Indice Estratto

Edizione: 2022
Pagine: 1856, con ill.
Collana: Storia e Società
ISBN carta: 9788858146781
ISBN digitale: 9788858148150
Argomenti: Storia delle istituzioni politiche, Storia contemporanea, Storia d'Italia

I presidenti e la presidenza del Consiglio dei ministri nellItalia repubblicana

Storia, politica, istituzioni

Sabino Cassese Alberto Melloni Alessandro Pajno (a cura di)

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Il governo è il vertice dell’esecutivo e il presidente del Consiglio dei ministri è il centro del governo, un centro in cui confluiscono tutti i poteri. Questo non ci mette al riparo dalla loro caducità – nell’ultimo cinquantennio i governi italiani sono mutati quasi ogni anno –, ma non significa che evapori il potere o che non esista un governo in Italia. Quest’opera ricostruisce la biografia politica dei trenta presidenti del Consiglio dei sessantasette governi dell’Italia repubblicana e dei tre governi della transizione. Storici e giuristi intrecciano alle biografie le dimensioni trasversali di tale funzione nevralgica del paese e della macchina sempre più ampia che ha accompagnato il presidente e la presidenza del Consiglio dei ministri, tanto nella sua permanenza nel Palazzo del Viminale, quanto nella nuova residenza di Palazzo Chigi, ed estesasi nei decenni ai palazzi vicini ove sono stati installati dipartimenti, strutture e uffici. Da questo scavo emergono dati nuovi derivati da fonti edite o inedite. Una riflessione che ricostruisce la storia democratica del paese.

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Indice Estratto

Edizione: 2022
Pagine: 1856
Collana: Storia e Società
ISBN: 9788858146781

Gli autori

Sabino Cassese

Sabino Cassese è professore alla School of Government della Luiss, giudice emerito della Corte costituzionale e professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa. Per Laterza ha pubblicato, tra l’altro: Ritratto dell’Italia (a cura di, 2001); La crisi dello Stato (2002); Lo spazio giuridico globale (2003); Il cittadino nella società (2004); Oltre lo Stato (2006); La nuova costituzione economica(a cura di, nuova edizione 2021); Il governo dei giudici (2022).

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Alberto Melloni

Alberto Melloniè segretario della Fondazione per le scienze religiose, membro dell’Accademia dei Lincei, professore di Storia del cristianesimo e Chief Scientific Advisor della Commissione europea.

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Alessandro Pajno

Alessandro Pajnoè presidente emerito del Consiglio di Statoe professore di Diritto amministrativo II all’Università La Sapienza di Roma.Ha ricoperto numerosi incarichi alla presidenza del Consiglio dei ministri e in vari dicasteri e ha insegnato negli atenei di Bologna, Roma, Palermo e alla Scuola Sant’Anna di Pisa.

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Prefazione
I presidenti del Consiglio dei ministri
nella storia repubblicana
di Sabino Cassese

1. Il «non governo» nell’Italia repubblicana

Piero Calamandrei, pronunciandosi il 4 marzo 1947 all’Assemblea costituente sul governo parlamentare, e chiedendosi se esso potesse «governare stabilmente», dichiarò «di questo, che è il fondamentale problema della democrazia, cioè il problema della stabilità del governo, nel progetto non c’è quasi nulla»¹. Calamandrei, infatti, come molti altri Costituenti, sapeva che la breve durata e la costante debolezza dei governi del prefascismo, simili a quelle della Terza Repubblica francese, avevano condotto al fascismo.

Anche per questo, il 4 settembre del 1946 la seconda Sottocommissione della Commissione per la costituzione dell’Assemblea costituente aveva approvato l’ordine del giorno presentato da Tomaso Perassi, favorevole all’adozione del sistema parlamentare, «da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo»².

Questo impegno non realizzato ha condotto alla vicenda dei governi italiani del secondo dopoguerra. L’Italia repubblicana ha avuto, dalla Costituzione, 67 governi, contro i 25 della Germania, in un periodo anche più breve. In Italia, solo quattro dei 67 governi sono durati in carica più di mille giorni. Solo 31 più di un anno. 32 meno di un anno³.

I presidenti del Consiglio dei ministri italiani⁴, nello stesso periodo, sono stati 30, mentre, dal 1949 a oggi, i cancellieri tedeschi sono stati solo nove⁵.

A questi frequenti ricambi di governo si è accompagnato un altro fattore di cambiamento: la diversa caratteristica dei governi. Si è passati da governi che potremo chiamare di riforma a governi detti «balneari», costituiti solo per assicurare un passaggio, la decantazione di conflitti, il perfezionamento di accordi tra i partiti.

Peraltro, vi è stata, durante la cosiddetta Prima repubblica, una forte stabilità della classe di governo, perché solo una quota oscillante tra il 15% e il 25% dei ministri è cambiata⁶.

Durante tutto l’arco della storia repubblicana, circa cento ministri sono rimasti in carica per più di un quinquennio, facendo parte di numerosi governi. In particolare, due per un quarto di secolo (Emilio Colombo e Giulio Andreotti) e uno per venti anni (Paolo Emilio Taviani). Ma questo rilievo non deve far dimenticare che frequentissimi sono stati i cambiamenti di dicastero, per cui si sono sommate volatilità dei governi, stabilità dei ministri, instabilità dei capi di dicasteri.

I dicasteri nei quali vi è stata maggiore permanenza nella carica sono stati quelli tradizionali di ordine, Difesa, Affari esteri e Interno. Si può facilmente ipotizzare che la continuità nella carica nei tre dicasteri sia stata influenzata da un fattore esterno, cioè dalla necessità di assicurare continuità nell’ambito delle alleanze del mondo occidentale.

La breve durata in carica dei governi e dei relativi presidenti ha avuto conseguenze rilevate anche all’estero. In un suo libro di ricordi dell’esperienza di presidente, Prodi ha scritto, parlando di Helmut Kohl, «il nostro primo incontro ufficiale andò molto bene ma, accompagnandomi alla macchina, mi sorrise e poi, con l’aria da gattone, mi congedò dicendo: ‘Bell’incontro, per carità. Ma chi verrà la prossima volta?’. Rimasi gelato»⁷.

Per lungo tempo, il carattere transeunte dei governi italiani e, quindi, dei loro presidenti è stato compensato dalla presenza al governo del partito della Democrazia cristiana, che ha fatto da perno agli esecutivi italiani per mezzo secolo, fino al 1994. Esso ha anche assicurato i presidenti del Consiglio per quel cinquantennio, con sole quattro eccezioni, quella dei due governi Spadolini, durati 832 giorni, quella dei due governi Craxi, durati 1353 giorni, quella del governo Amato, durato 305 giorni e quella del governo Ciampi, durato 377 giorni.

Due altri fattori che hanno compensato il carattere transeunte dei governi italiani, lungo tutto l’arco della storia repubblicana, ma in particolare nella prima parte, come già rilevato, sono stati la lunga permanenza di alcuni ministri in diversi governi e la circostanza che a capo di alcuni dicasteri sia rimasta a lungo la stessa persona.

La frequenza dei mutamenti delle formazioni governative ha prodotto due paradossali conseguenze. Prima conseguenza: più dell’azione di governo sono divenute importanti la formazione e dissoluzione dei governi. Infatti, se si calcolano i tempi precedenti all’apertura formale delle crisi, quelli delle crisi, quelli della formazione dei nuovi governi e dell’insediamento di fatto delle nuove compagini ministeriali, si può dire che i periodi di non governo sono stati molto lunghi.

L’altra conseguenza è che le frequenti crisi e il lungo periodo di tempo necessario per risolverle hanno rafforzato il ruolo del presidente della Repubblica, gestore delle crisi, ma anche del cogestore, cioè del presidente del Consiglio dei ministri.

Un altro paradosso della storia dei presidenti del Consiglio dei ministri è il seguente: essi sono stati titolari di un potere di breve durata, transeunte, ma che si è andato rafforzando nel tempo, come osservato qualche anno fa da due studiosi italiani, i quali hanno notato la personalizzazione del ruolo del presidente e il rafforzamento del suo potere di guida⁸.

2. Il ruolo crescente del presidente del Consiglio dei ministri

A metà dei tre quarti di secolo di storia repubblicana è stato osservato che il sistema di governo, in Italia, ha fatto perno sulla eccezionale stabilità della leadership politica assicurata dalla permanenza al potere di un partito per circa mezzo secolo. La leadership non ha avuto bisogno di identificare un luogo istituzionalmente e permanentemente chiamato a svolgere la funzione di governo. Anzi, al contrario, si è valsa delle caratteristiche istituzionali del sistema per organizzarle a proprio profitto. Non c’è, quindi, un governo e un tipo di relazioni tra leadership politica e sistema amministrativo, ma tanti governi e tanti tipi di queste relazioni.

Proprio per la sua mobilità, questo sistema di rapporti ha avuto sempre più bisogno, col passare del tempo, di un centro anche istituzionale sul quale fare perno. È andato allora emergendo un ruolo chiave della Presidenza del consiglio dei ministri come centro catalizzatore di tutti gli altri elementi da comporre ad unità. Il governo, dunque, c’è, ma non va cercato nella sede indicata dalla Costituzione (il Consiglio dei Ministri), né in un’altra sola sede. Oggi, dopo l’evoluzione avvenuta in questi anni, in modo accentuato nell’ultimo quinquennio, la Presidenza del consiglio è il primo luogo nel quale cercare il governo. Essa ha acquisito uno «status» proprio ed è in grado di attirare le competenze e i poteri di volta in volta necessari e di variare – così – la composizione del governo. Il primo elemento caratteristico della situazione italiana è dunque quello della mobilità nella composizione del governo; il secondo, quello dell’affermazione progressiva del ruolo della Presidenza del consiglio non in quanto abbia poteri propri, ma perché sta nel punto giusto per influenzare e combinare vari sottosistemi frammentari⁹.

In corrispondenza del carattere variabile delle compagini ministeriali, delle loro diverse «missioni», vi è stato un diverso ruolo dei presidenti, oscillante tra il presidente-negoziatore o mediatore tra le forze politiche e il presidente-guida.

Nel corso dei tre quarti di secolo dalla fondazione della Repubblica, il presidente del Consiglio dei ministri, configurato come un «primus inter pares», è andato, quindi, acquisendo ruolo e funzioni proprie di un «prime minister». Cioè, da titolare di un organo posto in una collocazione paritaria rispetto agli altri ministri, è divenuto titolare di un organo sopra-ordinato agli altri ministri.

Questo fenomeno è stato prodotto dal crescente ruolo del governo, dal crescente ruolo del presidente del Consiglio dei ministri all’interno del governo e dal ruolo del presidente quale perno di quel «governo mobile» al quale si è fatto cenno.

In primo luogo, dal crescente ruolo del governo, divenuto ormai il principale legislatore a causa della crisi del Parlamento come legislatore. Di ciò sono sintomi ultimi il cosiddetto «monocameralismo alternato» (per la conversione in legge dei decreti legge, a causa del breve lasso di tempo previsto dalla Costituzione – due mesi – vi è tempo solo per uno dei rami del Parlamento, ciò che costringe l’altro ramo del Parlamento a ratificare l’azione svolta dal primo; per una prassi costituzionale, questa procedura si ripete in senso inverso, ad assemblee parlamentari invertite, nel senso che la procedura inizia una volta da una di esse, la volta successiva dall’altra), e i «decreti Minotauro» (decreti legge che si susseguono nel tempo, in archi temporali così ristretti da costringere a inserire i primi in quelli successivi, con i quali vengono convertiti in legge).

La seconda principale trasformazione della figura del presidente del Consiglio dei ministri è costituita dal suo lento rafforzamento, dovuto alla globalizzazione, ma specialmente alla europeizzazione. Il contesto internazionale ed europeo richiede una presenza e un ruolo attivo del vertice del potere esecutivo, e quindi lo rafforza. Questo è vero specialmente nell’Unione europea, in particolare dopo il suo sviluppo come organismo sovranazionale intergovernativo. Il presidente del Consiglio dei ministri come componente del Consiglio europeo acquisisce un sovrappiù di funzioni, di poteri e di responsabilità rispetto alla sua figura, come disegnata dalla Costituzione¹⁰.

La terza trasformazione si deve a un fenomeno già segnalato alla metà della storia repubblicana, che nasce dalla frammentazione dello Stato-arcipelago. L’alto numero di centri da «coordinare» o tra i quali «mediare» fa del presidente l’organo sul quale necessariamente ricade il compito di raccordo, nonostante i suoi scarsi poteri formali. L’alta frammentazione e la estrema instabilità richiedono un organo di orchestrazione o di regia, che è il presidente¹¹.

C’è poi il rafforzamento prodotto dal contesto nazionale. In particolare, il trasferimento, nel 1961, della sede dal Viminale a Palazzo Chigi (mentre al Viminale, il presidente del Consiglio condivideva la sede con il ministro dell’Interno, fenomeno che si spiega, storicamente, per il fatto che in un lunghissimo arco di tempo, nella storia unitaria, le due cariche sono state tenute dalla stessa persona, una unione personale che è durata fino alla fine del terzo governo De Gasperi, nel 1947) e la riforma del 1988, con la legge n. 400¹². Questa ha rappresentato un punto di svolta rispetto a una tradizione di informalità. Non va dimenticato che governo e presidenza sono stati, durante una parte della vita dello Statuto albertino, organismi «di fatto», «spontanei»¹³. La Costituzione repubblicana ha fatto un passo avanti con il riconoscimento del governo e l’assegnazione al presidente di tre compiti: direzione della politica generale del governo, mantenimento dell’unità di indirizzo politico amministrativo, promozione e coordinazione dell’attività dei ministri. Tuttavia, l’edificio del governo, dopo la Costituzione repubblicana, era rimasto incompleto: ne è stato disegnato il vertice, sia pure con una «figura in definizione», che disponeva di pochi strumenti di indirizzo politico e di limitati mezzi di coordinamento della compagine ministeriale, di «peso variabile»¹⁴, ma non ne sono stati costituiti gli apparati serventi, come ha fatto la legge del 1988.

In tempi recenti, la presidenza del Consiglio dei ministri, da un organismo «vuoto», è divenuto un organo sovraccarico di altre funzioni, spesso spurie, non sempre attribuite a ministri senza portafoglio.

3. La debolezza del presidente «orchestratore»

Il sistema che risulta da questo presidenzialismo governativo presenta molti inconvenienti. In primo luogo, la parziale scissione, che ne deriva, tra presidente del Consiglio dei ministri e Consiglio dei ministri fa sì che solo una parte dell’attività del primo si rifletta nel secondo organo, con un conseguente difetto di collegialità dell’attività di governo. Il presidente si qualifica perché presiede il Consiglio dei ministri, ma in realtà una larga parte della sua attività si svolge al di fuori di esso.

In secondo luogo, il presidente è più mediatore che guida e indirizzo: la «leadership» presidenziale

è molto più frutto di mediazioni tra centri, gruppi e partiti, che di elaborazione autonoma, di promozione e di programmazione. Ne mancano in tutti i sensi i presupposti: insufficiente raccolta e circolazione di dati; assenza di policy analysis; mancanza di persone e di uffici in grado di formulare e comparare politiche. Il sistema che si è descritto è più adatto a raccogliere il consenso intorno ai problemi che via via emergono, che ad assicurare una guida e una direzione. Come conseguenza, il metodo del coordinamento viene, di fatto, sostituito da quello della contrattazione politica istituzionalizzata¹⁵.

Quanto alle strutture, è stato osservato che

la Presidenza non è ben attrezzata per svolgere le funzioni di supporto del Presidente e del Consiglio dei ministri, ma è appesantita da molte altre incombenze, estranee a quelle funzioni, e ha nel complesso troppo personale, non sempre ben selezionato, e un’organizzazione ridondante. La Presidenza non è ben attrezzata per supportare la funzione di coordinamento perché, non diversamente dai ministeri, non è dotata di uffici in grado di elaborare e valutare le politiche pubbliche: ciò spiega l’elevato numero di consulenti di ciascun presidente del Consiglio, che supplisce all’assenza di strutture di studio stabili [...]. A distrarre le strutture della Presidenza dal suo core business, vi sono le numerose funzioni accumulatesi nel tempo, in materia tra l’altro di protezione civile, servizio civile, sport, stupefacenti, politiche di coesione, famiglia, infanzia, pari opportunità, editoria, semplificazione amministrativa, aree urbane, anniversari, dissesto idrogeologico, edilizia scolastica. [...] I dipendenti sono certamente troppi e non sempre ben reclutati: agli oltre duemila dipendenti di ruolo si aggiunge un gran numero di dipendenti «in comando» da altre amministrazioni, attratti dalle sedi di lavoro al centro di Roma e dalla «indennità di presidenza» che si aggiunge allo stipendio, i quali normalmente aspirano a essere stabilizzati in Presidenza; l’elevata concentrazione di organi politici porta con sé un certo numero di dipendenti selezionati intuitu personae su base fiduciaria; non mancano i precari di vario genere; un numero ampiamente eccessivo di dipendenti si occupa di gestione del personale della stessa Presidenza. Troppi sono i dirigenti, un ottavo del totale: proporzione che potrebbe essere giustificata in un’amministrazione che svolgesse effettivamente solo attività di studio e coordinamento e avesse, quindi, bisogno di molti esperti con qualifiche alte, ma che è difficile giustificare in un’amministrazione che svolge molte funzioni di amministrazione attiva. Troppi sono infine i livelli dirigenziali; a differenza dei ministeri, in cui la figura del segretario generale è alternativa all’articolazione in dipartimenti, la Presidenza li ha entrambi, sicché vi sono un segretario generale, una quindicina di dipartimenti (si pensi che il Ministero dell’economia ne ha quattro), che si articolano in uffici (quelli che nei ministeri si chiamano direzioni generali), i quali si aggiungono a una decina di «uffici autonomi» e si articolano a loro volta in uffici dirigenziali di livello ancora più basso, che spesso hanno un numero di addetti veramente esiguo¹⁶.

La presidenza del Consiglio dei ministri come apparato è, quindi, stretta in questa contraddizione: da un lato, non è dotata di tutto lo «staff» necessario a preparare le politiche generali del governo, per assistere il presidente del Consiglio dei ministri nella sua principale funzione, che è quella di mantenere l’unità dell’indirizzo politico; dall’altro, è appesantita da organismi burocratico-ministeriali cresciuti fuori misura, che non dovrebbero essere collocati a Palazzo Chigi, ma ci stanno per ragioni contingenti o per soddisfare le esigenze del personale, attratto in quegli uffici da condizioni economiche di maggior favore.

