomini, che sono uomini di fiducia dei vescovi,
gli arcidiaconi che sono i massimi dignitari ecclesiastici d’ogni diocesi, e i canonici;
insomma i quadri dirigenti dell’amministrazione ecclesiastica e laica.
Seguono i monaci e i chierici che fanno vita comune, i quali sono esentati dal vero
e proprio giuramento, non compatibile con i loro voti, ma debbono comunque promettere
fedeltà in presenza dell’abate, che riferirà dettagliatamente al re. «Poi gli avvocati
e i vicari, i centenari e i preti secolari», prosegue Carlo, dimostrando ancora una
volta la compenetrazione fra le due gerarchie: per cui non solo gli avvocati, che
amministrano le terre della Chiesa e disciplinano i suoi dipendenti, ma anche l’insieme
dei sacerdoti costituiscono, per così dire, i quadri di base della gerarchia ecclesiastica,
in parallelo con i funzionari locali che dipendono dal conte. Passando poi «all’insieme
del popolo», il sovrano stabilisce che debbono giurare tutti gli uomini validi maggiori
di dodici anni, e li elenca in questo modo, procedendo idealmente dall’alto verso
il basso: «sia i proprietari indipendenti, sia gli uomini dei vescovi e delle badesse
o dei conti, o comunque di altri signori, e anche i servi del fisco e della Chiesa
e i coloni, e quegli schiavi che sono onorati dal padrone con incarichi e benefici:
tutti giurino».
La società, insomma, appare affollata a tutti i livelli d’uomini che dipendono da
qualcun altro, e proprio attraverso questa dipendenza vedono definita la propria condizione
sociale. Ma è una definizione nient’affatto meccanica: per stabilire il rango di un
uomo conta il tipo di dipendenza, che sia quella libera dei vassalli, e più in generale
di chi s’è raccomandato a un patrono, o quella ereditaria dei liberti e degli schiavi,
ormai sempre più spesso confusi nell’unica categoria dei servi; ma conta anche il
rapporto fiduciario che ognuno stabilisce col signore da cui dipende, e che può indurre
il re a scegliere uno dei suoi fedeli per nominarlo conte o vescovo, oppure un proprietario
terriero a innalzare uno dei suoi schiavi affidandogli la gestione di un’azienda.
E soprattutto, bisogna vedere da chi si dipende, giacché tanto per un vassallo libero
e armato quanto per un liberto o uno schiavo che zappa la terra è diverso, e perfino
molto diverso, essere uomo del re, d’un monastero o d’un latifondista privato.
Alla vischiosità dei rapporti personali sfugge forse una sola categoria, quella che
abbiamo tradotto dei «proprietari indipendenti», i comuni uomini liberi che formavano
in origine l’ossatura del popolo franco, e che non avevano altro obbligo se non di
prestare servizio militare e pagare gli oneri pubblici: ma non è un caso, come vedremo
alla fine di questo capitolo, se già al tempo di Carlo Magno essa appare minacciata,
se non addirittura in via di estinzione. Mantenere una piena indipendenza sociale
ed economica, e anzi anche giuridica, era già difficile in passato per chi non fosse
molto ricco; in futuro diventerà impossibile.
2. Tutti gli uomini del re
a) I potenti
Al vertice, la società franca era governata da coloro che riuscivano a ottenere dal
re un incarico di fiducia, nell’amministrazione laica o in quella ecclesiastica: conti
e vassi dominici, vescovi e abati. Quanti erano questi che i documenti dell’epoca,
ben a ragione, chiamano potentes? All’acme della sua espansione, si è calcolato che l’impero comprendeva ben 189 sedi
vescovili, e dunque altrettanti vescovi, ognuno conosciuto personalmente da Carlo,
e anzi probabilmente nominato da lui. I monasteri erano ancora più numerosi, più d’un
mezzo migliaio; non tutti erano sotto la protezione diretta del re, ma quelli che
lo erano, e in cui la nomina dell’abate spettava a lui, arrivavano circa a duecento.
Quanto alle autorità laiche, si può calcolare che l’imperatore fosse rappresentato
nelle province da qualcosa come duecento o duecentocinquanta conti, tutti nominati
personalmente da lui, e da almeno un migliaio di vassi dominici.
Oltre al contatto personale e fiduciario con l’imperatore, ciò che caratterizzava
questa élite era il possesso di immense ricchezze, sia pure con forti disuguaglianze.
Nel 793, ordinando speciali elemosine per alleviare gli effetti della carestia, Carlo
Magno stabilisce che i vescovi, gli abati e le badesse che possono permetterselo dovranno
donare venti soldi, quelli non tanto ricchi dieci soldi, i meno ricchi, infine, cinque.
Fra i conti, i più ricchi dovranno anch’essi dare venti soldi, gli altri dieci; egualmente
dieci soldi dovranno i più ricchi fra i vassi dominici, quelli che possiedono, e il
dato è significativo, almeno duecento poderi; quelli che ne hanno almeno cento pagheranno
cinque soldi, e di meno, in proporzione, quelli che ne hanno soltanto trenta, o venti.
Come dire che i più poveri fra i vassalli del re avevano comunque qualche decina di
famiglie contadine che lavoravano per loro, e i più ricchi qualche centinaio, mentre
conti, vescovi e abati potevano arrivare tranquillamente al migliaio; anzi i più ricchi
sfondavano facilmente anche questo tetto. Il monastero di Saint Germain-des-Prés aveva
oltre milleseicento affittuari, in massima parte liberi; fra costoro, con le loro
famiglie, e gli schiavi della riserva, dall’abate dipendevano complessivamente oltre
quindicimila persone.