Abbreviazioni

AAS Archivio Antonio Segni

ACS Archivio centrale dello Stato

AFG Archivio Fondazione Goria

AP Atti parlamentari

APC Archivi del Partito comunista italiano

ARCTON Archivi di Cristiani nella Toscana del Novecento

ASCD Archivio storico della Camera dei Deputati

ASILS Archivio storico dell’Istituto Luigi Sturzo

ASPCM Archivio storico della Presidenza del Consiglio dei ministri

ASPR Archivio storico della Presidenza della Repubblica

ASSR Archivio storico del Senato della Repubblica

NARA National Archives and Records Administration

TNA The National Archives, UK

Introduzione
Stagioni, permanenze e percorsi nella storia dei presidenti del Consiglio dell’Italia repubblicana
di Alberto Melloni

1. Introduzione

Non è facile riconquistare alla riflessione storica vicende come quelle dei massimi sistemi politici italiani che per loro natura corrono senza soluzioni di continuità istituzionali fino al presente. Man mano che al presente ci si avvicina il terreno è infatti sempre più ingombro di libroidi giornalistici, di fili che cortocircuitano gli umori e il senno di poi, di ossequiosità che rivelano le ambizioni di chi le esprime, di truismi prodotti da politologie a somma zero. E anche la storiografia che rivisita quegli snodi – al netto degli errori dei manuali che si perpetuano quando la biasimevole pigrizia di qualcuno li usa senza citarli – lo fa impiegando di rado quel gusto per la profondità diacronica che interrogava perfino il Poeta («ed un Marcel diventa/ Ogni villan che parteggiando viene»¹⁷)e con una Distanzierung sovente troppo svogliata per consentire di entrare in un altro presente, che poco fa era il presente. Nulla assicura che nei paesi nei quali gli statisti scrivono una sola autobiografia in tutta la vita le cose vadano meglio o che siano più numerosi e intelligenti gli storici¹⁸ che sanno sforzarsi di storicizzare le vicende di figure uscite dal palazzo del potere e di poteri abitati da altri protagonisti. Ma è certo che in Italia ciò che riguarda la storia delle istituzioni democratiche nazionali sembra più arretrato e la storia dei loro titolari più incerta¹⁹, specie quando le dinamiche evenemenziali o le razionalizzazioni politologiche debbono o dovrebbero tener conto dei gangli tecnico-giuridici che reggono e condizionano le volitività politiche²⁰. Forse si potrebbe dire che solo nella delega al cinema del racconto del passato – si pensi alla filmografia su Aldo Moro o su Bettino Craxi²¹ – c’è una qualche analogia fra Italia e altri mondi intellettuali, puta caso quello anglosassone: che però si stempera subito nella constatazione, stavolta consolante, che il catechismo civile per aspiranti patrioti affidato alla pedagogia hollywoodiana²² in Italia cede il passo a un gesto artistico che travalica ogni intento didascalico e – dal neorealismo alla Salò pasoliniana, dalla felliniana Prova d’orchestra fino all’opera di Bellocchio²³ – intuisce corsi e ricorsi con una denudata ferocia poetica.

Quello che una nutrita platea di storici e di giuristi ha cercato di fare in questo volume è mostrare non un come fenomenologico²⁴, ma, più pragmaticamente, che si può tentare di riconquistare alla riflessione storica alcune istituzioni apicali dell’Italia democratica e le biografie dei loro esponenti. Uno sforzo iniziato con l’opera I presidenti della Repubblica che tanto dovette all’intelligenza di Giuseppe Galasso, e che ora prosegue con questi volumi, non meno impegnativi e non meno impegnati, sui presidenti e la presidenza del Consiglio dei ministri, cui queste pagine fanno da introduzione²⁵. La metrica di questa ricerca sui presidenti e la presidenza dell’organo esecutivo del sistema repubblicano replica quella usata per gli inquilini e le funzioni del Quirinale²⁶: cioè prima una serie di saggi sulla biografia politica dei trenta presidenti del Consiglio dei sessantasette governi dell’Italia repubblicana (trentatré, inclusi quelli dell’Italia liberata) studiati in ordine di apparizione: e dunque trattando anche i vari governi del medesimo presidente nel capitolo in cui si studia il primo incarico²⁷; e poi quasi altrettanti saggi sulle dimensioni trasversali di quella funzione e della macchina sempre più ampia che ha accompagnato il e la Pdcm (come viene abbreviata oggi), sia nella sua permanenza nel Palazzo del Viminale fino al 1960 e poi nella nuova residenza di Palazzo Chigi, estesasi nei decenni ai palazzi dei paraggi ove sono stati installati sottosegretari, dipartimenti, strutture, uffici. Da questo scavo emergono dati storici consolidati, ma anche dati nuovi: com’era prevedibile avendo a disposizione un insieme di fonti edite o inedite in costante crescita, fornite di opportunità comparative, e oggi maneggiate con accresciute avvertenze critiche²⁸.

Fonti e apporti nuovi illuminano perciò molteplici aspetti: culture, dettagli, ritorni, costumi. Ma a mio avviso ci sono almeno tre «cose» che si possono proporre come raccordi impliciti fra i saggi sui presidenti del Consiglio (alla cui lettura, ovviamente, si può passare direttamente e senza alcuna perdita) e sulla presidenza nella sua dimensione complessiva.

La prima è quella che riguarda il lento scorrere di stagioni che inquadrano la presidenza e i presidenti del Consiglio: in esse – ne proporrò una periodizzazione indebitata con le ricerche sulla fine e le metamorfosi dei partiti²⁹, sviluppata in un modo che presume solo di essere plausibile e non certo esclusivo – si aggregano mutamenti di temperie, ora lente, ora contraddittorie, ora percepite come epocali, nelle quali tralucono dimensioni più profonde della storia nazionale unitaria³⁰.

La seconda questione è il riproporsi di fattori che sembrano permanenze, con cui ogni stagione e figura si deve misurare e che sono specificamente legati alla vicenda italiana: non i topoi di una teoria del potere in regime democratico per sé rinvenibili altrove, ma nodi storici che condizionano l’autocoscienza di originalità e di cambiamento che ciascuna formula politica e ciascun interprete di una o più di esse porta con sé come un’irrinunciabile aspirazione.

La terza cosa riguarda invece i percorsi che preparano (o seguono) la carriera del presidente: scelti dai partiti e in rari casi dal presidente della Repubblica, essi provengono da un numero molto ristretto di giacimenti, di generazioni, di fisionomie etiche e intellettuali che connotano le classi dirigenti italiane³¹.

2. Le stagioni della paradossale stabilità italiana

Quello che viene studiato qui è dunque un oggetto storico ancipite come tanti: cioè una istituzione e la teoria di coloro che la presiedono. Istituzione che si disegna a valle del fascismo in una polarizzazione rispetto ai tratti qualificanti del regime, dai quali si volevano prendere le distanze non solo simbolicamente³². Come in tutto il sistema costituzionale, anche nel vocabolario denominale dell’apice del potere si lavora polarizzando i tratti della dittatura mussoliniana: fin dal momento in cui si accantona lo Statuto albertino³³, l’architettura democratica rovescia tutti i congegni che si ritiene abbiano reso il regime liberale incapace di difendere le libertà che professava e inetto davanti all’esigenza di giustizia sociale che avrebbe impedito al fascismo di drenare consenso con la propaganda plebea. Questa inversione, complementare alla continuità delle classi dirigenti³⁴, tocca anche la funzione apicale dell’esecutivo che non ha più un «Capo del governo», ma una figura indissolubilmente legata a un organo denso di poteri e di partiti: un «presidente», dunque. Ed egli per adempiere ai due indicativi di cui l’articolo 95 della Costituzione lo fa «responsabile» – «dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile», «mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo» – ha come leva un doppio ma modesto gerundium pendens: «promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri». La storia del presidente e della presidenza è dunque storia di una debolezza alla quale – come auspicano politici, politologi e politicanti – dovrebbe mettere rimedio un premierato (se mai forte) o una legge elettorale capace di designarlo? Non direi, perché vorrebbe dire costruire l’ontologia di una assenza: al lavoro storico, se mai, interessa di più che proprio quella debolezza – discenda o meno dalla preveggenza degasperiana timorosa che una vittoria socialcomunista si risolvesse nell’improbabile «calcio nel sedere» dato da Togliatti e Nenni alle forze filo-occidentali sconfitte³⁵ – ha garantito al paese una paradossale stabilità e nutrito una inutile utopia.

La stabilità politica nazionale è ovviamente sui generis³⁶, ma esiste. L’Italia repubblicana (con 67 governi e 30 presidenti del Consiglio contro i 10 cancellieri tedeschi)³⁷ ha potuto contare sulla infungibilità democristiana per un’interminabile metà del suo percorso³⁸. E in quel recinto democristiano – esteso al massimo agli «esterni» di Ciriaco De Mita – ha fatto giocare democraticamente, in quella specie di sacralizzazione del Congresso, lo scontro fra visioni ideologiche e di potere nelle quali si miniaturizzava (senza alcuna esclusione e senza esclusione di colpi) una logica dell’alternanza che invece non si sarebbe mai compiuta sul piano parlamentare. Accanto alla metà di governi di transizione e «del presidente» (della Repubblica, ça va sans dire), i governi di questa stabilità democristiana hanno espresso una continuità assoluta sia nell’ancoraggio atlantico sia nel rifiuto di ogni scorciatoia autoritaria, nonostante varie forze ne avessero desiderato o tentato di provocare più d’una³⁹.

L’utopia non è meno paradossale e discende dall’epopea resistenziale: essa voleva che, là dove il regime liberale aveva dimostrato la sua impotenza, sedesse qualcuno che fosse non semplicemente un politico e nemmeno soltanto uno statista, bensì «un eroe» (come scrisse Emilio Lussu di Parri, intuendo che a parte Parri e pochi altri, il paese ne era e ne sarebbe rimasto sprovvisto...)⁴⁰.Una utopia realizzata in un breve e inconcludente istante, che però ha agito nel richiedere che il presidente del Consiglio avesse un curriculum personale di alto valore morale – pur nelle variazioni della morale. È questo che ha favorito l’ascesa alla presidenza del Consiglio di un ex carcerato del duce (De Gasperi), dei militanti della resistenza (Zoli), e poi, in una serie di ri-definizioni dell’eroismo, dei Costituenti (Fanfani o Moro oltre agli altri), dei patrioti invisibili di Banca d’Italia (Ciampi o Dini), degli statisti europei (il secondo Prodi e Monti), fino all’epica del «whatever it takes» che fa parte della fama sanctitatis con cui Mario Draghi, ex governatore ed ex banchiere europeo, arriva a Palazzo Chigi all’inizio del 2021. Figure, insomma, che dovevano non solo dare ma impersonare l’indirizzo generale – e con le quali per santa emulazione si sono trovate a competere personalità capaci e in certo modo tenute a dotarsi dell’eroismo delle missioni riformatrici radicali (ad esempio Craxi, Berlusconi, Renzi), o dalle quali si sono distaccati gli uomini del potere per il potere e del tirare a campare di cui è settiforme eponimo Giulio Andreotti.

Questo cocktail di stabilità e utopia traccia il percorso complessivo dei presidenti e della presidenza. Percorso sul quale esistono periodizzazioni diverse: da quelle più riconosciute e addirittura che dividono la Prima dalla Seconda repubblica, pur non essendoci mai stato un cambiamento di assetto costituzionale, anzi in una costante crescita del patriottismo costituzionale⁴¹; fino a quelle più politologiche che individuano modelli, esperimenti, transizioni oppure il ritornare puntuale dell’emergenza come solvente dei trombi politici di sistema⁴². Gli studi qui raccolti non sono stati scritti in ossequio all’una o all’altra di queste periodizzazioni. Tuttavia al lettore apparirà che ci sono quattro lunghe stagioni che riguardano non i caduchi titolari del potere esecutivo, ma i catalizzatori del consenso (le congiunture internazionali, i partiti, i loro succedanei) che nella fiducia votata in Parlamento sacramentano quei presidenti e i loro governi.

2.1 La stagione della democrazia nei partiti

La prima stagione in ordine di apparizione è certo quella consolidata all’aurora della Costituzione⁴³, segnata da partiti che portano in sé una esigenza insopprimibile di selezione⁴⁴ e di partecipazione democratica che riverbera sull’esecutivo e sul presidente del Consiglio: è una democrazia finanziata lungo canali sia trasparenti sia clandestini che arrivano alle Segreterie e soprattutto alle correnti che percorrono la Democrazia cristiana e dividono il Partito socialista, in un gioco che deve comunque essere consacrato da maggioranze che si formano in organi rappresentativi dei territori e poi nei congressi, vero snodo dove si palesano forze ideali e retoriche. L’esigenza di democrazia interna vale meno per il Partito comunista di Togliatti – che non ne ha bisogno, perché escluso da quella carica⁴⁵. È invece scontata per tutti gli altri partiti che partecipano al primo trentennio repubblicano da spettatori rispetto alla guida del governo. Ed è decisiva nel determinare la vicenda democristiana, il cui passaggio dal centrismo al centro-sinistra, e dalla sua crisi fino alla solidarietà nazionale inclusa, avviene in un susseguirsi di scontri interni fra idee del potere, idee per conservare il potere e il potere di alcune idee sull’economia, sulla società, sul mondo: scontro democratico, anche se questo non significa limitazione degli odi, degli antagonismi e del ricorso a mezzi di ogni tipo per avvantaggiarsi⁴⁶.

2.2 La stagione dei partiti nella democrazia

La formula della solidarietà nazionale e il suo fallimento aprono la via a un rapporto fra i partiti che rende la presidenza del Consiglio contendibile. È il momento in cui nella Dc emerge per non uscire più di scena un uomo come Andreotti. Il Divo non aveva una corrente o un pensiero, ma la capacità di far giocare la sua minoranza in modo decisivo, proponendo dentro la Dc quella disinvoltura che nel lessico craxiano diventerà la dottrina dei due forni (con la differenza che i socialisti non potevano aprire a livello nazionale il forno comunista senza un avallo americano che fino al 1991 era impensabile). Ed è il momento in cui il moderatismo democristiano, che aveva avuto nei dorotei il proprio baricentro, diventa invece anima del governo dell’accordo Craxi-Andreotti-Forlani (il Caf), che produce l’intesa sulla staffetta fra presidenti del Consiglio e legittima la prassi in cui i partiti usano il debito pubblico⁴⁷ come forma di contenimento politico e gli overhead degli appalti come canale di finanziamento delle macchine politiche di corrente o di partito e in qualche caso degli individui⁴⁸.

2.3 La stagione della democrazia in cerca di partiti

Forse il ruolo di fool shakespeariano che Francesco Cossiga si attribuisce esprime lo smarrimento davanti a un concatenarsi di cose che dalla morte di Moro al collasso dell’Unione Sovietica rendeva obsoleti i parametri della stabilità italiana. È lungo quella rotta, tuttavia, che corre non solo la sparizione del nome dei partiti⁴⁹, ma anche l’allentarsi di quei molteplici collateralismi che avevano permesso la sostanza fatta di contiguità sociali e (anche ma non solo) corruttive. È la stagione in cui i presidenti del Consiglio (Amato, Ciampi) non devono solo essere incaricati, ma anche inventati dal capo dello Stato lungo il sentiero di una transizione breve e delicatissima in cui la corruzione conosce dislocazioni significative⁵⁰.

2.4 La stagione dei partiti senza congresso

Quella che segue è la stagione del bipolarismo «puro» dei governi Berlusconi/Prodi e del bipolarismo «interno» all’oscillazione fra il modulo sovranista-populista⁵¹ e quello grillino-progressista dei due governi Conte. Un congegno che per oltre un quarto di secolo non domanda al presidente del Consiglio di essere espressione della sommatoria delle maggioranze congressuali dei partiti; in certo modo esclude l’esigenza di collegare la leadership di coalizioni multipartitiche al congegno democratico interno o esterno⁵², e se mai si affida alle «primarie» con esiti paradossali⁵³. È la stagione in cui serve e basta un interprete del «centralismo carismatico» (Gianfranco Fini) che connota la federazione di partiti che abita e lacera Forza Italia, le alleanze prodiane dell’Ulivo e dell’Unione, il renzismo come espugnazione generazionale (pre-macroniana) del Partito democratico e poi il magmatico plotone di parlamentari grillini che affidano a Giuseppe Conte prima il governo e poi la loro forza intimorita dal declino. Fanno eccezione i tentativi riusciti di Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella per inserire di forza in dispositivi personalizzati leader portatori di formule politiche spersonalizzate che il Parlamento (Das problem des Parlamentarismus di Hans Kelsenè del 1925...), frastornato da catastrofi e minacce di catastrofi, può solo sostenere⁵⁴.

3. Fattori della permanenza italiana

Accanto a questo fluire di stagioni storiche, che determinano formule e nomi in grado di interpretarle con credibilità diverse, ci sono ovviamente delle permanenze: è così in tutte le democrazie europee, anche se con cronologie specifiche⁵⁵. Ma nella storia italiana ce ne sono alcune che non riguardano gli attori con cui tutti i primi ministri si misurano e non si esauriscono nemmeno nella macchina, sempre più vasta e sempre meno leggibile anche agli stessi presidenti del Consiglio⁵⁶. Sono problematiche che si ripropongono a ogni avvicendamento in quella che una definizione attribuita a Pietro Nenni è l’inesistente «stanza dei bottoni»⁵⁷: costanti che generano inattese peculiarità e inattese simmetrie nella risposta agli stimoli e che (per mutuare l’espressione onomaturgica di Alberto Ronchey con il fattore K) indicherò anche io come «fattori» di una equazione scomponibile in cui contesti e personalità costituiscono le variabili.

3.1 Fattore R: chi riforma cosa

Il primo elemento è il fattore R: quello delle riforme della macchina del governo. Non dunque le pur importanti leggi legate al cognome del riformatore (diventate pacchetti, imperativi morali con l’affisso -Italia, piani, o rifluite nell’anglismo dell’Act) o alla fase politica⁵⁸: bensì gli interventi sull’organizzazione e sulla struttura alla quale vari strumenti – ordini di servizio, leggi, regolamenti – vorrebbero dare efficienza, coerenza con il mandato costituzionale di coordinamento delle politiche, e trasparenza rispetto a una gestione non ragionieristica della spesa. La e il Pdcm agiscono infatti l’una come la camicia di forza dell’altro: la presidenza, ingigantita dalle «ruolizzazioni», non ha sempre ragione di adeguarsi all’agenda politica di leader transeunti; il presidente, viceversa, imputa ai congegni freni che s’illude di scavalcare agendo sulla leva della disintermediazione⁵⁹.

La gabbia può essere resa meno stretta da sottosegretari alla presidenza del Consiglio fuori dal comune (come nel caso di Giulio Andreotti per De Gasperi, Mariano Rumor per Fanfani, Oscar Luigi Scalfaro per Scelba, Angelo Salizzoni per Moro, Giuliano Amato per Craxi, Emilio Rubbi per Goria, Antonio Maccanico per Ciampi, Franco Bassanini per D’Alema, Gianni Letta per Berlusconi, Enrico Micheli per Prodi), figura sulla quale si possono però concentrare anche operazioni inquietanti⁶⁰. Invece si può stringere quando negli snodi chiave della presidenza restano in carica persone fiduciarie di un passato assetto, ma capaci di controllare il nuovo potere. Così nascono surrogati informali della ristrutturazione del cuore dell’esecutivo⁶¹ – gabinetti, caminetti, strutture, cabine, tavoli, segretariati, regie – in una moltiplicazione di organi che però non sempre coordinano i registi dei diversi ambiti (il segretario generale, il consigliere diplomatico, l’addetto militare, il chief of staff, comunque lo si denomini). Gli effetti sono molti: ma fra questi ce n’è uno che colpisce. È come se in un transfer privo di motivi oggettivi, l’impotenza a riformare la propria macchina fornisse ai presidenti del Consiglio una ragione in più per desiderare o tentare la riforma della Costituzione, e sbloccare da là strozzature che, come dimostra il destino delle commissioni bicamerali⁶² e dei referendum, si rivelano o irredimibili o fatali per i governi che hanno sottovalutato la simmetria fra la rigidità della Costituzione e dell’opinione pubblica⁶³.