Le cospicue dotazioni che accompagnavano un ufficio comitale o una cattedra vescovile
contribuivano poderosamente a questo accumulo di ricchezze; ma in realtà la maggior
parte dei potenti nascevano già ricchi. I grandi proprietari terrieri, padroni di
quelli che anticamente si sarebbero chiamati latifondi e che ora, gestiti secondo
criteri diversi, si organizzavano piuttosto in villae, avevano una radicata abitudine al comando, giacché in una società quasi esclusivamente
agricola, dove la terra è coltivata da schiavi o da affittuari fortemente subordinati
al padrone, gestire la proprietà terriera significa disciplinare e anche punire gli
uomini. Non stupisce perciò che proprio da questo ambiente il re traesse per lo più
i suoi conti, o a un livello più locale i suoi vassi dominici, come pure i vescovi
e gli abati: la supremazia economica si accompagnava spontaneamente all’impegno nel
servizio pubblico, che d’altronde permetteva a sua volta ai meno scrupolosi, cioè
quasi tutti, di arrotondare efficacemente le proprie ricchezze.
Persone di questo rango tendevano, naturalmente, a sposarsi fra loro. Non esistevano
ancora, all’epoca, concetti come la primogenitura o il lignaggio patrilineare, per
non parlare del cognome e dello stemma, che caratterizzeranno invece la nobiltà del
tardo Medioevo e dell’Antico regime: una parentela nobile rappresentava un aggregato
fluido di nuclei familiari imparentati per sangue o per matrimonio, una moltitudine
di zii e nipoti, cognati e cugini, sempre pronti a raccogliere l’eredità l’uno dell’altro.
Un’organizzazione così flessibile della parentela ne favoriva, fra l’altro, la durata,
impedendo che fosse spazzata via dagli azzardi della demografia. Solo una scelta di
campo sbagliata in occasione d’un cambiamento di regime, una catastrofe fatta d’esecuzioni
e di confische, poteva mettere brutalmente fine alle fortune d’una grande famiglia;
altrimenti è ovvio ch’essa durava, anche senza privilegi giuridici garantiti per nascita.
Che i patrimoni dei magnati potessero agevolmente far da fondamento a una potenza
politica, si constata facilmente quando un documento fortunato ce ne descrive qualcuno.
Nel 739 Abbone, che governava in Provenza per conto di Carlo Martello, fece testamento,
assegnando generosi lasciti all’abbazia della Novalesa, da lui fondata, e ad altre
chiese. Egli elencò innanzitutto i suoi beni nella Valle di Susa, ereditati dai genitori
e spesso affidati a intendenti, magari schiavi o liberti, enumerati puntigliosamente
con le loro famiglie. Al di là delle Alpi, l’enumerazione si allarga a quelli che
saranno poi la Savoia e il Delfinato, al Lionese e alla Borgogna, e poi a sud, lungo
la valle del Rodano, fino al Mediterraneo.
Ovunque – osserva Giovanni Tabacco che per primo ha commentato questo documento –
emergono, insieme coi più disparati acquisti, gli allodi ereditati; compaiono, accanto
ai nomi di venditori, i nomi di ascendenti e di collaterali da cui gli allodi derivano,
e qua e là serie di nomi di ingenui nostri, di liberti nostri, di ministeriali. Tutto denuncia la lunga convivenza di un gruppo parentale potente
con una popolazione di dipendenti, di origine servile in gran parte: come quel liberto
– ricordato con moglie e figli – che Rustica, madre di Abbone, aveva fatto trasferire
dal pagus di Ginevra a quello di Gap.
Ma accanto agli allodi ereditati o acquistati, ecco comparire la menzione di possessi
conferiti ad Abbone «per verbo dominico», cioè per concessione del maestro di palazzo:
e sono, di regola, possessi confiscati a un magnate della Gallia meridionale che s’era
opposto alla riconquista franca, aveva insomma scelto, diversamente da Abbone, il
campo sbagliato...
E proprio da una scelta di campo deriva la costituzione di quella che gli storici
tedeschi chiamano Reichsadel, la nobiltà imperiale: ovvero la cerchia di famiglie da cui Carlo Magno, come già
il padre e il nonno, trae di preferenza i suoi collaboratori, e che si caratterizza
proprio per l’ampiezza internazionale del suo raggio d’azione. Per lo più si trattava
di famiglie già ricche e potenti prima dell’avvento dei Carolingi, e addirittura,
nella Gallia meridionale ancora profondamente romanizzata, di famiglie che vantavano
una discendenza dall’antica nobiltà senatoria; ma con l’ampliamento dell’impero queste
parentele videro costantemente accresciute le loro possibilità d’azione, e largamente
rimunerata la fedeltà con cui avevano servito la nuova dinastia. Esse riuscirono così
ad acquisire e conservare patrimoni in una pluralità di province e addirittura di
regni, accumulando villae situate a volte a migliaia di chilometri di distanza l’una dall’altra, e candidandosi
automaticamente a svolgere incarichi di fiducia in zone anche molto lontane da quella
d’origine; oltre ad allacciare una fitta rete di alleanze matrimoniali con famiglie
di pari livello e di diversa provenienza geografica.
b) Raccomandati e vassalli
Conti, vescovi e abati, secondo l’usanza, si raccomandavano al re nel momento in cui
prendevano servizio; si affidavano cioè alla sua protezione e promettevano di servirlo,
con quelle modalità specificamente clientelari, per non dire mafiose, che erano già
ben vive al tempo dell’impero romano, e non erano mai passate di moda. Ma non erano
soltanto loro ad assoggettarsi a questa che non era certo una semplice formalità,
benché la consuetudine la rendesse a tutti gli effetti obbligatoria. In pratica chiunque
entrava a contatto col re e lo serviva in qualsiasi capacità, purché si trattasse
d’un servizio libero e volontario e non della servitù ereditaria cui erano tenuti
schiavi e liberti, si metteva nelle sue mani raccomandandosi alla sua benevolenza,
ed entrando quindi ufficialmente a far parte della più potente di tutte le clientele.
Si raccomandavano i chierici che entravano a far parte della cappella, come i guerrieri
che s’impegnavano a servire con armi e cavalli, ormai abitualmente indicati col nome
di vassalli. Il nobile che sperava di far entrare il figlio al servizio dell’imperatore,
come l’abate che desiderava segnalare il più promettente dei suoi giovani monaci,
conducevano il candidato a palazzo e lì lo raccomandavano, magari accompagnandovi
le lettere di presentazione di qualche altro potente o intellettuale ben conosciuto
dal sovrano: è da questa folla di giovani che gli si erano raccomandati e che vivevano
a palazzo con lui che Carlo Magno traeva di volta in volta, quando un posto si rendeva
vacante o un beneficio diventava disponibile, i nuovi dignitari ecclesiastici e i
nuovi vassi dominici da insediare nelle province.
Le lettere di qualche notabile dell’epoca giunte fino a noi, ad esempio quelle di
Eginardo, mostrano quanto fosse fitto questo scambio di raccomandazioni e di favori,
quanto la carriera d’un giovane promettente dipendesse dalle parentele e dalle amicizie
giuste, e quanta ricchezza il re fosse in grado di distribuire, ritagliando benefici
dal fisco o dai patrimoni ecclesiastici, a coloro che lo servivano bene o anche semplicemente
disponevano di appoggi sufficienti. Queste concessioni si chiamavano tecnicamente
precarie, perché era necessario avanzare pubblicamente una richiesta, cioè una preghiera,
per riuscire a ottenere ciò che si desiderava; ma il termine d’uso più corrente era
benefici, perché era chiaro a tutti che solo la benevolenza del re, ottenuta con la
fedeltà, le raccomandazioni e magari i regali, era all’origine di queste concessioni.
In un caso come nell’altro, è difficile immaginare un linguaggio che denunci più esplicitamente
la gestione profondamente clientelare del potere e del patrimonio pubblico.
Questo tessuto di amicizie e di clientele, di favori e di raccomandazioni si replicava
intorno a ogni potente. Il re non se ne preoccupava, né del resto avrebbe potuto intervenire
a scardinare una delle strutture portanti della società in cui viveva. Su un aspetto,
però, di queste clientele private Carlo Magno volle intervenire, e con la massima
decisione. Era normale che un potente, un conte, supponiamo, o un vescovo, ma anche
un semplice notabile, un grande latifondista, si circondasse d’una squadra di armati;
e che costoro, se erano liberi e non semplicemente schiavi armati a sue spese, gli
si raccomandassero e gli giurassero fedeltà. Era la consuetudine che fin da tempi
antichissimi i Franchi chiamavano trustis, dalla radice germanica che significa appunto fiducia, fedeltà; e che costituiva
il versante guerresco delle pratiche clientelari universalmente diffuse nella società
romano-germanica.
Carlo Magno volle evitare che queste clientele armate potessero assumere una connotazione
eversiva, e ordinò che d’ora in poi si dovessero legalizzare secondo la procedura
del vassallaggio, la stessa ch’egli usava per legare a sé i vassi dominici. Ciò significava
che il giuramento di fedeltà doveva essere prestato pubblicamente, e non in privato,
e che chiunque entrasse in vassallaggio s’impegnava perciò stesso a servire non soltanto
il suo signore, ma anche l’imperatore, combattendo nei suoi eserciti ogni volta che
il signore era convocato per la guerra. Se la grande diffusione del beneficio riflette
la natura sostanzialmente clientelare della società, quella non meno ampia del vassallaggio
nasce insomma dal desiderio del re di controllare e disciplinare alla luce del sole
i vincoli clientelari, o almeno quelli che assumevano una connotazione militare, conferendo
loro una portata inequivocabilmente pubblica.
c) «Fiscalini» ed «ecclesiastici»
Fin qui abbiamo parlato di gente che stava dalla parte vincente della società, quelli
che nascevano bene o comunque avevano gli appoggi giusti, e dunque ricavavano vantaggi
concreti da un’organizzazione clientelare che per la maggioranza voleva dire soltanto
sfruttamento e fatica: i raccomandati, per così dire, e non gli asserviti. Fra questi
ultimi vanno invece collocati gli schiavi, i liberti e i coloni, che nel complesso
rappresentavano una percentuale importante, e fors’anche la maggioranza dei contadini.
Il termine servi, che tecnicamente designa ancora, al modo antico, soltanto gli schiavi veri e propri,
è già usato qualche volta per indicare collettivamente tutti questi dipendenti, la
cui soggezione al padrone si configura come un vero e proprio asservimento. Anche
qui, in ogni caso, la condizione giuridica, definita con maggiore o minore precisione
a seconda delle circostanze, non basta a definire uno statuto sociale: non meno importante
è il tipo di padrone da cui ciascuno dipende. Chi lavora, per obbligo di nascita,
sulle terre del fisco o della Chiesa, che è poi quasi la stessa cosa, può andare a
testa alta, e guardare dall’alto in basso i contadini che faticano sulla terra di
un padrone privato: dietro l’uomo del fisco o dei preti c’è l’ombra lunga del re.