3.2 Fattore W: l’occhio di Washington, l’occhio su Washington

Altra permanenza specifica della storia italiana che seleziona e misura il presidente del Consiglio è la relazione con Washington. Si potrebbe dire che la questione, come il rapporto sessuale in Lacan⁶⁴, «non c’è»: le cornici internazionali in cui si colloca il governo di un paese vissuto quarant’anni sul confine Est-Ovest e poi su quello arabo-mediterraneo sono date e chi siede al vertice dell’esecutivo può solo dire di essere loro fedele. Anzi, si può dire che siede alla scrivania che fu di De Gasperi solo chi sa intuire⁶⁵ o interpretare adeguatamente le esigenze che discendono da un legame storico incancellabile. È un fatto storico che gli Stati Uniti, a dispetto della co-belligeranza, avrebbero potuto mutilare e dividere l’Italia come la Germania; avrebbero potuto ritenerla non abbastanza determinata⁶⁶ per governare istituzioni democratiche in presenza di partiti che, ancorché coperti di gloria resistenziale, erano schiettamente filostaliniani; avrebbero potuto garantire con altri modi il fronte sud-orientale della Guerra fredda diventato, dopo la fase di armistizio che riammette la Russia al G8 (1997-2014), il nuovo fronte della Second Cold War.

Quello che ai presidenti del Consiglio è concesso – lo mostra lo studio dei discorsi con cui si chiede la fiducia in Parlamento – è di aggiungere a quella fedeltà e alla sua declinazione europea⁶⁷ un’addizione che può variare: per il primo Fanfani può significare aggiungere l’orizzonte della politica estera dell’Eni; per De Gasperi e Moro la limitazione dell’anticomunismo alle modalità compatibili con le libertà democratiche; per Andreotti in modo velato⁶⁸ e poi per Craxi in modo aperto una politica mediterranea, sulla quale un diplomatico di peso come Antonio Badini faceva sentire con più forza le ragioni del baathismo arabo e perfino della guerriglia palestinese; per Berlusconi e Prodi un dialogo con la Russia consentito, appunto, dall’ammissione di questa al G8 – e via dicendo, con misure e accenti che documentano come il presidente del Consiglio ritenga la relazione con la Casa Bianca questione a lui riservata⁶⁹.

D’altronde su chi accede alla presidenza del Consiglio Washington continua a elaborare costantemente – sia in una prospettiva di casting sia di valutazione in itinere – giudizi gravidi di conseguenze, solo in parte studiate: sono note le riserve su Moro di cui le fonti interne all’Amministrazione americana mostrano la cronologia e la densità⁷⁰; è questa la ragione di molti dei «viaggi a Washington» con anche repliche inopinatamente rapide come quella di Andreotti del 1990⁷¹; e non ci sono ancora studi su come sia stata effettivamente letta Oltreoceano la posizione italiana lungo i trent’anni di guerra in Iraq e Afghanistan⁷². Altre volte sono proprio le scelte protocollari che rivelano un’apertura di credito maggiore (è il caso dell’invito ai presidenti del Consiglio a prendere la parola davanti al Congresso degli Stati Uniti d’America) o spiegano passi come quello che, non richiesto, ha legato in modo formale il destino del secondo governo Conte a quello dell’Amministrazione Trump che lo aveva invocato⁷³.

3.3 Fattore P: l’albero dei parametri e i suoi frutti

Un altro fattore specifico per i presidenti del Consiglio è quello dei parametri che misurano l’andamento economico del paese. Un fattore – si dirà – comune a tutti i governi occidentali⁷⁴ e che su scala europea ha addirittura una sua storiografia corposa che ne descrive gli effetti⁷⁵, le relazioni con teorie di riferimento e di rilevazione⁷⁶ e ora perfino i ritorni nella vita dei singoli⁷⁷. Quello che è specifico nel contesto nazionale è la collocazione di questi parametri: dal Piano Marshall del dopoguerra fino al Pnrr del post-Covid essi sono la ragione dell’assetto di cui il governo è espressione e non una parte delle sue politiche: costrizioni⁷⁸, condizioni⁷⁹, che il presidente del Consiglio in parte si accolla e in parte usa. In fondo già quando De Gasperi convince Einaudi a rivedere la stretta sul debito pubblico e sul credito adottato nel 1948 per stabilizzare la moneta⁸⁰, e spinge per usare lo European Recovery Program americano per finanziare la spesa pubblica, si delinea un gioco delle parti che si riproporrà anche in seguito: il presidente del Consiglio può infatti scegliersi come interlocutori imprenditori poco lungimiranti (come Angelo Costa che insieme a Pella voleva accantonare i fondi come riserva valutaria) e imprenditori che chiedono «investimenti produttivi» (come Vittorio Valletta allora)⁸¹. Le quantità di tensioni sociali che si decide di generare o compensare agiscono sul debito pubblico⁸², la cui curva descrive una precisa parabola politica: e le politiche di rientro, che hanno determinato l’unica modifica costituzionale riuscita ai governi Berlusconi⁸³, segnano così una fase interrotta dal Recovery and Resilience Facility di 723,8 miliardi di cui il secondo Conte guadagna all’Italia una quota consistente legata a parametri che ne minano la maggioranza.

3.4 Fattore M: mafie e crimini mafiosi

La storiografia sui fenomeni mafiosi non è certo unanime nel definire origini, organigrammi, organizzazione, organismi e organicità di un anti-Stato fuori dallo Stato e di un anti-Stato dentro lo Stato che brachigraficamente chiameremo «mafie»⁸⁴. Anche in questo verrebbe da dire, l’Italia appare come un luogo che anticipa processi politici implementati altrove molto dopo che il Belpaese ne ha testato il funzionamento⁸⁵, se è vero com’è vero che le ricchezze generate fuori dalla legge hanno dimensioni statuali e ramificazioni globalizzate⁸⁶. Tuttavia è evidente che anche nella storia della presidenza e dei presidenti del Consiglio la pressione mafiosa, lontana o vicina, visibile o invisibile, rumorosa come un’esplosione o silenziosa come il fruscio del denaro, è una costante che collega profili, posizioni, politiche di segno opposto.

Allo storico – che non deve dimostrare, ma mostrare – non è possibile dire se la frequenza di disfacimento e formazione dei governi sia la ragione di una rima che ne associa così sovente i passaggi ai grandi delitti di mafia o se sia il metronomo alto dell’instabilità dei governi a combaciare con una violenza che, prima di diventare finanziaria, era vistosa⁸⁷. Ma è un fatto che molti dei crimini orditi dalle «menti raffinatissime» (come le definì Giovanni Falcone nel 1989) si accompagnano a momenti chiave nella nascita degli esecutivi: il governo Leone si dovette misurare con la strage di Ciaculli il 30 giugno 1963, perpetrata il giorno prima della fiducia votata dalle Camere⁸⁸; Spadolini si presentò in aula il 10 luglio 1982, settanta giorni dopo l’uccisione di Pio La Torre: e il 3 settembre fu assassinato il prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa⁸⁹. Il primo governo Cossiga, che aprì la crisi per consentire il rientro del Psi nella maggioranza, lo fece poche settimane dopo l’assassinio di Piersanti Mattarella, il 6 gennaio 1980. Il settimo governo Andreotti entrò in crisi il 18 aprile 1992, cinque settimane dopo l’assassinio di Salvo Lima: un mese prima dell’attentato di Capaci e tre mesi prima della strage di via d’Amelio⁹⁰. Più di un anno separa l’esecuzione di Vito Ciancimino il 19 novembre 2002 dall’insediamento del secondo governo Berlusconi della primavera del 2001. E si potrebbe andare avanti con molte co-occorrenze cronologicamente. Un contrappunto criminale, diverso e direi più specifico della pur possibile tabella di corrispondenze con i delitti di matrice terrorista nazionale e internazionale⁹¹ che insanguinano il paese dal 1969 per un quarantennio⁹², e almeno in un caso hanno come obiettivo il presidente del Consiglio stesso⁹³. Perché negli attentati mafiosi non c’è solo il tentativo di provocare una reazione dello Stato di stampo repressivo, capace di corrodere irreversibilmente il tessuto democratico del paese e delle istituzioni, come speravano i militanti del terrorismo nero e di quello rosso. Nel delitto mafioso – che pure emula tecniche e stilemi – c’è lo sforzo subdolo che mira a guadagnare a poteri occulti il rango di interlocuzione istituzionale fra lo Stato e l’anti-Stato. Non si mira solo a forzare la mano alle persone più certamente interessate all’influenza delle organizzazioni criminali sul voto e sul voto di preferenza in modo particolare⁹⁴, ma a compromettere persone sicuramente estranee a quel sistema come il guardasigilli Giovanni Conso – giurista sopraffino, membro del Csm, membro e presidente della Corte costituzionale, candidato di bandiera del Pds nell’elezione del capo dello Stato del 1992 – in carica come ministro al momento dell’apertura del processo ad Andreotti e autore di un allentamento dell’articolo 41 bis del Codice penale sull’isolamento dei boss mafiosi⁹⁵, su cui si sarebbe aperto un caso, e un dibattito che andava ben oltre ogni categorizzazione dell’attenuazione di una misura particolarmente dura⁹⁶.

3.5 Fattore S: servizi e intelligence

Proprio la questione della criminalità e del terrorismo evidenzia un altro aspetto che attraversa tutta la storia dei presidenti del Consiglio: la problematicità della relazione con i servizi di informazione e di intelligence – dai tempi del Servizio informazioni forze armate (Sifar) fino alla riforma del Sid⁹⁷ per passare poi a quelle definite dalla l. 24 ottobre 1977, n. 801e dalla l. 3 agosto 2007, n. 124 emendata a più riprese⁹⁸. Che il vertice dell’esecutivo debba essere informato e dare direttive su operazioni di intelligence è del tutto ovvio e per nulla specifico della storia italiana, anche quando tocca dossier delicati come quelli del Mediterraneo⁹⁹: ma a differenza di ciò che accade al Matignon o al 10 di Downing Street l’inquilino di Palazzo Chigi (e prima del Viminale) deve anche occuparsi di questioni peculiari dell’intelligence, che transitano da un presidente del Consiglio all’altro. Esse non si esauriscono nella custodia del segreto di Stato¹⁰⁰ o nell’esistenza di gruppi definiti «deviati»: non era difficile postulare la loro presenza, anche se il Parlamento ne ignorava la fisionomia¹⁰¹. Perché per un verso era coerente con lo status e la collocazione del paese che vi fossero reti clandestine addestrate alla guerriglia nel caso di un’invasione sovietica. Nonostante il loro peso «indicibile»¹⁰², era intuibile il legame con il neofascismo e la galassia eversiva¹⁰³. Ma era altrettanto evidente che fra i compiti del presidente del Consiglio c’era quello di gestire le credenziali d’un riserbo pleonastico e resistente¹⁰⁴, che però gli permetteva o di rendersi immune da uno spionaggio guardone già attivo negli anni Cinquanta¹⁰⁵ o da un lavoro sistematico di dossieraggio come quello del Sifar¹⁰⁶. Il che spiega la scelta di pochissimi presidenti del Consiglio (Ciampi ma prima della riforma dei Servizi del 2007) i quali anziché nominare un sottosegretario che operi insieme al consigliere diplomatico¹⁰⁷ o al consigliere militare¹⁰⁸ trattengono presso di sé una delega chiave per sempre, o a lungo (Monti) o fino alle soglie della caduta (secondo governo Conte).

3.6 Altri nodi

Ci sono altri nodi che si potrebbero considerare peculiari del presidente del Consiglio e non solo il semplice declinarsi nel quadrante italiano di questioni comuni agli esecutivi delle democrazie europee e occidentali.

Uno di questi è il rapporto con i media: con la stampa (con le non rare oscillazioni dall’adulazione al vetriolo o cronicizzazioni di uno dei due); con i proprietari dei mezzi di comunicazione dentro e fuori i partiti; con la radio, carica di una lunga storia fascista, con le Tv (la Rai fanfaniana¹⁰⁹, la televisione pluricanale, quella di proprietà di Silvio Berlusconi e altre); con i social media, fonte di cui nessuno ha ancora messo a fuoco un’euristica e un’ermeneutica¹¹⁰. Rapporto che si esprime soprattutto in termini di image building e nello sforzo (coronato da successo) dei diversi uffici stampa di far apparire il proprio presidente come il primo in qualcosa: con Berlusconi che governa «più di De Gasperi», i «mille giorni di Renzi» che premiano il presidente del Consiglio più giovane, Monti che è il solo a diventare senatore a vita prima di fare il presidente del Consiglio e non dopo aver fatto il presidente della Repubblica, Prodi l’unico che inframmezza come presidente della Commissione europea, Spadolini primo laico, Craxi primo socialista, De Mita primo a tenere il doppio incarico, eccetera.

Anche il delicatissimo rapporto con la Santa Sede e con l’episcopato italiano è ovviamente specifico e senza paragoni nelle altre capitali occidentali: ma per ragioni opposte da questa relazione non discende un atteggiamento comune. D’altronde è evidente che ogni leader democristiano – anche quello che sedeva pro tempore alla guida del governo – aveva suoi propri canali, referenze e referenti: e dunque non era l’esecutivo che doveva far alcunché¹¹¹. Invece i presidenti non democristiani (pur essendo uno di loro a firmare il Concordato con Casaroli nel 1984) e tutti quelli dell’era post-democristiana, non hanno una politica ecclesiastica: non è una questione di difficoltà – giacché la politica ecclesiastica consiste nel rendersi prevedibili e nel chiedere alla controparte di rendersi prevedibile –, ma di mentalità. Così mentre il governo si accontenta dell’intelligenza di qualche giurista – per tre decenni Francesco Margiotta Broglio – per sbrigare una serie di mansioni, è la Chiesa che fa la politica ecclesiastica dell’Italia¹¹², sia quando accompagna i processi politici in modo clientelare sia quando sceglie ciò che non amava (Berlusconi) per punire il mancato ossequio di chi avrebbe dovuto temerla.

4. I percorsi di accesso e di uscita

Nella storia della democrazia italiana il presidente del Consiglio è espressione del protagonismo, costituzionalmente programmato, dei partiti, comunque si definiscano, e perfino in non pochi dei governi formalmente «tecnici». Ed è questo protagonismo dei partiti che estende progressivamente la platea dei potenziali aspiranti al ruolo apicale. Scelti dapprima dal ferocissimo gioco delle correnti democristiane e dall’arena dei congressi; poi in un allargamento agli altri partiti aggregati dalla conventio ad excludendum ai danni del Pci, anch’essi percorsi da antagonismi non meno virulenti; e infine «liberalizzato» dal crollo dell’Unione Sovietica in un’infinita transizione che proprio mentre andava in cerca di coalizioni e vocazioni maggioritarie ha posto le basi per una «partitinocrazia»¹¹³ in cui tutto – anche il bipolarismo – dipende da volontà minuscole, gli uomini politici candidati a ricevere la campanella sono ben più di trenta, anche se solo trenta la ricevono davvero.

4.1 Ritrosi e delusi

Ci sono infatti i mancati presidenti del Consiglio che obbediscono a tipologie diverse.

Ci sono coloro che, potendo farlo, non vogliono intraprendere la via della formazione del governo. Moro è uno di questi, preferendo fare il segretario più che il presidente del Consiglio e non si offre nemmeno per guidare la solidarietà nazionale da presidente del parlamentino democristiano: una ritrosia che esprime bene, nel far prevalere il controllo del partito su quello del governo, uno dei capisaldi della cultura democristiana che (è ancora la lezione di Santi Romano?) pensa che il potere si debba misurare con l’instabilità costitutiva della società.

Ci sono coloro che avrebbero voluto e non riescono: politici con un mandato esplorativo (l’unico attribuito a una donna – Nilde Iotti – in una storia istituzionale tutta maschile) che non diventa incarico, titolari di accettazioni con riserve che si rivelano insuperabili e vittime di tradimenti e sconfessioni clamorose, che però talora preludono a rivincite altrettanto clamorose (come quella di Andreotti) o inciampi dell’ultimo secondo (come quello che vede sfumare il governo di Carlo Cottarelli la notte prima del giuramento). La serie degli incarichi falliti vede molte ragioni: formule politiche immature, forzature impercettibili ma fatali degli equilibri fra correnti dei partiti grandi e piccoli, possibilità di chiamare un timeout (il monocolore, il governo balneare) da parte di negoziatori a cui il gioco sfugge di mano.

Ma non mancano quelli che vengono colpiti da veti¹¹⁴: quelli politici ovviamente, sorti dalla dialettica interna al paese o alle sue alleanze; e quelli esterni, come quello opposto dalla Segreteria di Stato vaticana contro Nino Andreatta, «colpevole» di aver salvato la Chiesa dall’infiltrazione mafiosa, dopo un fatidico discorso alla Camera dell’8 ottobre 1982¹¹⁵ nel quale chiama in causa il papa come responsabile ultimo di ciò che la Santa Sede fa: l’economista trentino subisce un lungo ostracismo dal governo e guadagna un veto perpetuo vaticano dalle funzioni apicali dello Stato.

4.2 I revenants

Ci sono invece molti che non solo sono riusciti, ma che ritornano, se mai dopo aver decantato l’esperienza alla guida del governo, in uno o più incarichi ministeriali che li mantengono in quella giostra a cento posti del governo e del sottogoverno.

Dagli otto governi De Gasperi ai sette Andreotti, sei di Fanfani, cinque di Moro e Rumor, quattro di Berlusconi (circa la metà dei governi italiani), fino al numeratore fermatosi a due (Segni, Leone, Cossiga, Spadolini, Craxi, Amato, Prodi e D’Alema), è nitido un meccanismo di conservazione delle classi dirigenti e delle loro figure di riferimento lungo tutto il XX secolo, al di là della pur comune cesura giornalistica fra Prima e Seconda repubblica, con quasi un terzo dei presidenti del Consiglio (Pella, Scelba, Zoli, Tambroni, Colombo, Forlani, Goria, De Mita, Ciampi, Dini) andati solo una volta al governo. Negli anni Dieci del XXI secolo, invece tutti i presidenti del Consiglio hanno giurato una volta sola: Monti, chiamato al governo alla fine del berlusconismo, e dopo di lui tutti i presidenti espressi dal Partito democratico nella XVII legislatura – cioè Letta, Renzi, Gentiloni: con una densità di «presidenti monouso» che l’Italia aveva conosciuto solo alla fine del centrismo, fra il 1953 e il luglio del 1960. Toccherà a un presidente creato politicamente ex nihilo come Giuseppe Conte resuscitare, con due governi di segno politico opposto, l’usanza antica e ottimizzare la prassi andreottiana (che aveva guidato esecutivi con assetti diversi, ma mai di seguito).

4.3 Dove lo si cerca

È vero che gli ex presidenti del Consiglio sono un bacino per farne di nuovi (sempre e solo maschi, perfino nelle intenzioni di incarico che non vedono entrare in partita Rosa Russo Iervolino, il cui nome era stato fatto dalla Dc): ma ci sono alcune altre opzioni che non riflettono legami famigliari¹¹⁶, non obbediscono a geografie legate alla constituency dei partiti democratici¹¹⁷, e non promettono automatici coronamenti quirinalizi¹¹⁸.