Non per nulla Carlo Magno, nell’organizzare il giuramento di fedeltà del 793, lascia
completamente fuori tutti i contadini dipendenti, schiavi o liberti: sono uomini dappoco
e il re non ha bisogno della loro fedeltà, giacché gli basta quella dei loro padroni;
ma nel caso degli uomini suoi, e della Chiesa, il discorso è diverso. Al pari dei
coloni, debbono prestare il giuramento tutti i fiscalini e gli ecclesiastici; termini generici, sul piano giuridico personale, ma molto precisi, invece, su quello
sociale, che designano l’insieme dei contadini, siano schiavi o liberti, ereditariamente
insediati su terra fiscale o ecclesiastica. Già nelle antiche leggi dei Franchi costoro
si vedevano riconoscere uno statuto privilegiato, e in molte situazioni erano accomunati
agli uomini liberi piuttosto che agli schiavi; e lo stesso accade ancora al tempo
di Carlo Magno. Certo, anche qui bisognerà distinguere: il bracciante rurale impiegato
insieme ad altri poveracci come lui sulla riserva di qualche azienda fiscale sperduta
nelle province era comunque un uomo di nessun conto; quello che riusciva a ottenere
un incarico gestionale e con esso un certo margine di responsabilità si trasformava
di fatto in un piccolo notabile locale, più potente di tanti uomini liberi.
Che poi alcuni di costoro ne approfittassero per far fortuna con ogni sorta di abusi,
non può certo stupire: giacché proprio la capacità di commettere abusi impunemente
era il segno, e la condizione, del successo. Quando Carlo Magno vieta ai funzionari
locali, vicari e centenari, di comprare schiavi da un servo regio, ci lascia intuire
tutto un tessuto di illegalità, complicità e prepotenze, che il palazzo faceva fatica
ad arginare. Lo stesso vale per quei dipendenti ecclesiastici dell’Istria che da quando
il loro paese, prima soggetto a Bisanzio, era stato annesso all’impero di Carlo erano
diventati improvvisamente arroganti, come lamentavano nell’804 gli abitanti: «al tempo
dei Greci non avrebbero mai osato prendersela con un uomo libero, o colpirlo a bastonate,
anzi non osavano nemmeno sedersi davanti a loro; ora invece ci bastonano e ci minacciano
con le spade, e noi non osiamo resistere per paura del nostro signore l’imperatore,
temendo che faccia peggio». Certo, pochi faranno la carriera d’un Ebbone, che nasce
liberto e finisce arcivescovo di Reims; qualcuno, però, poteva sperare di diventare
a sua volta prete, oppure capoccia dell’azienda in cui lavorava: quel po’ di mobilità
sociale che s’indovina al tempo di Carlo Magno era senza dubbio più vivace là dove
comandavano il re o la Chiesa che non sui latifondi dei privati.
3. Il mondo contadino
a) La consuetudine del dominio
Se la corsa agli uffici distribuiti dal sovrano era riservata, con poche eccezioni,
a una ristretta élite di ricchi, l’ombra del re era dunque lunga, e arrivava a coprire
le spalle a una moltitudine di uomini la cui condizione economica e giuridica era
per altro verso delle più modeste. A sua volta, questa moltitudine di liberti e schiavi
del fisco e della Chiesa non era che una parte, sotto certi aspetti la più garantita,
e meno indecorosamente sfruttata, di un settore immensamente più ampio della società,
che in certe zone arrivava a comprendere la totalità degli abitanti delle campagne:
i contadini che lavoravano sotto padrone.
Fra costoro le condizioni giuridiche erano piuttosto diverse, e non si trattava di
pure formalità: c’era differenza concreta, di diritti e anche di possibilità, fra
uno schiavo e un liberto, fra un colono obbligato a risiedere sul fondo e un livellario
che almeno in teoria aveva firmato liberamente un contratto col padrone. Ma prima
di esaminare una per una queste figure è comunque necessario ribadire che all’epoca
di Carlo Magno, e forse già prima d’allora, questa diversità di situazioni tendeva
a stemperarsi in una comune soggezione, in cui gli obblighi uguali per tutti, imposti
dal padrone e sostenuti dalla legge, modellavano la condizione contadina più delle
distinzioni giuridiche.
L’organizzazione della grande proprietà in villae favoriva questa tendenza, per cui ai dipendenti d’una determinata azienda il padrone
richiedeva canoni e prestazioni che una volta fissati restavano poi sempre quelli.
Gli anni passavano, i contadini morivano e i figli subentravano ai padri nella conduzione
del podere, ma gli obblighi verso il padrone non cambiavano; i coltivatori non avevano
la forza contrattuale per rinegoziarli, e da parte sua il padrone preferiva la comodità
amministrativa garantita dal rispetto delle vecchie abitudini. In compenso questi
obblighi cambiavano da una provincia all’altra, a seconda del tipo di agricoltura
che vi si praticava e anche della tradizione giuridica, franca o romana, sassone o
longobarda, in cui viveva la maggioranza degli abitanti; anzi cambiavano anche da
un’azienda all’altra, a seconda, ad esempio, del tipo di investimento che il padrone
vi aveva fatto, o della percentuale di schiavi fra i coltivatori (cui si potevano
imporre, e di fatto si imponevano, obblighi più pesanti).
Nasceva così in ogni dominio padronale una consuetudine che tutti rispettavano e che
finì per assumere valore di legge; anzi, in qualche occasione la legge intervenne
espressamente a regolarla. Nell’anno 800 Carlo Magno, che soprattutto in quell’anno
potremmo immaginarci assorbito in tutt’altri pensieri, dovette occuparsi delle lamentele
presentate a palazzo dai dipendenti fiscali ed ecclesiastici della provincia del Maine,
che denunciavano l’arbitrio con cui gli amministratori esigevano da loro le corvées: «perché la faccenda era gestita in modi diversi, e qualcuno era costretto a lavorare
tutta la settimana, altri mezza, e altri ancora due giorni». L’imperatore stabilì
che d’ora in poi in tutta la provincia i contadini che lavoravano per il fisco o per
la Chiesa, se possedevano buoi a sufficienza per tirare l’aratro, avrebbero arato
i campi del padrone un giorno alla settimana, mentre i manovali che non possedevano
buoi avrebbero prestato tre giornate di lavoro manuale; «e abbiamo stabilito così,
affinché i dipendenti non possano sottrarsi ai predetti obblighi, ma neanche i padroni
possano pretendere di più». Comunque, anche in assenza di interventi così mirati,
la legge-quadro, per così dire, vigente all’epoca stabiliva che i contadini dipendenti,
compresi quelli liberi che firmavano un contratto, accettassero di sottoporsi alla
giustizia del padrone in caso di controversie. Gli obblighi che gravavano sui dipendenti
sfuggivano così sempre più alla sfera del negoziato per trasformarsi in consuetudini
perpetue, di cui il padrone stesso era per legge il garante.
b) Gli schiavi
Fra i contadini che lavoravano sotto padrone, gli schiavi costituivano ancora una
proporzione importante, anche se non così larga come nell’Antichità. In ogni villa, erano schiavi non solo i lavoratori impiegati sulla riserva, i cosiddetti prebendari,
ma anche una parte di quelli cui erano affidati i poderi, chiamati servi casati. In
certe grandi proprietà monastiche, le sole in cui una stima è possibile, si constata
che un po’ più di metà dei dipendenti sono affittuari liberi, un terzo circa servi
casati, e un 15-20 per cento prebendari: così, il monastero bresciano di Santa Giulia
dava lavoro a un migliaio di persone sulla riserva e a oltre cinquemila sui poderi,
di cui almeno tremila liberi, gli altri schiavi. È chiaro che queste percentuali,
valide per la grande proprietà, non riflettono la proporzione complessiva degli schiavi
nella società, giacché là dove prevale la piccola proprietà gli schiavi sono molto
meno numerosi; il che non vuol dire che non esistano affatto. Carlo Magno riduce gli
obblighi militari di chi «si trova ad essere così povero che non possiede né schiavi
né terre di sua proprietà», segno che anche un piccolo possidente può avere qualche
schiavo che lo aiuta nel lavoro.
Sul piano giuridico, lo schiavo è ancor sempre una proprietà del padrone, e può essere
comprato e venduto, esattamente come nel mondo romano. Regolamentando, nell’806, la
convivenza dei tre figli fra i quali aveva deciso di spartire il suo impero, Carlo
Magno stabilì che nessuno di loro avrebbe dovuto acquistare nella porzione dell’altro
possessi immobiliari, e cioè terre, vigne, boschi «o schiavi che siano già casati»,
mentre rimaneva in loro facoltà l’acquisto di oro, argento e gemme, armi e vestiario
«e schiavi non ancora casati, insomma tutte quelle merci che trattano i negozianti».
In termini economici gli schiavi erano una merce, e c’erano mercanti che si arricchivano
col loro commercio, anche se la religione, spalleggiata dalla legge, poneva parecchi
vincoli al traffico, scoraggiando la vendita separata di marito e moglie, e vietando
espressamente di esportare schiavi cristiani al di fuori della Cristianità. Per evitare
questi e altri abusi, Carlo Magno ordinò fin dal 779 che ogni vendita di schiavi avvenisse
alla presenza del vescovo o del conte, nonché di testimoni degni di fiducia, e vietò
a chiunque di vendere i propri schiavi per l’esportazione fuori dai confini dell’impero;
molti anni dopo suo figlio Pipino ribadì la norma per l’Italia, proibendo di comprare
schiavi di nascosto e condurli di contrabbando in un’altra regione.
Il commercio di schiavi, per sfuggire a queste limitazioni, tendeva a concentrarsi
sui prigionieri di guerra pagani, Sassoni e poi Slavi, catturati nelle guerre vittoriose
di Carlo Magno. Sembra tuttavia che questo traffico alimentasse soprattutto l’esportazione
verso la Spagna musulmana, e che gli schiavi importati non abbiano alterato significativamente
gli equilibri della popolazione servile all’interno dell’impero, salvo forse nell’area
germanica. Qui è possibile che la manodopera servile fosse composta per l’essenziale
da Slavi, e proprio qui ebbe inizio l’evoluzione semantica poi estesa a tutte le lingue
dell’Occidente, per cui il nome etnico degli Slavi divenne sinonimo di schiavitù:
un documento bavarese distingue i dipendenti del monastero di Sankt Emmeram in «Bavari
e Slavi, liberi e schiavi», e alla fine riassume le due alternative in una sola: «liberi
o Slavi». Ma in Gallia o in Italia, la maggioranza degli schiavi erano gente del paese,
parlavano la stessa lingua dei padroni ed erano battezzati come loro, anche se sembra
che esistesse un’onomastica tipica degli schiavi, con frequente uso di diminutivi.
Da un punto di vista etnico, essi erano percepiti come Franchi o Longobardi, anche
se tecnicamente questo nome spettava soltanto agli uomini liberi: a Milano, nel 775,
era possibile comprare un ragazzo franco per 12 soldi, meno del prezzo d’un cavallo.