Ancorché non sia un dato meccanico (basti pensare ad Andreotti o a Prodi) il maggior giacimento da cui vengono prevedibilmente estratti o stivati i presidenti del Consiglio è quello della Segreteria del partito, che fa parte della carriera di un terzo di loro: De Gasperi, Rumor, Fanfani, Moro, Spadolini, Craxi, De Mita, D’Alema, Berlusconi (anche se in un format presidenzialista), Renzi sono stati segretari di partito prima di ricevere l’incarico; lo sono diventati a valle dell’esperienza di governo Forlani, Monti, Enrico Letta e Conte. A volte il transito, o la cumulatio, avviene in tempi stretti come alla fine della guerra mondiale o nel 1994 berlusconiano; talora con passaggi più lenti come nel caso di De Mita e Craxi; oppure con moti accelerati come nell’effimera immediatezza di Monti, in quella di Conte, o nel settennato di stacco parigino fra la presidenza e la segreteria di Enrico Letta.

La pattuglia degli ex ministri è un altro serbatoio dove il capo dello Stato attinge figure che stima, capaci di raccogliere il voto parlamentare: quei cento politici rimasti nel circuito del governo, passando da un ministero all’altro, per più di cinque anni sono degli accumulatori di esperienze e degli incubatori di ambizioni che in qualche caso (Einaudi, Gronchi, Saragat, Scalfaro, Napolitano, Mattarella) trovano la via del Quirinale senza aver mai preso quella della presidenza del Consiglio – come invece era accaduto ad altri, come Segni, Leone, Cossiga, Ciampi.

Poi c’è il mondo fuori dalla politica dove pescare personalità (e se possibile gli emuli eroici di cui parlava Lussu): in primis la Banca d’Italia, luogo nel quale Einaudi, Ciampi e Draghi ricevono un loro imprinting ritenuto adeguato alle difficoltà del momento. Il mondo del giornalismo da cui viene Spadolini (unico ad aver diretto un grande quotidiano come il «Corriere della Sera») si mescola al suo profilo di accademico. Il professorato era però di scarso interesse nei partiti di massa, dove la professione accademica era completamente messa in ombra dalla militanza; invece diventa prevalente con Prodi («il Professore», qualifica che mai avrebbe lusingato i leader democristiani pur titolari di cattedre importanti) e inanella quattro professori ordinari nel solo XXI secolo.

Un paesaggio dunque che avrebbe senso sperare di descrivere per mediane e accomodamenti grafici, autolimitati da avversative a cui sarebbe arbitrario dare troppo o troppo poco peso... Il presidente del Consiglio in Italia infatti è sempre maschio: quasi sempre di mezza età, ma con poche eccezioni sopra e sotto la media¹¹⁹. Non sempre è sposato, ma una sola volta ufficialmente divorziato. Ufficialmente è sempre un eterosessuale: non è sempre cattolico o ateo, ma mai ebreo (prima della Shoah c’era stato solo il figlio di Isacco Saul Sonnino). Spesso è un professore, ma può anche essere un non laureato. In qualche caso è stato o sarà segretario di partito, spesso no. In pochi casi, ma clamorosi, sarà incriminato e processato, ma non sempre assolto.

Per farla corta: il presidente del Consiglio non è la derivata di un’equazione di matematica politica, ma è soggetto di una storia che merita di essere guardata, come ogni storia. Già, ancora la storia: scienza, ma non scienza sociale; narrazione, ma non solo; atto morale, ma allergica ai moralismi; «ricostruzione conoscitiva del passato dell’uomo»¹²⁰, nel suo concreto, nel suo tempo.

Tabella A) Età del presidente del Consiglio al primo incarico

Età	Numero	Presidenti
fra 70 e 80	2	Carlo Azeglio Ciampi Mario Draghi
fra 60 e 70	7	Alcide De Gasperi Antonio Segni Adone Zoli Ciriaco De Mita Lamberto Dini Mario Monti Paolo Gentiloni Silveri
fra 50 e 60	14	Giuseppe Pella Mario Scelba Fernando Tambroni Giovanni Leone Mariano Rumor Emilio Colombo Giulio Andreotti Francesco Cossiga Arnaldo Forlani Giovanni Spadolini Giuliano Amato Silvio Berlusconi Romano Prodi Giuseppe Conte
fra 40 e 50	6	Amintore Fanfani Aldo Moro Bettino Craxi Giovanni Goria Massimo D’Alema Enrico Letta
fra 30 e 40	1	Matteo Renzi

Tabella B) Età del primo e ultimo mandato come presidente del Consiglio

Presidente	Anno di nascita	Numero dei governi	Primo incarico di governo	Età al primo incarico	Ultimo incarico di governo	Età all’ultimo incarico	Δ
De Gasperi	3 aprile 1881	7	13 luglio 1946- 2 febbraio 1947	65	16 luglio 1953-17 agosto 1953	72	7
Pella	18 aprile 1902	1	17 agosto 1953-18 gennaio 1954	51	–	–	0
Fanfani	6 febbraio 1908	6	18 gennaio 1954-10 febbraio 1954	45	17 aprile 1987-28 luglio 1987	79	33
Scelba	5 settembre 1901	1	10 febbraio 1954-6 luglio 1955	52	–	–	1
Segni	2 febbraio 1891	2	6 luglio 1955-19 maggio 1957	64	15 febbraio 1959-25 marzo 1960	68	4
Zoli	16 dicembre 1887	1	19 maggio 1957-1° luglio 1958	69	–	–	1
Tambroni	25 novembre 1901	1	25 marzo 1960-26 luglio 1960	58	–	–	0
Leone	3 novembre 1908	2	21 giugno 1963-4 dicembre 1963	54	24 giugno 1968-12 dicembre 1968	59	5
Moro	23 settembre 1916	5	4 dicembre 1963-22 luglio 1964	47	12 dicembre 1976- 29 luglio 1976	60	12
Rumor	16 giugno 1915	5	12 dicembre 1968-5 agosto 1969	53	14 marzo 1974-23 novembre 1974	58	5
Colombo	11 aprile 1920	1	6 agosto 1970-17 febbraio 1972	50	–	–	1
Andreotti	14 gennaio 1919	7	17 febbraio 1972-26 giugno 1972	53	12 aprile 1991-28 giugno 1992	72	20
Cossiga	26 luglio 1928	2	4 agosto 1979-4 aprile 1980	51	4 aprile 1980-18 ottobre 1980	51	1
Forlani	8 dicembre 1925	1	18 ottobre 1980-28 giugno 1981	54	–	–	0
Spadolini	21 giugno 1925	2	28 giugno 1981-23 agosto 1982	56	23 agosto 1982-1° dicembre 1982	57	1
Craxi	24 febbraio 1934	2	4 agosto 1983-1° agosto 1986	49	1° agosto 1986-17 aprile 1987	53	3
Goria	30 luglio 1943	1	28 luglio 1987-13 aprile 1988	44	–	–	0
De Mita	2 febbraio 1928	1	13 aprile 1988-22 luglio 1989	60	–	–	1
Amato	13 maggio 1938	2	28 giugno 1992-28 aprile 1993	54	25 aprile 2000-10 giugno 2001	61	7
Ciampi	9 dicembre 1920	1	28 aprile 1993-10 maggio 1994	72	–	–	1
Berlusconi	29 settembre 1936	4	10 maggio 1994-17 gennaio 1995	57	7 maggio 2008-16 novembre 2011	71	14
Dini	1° marzo 1931	1	17 gennaio 1995-17 maggio 1996	63	–	–	1
Prodi	9 agosto 1939	2	17 maggio 1996-21 ottobre 1998	56	17 maggio 2006-7 maggio 2008	66	10
D’Alema	20 aprile 1949	2	21 ottobre 1998-22 dicembre 1999	49	22 dicembre 1999-25 aprile 2000	50	1
Monti	19 marzo 1943	1	16 novembre 2011-27 aprile 2013	68	–	–	2
Letta	20 agosto 1966	1	28 aprile 2013-21 febbraio 2014	46	–	–	1
Renzi	11 gennaio 1975	1	22 febbraio 2014-12 dicembre 2016	39	–	–	2
Gentiloni Silveri	22 novembre 1954	1	12 dicembre 2016-1° giugno 2018	62	–	–	1
Conte	8 agosto 1964	2	1° giugno 2018-4 settembre 2019	53	5 settembre 2019-13 febbraio 2021	55	2
Draghi	3 settembre 1947	1	13 febbraio 2021-	73	–	–	–

Tabella C) Segretario del partito e presidente del Consiglio

Presidente	Segreteria di partito	Presidenza di partito	Insediamento del primo governo	Insediamento dell’ultimo governo	Presidenza della Repubblica
De Gasperi	1944-1946, 1953-1954	1946-1954	1946	1953	–
Pella	–	–	1953	–	–
Fanfani	1954-1959, 1973-1975	1976	1954	1987	–
Scelba	–	1966-1969	1954	–	–
Segni	–	–	1955	1959	1962-1964
Zoli	–	1954-1960	1957	–	–
Tambroni	–	–	1960	–	–
Leone	–	–	1963	1968	1971-1978
Moro	1959-1964	1976-1978	1963	1976	–
Rumor	1964-1969	–	1968	1974	–
Colombo	–	–	1970	–	–
Andreotti	–	–	1972	1991	–
Cossiga			1979	1980	1985-1992
Forlani	1969-1973, 1989-1992	1980-1982, 1986-1989	1980	1981
Spadolini	1979-1987	–	1981	1982	–
Craxi	1976-1993	–	1983	1986	–
Goria	–	–	1987	–	–
De Mita	1989-1992	1989-92	1988	–	–
Amato	–	–	1992	2000	–
Ciampi	–	–	1993	–	1999-2006
Berlusconi	1994-	1994-	1994	2008	–
Dini	–	–	1995	–	–
Prodi	–	2007-2008	1996	2006	–
D’Alema	1994-1998/1998 (Pds/Ds)	1998-2007	1998	–	–
Monti	2013	2013	2011	–	–
Letta	2021-	–	2013	–	–
Renzi	2013-2018	–	2014	–	–
Gentiloni	–	2019-2020	2016	–	–
Conte	–	2021-	2018	2021	–
Draghi	–	–	2021	–	–

Da Badoglio a Parri
di Loreto Di Nucci

1. Introduzione

È il 25 luglio del 1943 ed è una domenica. Il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, annota nel diario la decisione del re di mettere fine al regime mussoliniano. Fra le fonti memorialistiche di cui disponiamo, il diario di Puntoni è una delle più «attendibili e importanti», sicché conviene seguirlo per capire come andarono veramente le cose. Nel corso del colloquio il re chiese a Mussolini di lasciare il suo posto. Dopo avergli detto che doveva «intervenire per salvare il Paese da inutili stragi e per cercare di ottenere dal nemico un trattamento meno inumano», lo informò anche che il suo successore sarebbe stato Badoglio. All’uscita della villa Mussolini fu fermato dai carabinieri, fatto salire su un’ambulanza e condotto nella caserma di via Legnano. Subito dopo, insieme con Acquarone, Puntoni andò a casa di Badoglio, dove il ministro della Real casa gli fece controfirmare il decreto di nomina a capo del governo e il proclama da lanciare alla nazione¹²¹.

Alle 22.45 la radio interruppe i programmi per comunicare che il re aveva accolto le dimissioni di Mussolini e lo aveva sostituito con Badoglio. Subito dopo furono letti due proclami. Il primo era di Vittorio Emanuele III, che annunciava di riprendere il comando di tutte le forze armate, il secondo di Badoglio, che dichiarava di assumere il governo militare del Paese e quindi aggiungeva: «La guerra continua». Qualche ora dopo Badoglio fece recapitare a Mussolini una lettera in cui precisava che le misure adottate nei suoi riguardi erano state prese per proteggerlo. Egli era comunque pronto a dare ordini per farlo accompagnare nella località che avesse scelto. Mussolini rispose subito, ringraziando anzitutto Badoglio per le attenzioni che gli aveva riservato. Indicò la Rocca delle Caminate come la residenza in cui sarebbe stato disposto a trasferirsi «in qualsiasi momento», aggiungendo poi che non gli avrebbe creato alcuna difficoltà, ma anzi assicurato ogni «possibile collaborazione». Infine, si disse contento per la decisione di continuare la guerra al fianco dei tedeschi, come esigevano in quel momento «l’onore e gli interessi della Patria».

La soluzione della Rocca delle Caminate non era però praticabile. Come ha scritto Renzo De Felice, infatti, il trasferimento di Mussolini alla Rocca avrebbe voluto dire consegnarlo ai tedeschi, oppure fornir loro il pretesto di intervenire militarmente e quindi scontrarsi con essi. Stando così le cose, la scelta cadde su Ventotene o Ponza. Sentendosi vittima di un inganno, nella Storia di un anno Mussolini avrebbe parlato di «commedia della ‘residenza privata’». All’ammiraglio Maugeri, che lo accompagnò alla corvetta Persefone con la quale fu portato a Ponza, Mussolini espresse la sua irritazione con queste parole: «Eppure Badoglio ha lavorato con me diciassette anni»¹²². In effetti era vero, perché Badoglio aveva mantenuto la carica di capo di Stato maggiore generale dal 1925 al 1940. Si tratta di un caso pressoché unico nell’Italia fascista, poiché non ci fu altro esponente di primo piano che conservò lo stesso incarico così a lungo. Hanno dunque ragione Piero Pieri e Giorgio Rochat quando osservano che una simile eccezionalità rimanda a uno dei «problemi centrali e più delicati» dell’intera vicenda biografica di Badoglio, ovvero il suo rapporto con il fascismo.

Il 5 maggio del 1936 Badoglio inviò il celebre telegramma con cui annunciava di essere entrato ad Addis Abeba alla guida delle truppe vittoriose. E proprio quella data, 5 maggio 1936, sarebbe stata apposta sulla tessera del Partito nazionale fascista che Badoglio avrebbe ricevuto in seguito da Adelchi Serena. La consegna della tessera del Pnf fu un riconoscimento di natura politica, a cui ne seguirono altri negli ambiti più vari. Nel novembre del 1937, ad esempio, Badoglio divenne presidente del Consiglio nazionale delle ricerche. Il 4 aprile del 1940 scrisse al duce una lettera, che è importante giacché vi si trovano riassunte le «direttive politico-strategiche concordate con Mussolini». Dopo aver premesso che in quel momento la preparazione bellica italiana era del quaranta per cento, Badoglio fissava tre punti: bisognava «tener fede all’alleanza con la Germania»; aver cura di evitare incidenti con le «potenze democratiche» che obbligassero l’Italia a un intervento precipitoso; essere pronti a intervenire prendendo «norma dallo stato di prostrazione» della Francia e dell’Inghilterra.

Alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, Badoglio chiese che gli fosse riconosciuto un ruolo adeguato al suo rango. Il duce gli promise che si sarebbe limitato a dare indicazioni strategiche generali, lasciando a lui la responsabilità di dirigere le operazioni. Ma questa macchina del comando non entrò mai in funzione a causa della continua invadenza di Mussolini. Eppure, ancorché dovette subire varie umiliazioni, Badoglio fu sempre accondiscendente nei suoi confronti.

Il 12 ottobre del 1940 Mussolini decise di attaccare la Grecia per combattere la sua guerra parallela. Cinque giorni dopo Badoglio convocò tutti i capi delle forze armate, che si espressero contro l’impresa. Nondimeno, anche in questa circostanza il Maresciallo si allineò alle posizioni di Mussolini e si chiamò fuori soltanto quando le cose iniziarono a mettersi male in Albania. Il 10 novembre, nel corso di una riunione dei vertici militari con Mussolini, disse che lo Stato maggiore generale non era stato coinvolto nell’organizzazione di quella campagna militare, svolta in modo contrario al «sistema» italiano basato sul principio di «prepararsi bene e poi osare».

Nel mentre Badoglio declinava ogni responsabilità, Mussolini e i leader fascisti si industriavano per attribuire la colpa del disastro ai militari. Bisognava individuare un capro espiatorio, e naturalmente la scelta cadde sul Maresciallo in quanto era il solo che avesse una certa notorietà. Il 4 dicembre Badoglio incontrò Mussolini, che gli offrì di rimanere al suo posto nel caso in cui Cavallero avesse preferito non assumere la carica di capo di Stato maggiore quanto piuttosto la direzione delle operazioni in Albania. Era una «proposta insultante», sicché Badoglio non poteva che dare le dimissioni¹²³.

2. La bandiera che si presenta quando il reggimento è schierato

La fine della carriera militare di Badoglio comportò la sua sparizione dalla vita pubblica. Dopo l’esonero fu sottoposto a sorveglianza, ma questo non gli impedì di stabilire contatti con vari ambienti ostili al regime¹²⁴. Verso la fine del 1942, in concomitanza con le sconfitte militari dell’Asse, tutte le forze politiche antifasciste, di varia provenienza, ritenevano possibile e necessario rimuovere Mussolini dal potere e far uscire l’Italia dal conflitto. Ma se vi era accordo sull’urgenza di una svolta, innumerevoli e profonde erano le divergenze sui mezzi, sulle alleanze e soprattutto sull’atteggiamento da tenere nei confronti del re.

La questione delle diverse posizioni nei riguardi della monarchia si intrecciava con quella del profilo del governo che avrebbe sostituito quello fascista e con il problema, di non facile soluzione, di chi lo avrebbe guidato. Alcuni volevano un esecutivo composto solo da uomini dell’antifascismo, mentre altri ritenevano che non fosse nell’ordine delle cose reali. Alla guida avrebbe potuto esserci un capo militare di prestigio, ma il solo che non si fosse compromesso con il fascismo era il maresciallo Caviglia, a taluni inviso per il suo carattere autoritario, per la sua fede nella monarchia e per i rapporti personali che aveva con il re.

Un altro militare famoso era Badoglio che, dopo essere stato destituito da capo di Stato maggiore generale, faceva mostra negli ambienti che contavano di un antifascismo fin troppo esibito. Il Maresciallo non poteva però menar vanto di un «passato limpido», sia sul piano militare, per le responsabilità nella rotta di Caporetto, sia su quello politico, per i rapporti con il fascismo. Era risaputo, inoltre, che avesse un carattere «ambizioso, vendicativo, interessato e ambiguo». Basti ricordare che Caviglia era arrivato a definirlo «un cane da pagliaio che va dov’è il boccone più grosso». Un giudizio così sprezzante scaturiva da una totale disistima nei confronti dell’uomo, eppure conteneva un nucleo di verità. Furono proprio questi tratti caratteriali, infatti, insieme a una spregiudicata abilità nell’intessere rapporti con tutti gli ambienti che potevano tornare utili e nel «presentare la sua ‘opposizione’ al fascismo come meramente patriottica e apolitica», che contribuirono a far «pendere la bilancia» a favore di Badoglio, facendolo preferire a Caviglia o ad Ambrosio¹²⁵.