La disponibilità di schiavi era accresciuta dalla possibilità, ammessa dalla legge,
di vendere se stessi in schiavitù, come capitava ai contadini che morivano di fame,
o anche di diventare schiavi del fisco quando non si era in grado di pagare una multa:
magari temporaneamente, fino al saldo del debito. Già Pipino aveva stabilito che se
un uomo libero e sposato era ridotto in schiavitù per qualsiasi motivo, la moglie
aveva il diritto di lasciarlo e risposarsi con un altro, «a meno che non si sia venduto
per povertà, costretto dalla fame, e lei abbia acconsentito, e col prezzo del suo
uomo si sia liberata dalla fame»: in questo caso era giusto che chi era stato salvato
dal coniuge a prezzo d’un tale sacrificio gli dimostrasse la propria gratitudine restando
al suo fianco anche nella schiavitù. Carlo Magno scoraggiò occasionalmente la pratica,
come quando, all’indomani della conquista dell’Italia, informato che molti poveri
avevano venduto se stessi, le mogli e i figli per sfuggire alla miseria provocata
dalla guerra, revocò per legge tutte quelle vendite; ma questo era un gesto politico,
non certo l’affermazione d’un principio, e la prassi continuò ad essere largamente
praticata.
Il limite più forte al libero commercio degli schiavi era piuttosto di natura economica.
Quando un padrone aveva provveduto ad accasare una famiglia di schiavi, affidando
loro un podere, come avveniva con estrema frequenza, perdeva ovviamente ogni interesse
a venderli; poteva farlo se vendeva la terra, giacché qualsiasi acquirente era interessato
ad acquistare la manodopera insieme al fondo, ma altrimenti non gli sarebbe mai venuto
in mente di farlo. Se invece donava il podere per la propria anima, egualmente trasferiva
insieme ad esso i contadini che ci lavoravano, magari affrancandoli e trasformandoli
in liberti della Chiesa. I servi casati, insomma, avevano di fatto la sicurezza di
non essere più strappati alla loro terra; s’erano trasformati, come risulta già dalla
disposizione di Carlo Magno citata poco fa, in una proprietà immobiliare, e se questo
può apparire poco entusiasmante dal punto di vista della dignità umana, in concreto
rappresentava per loro un’importante conquista.
Con l’accasamento giungeva per il servo anche la possibilità, riconosciuta prima nella
pratica e poi dalla legge, di disporre di quel po’ di guadagni extra che riusciva
a mettere da parte lavorando duro. C’erano perfino schiavi che con quel peculio avviavano
un piccolo commercio: quando Carlo Magno introduce la nuova moneta, e ordina a tutti
i negozianti di accettarla senza discutere, stabilisce una multa nel caso che il contravventore
sia un libero; «ma se è di condizione servile, e il commercio è di sua proprietà,
perda il suo commercio, o sia frustato nudo pubblicamente davanti al popolo». La responsabilità
d’un podere o d’un commercio poneva lo schiavo in una situazione sociale non troppo
dissimile da quella dei piccoli proprietari liberi, permettendogli di organizzare
autonomamente il proprio lavoro, e addirittura di possedere a sua volta degli schiavi.
Una legge di Pipino descrive lo schiavo che tiene come concubina una propria schiava,
e gli riconosce, se vuole, il diritto di lasciarla per sposare «una propria pari,
cioè una schiava del suo padrone; ma è meglio che si tenga la sua schiava», conclude,
in ossequio puramente verbale alla campagna condotta dai vescovi contro il divorzio
e la poligamia.
In quanto s’è detto intravediamo implicitamente anche un altro miglioramento, e non
meno clamoroso. Gli schiavi, proprio perché erano cristiani, avevano il diritto di
sposarsi, e il padrone doveva rispettare il loro matrimonio. Già il re longobardo
Liutprando aveva deciso che se il padrone violentava una schiava sposata, lei e il
marito avrebbero ottenuto la libertà; Pipino decretò che se uno schiavo e una schiava,
sposati, erano venduti separatamente, i preti dovevano predicargli l’obbligo di sopportare
cristianamente e accettare la forzata castità, ma nel contempo osservò che bisognava
adoperarsi per cercare di ricongiungerli; Carlo Magno andò oltre, stabilendo che se
un uomo e una donna, appartenenti a padroni diversi, s’erano sposati, purché con le
dovute forme e col consenso dei padroni, non era più possibile separarli. Il che non
impedisce che fra gli schiavi persistessero forme di promiscuità, soprattutto là dove
era concentrata una forte manodopera femminile, addetta alla tessitura: fra gli schiavi
addetti al servizio personale dell’imperatore, Notker menziona «due bastardi, nati
dal gineceo di Colmar», a testimonianza d’una situazione che del resto non sarà molto
diversa, mille anni dopo, nelle fabbriche della rivoluzione industriale.
Per influenza della religione venne abolito anche il diritto di vita e di morte che
il padrone aveva un tempo sui propri schiavi. Beninteso, questi disgraziati, che non
possedevano nulla di proprio se non quel po’ di bestiame che riuscivano ad allevare,
o qualche moneta ricavata vendendo i loro prodotti al mercato, erano ancor sempre
soggetti a punizioni corporali per qualunque mancanza; là dove un libero pagava una
multa, essi erano puniti con la bastonatura e nei casi più gravi con la forca. Ma
Carlo Magno ordinò che fossero bastonati soltanto con verghe e non con randelli, e
stabilì che solo il giudice regio potesse condannarli a morte, punendo i padroni che
ne provocavano la morte con bastonature eccessive. La durezza della schiavitù era
ancor sempre evidente, in questa sottomissione alla punizione corporale che scavava
un fossato fra il libero e il servo, tanto che in occasione di processi riguardanti
appunto la condizione personale, la testimonianza per cui un uomo era stato «battuto
come un servo» risultava decisiva; ma la disumanizzazione dello schiavo propria dell’epoca
precristiana era comunque finita.