Emblematica è a tale riguardo la testimonianza di Giuliana Benzoni, che apparteneva al gruppo della principessa Maria José e prese parte alle vicende che portarono al 25 luglio. Il Maresciallo, scrive, non rifiutava gli inviti a partecipare riservatamente a riunioni antifasciste, nel corso delle quali, se interpellato sulla sua disponibilità ad agire, rispondeva in maniera ieratica. In una circostanza aveva detto: «Voi preparate tutto, come in una specie di carboneria e pensate a me come al capo». E in un’altra si era espresso con queste parole: «Io sono come una bandiera che si presenta quando il reggimento è schierato. Allora prendo il comando e si marcia»¹²⁶.

Che la decisione di passare all’azione non fosse più rinviabile Vittorio Emanuele III dovette intuirlo il 22 luglio, quando incontrò Mussolini dopo il suo ritorno da Feltre, dove, secondo Badoglio, Hitler parlò per circa due ore e «Mussolini non aprì bocca». In quella circostanza, stando al racconto di Puntoni, il re aveva cercato di far capire al duce che «la sua persona, bersagliata dalla propaganda nemica e presa di mira dalla pubblica opinione, ostacola[va] la ripresa interna e si frappone[va] a una definizione netta della [...] situazione militare» italiana. Ma Mussolini non aveva capito o non aveva voluto capire, ed era come se il re avesse parlato al vento¹²⁷. Il 25 luglio, di buon mattino, Vittorio Emanuele III fu informato da Acquarone, che aveva incontrato Grandi durante la notte, dell’esito del Gran Consiglio. Sulla base di queste informazioni il re aveva infine deciso di sostituire il duce con Badoglio, ma bisognava risolvere il «problema dei problemi», ovvero: «Che fare di Mussolini?». Non appena il governo si insediò e si tenne il primo Consiglio dei ministri, il 27 luglio, Carmine Senise, che era tornato a occupare la carica di capo della polizia, affrontò la questione con Badoglio e, come già detto, si arrivò alla conclusione che il posto più adatto fosse Ponza, dove Mussolini rimase per alcuni giorni prima di essere trasferito nella notte tra il 6 e 7 agosto alla Maddalena¹²⁸.

Nel mentre il governo Badoglio muoveva i suoi primi passi, Bonomi, che ancor prima del 25 luglio era stato un «tramite essenziale [...] fra le opposizioni ancora clandestine, la corona e i vertici delle forze armate», divenne dopo la caduta di Mussolini la guida dell’antifascismo, nel senso che fu lui a organizzare «il fronte dei partiti antifascisti»¹²⁹. Dopo una prima riunione, che si tenne il 27 in casa di Siglienti, Bonomi ne presiedette un’altra il 28 nell’abitazione di Spataro. Vi parteciparono i liberali, i democratici cristiani, i democratici del lavoro, gli azionisti, i socialisti e i comunisti. Al termine dell’incontro Bonomi si recò da Badoglio, al quale chiese a nome del «Comitato Nazionale delle correnti antifasciste» di risolvere tre problemi urgenti: sciogliere il Pnf, liberare i detenuti politici e assicurare la libertà di stampa. Il presidente del Consiglio rispose che il partito fascista era stato sciolto, che si stava provvedendo alla liberazione dei prigionieri politici e che avrebbe studiato la questione della stampa. In effetti, il 27 luglio il Consiglio dei ministri aveva deciso lo scioglimento del Partito nazionale fascista, del Gran Consiglio del fascismo, del Tribunale speciale per la difesa dello Stato e della Camera dei fasci e delle corporazioni¹³⁰.

Il 2 settembre si riunì il «Comitato centrale delle forze antifasciste», poiché Bonomi aveva saputo in via riservata che stava per essere firmato un accordo militare con gli anglo-americani e che si avvicinava dunque l’ora del distacco dell’Italia dalla Germania. Al termine della riunione fu approvato un ordine del giorno che doveva essere pubblicato, ma Bonomi, il 4 successivo, aveva avuto un colloquio con Badoglio e vi era stato un ripensamento. Il Maresciallo aveva minacciato la «fucilazione per gli incauti propalatori di notizie segrete», ma in seguito aveva lasciato intendere che si era alla vigilia di «grandi avvenimenti» e aveva richiamato tutti a una maggiore prudenza¹³¹.

L’8 settembre la radio trasmise il proclama con cui Badoglio informava il Paese che era stata accolta dagli Alleati la richiesta italiana di armistizio. All’indomani i partiti antifascisti si costituirono in Comitato di liberazione nazionale (Cln), adottando lo stesso nome scelto dai combattenti francesi che si riconoscevano in de Gaulle, «per chiamare gli italiani alla lotta e alla resistenza e per riconquistare all’Italia il posto che le compete[va] nel consesso delle libere nazioni». Ma il fatto è che le forze armate non avevano avuto altro ordine se non quello assai ambiguo, come si legge nel comunicato, di reagire «ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». E dunque, annotava Bonomi nel diario, esse si lasciavano «disarmare e tradurre in campi di concentramento». In breve, era «il crollo definitivo dell’Italia, disorientata, smarrita, senza direzione»¹³².

Non è certo facile risalire con esattezza alle responsabilità di quella che è stata definita «la completa follia del governo italiano e del comando supremo», ma il dato storico di maggior rilievo è che Vittorio Emanuele III e Badoglio si rifugiarono a Brindisi. Il loro principale obiettivo politico era «assicurare la continuità dello Stato». Una continuità che fu effettivamente garantita dal cosiddetto «Regno del Sud», ma, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia, «l’elemento storico decisivo dell’8 settembre [...] non sta nel fatto, ma nel come». In sintesi, nulla può giustificare il comportamento del re, di Badoglio e degli alti comandi, che fuggirono da Roma senza aver impartito alcun ordine ai soldati, e tantomeno direttive alla popolazione chiare e adeguate alla drammaticità della situazione. L’abbandono di Roma poteva avere una qualche motivazione per il sovrano e il capo del governo, ma insieme a Vittorio Emanuele III e a Badoglio erano partiti i ministri militari e i capi delle forze armate. Tuttavia, come hanno sottolineato Pieri e Rochat, «nel clima di un vergognoso ‘si salvi chi può’», nessuno si premurò di avvertire i ministri civili del governo¹³³.

Nel raccontare quel momento storico, Puntoni scrive che per evitare che le operazioni di imbarco dessero nell’occhio si decise di partire dal molo di Ortona, a sud di Pescara, a mezzanotte. Intorno all’1.00 la corvetta era salpata e il 10 settembre alle 14.30 era arrivata nel porto di Brindisi¹³⁴. A partire da allora Badoglio fu presidente del Consiglio del Regno del Sud, una compagine statale di dimensioni minime, circoscritta alle province di Brindisi, Bari, Lecce e Taranto. Il 18 settembre Mussolini, che era stato liberato dai tedeschi, annunciò da Radio Monaco la nascita di un nuovo Stato «nazionale e sociale». Il 23 assunse ufficialmente la guida del governo e il 28 quella di capo dello «Stato fascista repubblicano», che nel novembre seguente prese il nome di Repubblica sociale italiana. In un arco di tempo assai breve l’Italia si ritrovò con due Stati, sicché ha indubbiamente ragione Roberto Vivarelli quando scrive che l’8 settembre segna «la fine dello stato italiano, cioè la fine di quello stato nato con il Risorgimento»¹³⁵.

Soffermandosi a riflettere su queste vicende, il 22 settembre Bonomi annotava nel diario che gli anglo-americani avrebbero dato il loro sostegno alla monarchia, ossia al «binomio Re Vittorio Emanuele e Maresciallo Badoglio». Bonomi coglieva nel segno, poiché il giorno prima, parlando alla Camera dei Comuni, Churchill aveva detto che era necessario, nell’interesse generale e in quello dell’Italia, che le «superstiti forze della vita nazionale italiana» si stringessero attorno al loro legittimo governo. Il re e il presidente del Consiglio dovevano essere aiutati da tutte quelle componenti, liberali e di sinistra, che fossero in grado di opporsi alla «combinazione fascista tipo Quisling»¹³⁶.

La posizione del governo inglese fu al centro di un serrato confronto al Comitato centrale di liberazione nazionale (Ccln) che si tenne il 28 settembre. In quella riunione si registrò una spaccatura sul ruolo della monarchia. La questione fu ripresa nella riunione del Comitato del 5 ottobre, quando fu approvata una deliberazione con cui si affermava di demandare al popolo italiano, alla fine delle ostilità, la decisione sulla forma istituzionale dello Stato e si chiedeva la costituzione di un governo non militare bensì politico. Il 13 seguente il governo Badoglio dichiarò guerra alla Germania. Questo valse al nostro Paese il riconoscimento da parte degli Alleati dello status di cobelligerante, ma non di alleato¹³⁷.

Il 16 ottobre il Cln si riunì per valutare quale atteggiamento tenere dopo gli ultimi avvenimenti e approvò una risoluzione in cui si sosteneva che la guerra di liberazione non poteva farsi sotto la guida del governo costituito dal re e da Badoglio. L’eccezionalità del momento richiedeva la formazione di un ministero straordinario che avrebbe dovuto: «1) assumere tutti i poteri costituzionali dello Stato, evitando però ogni atteggiamento che po[tesse] compromettere la concordia della nazione e pregiudicare la futura decisione popolare; 2) condurre la guerra di liberazione a fianco delle Nazioni Unite; 3) convocare il popolo, al cessare delle ostilità, per decidere sulla forma istituzionale dello Stato». De Gasperi, che non aveva partecipato all’incontro, giudicò quell’ordine del giorno «un pasticcio di contraddizioni». Il suo giudizio era «negativo», in quanto lo riteneva «inattuabile» e quindi «semplice strumento interlocutorio»¹³⁸.

Il 28 e 29 gennaio del 1944 si tenne a Bari il congresso dei Comitati di liberazione nazionale delle regioni liberate, al termine del quale fu approvato un ordine del giorno in cui si riconosceva che le condizioni del Paese non consentivano «la immediata soluzione della questione istituzionale». Stabilito ciò, si precisava che il «presupposto innegabile della ricostruzione morale e materiale italiana» era «l’abdicazione immediata del re, responsabile delle sciagure del Paese». Il congresso, che si autoproclamò «espressione vera ed unica della volontà e delle forze della Nazione», affermava inoltre la «necessità di pervenire alla formazione di un governo con i pieni poteri del momento di eccezione» e «la partecipazione di tutti i partiti» lì presenti, ossia Partito liberale italiano, Democrazia cristiana, Democrazia del lavoro, Partito d’Azione, Partito socialista italiano e Partito comunista italiano. Il governo in questione avrebbe dovuto «intensificare al massimo lo sforzo bellico», «avviare a soluzione i più urgenti problemi della vita italiana» e «predisporre con garanzia di imparzialità e libertà la convocazione dell’Assemblea Costituente, da indirsi appena cessate le ostilità»¹³⁹.

Nel commentare quanto accaduto a Bari, Velio Spano rilevò in seguito che «la maggior parte dei delegati si [erano lasciati] prendere da un entusiasmo artificiale e si [erano messi] a recitare ‘il Terzo Stato al giuoco della Pallacorda’». Ma una simile recita era stata possibile perché si erano rifiutati di «vedere i soldati inglesi che [li] tenevano prigionieri nel Teatro Piccinni» di Bari¹⁴⁰. Il 9 febbraio la direzione del Partito socialista era ritornata sull’ordine del giorno approvato a Bari, obiettando che esso lasciava sussistere «l’equivoco di una possibile collaborazione dei partiti antifascisti con una eventuale reggenza». E dunque, dal momento che la «lotta in corso» era una «lotta per la indipendenza, per la repubblica, per il socialismo», i socialisti ritenevano che non potesse essere vittoriosa se non si fosse prima «stroncato ogni conato reazionario dei nemici di dentro raggruppati attorno al fascio e attorno alla monarchia»¹⁴¹.

A ragion veduta Bonomi annotava il 15 febbraio che si trattava di una «prima crepa» nella compagine antifascista e di un duro colpo al Comitato di liberazione nazionale. Eppure, come scriveva a De Gasperi, egli non voleva far precipitare le cose, ovvero convocare il Comitato prima di aver consultato i partiti. Nella lettera di risposta De Gasperi sottolineava che l’ordine del giorno socialista assegnava alla battaglia che si stava combattendo non soltanto l’obiettivo dell’indipendenza, che era comune a tutti gli antifascisti del Cln, ma anche quello della repubblica e persino del socialismo, «la repubblica socialista, cioè il programma massimo del socialismo rivoluzionario». Ma non si poteva imporre un simile programma a una «coalizione democratica» in cui vi erano forze che si richiamavano alla libertà e al metodo democratico della consultazione popolare¹⁴².

Bonomi, che condivideva la posizione di De Gasperi, provò a ricomporre le divisioni, ma invano, sicché si dimise da presidente del Cln il 24 marzo. Dopo aver ricevuto la lettera di dimissioni di Bonomi, che definiva «limpida e serrata», De Gasperi scrisse a Spataro che gli pareva «difficile rabberciare» la situazione, ma di lì a pochi giorni esplose la bomba Ercoli che ebbe l’effetto di mutare il quadro politico. I partiti antifascisti uscirono infatti dallo stato di blocco in cui si trovavano quando Togliatti, di ritorno da Mosca, realizzò la svolta di Salerno. Per meglio inquadrarla conviene richiamare anzitutto il contesto territoriale in cui avvenne, tale per cui, come si rammaricava Alfredo Pizzoni, «nessuno dei maggiori uomini politici adunatisi in Roma» venne trasferito al Nord¹⁴³.

Mentre l’Italia era tagliata in due, l’antifascismo meridionale, alla cui guida erano Croce, Sforza, il democristiano Rodinò, l’azionista Omodeo e altri esponenti delle varie tendenze socialiste, aveva definito la propria posizione al congresso di Bari. In quell’assemblea, lo abbiamo visto, era stata indicata come condizione pregiudiziale per la rinascita del Paese l’abdicazione del re, e messa in secondo piano la richiesta della Costituente. A un esame ravvicinato, tuttavia, l’ordine del giorno approvato a Bari non era politicamente chiaro. Era stato votato dai repubblicani perché convinti che con l’abdicazione di Vittorio Emanuele III si sarebbe spalancata la porta della Repubblica e aveva ricevuto il consenso dei monarchici in quanto coltivavano l’illusione che avrebbe fornito loro la possibilità di «ripulire» la monarchia in vista di un’eventuale consultazione popolare. Quella deliberazione non specificava inoltre se, una volta eliminato il re, sarebbe succeduto il principe Umberto. E soprattutto non chiariva quali dovessero essere i rapporti tra la monarchia e il governo democratico, per il quale si chiedevano «pieni poteri». Rilevate tali incongruenze, quel voto, come notava acutamente Bonomi, aveva prodotto un notevole effetto: «Aveva collocato Badoglio in un cul di sacco. Egli non poteva fare un vero e proprio Gabinetto politico per il rifiuto dei partiti antifascisti a parteciparvi. Non poteva né avanzare né ritirarsi».

In questa situazione di stallo era «miracolosamente» giunto in Italia «da plaghe lontane un cavaliere portentoso, un Lohengrin redivivo» che era andato in soccorso di Badoglio e lo aveva tratto in salvo. Il cavaliere, che arrivava dalla Russia, era Palmiro Togliatti, il quale aveva trascorso molti anni nella «Repubblica dei sovieti [sic]» dove aveva ricoperto incarichi di rilievo. Prima del suo ritorno in Italia Togliatti aveva più volte cambiato idea sul governo Badoglio, ma un incontro con Stalin, avvenuto nei primi giorni di marzo del 1944, aveva sciolto tutti i suoi dubbi. Stalin aveva infatti consigliato a Togliatti un riposizionamento. Nel concreto, i comunisti italiani dovevano abbandonare la richiesta dell’abdicazione del re ed entrare nel governo Badoglio. E così, non appena rientrato in Italia, Ercoli annunciò la nuova linea durante il Consiglio nazionale del Pci che si tenne a Napoli il 30 e il 31 marzo del 1944¹⁴⁴.

Il 2 aprile Nenni annotava nel diario che era «scoppiata la bomba Ercoli», poiché Togliatti, «con la spregiudicatezza propria dei bolscevichi», aveva sostenuto che sarebbe stato meglio arrivare all’abdicazione del re, ma siccome questa era divenuta un «ostacolo all’azione» tanto valeva rinunciare. L’impressione era che il leader comunista si muovesse con la «noncuranza del pachiderma nel deserto». Non sembrava tener conto, ad esempio, dei capi antifascisti di Napoli e delle loro precedenti affermazioni, che non potevano ritrattare «senza squalificarsi personalmente e senza umiliare l’antifascismo»¹⁴⁵.

Non è che non vi fosse del vero in ciò che scriveva Nenni ma, come rilevava Bonomi, il pensiero di Togliatti era «semplice, rettilineo, convincente». Il governo italiano, riconosciuto come cobelligerante, doveva fare la guerra alla Germania, e dunque bisognava adoperarsi per affrontare al meglio la battaglia e incitare il popolo al combattimento. Davanti a questa straordinaria necessità, le dispute relative all’abdicazione del re o all’ingresso nel governo Badoglio diventavano «quisquilie, accademie per i tempi d’ozio, ingombri teorici e sentimentali». La mossa del leader del Pci era stata dunque spiazzante, poiché se i comunisti andavano con Badoglio era difficile che rimanessero da parte i liberali di Croce, i democristiani di Rodinò e così tutti gli altri. In sintesi, Togliatti aveva tagliato quella «specie di siepe che circondava il Re» e impediva qualunque avvicinamento. Ma una volta che il varco era stato aperto, tutti si sarebbero precipitati verso il «binomio Badoglio-Togliatti», che in tutta evidenza era ormai vincente¹⁴⁶.

Considerazioni non molto diverse faceva Benedetto Croce, il quale scriveva nel diario che la svolta di Salerno era «certamente un abile colpo della Repubblica dei Soviet vibrato agli Anglo-americani, perché, sotto colore di intensificare la guerra contro i tedeschi introduce[va] i comunisti nel governo, facendoli iniziatori di una nuova politica sopra e contro gli altri partiti». Questi ultimi sarebbero stati costretti ad adeguarsi, senza che i comunisti provassero alcun disagio per il patto che avevano stretto con loro nel Cln, e senza tener conto di un accordo ancor più recente con i socialisti e con il Partito d’Azione in cui chiedevano, tra l’altro, «l’abdicazione del re, l’esclusione di tutti i Savoia e la repubblica». Si domandava dunque Croce: «Se i comunisti si mettono a collaborare con il Badoglio e col re, che cosa faranno gli altri partiti, e particolarmente il democratico-cristiano, che anch’esso ha le sue ‘masse’ e non vorrà tenerle fuori dal governo, abbandonando il campo ai comunisti?»¹⁴⁷.

Le reazioni dei partiti furono molteplici, varie e si definirono gradualmente. La Democrazia cristiana si riunì il 5 aprile e approvò un ordine del giorno in cui si legge che, di fronte alla svolta del Partito comunista, la linea direttiva era la seguente: «La Commissione centrale ritiene che tanto più convinta ed efficiente sarà la partecipazione della nazione alla guerra quanto più e meglio venga riconosciuta dalle Nazioni Unite all’Italia una posizione di libera e dignitosa alleanza». Nel ricostruire gli orientamenti degli altri partiti «Il Popolo» faceva notare che una mozione non dissimile era stata votata dalla «Democrazia del lavoro», mentre l’«Avanti!» si era attestato su una posizione apertamente radicale. A tale riguardo, richiamava un articolo del 5 aprile intitolato La bomba Ercoli, non firmato ma attribuibile a Nenni, in cui si rivendicava la scelta del Partito socialista di battere un’altra via. E cioè «la via che storicamente si illuminava coi precedenti francesi del terrore settembrino e maratiano, quando per poter vincere il nemico di fuori fu gioco forza schiacciare prima quello di dentro e della Comune». Dopo aver ricordato l’evocazione di questi due miti rivoluzionari, il giornale della Dc precisava infine che nella chiusura dell’articolo i socialisti manifestavano la loro disponibilità a trattare, ma «a patto di eliminare dalla direzione politica della nazione e della guerra le forze, gli uomini e gli interessi del 25 luglio e dell’8 settembre»¹⁴⁸.

Il 6 aprile Radio Londra diede la notizia che il principe Umberto aveva dichiarato la sua disponibilità ad assumere la luogotenenza e che questo era il primo passo per arrivare al definitivo allontanamento di Vittorio Emanuele III. In quello stesso giorno la giunta esecutiva eletta al congresso di Bari, riunitasi a casa di Croce, approvò una deliberazione con cui i partiti del Comitato di liberazione nazionale si dicevano pronti a partecipare al governo, ma riaffermavano la necessità di una «immediata trasmissione dei poteri del Re al Luogotenente Generale»¹⁴⁹. Il 7 aprile Nenni riunì la direzione del partito e verificò che in molti era evidente la «voglia matta di allinearsi coi comunisti». Ma alla fine fu approvato un ordine del giorno che si limitava a constatare che il Partito socialista non ravvisava nella «svolta partecipazionista» del segretario comunista un mezzo adeguato per garantire alla nazione un «governo straordinario» espressione del Cln e delle masse che lottavano contro il nazifascismo. In quello stesso giorno il leader socialista annotava nel diario che la luogotenenza del principe Umberto, stando alle notizie di Radio Londra, sembrava la «passerella» fornita alla giunta esecutiva di Napoli per determinare «la sua conversione alla svolta». Nenni registrava un «nuovo episodio nel ‘film’ della ‘svolta’» il 12 successivo. Vittorio Emanuele III aveva infatti annunciato alla radio la decisione «definitiva e irrevocabile» di ritirarsi dalla vita pubblica e di nominare il figlio Umberto luogotenente generale del regno¹⁵⁰.

In questo delicato passaggio storico ebbero un ruolo di primissimo piano Croce, Sforza e De Nicola. Croce, in particolare, si mise di impegno per assicurare la continuità dello Stato. Garantirla non significava certo difendere la Corona, dal momento che, come scrisse a Sforza, a lui importava «dell’Italia e della libertà, non della monarchia». Dopo l’8 settembre la monarchia si configurava come «l’ultimo simulacro della continuità dello Stato», ma per salvare gli ordinamenti bisognava sacrificare la persona del re. La questione era assai complessa, poiché si trattava di allontanare il sovrano senza costringerlo ad abdicare. A sbrogliare la matassa fu infine De Nicola, che riuscì a trovare la via d’uscita: «Creare una Luogotenenza col crisma dell’irrevocabile decisione del Re». In altre parole, «arrivare ad una abdicazione mascherata». Si superavano così, a giudizio di Bonomi, tutte le infinite discussioni sul governo fatte all’interno del Comitato di liberazione nazionale. Ovvero se il governo doveva costituirsi con l’investitura regia oppure no, con l’accantonamento della monarchia o non necessariamente, e con poteri costituzionali straordinari oppure senza. In conclusione, «Togliatti, a somiglianza del filosofo greco, [aveva] troncato le dispute sulla natura del movimento cominciando a camminare»¹⁵¹.

Il 22 aprile fu costituito il secondo governo Badoglio. Il Maresciallo conservava la presidenza e l’interim degli Esteri, mentre i ministri senza portafoglio, Croce, Sforza, il cattolico Rodinò, Togliatti e il socialista Mancini, formavano una sorta di «Gabinetto di guerra». Il Partito d’Azione, scriveva Nenni, «dopo un lungo tira e molla di sapore piuttosto umoristico» era al governo con Omodeo al ministero dell’Educazione nazionale e Alfredo Tarchiani a quello dei Lavori pubblici. L’inclusione di questi ultimi, come scriveva Bonomi nel diario il 22, era stata particolarmente faticosa, a causa della «accesa colorazione repubblicana» degli azionisti. Ma alla fine Omodeo, che poche settimane prima aveva consigliato al re di «tirarsi due colpi di rivoltella nella testa», sarebbe stato costretto «a giurare, come Ministro e con la vecchia formula, nelle mani del Re evidentemente contrario al suo consiglio»¹⁵².

La questione del giuramento aveva un’indubbia rilevanza e fu affrontata nel corso della prima riunione del governo che si tenne la mattina del 24. Mentre infatti alcuni sostenevano che lo Statuto non contemplasse «l’obbligo di giurare fedeltà», altri suggerivano di avvalersi della formula del «giuramento con riserva». Per uscire dall’impasse, Badoglio aveva chiesto di poter fare una dichiarazione a nome di tutti e il re aveva dato il suo consenso. Nel pomeriggio i ministri erano arrivati a Ravello e, come da accordi, Badoglio aveva letto la sua dichiarazione e il sovrano la sua risposta. Dopodiché, a iniziare dal Maresciallo, uno dopo l’altro i nuovi ministri avevano firmato l’atto di giuramento¹⁵³.

3. Un governo di emergenza e di necessità nazionale

Il governo, nel giudizio che ne dava De Gasperi, doveva essere considerato «di emergenza e necessità nazionale, un governo di guerra» che non chiedeva ai partiti «consensi» che impegnassero le loro idee e le loro finalità, ma si aspettava la loro cooperazione ai fini di una condotta vittoriosa della guerra, del «risorgimento del popolo italiano» e della «rinascita» della nazione¹⁵⁴. Questo profilo emerge nitidamente fin dal secondo Consiglio dei ministri del 27 aprile. In quella circostanza Badoglio invitò il sottosegretario alla Presidenza, Renato Morelli, a leggere una dichiarazione preparata in una riunione che si era tenuta il giorno prima a Sorrento, a cui avevano partecipato i ministri senza portafoglio, e cioè Croce, Sforza, Rodinò, Mancini e Togliatti. Nella dichiarazione si affermava che il programma del governo risiedeva nelle ragioni della sua origine e della sua composizione. Formato dai «rappresentanti dei partiti antifascisti», non era «il Governo di questi partiti, in civile gara tra loro, ma della unione di essi per il bene e l’onore della patria».

Considerata la sua eccezionalità, esso metteva intenzionalmente da parte alcuni problemi di cui conosceva la «somma importanza». Fra questi, innanzitutto, quello della «forma istituzionale dello Stato», che avrebbe potuto essere risolto soltanto quando, «liberato il paese e raggiunta la pace, il popolo italiano [sarebbe stato] convocato ai liberi comizi mercé di un suffragio universale ed [avrebbe eletto] una assemblea costituente e legislativa». Il governo, inoltre, non ignorava che le due guerre mondiali avevano «sconvolto le condizioni della vita economica e morale e mutato i rapporti» sociali, sicché si imponevano «profonde riforme». Ma le «riforme dell’ordinamento statale, politico, amministrativo ed economico non si [potevano] né compiere né intraprendere quando arde[va] la guerra». Con l’Italia «spezzata in due tronconi», lo scopo «primo e supremo» era la guerra di liberazione delle terre ancora occupate dal nemico. Bisognava perciò intensificare lo sforzo bellico al fianco degli Alleati, e perseguire non soltanto la «severa punizione dei traditori» ma anche l’«‘epurazione’, cioè il sentimento di sicurezza da dare agli italiani che essi non [erano] più insidiati da coloro che, avendo avuto parte efficace nel caduto regime, ne serba[vano] le speranze, gli intenti e il costume e lavora[vano] così per il nemico esterno e interno». Un sentimento che non poteva «ottenersi se non con l’allontanare dalla vita pubblica e dall’amministrazione gli elementi pericolosi».

Insieme al perseguimento di questi obiettivi, occorreva impegnarsi per alleviare le condizioni di coloro che maggiormente soffrivano attraverso una ripresa delle attività industriali e un rilancio dell’agricoltura. Infine, si trattava di adoperarsi per far sì che l’amministrazione tornasse a essere regolare, nonostante i ministeri fossero stati «impiantati sul suolo raso», mancassero gli archivi e scarseggiasse il personale. Il governo si proponeva pertanto di ristabilire i controlli da parte della Ragioneria dello Stato e della Corte dei Conti, e di dar vita insieme ai Comitati di liberazione nazionale a un «corpo consultivo», come simbolo del Parlamento di cui si sentiva la mancanza, al quale riferire periodicamente del lavoro fatto¹⁵⁵.

Nel suo racconto autobiografico Badoglio scrisse in seguito che nel programma non vi era «in sostanza nulla di variato» rispetto a quello «svolto» dal governo precedente, ma una sola novità, e cioè la creazione della Consulta. Quanto ai ministri, alcuni dei quali si distinguevano per «la elegante verbosità», egli evidenziava che essi avevano potuto «constatare che il Gabinetto precedente, pur avendo dovuto lavorare con mezzi molto limitati, non aveva perduto il suo tempo». Badoglio, come si vede, difendeva l’operato del suo primo governo e sottolineava il legame che esisteva con il secondo. Il primo fattore di continuità era rappresentato dal fatto che il presidente del Consiglio (una volta che era stata abolita la formula «Capo del Governo») fosse ancora lui¹⁵⁶. Ma gli elementi di discontinuità non mancavano. A differenza del primo ministero, che era stato di «emanazione regia», il secondo acquisì a Salerno «un carattere parzialmente rappresentativo». Il potere di Badoglio, inoltre, che aveva goduto fino a quel momento di ampi margini di discrezionalità, veniva ora limitato dall’influenza esercitata dai ministri senza portafoglio. A tutti gli effetti, il governo era di unità nazionale, poiché vi erano rappresentati i sei partiti del Cln. Ma la coalizione era composita, e lo si vide quando l’esecutivo tornò a occuparsi della questione dell’epurazione, già affrontata con un decreto del dicembre del 1943 e con altri provvedimenti integrativi dell’aprile 1944¹⁵⁷.

La questione era assai delicata e lo prova l’esistenza di due progetti di legge, molto diversi tra loro. Il primo era stato preparato dall’ex ministro della Giustizia, Ettore Casati, e prevedeva la «messa in stato di accusa di tutti i fascisti, da quelli che nel partito avevano ricoperto incarichi importanti a quelli che ad esso erano stati semplicemente iscritti». Il secondo era stato invece predisposto, su incarico di Badoglio, dai professori Ugo Forti ed Enrico Altavilla. Il loro schema di decreto si distingueva da quello di Casati innanzitutto perché veniva ristretto e di molto il «campo dei punibili». Inoltre, essi «si espressero contro l’annullamento delle sentenze già pronunciate durante il fascismo e l’istituzione di tribunali speciali, e soprattutto contro il ricorso a ‘norme penali retroattive’». In sostanza, a differenza di Casati che intendeva pervenire alla «pacificazione sociale» intensificando l’opera di epurazione, i due giuristi napoletani erano dell’idea che si potesse raggiungere il medesimo risultato attenuandola¹⁵⁸.

Il progetto di Forti e Altavilla si caratterizzava per essere alquanto indulgente nei confronti dei fascisti più compromessi. E naturalmente di ciò non tardò ad accorgersi Casati, che il 25 aprile indirizzò a Badoglio una lettera in cui respingeva le obiezioni di Forti e Altavilla, e accusava i suoi oppositori di essere «animati da un morbido spirito di pacificazione filofascista». Anche all’interno del governo non mancavano però forze che non condividevano il radicalismo di Casati e trovarono il loro referente in Vincenzo Arangio-Ruiz, giurista, esponente del Partito liberale e nuovo ministro della Giustizia, che affrontò la questione nel Consiglio dei ministri del 4 maggio. Entrando nel merito, Arangio-Ruiz aveva detto che fra i due schemi di decreti legge fosse da preferirsi quello redatto da Forti e Altavilla. Egli giudicava, ad esempio, un «vero e proprio errore» l’opinione di Casati secondo cui lo «stato di fatto» che si era determinato con la marcia su Roma non si fosse mai trasformato in uno «stato di diritto». Mussolini aveva ricevuto l’incarico di formare il governo dal re, si era presentato in Parlamento, aveva ottenuto la fiducia e aveva governato sempre con norme di «formale legalità».

La presa di posizione del ministro guardasigilli provocò un acceso dibattito in seno al governo, sicché alla fine il Consiglio dei ministri approvò la costituzione di una commissione formata da Arangio-Ruiz, Cerabona, Togliatti, Rodinò e Di Napoli per predisporre un nuovo schema sulla base del progetto Casati. Il testo fu discusso e approvato nel successivo Consiglio che si tenne l’11 e divenne poi un decreto legge il 26 maggio seguente¹⁵⁹. Il provvedimento dimostrava che era in corso un «faticoso lavoro di elaborazione giuridica e normativa», ma per tutta la durata del secondo ministero Badoglio il «meccanismo epurativo» stentò ad avviarsi. A incepparlo furono molti fattori e fra questi le «farraginosità procedurali», una non sempre chiara definizione giuridica dei concetti di «epurazione» e «delitti fascisti» e infine la paura di «immobilizzare un’organizzazione amministrativa assai barcollante». L’amministrazione era infatti un «non soggetto, o sta[va] sullo sfondo», perché «in primo piano sta[vano] i partiti»¹⁶⁰.

I provvedimenti per l’epurazione erano coerenti con il programma di governo, ma nel valutarlo Bonomi osservava che non si attribuiva il rilievo necessario all’Assemblea costituente. Certo era menzionata, le si assegnava il compito di discutere «l’avvenire della Monarchia», ma non era nella legge. In altre parole, era nelle «promesse governative» ma non «consacrata in un impegno legislativo», ed era proprio in ciò che si ravvisava «la debolezza della soluzione badogliana della crisi». Evidenziato questo aspetto, egli rilevava che la nuova situazione aveva mutato gli «umori» dei sei partiti del Cln. A rimanere «sospettosi e diffidenti» erano soltanto gli azionisti, ma, dal momento che anch’essi avevano i loro rappresentanti al governo, non intendevano «né ritirarli né sconfessarli».

Anche in questo caso Bonomi dimostrava non comuni capacità di analisi, e lo testimonia un ordine del giorno votato dalla direzione del Pd’A il 4 maggio. Nel documento si legge che il Partito d’Azione, «senza assumere responsabilità politica alcuna nel Governo costituito a Napoli», avrebbe dato un «totale contributo allo sforzo bellico» per liberare il territorio nazionale dal nazismo e dal fascismo¹⁶¹.

Questa posizione fu ribadita al Comitato centrale di liberazione nazionale che si tenne il giorno successivo. In quella riunione furono approvate due risoluzioni. Con la prima il Comitato, pur prendendo atto della diversità di atteggiamenti di fronte alla costituzione del nuovo governo nell’Italia liberata, aveva deciso che i partiti cooperassero con il governo «ai fini della guerra liberatrice». Contestualmente, era stata votata un’altra mozione con cui si prendeva atto che erano caduti i motivi delle dimissioni di Bonomi e lo si invitava a riprendere il suo posto di presidente del Comitato¹⁶².

In una lettera riservata, scritta proprio il 5 maggio, De Gasperi consigliava a Bonomi di accogliere l’invito, ribadendo però che accettava nella «fiducia» che i partiti sarebbero rimasti «fedeli al metodo democratico» e che i loro giornali avrebbero preso posizioni compatibili con la linea del Comitato, «collaboratore del nuovo governo ai fini della guerra nazionale». A suo giudizio era questo il «punto debole» della situazione e il rischio di altri «sbandamenti» era tutt’altro che remoto. Bonomi accolse il suggerimento e scrisse due lettere al Ccln. Nella prima, accettando di tornare a dirigere i lavori del Comitato, esortava i partiti a ispirare i loro comportamenti e la loro stampa a una «concordia di azione». Nella seconda si soffermava sul metodo e sui caratteri di un eventuale governo straordinario. Egli ricordava che nel passaggio da un regime a un altro due erano i procedimenti che avevano avuto corso nella storia: o si demoliva l’intera impalcatura dello Stato per ricostruirla ex novo, oppure si immettevano nella vecchia struttura costituzionale nuovi istituti e nuove forze. Il primo modo era quello classico delle rivoluzioni, che distruggevano le fondamenta stesse dello Stato. Il secondo, invece, quello in cui le «rinnovazioni» procedevano «a gradi per avvenimenti successivi». Nessuno poteva negare che il Cln si trovasse nella seconda situazione, e quindi i «partiti coalizzati» dovevano rendersi conto che bisognava avanzare «senza impazienze rivoluzionarie», riformando le leggi e gli istituti esistenti fino al momento in cui la nazione avrebbe espresso liberamente la propria volontà.

Definite queste linee di indirizzo generale, Bonomi riteneva necessario insistere sul fatto che il primo atto del futuro governo dovesse essere l’impegno legislativo di convocare, una volta che il territorio nazionale fosse stato liberato, un’assemblea eletta a «suffragio universale diretto e segreto» per redigere la nuova Costituzione¹⁶³. Il 5 giugno, avvenuta la liberazione di Roma, Vittorio Emanuele III firmò a Ravello il decreto con cui nominava il figlio Umberto di Savoia, principe di Piemonte, «luogotenente generale». L’8 giugno ci fu, secondo le parole di Ugo La Malfa, il «memorabile episodio» della riunione al Grand Hotel, ovvero l’incontro tra tutti i componenti del Comitato centrale di liberazione nazionale e il maresciallo Badoglio con i ministri Croce, Sforza, Rodinò, Mancini, Cerabona e Togliatti. Erano anche presenti Cianca, segretario del Comitato di liberazione del Mezzogiorno, Vittorio Emanuele Orlando e il generale Frank Noel Mason-MacFarlane, capo della Commissione alleata di Controllo.

Aperta la discussione con un breve intervento di MacFarlane, i rappresentanti del Cln avevano esposto i motivi per cui chiedevano la formazione di un ministero «schiettamente democratico», costituito da uomini di salda fede antifascista, che potesse guidare con determinazione la guerra contro i tedeschi e predisporre la consultazione popolare relativa alle forme istituzionali. L’opinione prevalente era che si dovesse arrivare a un governo completamente nuovo, alla cui guida vi fosse un altro presidente del Consiglio. Di fronte a questa presa di posizione, Badoglio si era rivolto a Togliatti per conoscere il suo pensiero. Il leader comunista, come si legge nel diario di Nenni, aveva dichiarato che il Maresciallo aveva completato il suo «compito politico» e che doveva ritirarsi rendendo un ultimo servizio al Paese. Al che Badoglio si era alzato per stringere la mano a Ercoli. Si stava assistendo a un «finale patetico», al quale Scoccimarro aveva aggiunto una «nota umoristica» affermando che il capo del governo si era comportato come un «vero patriota». Secondo Nenni era singolare che i comunisti dessero «patenti di patriottismo», ma quel che contava era che il presidente del Consiglio avesse deciso di dare le dimissioni e che il Cln avesse proposto Bonomi per sostituirlo. In conseguenza di ciò Badoglio si era recato dal luogotenente per dimettersi e aveva indicato come candidato alla successione Ivanoe Bonomi. Convocato qualche ora dopo al Quirinale, dove aveva ricevuto da Umberto di Savoia l’incarico di formare il governo, Bonomi aveva dato la sua disponibilità, a condizione che fossero accettati

tre punti programmatici: 1. Impegno legislativo di rimettere al Paese, a territorio nazionale liberato, la scelta della forma istituzionale dello Stato, con l’elezione di una Assemblea Costituente per deliberare la nuova Costituzione. 2. Modificazione della formula del giuramento da prestarsi dai membri del Governo [...]. 3. Il Governo, non essendo assistito dalle Assemblee legislative, [avrebbe dovuto] assumere anche il potere legislativo e [...] deliberare esso solo le leggi fino a quando la nuova Costituzione non [avesse] delineati i nuovi istituti parlamentari e questi non [fossero] entrati in funzione.