c) Il destino dei liberti
Ancor più numerosi degli schiavi, e non troppo diversi come condizione sociale, erano
i liberti. Abbiamo già incontrato quelli del re e della Chiesa; ma ovunque, fra le
moltitudini di contadini che lavoravano per i proprietari terrieri, una percentuale
molto alta e forse maggioritaria era formata da liberti. La figura dello schiavo manomesso,
che conservava un rapporto di ossequio nei confronti dell’antico padrone, divenuto
ora patrono, era familiare già nell’Antichità; ma con l’affermazione del Cristianesimo
la liberazione degli schiavi, espressamente incoraggiata dalla Chiesa come opera buona,
aveva assunto un ritmo molto intenso. Al tempo stesso, per evitare che l’economia
padronale ne risentisse, gli obblighi del liberto nei confronti del patrono vennero
rafforzati. Tutti i diritti germanici conoscevano varie forme di manomissione, le
più solenni delle quali, attuate alla presenza del re e con uso di documenti scritti,
facevano del liberto un libero a pieno titolo, senza l’obbligo di raccomandarsi a
un patrono; ma l’impressione è che queste forme di manomissione plenaria fossero usate
solo in casi rarissimi. Abitualmente, lo schiavo liberato era obbligato a risiedere
come prima sulla terra del padrone, e a lavorare per lui pagando un affitto; e non
aveva il diritto di andarsene senza il suo permesso.
Non è detto che fosse per forza una soluzione svantaggiosa: il liberto lasciato a
se stesso, senza un podere da lavorare e un patrono cui raccomandarsi, andava a ingrossare
le file dei contadini più poveri, e se la popolazione rurale era ancora abbastanza
scarsa perché tutti trovassero alla fine lavoro, non lo era più a tal punto che potessero
anche dettare le condizioni. Al tempo di Ludovico il Pio, nella zona di Rieti, parecchie
decine di liberti, messi in libertà tutti insieme per testamento del gastaldo locale,
ricevettero dei poderi dall’abate di Farfa, ma dovettero accettare condizioni contrattuali
durissime, lavorando fino a una settimana su due, nelle stagioni di maggior impegno,
sulla riserva padronale, oltre a pagare un pesante canone in natura. Vero e proprio
proletariato rurale, impiegato soprattutto nelle zone di dissodamento, i liberti contribuirono
non poco, col loro lavoro, alla prosperità del sistema curtense; ma non è affatto
detto che le loro condizioni di vita fossero migliorate con la manomissione.
Nella maggior parte dei casi, comunque, il liberto restava legato al padrone che l’aveva
manomesso. La legge ne faceva addirittura una questione morale: non sono forse degli
ingrati, osservava già il re longobardo Astolfo, quei liberti che si permettono di
abbandonare il loro benefattore? Oltre tutto, continuava il re, i padroni esitano
a liberare gli schiavi, se non sono sicuri di poter contare sul loro servizio, e così
si mette in pericolo anche la loro anima. Perciò il re stabilì che anche in caso di
manomissione plenaria, quella cioè che faceva del liberto un libero longobardo a tutti
gli effetti, il padrone potesse comunque riservarsi il suo servizio per la durata
della propria vita. Presso i Franchi non incontriamo disposizioni così esplicite,
ma la prassi corrente era comunque di questa stessa natura: il liberto, ch’essi chiamavano
lito, non era un uomo libero, ma andava obbligatoriamente a ingrossare la clientela
del patrono.
Il vero dramma, per i liberti così affrancati, è che alla lunga la distinzione fra
loro e gli schiavi si riduceva al nome, e basta. Obbligati a risiedere in permanenza
sulle terre del patrono, e a servirlo come e quanto voleva, senza poter neppure strappare
quelle condizioni contrattuali più favorevoli che un contadino libero poteva ancor
sempre cercar di negoziare, i liberti si trovavano in pratica assoggettati in modo
non troppo diverso da prima. Innumerevoli testimonianze dimostrano che la condizione
sociale del liberto era molto più vicina a quella dello schiavo che non al libero
vero e proprio. Nel 754 re Pipino emanò una legge contro l’incesto: il colpevole,
se era un libero, doveva pagare una pesante multa, e se non poteva pagare veniva incarcerato;
ma «se è uno schiavo o un liberto, sia bastonato con molti colpi, e il suo padrone
non gli permetta di ricascarci un’altra volta». Nell’802 Carlo Magno ordinò che tutti
gli abitanti delle coste settentrionali, minacciate dalle scorrerie normanne, dovessero
tenersi a disposizione delle autorità locali e accorrere in caso di convocazione;
i contravventori, se erano liberi, dovevano pagare al re una multa, ma se erano liberti
o schiavi «ricevano la multa regia sulla schiena», cioè, ancora una volta, a bastonate.
Nemmeno sul piano matrimoniale, dove perfino gli schiavi avevano compiuto importanti
progressi, l’affrancato era completamente libero: il liberto che aveva una relazione
con una schiava del padrone, se scoperto, era obbligato a sposarla, anche contro la
sua volontà, «se il suo padrone vuole». Accadde così che col tempo chi comandava,
e chi sapeva leggere e scrivere e fissava sulla pergamena l’immagine della società,
perse ogni interesse a distinguere i liberti dagli schiavi. La parola ovunque più
diffusa per designare l’antico schiavo, e la sola che si sia mantenuta nelle lingue
volgari, in Francia come in Italia, cioè servo, cominciò a essere usata indistintamente
per designare gli schiavi e i liberti, per non parlare di altre categorie ancora di
dipendenti rurali, come i coloni; ovvero tutti quei contadini, personalmente liberi,
che s’impegnavano a risiedere in permanenza sul podere, loro e i loro discendenti.