Il luogotenente, che era interessato soprattutto alla seconda condizione, aveva accettato i tre punti e dato il via libera a Bonomi per costituire il suo governo. Questo era stato, secondo La Malfa, «forse il più grave dei suoi errori»¹⁶⁴.

Guadagnata la «prima manche», Bonomi ne aveva subito vinta un’altra, ottenendo il consenso del luogotenente sulla nuova formula del giuramento, concordata con i componenti del Cln. Umberto di Savoia aveva poi firmato i decreti di nomina dei ministri, ratificando una vera e propria svolta. Il governo, secondo il generale Puntoni, era «più rosso del precedente e composto di uomini decisamente avversi» al re. Nenni si era infine convinto di non farne parte, per varie ragioni, ma soprattutto perché non gli piaceva un governo che nasceva «sotto la protezione straniera». A ben vedere non esagerava, giacché il generale MacFarlane aveva messo il veto alla nomina di Sforza a ministro degli Esteri, imponendo a Bonomi di assumere anche la titolarità di quel dicastero. La cosa non aveva soddisfatto gli americani, che avevano protestato con gli inglesi, ma senza esito, poiché alla fine Sforza era stato inserito tra i ministri senza portafoglio. Il 10 giugno Bonomi aveva portato la lista dei ministri al luogotenente, e l’aveva comunicata per la «necessaria approvazione» a MacFarlane. Quest’ultimo lo aveva informato che il governo avrebbe dovuto «sedere a Salerno» per alcune settimane, dal momento che Roma era ancora considerata come «base di operazioni militari». Le ragioni di questo spostamento, che avrebbero ritardato l’insediamento del ministero, vanno ricercate nel fatto che Churchill aveva avuto una reazione furibonda quando era venuto a conoscenza della costituzione del governo Bonomi. Sconfessando MacFarlane, aveva dichiarato che la sostituzione di Badoglio da parte di gruppi di «aged and hungry politicians» era un «vero disastro». Il 10 giugno aveva telegrafato a Roosevelt per comunicargli che evidentemente non era al corrente del fatto che «agli italiani era stato riconosciuto il diritto di formare il governo senza alcuna preventiva consultazione con le potenze vincitrici». E così si era rifiutato inizialmente di dare il suo beneplacito al governo Bonomi¹⁶⁵.

Giunti a Salerno, dunque, i ministri non poterono iniziare a lavorare, poiché occorreva il benestare degli Alleati. Il 12 giugno Filippo Caracciolo di Castagneto registrava nel diario di aver accompagnato al Comune di Salerno Bonomi e MacFarlane. Il presidente aveva convocato sia i componenti del nuovo governo, sia di quello dimissionario, ma era sopraggiunto un contrattempo «inatteso ed umiliante come un ceffone». MacFarlane aveva infatti detto che il nuovo ministero non poteva entrare in carica senza un «placet» del Comando alleato da Algeri. Nei più era subentrato un sentimento di «dignità offesa, di collera impotente, ma soprattutto di disorientamento». In questa «atmosfera di incertezze, di marasma morale e civile, di umiliazione nazionale», il governo si era infine insediato il 18 giugno¹⁶⁶.

4. Il governo del Cln

La formazione del governo Bonomi rappresentò una «innovazione costituzionale» di enorme rilevanza. Un’innovazione ben illustrata da Paolo Barile, il quale ha scritto che «il Comitato centrale di liberazione nazionale volle attribuirsi e ottenne di assumere l’incarico, di rilievo eminentemente costituzionale, di designazione del governo alla corona». L’eccezionalità di questo passaggio storico è inoltre ben rappresentata dal decreto n. 151 del 25 giugno 1944, che Bonomi fece approvare a Salerno e che lui stesso definì una «vera e propria Costituzione provvisoria». Nell’articolo 1 del decreto si stabiliva infatti che le «forme istituzionali» sarebbero state scelte dopo la liberazione del popolo italiano, che avrebbe eletto, «a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato»¹⁶⁷.

Nella valutazione di Piero Calamandrei, il decreto n. 151 costituisce «l’‘atto di nascita’ dello Stato democratico italiano». In un simile giudizio vi è forse una qualche esagerazione, ma ha certo ragione Valerio Onida quando rileva che con quel provvedimento fu «definitivamente accantonato» lo Statuto albertino. Dopo questo accantonamento, terminata la ‘quarantena’ di Salerno, alla metà di luglio il governo poté trasferirsi nella capitale. Molti e assai complessi erano i problemi da affrontare, fra i quali, anzitutto, quello della riorganizzazione militare. E così, per dimostrare che il vento stava cambiando, si decise di arrivare in tempi brevi alla «definitiva liquidazione del fascismo».

La direzione del Partito comunista aveva fatto della questione dell’epurazione un fattore decisivo della sua stessa permanenza al governo fin dalla riunione dell’11 e 12 giugno, ma ancor più dei comunisti erano stati i socialisti a invocare l’adozione di provvedimenti radicali. Nel fare un bilancio della crisi ministeriale che aveva portato alla formazione di un «governo antifascista per la guerra antifascista», Nenni osservava che non si attendeva dei miracoli, ma soltanto l’applicazione del programma, fra i cui punti principali vi era anche quello di «epurare l’esercito, la polizia, la magistratura, le amministrazioni statali e parastatali dai fascisti». Mettendo in conto l’obiezione che questa non fosse epurazione ma «rivoluzione», Nenni ammetteva che era realmente in corso una «rivoluzione nazionale». E del resto, un «cambiamento di fronte nella guerra», senza una rivoluzione che avesse investito tutti gli «aspetti morali, politici, sociali della [...] vita nazionale», sarebbe stato «un atto di insana fellonia»¹⁶⁸.

Il governo Bonomi non poteva riconoscersi nella linea di Nenni, che vedeva nell’epurazione l’avvio di una rivoluzione nazionale, anche perché gli Alleati non avrebbero certo permesso che dopo lo «stato totalitario fascista» ci fosse una «epurazione totalitaria antifascista». Ma aveva ben chiaro che era pressoché impossibile pervenire a una «resa dei conti» con il fascismo seguendo strade già battute. Come ha scritto Hans Woller, infatti, «l’opera di epurazione [...] era praticamente vanificata da un autentico ginepraio di norme e direttive [...] senza contare, naturalmente, che la lettera e lo spirito del decreto del dicembre 1943 non erano gli stessi delle disposizioni – comprensibilmente ben più dure – emanate dopo la ‘svolta di Salerno’ per la punizione dei crimini fascisti».

D’altra parte non è certo un caso che lo stesso Badoglio si fosse «reso conto che il decreto di dicembre era ormai superato» e avesse pensato di riformarlo tra la fine di maggio e l’inizio di giugno del 1944, dopo l’entrata in vigore del decreto «sulla punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo», allargando la «cerchia dei colpiti» e aumentando il numero dei «giudici non togati in seno agli organismi preposti all’epurazione». Alla fine non se ne fece nulla, ma alcune misure furono riprese nel decreto legislativo luogotenenziale del 27 luglio successivo, che è stato definito la «‘Magna Charta’ dell’epurazione politica in Italia». Il nuovo provvedimento stabiliva pene più severe per «i membri del governo fascista e i gerarchi del fascismo», che sarebbero stati giudicati da un’«Alta Corte di giustizia» e puniti «con l’ergastolo e, nei casi di più grave responsabilità, con la morte». Perseguiva inoltre con l’articolo 120 del Codice penale del 1889 coloro che avevano organizzato le squadre fasciste o promosso o diretto la marcia su Roma. E con l’articolo 118 del codice stesso quanti avevano organizzato il «colpo di Stato» del 3 gennaio 1925 oppure fossero stati responsabili di «atti rilevanti» per il consolidamento del regime.

Sostenere, come fece l’azionista Mario Berlinguer, che il decreto del 27 luglio fosse un «decreto rivoluzionario» è forse eccessivo. Ma non v’è dubbio che con quel provvedimento, a un anno dalla caduta di Mussolini, il nascente Stato democratico si distaccava in maniera netta dal passato fascista. L’epurazione, che doveva riguardare anzitutto la pubblica amministrazione, veniva infatti estesa anche all’esercito, alle imprese private concessionarie di servizi pubblici e alle grandi aziende di rilevanza nazionale. E comunque, che il governo Bonomi intendesse affrontare la questione con impegno e serietà lo prova anche il fatto che già ai primi di agosto l’Alto commissario per l’epurazione, Carlo Sforza, si mise al lavoro. Ad affiancarlo vi erano quattro commissari aggiunti, nominati dai partiti. Mario Berlinguer, del Partito d’Azione, veniva confermato per i delitti del fascismo; Pier Felice Stangoni, socialista, doveva occuparsi della liquidazione dei beni fascisti; Mario Cingolani, tra i fondatori del Partito popolare, dell’avocazione dei profitti di regime; Mauro Scoccimarro dell’epurazione della pubblica amministrazione.

La personalità di maggior spessore fra i quattro era senza dubbio Scoccimarro, condannato dal regime a ventidue anni di reclusione, passati in carcere e al confino a Ponza e Ventotene, e ritornato in libertà dopo la caduta di Mussolini. Non appena nominato mise subito in chiaro che intendeva l’epurazione come una «forma di lotta politica». Stando al giovane Andreotti, in molti maturò il convincimento che i comunisti «intendessero introdurre nell’epurazione una finalità di partito, diretta a distruggere integralmente la pubblica amministrazione, perseguendo così una delle mete prerivoluzionarie». Ancor più netto di Andreotti era Mario Scelba, il quale scriveva, in una lettera a Sturzo del 23 novembre 1944, che l’epurazione era divenuta uno «strumento di ricatto politico». Tutti i funzionari erano «sotto la spada di Damocle della epurazione per sfuggire alla quale basta[va] iscriversi al partito comunista. Questo assicura[va] l’impunità di malfattori fascisti di ogni risma [...]. Sulla stampa [proseguiva] l’opera di dissoluzione delle forze politiche e d’ordine col motto che tutto il potere spetta[va] al Comitato di liberazione»¹⁶⁹.

Il 6 agosto seguente, facendo il punto sulla politica socialista, Nenni temeva che il «nemico interno» si stesse riorganizzando. Questo timore nasceva dalla reazione che aveva suscitato la legge sulle sanzioni contro il fascismo. Era infatti bastato che si uscisse dal terreno degli «anatemi» nei confronti delle forze che si erano compromesse con il regime mussoliniano perché si scatenasse una violenta campagna contro il governo, indicato come responsabile di tutti i mali che affliggevano il Paese. Tale campagna confermava che «senza l’abbattimento della monarchia, senza l’espropriazione dei Consigli di amministrazione, senza tagliare le unghie agli agrari, non ci [sarebbe stata] la democrazia in Italia»¹⁷⁰. In tale prospettiva, Nenni propose di dare tutto il potere ai Cln. Il lancio di questa parola d’ordine avvenne su l’«Avanti!» il 9 novembre, quando il Comitato di liberazione nazionale di Firenze chiese di incontrare il presidente del Consiglio per rappresentare la situazione esistente in città. Da una parte, la popolazione non riconosceva alcuna autorità al di fuori del Cln, e dall’altra il prefetto non riconosceva il Comitato. In queste condizioni la rimozione del prefetto costituiva un problema di ordine pubblico, rispetto al quale il governo non poteva rimanere indifferente. Il richiamo del funzionario era dunque necessario, ma il caso di Firenze riproponeva la più generale questione della funzione dei Cln, riguardo ai quali la posizione socialista si riassumeva nella formula: «Tutto il potere ai Comitati di Liberazione Nazionale».

Il giorno seguente, e sempre su l’«Avanti!», comparve un’intervista a Scoccimarro che ebbe grande risonanza. Il dirigente comunista attaccò infatti frontalmente tutti coloro che, a suo giudizio, si opponevano all’epurazione. L’intervista suscitò un enorme clamore, anche perché Scoccimarro non si fece scrupolo di fare nomi e cognomi, trascinando sul banco degli imputati il ministro del Tesoro, Soleri, e quello della Marina, De Courten, accusati esplicitamente di «boicottare il processo di epurazione»¹⁷¹. Stando così le cose, Soleri comunicò a Bonomi che bisognava porre rimedio alla situazione che si era creata, poiché altrimenti egli non avrebbe avuto altra scelta che rassegnare le dimissioni. Ancor più duro fu De Courten, il quale scrisse al capo del governo che la sua permanenza al dicastero non era compatibile con il mantenimento di Scoccimarro al suo posto. Di fronte alla minaccia del ministro del Tesoro di rinunciare all’incarico, e con la lettera di dimissioni del ministro della Marina, fu infine Bonomi a rimettere il mandato il 26 novembre¹⁷².

Il presidente del Consiglio aveva manifestato la sua intenzione alla riunione dei ministri senza portafoglio, ma rinviato la decisione a dopo l’incontro dei sei partiti. Nel corso di quella riunione, Nenni aveva presentato «tre punti conclusivi», che Meuccio Ruini si era incaricato di comunicare a Bonomi. In essi si sosteneva che la crisi riguardava la direzione generale del governo; che questa si poteva risolvere rafforzando «la politica interna, quella estera e la politica di guerra»; che si imponeva quindi un cambio di indirizzo ai ministeri dell’Interno, degli Esteri e delle Forze armate. In ogni caso, comunque fossero stati interpretati, essi costituivano un «voto di sfiducia». Esattamente così li aveva intesi Bonomi, il quale, invece di presentarsi davanti al Comitato di liberazione nazionale per trovare una soluzione alla crisi, si era dimesso. Nel riassumere quanto accaduto su l’«Avanti!» del 28 novembre, Nenni attaccava le «autorità alleate» e denunciava l’esistenza di «veti intollerabili» che rischiavano di favorire il ritorno dell’«aborrito nazionalismo» e umiliavano la democrazia. Il leader socialista si riferiva al veto posto dagli inglesi nei confronti di Sforza ad assumere incarichi di governo. Il rifiuto, che il 28 novembre era stato confermato a De Gasperi, Cianca e Saragat dall’ambasciatore britannico Noel Charles, a giudizio di Nenni rafforzava Bonomi, che due giorni dopo fu incaricato dal luogotenente di formare l’esecutivo¹⁷³.

Il 3 dicembre Bonomi scrisse una lettera a De Gasperi, Togliatti e Nenni, che, in quanto «rappresentanti dei più larghi movimenti popolari», avevano in quel momento la maggiore responsabilità nel «mantenere l’unità e la concordia nazionale». Egli sarebbe stato lieto se due fra di loro avessero accettato di condividere con lui, in qualità di vicepresidenti, «le responsabilità della direzione politica del Governo». I democristiani diedero la loro disponibilità e i comunisti si dichiararono favorevoli, precisando però che non avrebbero fatto alcun passo che incrinasse l’unità delle sinistre, mentre i socialisti espressero il loro disaccordo.

Il 7 dicembre «l’Unità» pubblicò un comunicato in cui si diceva che la direzione del Pci non riteneva «compatibile con la politica di unità della classe operaia» la partecipazione dei comunisti a un governo di cui non avessero fatto parte anche i socialisti. Ma le cose cambiarono nel pomeriggio di quello stesso giorno, quando Nenni incontrò Togliatti nella sede della direzione del Pci. Il segretario del Partito comunista sembrava convinto di rispondere no a Bonomi, ma poi erano arrivati Scoccimarro, Di Vittorio e gli altri componenti della direzione comunista ed erano state prese in esame due possibili soluzioni: chiamarsi fuori, oppure sostenere un governo presieduto da De Gasperi. I comunisti le avevano però scartate entrambe, e lo stesso Togliatti era arrivato a dire che preferiva Bonomi, un «uomo ‘debole’ che non [aveva] dietro di sé nessuno», a De Gasperi, un «uomo ‘forte’» che era leader di un grande partito e che avrebbe fatto una politica estera non certo favorevole alle sinistre. Con il sì del Pci, annotava Nenni, «la crisi era risolta senza di noi e contro di noi».

In effetti il segretario del Psi aveva ragione, e lo si vide nel corso della successiva riunione del Comitato centrale di liberazione nazionale che si tenne sempre nella sede del Pci. Togliatti, che la presiedeva, aveva subito precisato che vi erano quattro partiti che appoggiavano Bonomi, sicché invitava i socialisti a rivedere la loro posizione e pregava il Partito d’Azione di mettere da parte le pregiudiziali istituzionali, come aveva fatto nell’Italia meridionale. Nenni e Lussu avevano dichiarato che avrebbero accettato chiunque purché si accantonasse l’ipotesi Bonomi, e dunque erano disposti a trattare sui nomi di De Gasperi e Ruini. Ma su quest’ultimo qualcuno aveva espresso perplessità, mentre De Gasperi aveva escluso la sua candidatura finché fosse rimasto in campo Bonomi. In questo modo aveva dato il via libera al secondo governo Bonomi, nel quale erano presenti i liberali, i democratici cristiani, i comunisti e i democratici del lavoro, ma non i socialisti e gli azionisti¹⁷⁴.

Nel fornire una prima interpretazione degli eventi, Nenni scriveva che era rimasto colpito dal «cinismo» di Togliatti. La crisi, nella ricostruzione del leader socialista, aveva avuto origine «tecnicamente» nel «tentativo di soffocare l’epurazione» e «politicamente [...] nel tentativo di umiliare i Comitati di Liberazione nazionale». In breve, il senso dell’intera vicenda si riassumeva «nella lotta dell’Italia dei prefetti e dei generali fascisti, contro l’Italia dei Comitati; dell’Italia che si rifugia[va] sotto le ali protettrici delle truppe d’occupazione, contro quella del popolo; dell’Italia codina contro l’Italia democratica»¹⁷⁵. In realtà, come ha scritto Piero Craveri, quello di Togliatti non era «‘cinismo’ politico» ma «freddo realismo», giacché la questione istituzionale era legata in modo inestricabile al ruolo dei Cln. Se questi ultimi avessero rotto con la monarchia, che era la forma di Stato riconosciuta dagli Alleati e legittimava il governo, si sarebbe determinata una diarchia, ma il pericolo fu scongiurato con la costituzione del secondo ministero Bonomi.