Al tempo di Carlo Magno la confusione, di cui c’è già qualche spia perfino nei capitolari,
era appena all’inizio; ma alla lunga, il suo risultato sarebbe stato la scomparsa,
nelle campagne europee, della schiavitù antica, e l’affermazione d’una nuova dipendenza,
il servaggio, che comprendeva ormai la grande maggioranza dei contadini dipendenti
da un padrone, tutti egualmente assoggettati alla consuetudine del dominio.
4. «Potentes» e «pauperes»
Il destino dei liberti preoccupava poco l’imperatore. Ce ne accorgiamo dal famoso
responso a un messo dubbioso, che abbiamo citato in apertura di questo capitolo e
di cui misuriamo ora tutta la portata: il lapidario verdetto per cui «non c’è altro
che liberi e servi», emanato in un contesto in cui a dover essere trattata da serva
è una colona, dimostra fin troppo chiaramente che l’asservimento di questa moltitudine
di contadini non era, di per sé, un problema politico, anche se altrove Carlo Magno,
com’è suo dovere, si preoccupa che nei loro confronti i padroni si comportino correttamente
e rispettino comunque i loro diritti. Tutt’altro discorso per le difficoltà in cui
si dibattevano i liberi proprietari, schiacciati dalle prestazioni che il re richiedeva
loro, e alla mercé degli abusi che i potenti si permettevano a man salva. Erano questi
gli uomini che sia pure a fatica pagavano le tasse, e che formavano tuttora gran parte
dell’esercito: che troppi di loro fossero costretti a vendere, e ad entrare al servizio
d’un padrone, era una prospettiva decisamente inquietante, e che assumeva, appunto,
una portata politica.
Nei capitolari di Carlo Magno si moltiplicano perciò le disposizioni per proteggere
i poveri dai soprusi dei potenti; dove con poveri non s’intendono, sia chiaro, i veri
poveri, gli schiavi e i liberti sfruttati dai loro padroni, ma gli uomini liberi che
nella concezione tradizionale formavano l’ossatura del popolo franco. La misura più
efficace, senza dubbio, sarebbe consistita nell’esenzione dal servizio militare, ma
l’imperatore era convinto di non poterselo permettere, e anzi, come abbiamo visto,
perseguiva duramente gli inadempienti; pur aggiungendo, forse vanamente, che i funzionari
locali non dovevano approfittarne per rovinarli e impadronirsi delle loro terre. Il
peso rappresentato dall’amministrazione della giustizia poteva, invece, essere alleviato
e Carlo Magno vi si impegnò seriamente, abolendo l’obbligo per gli abitanti di assistere
al placito; anche se il rischio era, così, d’incoraggiare i conti e i loro amici a
gestire sempre più la giustizia pubblica come una faccenda privata. Finalmente, l’imperatore
stabilì che anche i poveri di condizione libera, se dovevano pagare una multa, potevano
convertirla in bastonate, e saldare così, «con la schiena», il loro debito verso il
fisco, evitando il sequestro del bestiame che li avrebbe sprofondati nella miseria.
La maggior parte di queste disposizioni, però, non sono altro che ammonimenti indirizzati
ai potenti, con l’avviso che l’imperatore non tollererà le prepotenze con cui essi
infieriscono sui poveri; e c’è motivo di temere che siano rimaste un po’ troppo spesso
lettera morta. Ovunque si moltiplicano le notizie di liberi che si raccomandano a
patroni potenti, e non in veste di vassalli armati, ma di contadini dipendenti; per
non parlare dei molti che sotto la spinta della fame si vendono addirittura in schiavitù.
Non che il destino dei primi fosse molto diverso, dato che, come abbiamo appena visto,
la consuetudine locale tendeva sempre più ad accomunare in un’unica dipendenza tutti
i contadini. Non per nulla, a partire da quest’epoca, diventano un aspetto abituale
del panorama sociale i processi intentati da gruppi di contadini che vogliono veder
riaffermata dal tribunale la propria libertà personale, contro il padrone che pretende
di trattarli alla stregua di schiavi; qualche volta i contadini vincevano, ma più
spesso no.
La legge stessa, dopo la morte di Carlo Magno, aveva peggiorato la condizione dei
liberi che lavoravano sotto padrone. Al tempo di Ludovico il Pio ripetute disposizioni,
pur badando a ripetere che costoro sono da considerare liberi, stabiliscono che non
possono testimoniare in tribunale, perché non possedendo terra propria è impossibile
rivalersi contro di loro in caso di falsa testimonianza: una libertà priva di sostegno
economico si rivelava, nella pratica, sempre più difficile da difendere. Già da molto
tempo del resto la legge, quella franca come quella longobarda, stabiliva che il libero
residente su terra altrui era sotto la responsabilità del padrone, e che se commetteva
un crimine toccava al padrone arrestarlo e consegnarlo alle autorità; mentre i contratti
che i contadini stipulavano con i proprietari, anche quelli scritti che ancora si
usavano in Italia e che in teoria avrebbero dovuto garantire maggiormente il dipendente,
prevedevano comunque la sottomissione volontaria alla giustizia padronale in caso
di inadempienza contrattuale.
Schiacciati fra due mondi, quello dei raccomandati e quello degli asserviti, i liberi
proprietari conducevano così un’esistenza sempre più precaria. I più forti, quelli
che avevano qualche schiavo e potevano comprarsi armi e cavalli e addestrarsi ad usarli,
potevano entrare a loro volta in una clientela locale, magari quella d’un vasso dominico,
e prendere posto fra i garantiti; per gli altri, quando finì la relativa tranquillità
assicurata da Carlo Magno, l’alternativa fu sempre più spesso quella di soccombere
agli abusi, vendere la propria roba e andare a ingrossare la folla dei servi che lavoravano
sotto padrone.