Alla fine di novembre, mentre era in corso la crisi, una delegazione del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai) arrivò a Roma per trattare con gli anglo-americani e con il governo, e ottenere un riconoscimento del Comitato e del movimento partigiano. Giunta nella capitale, la delegazione fu ricevuta da Bonomi, il quale, «con una cortesia un po’ formale», sostenne che «il governo non c’entra[va] per nulla»¹⁷⁶. I primi colloqui con gli anglo-americani erano stati incoraggianti, ma agli inizi di dicembre, quando si iniziarono a discutere i dettagli dell’accordo, detto «tripartito» in quanto avrebbe dovuto essere firmato dai rappresentanti del Clnai, dal governo italiano e dal Sacmed (Supreme allied commander mediterranean), le attese furono deluse. Gli Alleati avevano infatti posto come condizione preliminare il disarmo delle formazioni. La richiesta era coerente con la politica seguita nel Belgio e in Francia dopo la liberazione, dove il disarmo c’era stato, e con il timore che anche in Italia potesse ripetersi quanto era accaduto in Grecia.

Il primo «Memorandum of Agreement», sottoscritto a Roma il 7 dicembre dal generale Maitland Wilson e da Pizzoni, Parri, Pajetta e Sogno, riconosceva al Clnai una funzione nell’ambito della cooperazione militare, ma con clausole molto stringenti. Via via che i tedeschi si fossero ritirati, i «Volontari della Libertà» avrebbero eseguito gli ordini impartiti dal governo militare alleato, anche quelli di «scioglimento e di consegna delle armi», qualora fosse stato loro richiesto. Per contrastare il nemico nel territorio ancora occupato, il Clnai e le altre organizzazioni antifasciste avrebbero beneficiato della massima assistenza, nonché dell’assegnazione di una somma in denaro mensile non superiore però ai 160 milioni al mese.

Firmato questo accordo, bisognava sottoscriverne un altro con il governo italiano. Il Clnai sperava di attenuare le clausole più dure con l’aiuto del governo, ma l’ammiraglio Ellery W. Stone fece sapere, a nome degli Alleati, di non essere «affatto convinto dei mutamenti da dover apportare». Il 20 dicembre Bonomi fece comunque approvare dal Consiglio dei ministri una risoluzione in cui si affermava che «la lotta dei partigiani faceva parte integrante dello sforzo bellico della nazione e che al Comitato di Liberazione dell’Alta Italia era delegato, in rappresentanza del governo stesso, il compito di dirigere l’azione dei patrioti nella sanguinosa lotta contro l’oppressore nazista e fascista». Fatto questo passo, senza attendere il placet degli anglo-americani, il presidente del Consiglio decise di legittimare il Comitato con una dichiarazione ufficiale firmata da lui stesso e da Pajetta il 26 dicembre. Con essa il governo riconosceva il Clnai quale «organo dei partiti antifascisti nel territorio occupato dal nemico» e lo delegava a rappresentarlo nella lotta che i «patrioti» combattevano contro i tedeschi e i fascisti in quella parte d’Italia non ancora liberata. Da parte sua il Clnai accettava di agire come delegato del governo italiano.

Gli Alleati non erano riusciti a impedire al governo italiano di assumere una tale decisione. Ma costrinsero Bonomi «a dichiarare pubblicamente che, contrariamente a ciò che egli aveva detto, gli anglo-americani non riconoscevano il C.L.N.A.I. neppure come organo dei sei partiti». La cosa, scriveva Pajetta, era stata «spiacevole», e non se la spiegava se non con «motivi generali di politica estera». In effetti aveva ragione, giacché, come si legge nelle memorie di Harold Macmillan, che nel 1957 sarebbe diventato premier britannico e che allora era «ministro residente», cioè responsabile della politica inglese nel Mediterraneo, «la cosa principale era assumere il controllo dei gruppi della resistenza prima che diventassero, come in Grecia, semplici strumenti del comunismo»¹⁷⁷.

La vicenda del riconoscimento del Clnai indica bene che i margini di manovra di Bonomi erano assai stretti. Gli anglo-americani erano preoccupati della situazione dell’Italia settentrionale sia dal punto di vista militare, sia sul piano politico, ed espressero i loro timori a Raffaele Cadorna e Ferruccio Parri nel corso di una missione al Sud che svolsero tra il 27 marzo e il 12 aprile. Il 1° aprile furono portati al Quartier generale di Caserta, dove incontrarono Harold R. Alexander, che fece loro «una fila di domande sulla situazione partigiana, spirito, disciplina, collegamenti». Cadorna lo rassicurò sul fatto che in Italia «non vi sarebbe stata una situazione simile a quella greca», ma durante i colloqui che ebbero con i vertici del Quartier generale di Caserta e i funzionari dell’Office of strategic services (Oss) e dello Special operations executive (Soe) a Siena e a Firenze, i due capi della Resistenza discussero di tutto. Come si legge nella relazione che Parri scrisse per il Clnai, riassunta in Polese Remaggi, le questioni affrontate furono innumerevoli e fra queste: «La situazione del confine orientale e di quello occidentale, il problema della difesa degli impianti e della cessazione delle ostilità con i tedeschi, la smobilitazione dei partigiani e dell’amministrazione ciellenistica nella fase di transizione, le ultime questioni relative al finanziamento della Resistenza e le questioni economiche generali».

Benché Cadorna e Parri fossero stati ricevuti da Alexander con «dignitosa cordialità», come scrive Cadorna, negli Alleati, secondo Catalano, perdurava una certa inquietudine per un «atteggiamento secessionistico» che il Clnai avrebbe potuto assumere nei riguardi del governo di Roma e quindi anche nei loro confronti. Ed era per questa ragione che avevano chiesto di inviare al Nord il sottosegretario per le Terre occupate, Aldobrando Medici Tornaquinci, che si recò in Piemonte e tenne tre riunioni con il Cln il 26, 27 e 28 marzo. Il sottosegretario mise subito in chiaro che il Comando supremo e il governo italiano escludevano di poter aderire a qualsivoglia richiesta che il Clnai potesse fare di «carattere sostanziale, piccola o grande». In un’annotazione su quella missione, Leo Valiani scriveva che Medici Tornaquinci era un «bravo figliuolo, ma che dal suo presidente del consiglio [doveva] aver ricevuto l’incarico di impegnare il Comitato ad una linea di condotta ‘moderata’». Dopodiché concludeva la sua riflessione con parole che non si prestavano a equivoci: «Noi abbiamo bisogno di pieni poteri, il governo di Roma deve riconoscerceli. Non si può scatenare una grande rivolta di popolo, facendo dei ‘distinguo’ e creando dei problemi di competenza»¹⁷⁸.

Non sbagliava Valiani quando osservava che Medici Tornaquinci rappresentava per conto di Bonomi una posizione moderata, ma questo moderatismo non poteva essere considerato sinonimo di immobilismo. Lo aveva detto chiaro e tondo De Gasperi in una relazione sul momento politico e sugli indirizzi della Dc, tenuta il 3 marzo del 1945 al Consiglio nazionale della Democrazia cristiana. Soffermandosi sull’azione di governo, aveva ricordato le misure per fronteggiare la difficile situazione economica e finanziaria. Bastava pensare allo sforzo compiuto per risanare il bilancio e per ridurre il prezzo del pane. Insieme ai provvedimenti finanziari, il «governo di ordinaria amministrazione», come lo definivano le opposizioni, aveva iniziato a organizzare la Consulta e le elezioni amministrative. Soffermandosi poi sull’epurazione aveva sostenuto che, almeno per quanto riguardava i «funzionari più alti», aveva avuto una notevole applicazione.

Nel difendere l’operato del secondo governo Bonomi, De Gasperi si chiedeva se una volta che fosse cessata la guerra le varie forze politiche sarebbero rimaste fedeli al «principio di democrazia». Egli temeva, infatti, come ha sottolineato Craveri, una prospettiva che definiva «‘giacobina’, cioè una rivoluzione democratica, che confusamente aspirava ad essere una democrazia fondata sull’autogoverno operaio e popolare»¹⁷⁹. I suoi timori non erano infondati, e lo si vide nel corso di una riunione dei capi dei sei partiti antifascisti che si svolse a Palazzo dei Marescialli il 6 aprile. In quell’incontro furono affrontati soprattutto due temi: il ritorno al governo del Partito socialista e del Partito d’Azione e la convocazione di un congresso dei Comitati di liberazione nazionale. Togliatti, che pure, secondo Andreotti, era convinto che i «Comitati dovevano essere lo strumento della nuova Democrazia», era dell’idea che il congresso dovesse tenersi «dopo il ricongiungimento con il Nord e quando tutte le province [avrebbero potuto] comunicare tra di loro». Valutando quell’incontro, Nenni esprimeva la sua soddisfazione per il fatto che il convegno in questione si tenesse una volta liberata tutta l’Italia, poiché su di esso sarebbe passato «il vento vivificatore del Nord». Egli ribadiva inoltre che la politica socialista era orientata verso la formazione di «un blocco repubblicano sulla base solida e granitica della unità d’azione dei socialisti coi comunisti». Dal canto suo, De Gasperi riteneva che la Consulta nazionale, per com’era stata concepita, «surrogava a tutte le esigenze del Congresso senza provocare gli inconvenienti di questo»¹⁸⁰. La Consulta, che fu istituita il 5 aprile, era una sorta di «parlamento non elettivo» che doveva dare «pareri sui problemi generali e sui provvedimenti legislativi che le ven[ivano] sottoposti dal Governo». La sua «rappresentatività era presunta», poiché i consultori erano nominati dal governo su designazione dei «maggiori partiti politici»; fra gli «ex parlamentari antifascisti»; fra gli «appartenenti a categorie ed organizzazioni sindacali, culturali e di reduci». E così, nel mentre si registravano «contestazioni della Consulta da parte dei partiti esclusi, e in particolare dell’Uomo qualunque», i comunisti, i socialisti e gli azionisti si battevano, come sosteneva Togliatti, affinché essa rappresentasse «il vero schieramento politico del Paese, per lo meno secondo quella finzione di parità dei sei partiti del CLN»¹⁸¹.

All’indomani della sua istituzione ci fu, come già detto, la riunione dei segretari dei partiti antifascisti, che riveste una certa importanza poiché emersero con chiarezza due posizioni politiche nettamente distinte. Da una parte la linea di De Gasperi, il quale era ben consapevole dell’importanza di tenere tutti i poteri dello Stato nelle mani del governo Bonomi, in modo che, nella fase della transizione, rimanesse il solo «organo sovrano». Dall’altra la linea delle sinistre, che puntavano a legittimare i Comitati di liberazione nazionale come effettivi organismi di potere. E dunque il 25 aprile mise a confronto «due Italie, che si rifacevano a registri politici alquanto diversi»¹⁸². Che le cose stessero così se ne ebbe conferma quando si aprì la fase politica che portò alla caduta del governo. Il 5 maggio giunse a Roma una delegazione del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia e Nenni scrisse che con il suo arrivo «un poco del vento del Nord» sarebbe soffiato sulla città¹⁸³. Il 7 i rappresentanti del Clnai ebbero un primo incontro con i leader romani e avanzarono la richiesta di una svolta politica. Una svolta precisata in un comunicato diramato due giorni dopo in cui si indicavano cinque punti per arrivare a un cambio di governo. Questi erano «epurazione, potenziamento del ruolo dei CLN, ricostruzione pagata dalle classi abbienti, riforma agraria, politica estera pacifica».

Il 10 maggio Nenni tenne un comizio al teatro Brancaccio, nel corso del quale i socialisti avanzarono la loro candidatura alla guida del governo. A Roma la voce si sparse subito e, secondo quello che lo stesso leader del Psi annotò nel diario, gli ambienti liberale e democratico-cristiano l’avevano accolta con favore. Ma si sbagliava, come si vide nel corso del vertice dei leader dei partiti che si tenne il giorno seguente. In apertura della riunione Nenni aveva presentato una bozza di programma e indicato tra i punti qualificanti le elezioni amministrative a settembre e quelle per la Costituente a dicembre. Cattani, liberale, aveva espresso la sua «simpatia» per Nenni presidente del Consiglio, ma non aveva nascosto talune perplessità «a causa dell’alleanza dei socialisti con i comunisti». Era poi intervenuto Scelba, il quale aveva sostenuto che «la presidenza di un socialista avrebbe rotto l’equilibrio e dato al governo un carattere di estrema sinistra».

A causa di questi veti incrociati, si convenne di guadagnare tempo con un viaggio a Milano. Nel capoluogo lombardo si tenne una riunione fiume, che iniziò il 22 maggio e si concluse il 23. In apertura De Gasperi fece un discorso assai abile, sostenendo che da parte della Dc non esisteva alcuna pregiudiziale, ma vi erano molte perplessità a livello internazionale di fronte all’eventualità di un «governo social-comunista». Stabilito ciò, i democristiani non facevano «esclusioni» per la presidenza del Consiglio, ma avevano «un debole per Nenni». A prima vista sembrava una sorta di via libera, ma le cose non stavano così, come si vide nella seduta del pomeriggio. A Giorgio Amendola, che si era espresso a favore di una presidenza Nenni, replicò Cattani, a giudizio del quale «prima bisognava discutere del ruolo dei comitati e poi delle candidature». Secondo La Malfa l’intervento del rappresentante del Partito liberale rimetteva in discussione sia l’accordo sul programma sia quello sulla direzione del governo. Espressa questa opinione, egli criticò la tesi che la Resistenza era stata fatta soltanto dai «cosiddetti grandi partiti», ma Nenni ribatté affermando che per tutta la fase iniziale della crisi «aveva pensato a una presidenza di Parri». Magari si trattava soltanto di una battuta, ma era la prima volta che veniva fatto il nome di Parri per arrivare a una soluzione.

Una volta ritornati a Roma, i leader dei partiti presero in esame la proposta liberale di attribuire ai Comitati locali soltanto funzioni consultive e di riaffermare il carattere esclusivamente «politico e transitorio» dello stesso Cln¹⁸⁴. La proposta fu accolta in un documento sottoscritto il 1° giugno, che prevedeva anche «la parità delle rappresentanze politiche e il principio dell’unanimità delle deliberazioni». Quattro giorni dopo vi fu un incontro tra socialisti e democratico-cristiani, ma ognuno rimase sulle proprie posizioni. De Gasperi, come si legge nel diario di Nenni, mise in campo i più vari argomenti, ovvero «la paura dei suoi agrari e dei parroci, la necessità di graduare le esperienze, le ripercussioni internazionali, perfino la sua età». E quindi propose «una specie di regime dei due consoli», in cui Nenni sarebbe stato vicepresidente, ministro del Lavoro e della Costituente. Questa offerta era stata respinta sdegnosamente, in quanto la candidatura socialista esisteva come «espressione della volontà delle masse» e non contemplava pertanto «l’alchimia dei portafogli».

Nel frattempo Bonomi, che si sentiva sempre più isolato per via dell’aperta «ostilità delle sinistre» e dell’appoggio assai distaccato degli altri partiti, ruppe gli indugi e il 12 giugno si recò al Quirinale per rimettere il mandato. All’indomani ci fu una riunione dei «sei», che si accordarono per conferire a Parri l’incarico di formare il nuovo governo. Commentando la scelta di «Maurizio», Lussu scriveva: «Non è una soluzione politica: non è una personalità politica, non è un amministratore ecc. È un eroe». Lussu certo esagerava, ma è vero che Parri, il quale si era presentato come un «partigiano qualunque», aveva una notevole personalità, di cui i leader dei partiti si accorsero fin dal primo incontro che ebbero con lui. C’era in lui, secondo Nenni, un «elemento di ‘droiture’» che aveva fatto impressione.

5. Un «partigiano qualunque» come presidente del Consiglio

Nei giorni seguenti Parri si era messo al lavoro e aveva preteso che tutti i segretari dei partiti dell’esarchia fossero presenti nel governo, in modo da formare un organo più ristretto, il Consiglio di gabinetto, che assumesse «il controllo della politica in generale»¹⁸⁵. L’organismo era stato pensato per fare di Parri una figura super partes, in cui egli avrebbe avuto l’ultima parola nel caso fossero insorti dei contrasti tra i partiti moderati e le sinistre. Che questo fosse il suo disegno politico sembra confermarlo il radiomessaggio con cui il 23 giugno presentò il ministero. In quell’occasione aveva detto che il suo era un «governo di popolo e [doveva] governare per il popolo: tutto il popolo, senza distinzione di partiti e soprattutto oltre i partiti». Nel corso del primo Consiglio dei ministri, che si tenne il 26, aveva affermato che la Costituente e la ricostruzione, una «ricostruzione morale, politica e materiale del Paese, portato alla rovina dalla corruzione di un ventennio di regime fascista», rappresentavano gli impegni fondamentali del suo governo. Con franchezza, aveva riconosciuto che l’attuazione di questo piano dipendeva dall’appoggio degli Alleati, ma era convinto di poter contare sulla comprensione dei loro governi. Il contributo dei partigiani alla guerra di liberazione era stato il primo prezzo del «riscatto dall’onta fascista», ma egli sapeva bene che «l’ordine e la serietà» del lavoro dell’esecutivo rappresentavano a partire da allora la condizione per ricevere l’aiuto e la solidarietà degli Alleati¹⁸⁶. Parri, come si vede, era ben consapevole che le sorti del Paese dipendevano dalle grandi potenze che avevano vinto la guerra. Eppure era convinto che, «in ultima istanza, ciò che avrebbe contato in definitiva era la capacità degli italiani di riscattarsi dopo venti anni di dittatura»¹⁸⁷.

Il contesto internazionale non favoriva però il riscatto italiano, ed è per questa ragione che De Gasperi cercò di rafforzare il suo rapporto con gli americani. Si comprende assai meglio così la dichiarazione di guerra al Giappone, che il 15 luglio fu fatta pervenire all’ex alleato¹⁸⁸. La mossa non produsse alcun vantaggio, ma rientrava nella strategia di difesa degli interessi nazionali, poiché l’integrità del territorio era seriamente minacciata: la Francia avanzava pretese su Briga e Tenda, il Moncenisio e la Valle d’Aosta; la Iugoslavia mirava a portare il confine sull’Isonzo; l’Austria rivendicava l’Alto Adige. Nel marzo del 1945 le truppe francesi, prevalentemente marocchine, avevano sconfinato in diversi punti in Valle d’Aosta, «ben accolte dal movimento autonomista», e ciò non era avvenuto, come avevano sostenuto Bonomi e De Gasperi, per «motivi tecnici». Dopo la Liberazione le cose iniziarono a mettersi male, come risulta dai tanti rapporti inviati da Federico Chabod, viceprefetto di Aosta nominato dal Cln. Il 28 maggio lo storico dava conto dettagliatamente della presenza di reparti dell’esercito francese che puntavano ad annettere la regione alla Francia. Questa azione fu contrastata dalla resistenza valligiana, che perseguiva l’obiettivo dell’autonomia, ma le mire espansionistiche francesi ebbero fine soltanto con l’arrivo di soldati inglesi e americani¹⁸⁹.

Benché la Francia avesse fatto marcia indietro, la situazione della Valle d’Aosta restava critica e fu perciò esaminata nel Consiglio dei ministri dell’11 luglio. Nel corso di quella seduta De Gasperi propose una «dichiarazione» con la quale il governo assicurava «speciali garanzie per i cittadini di lingua diversa dall’italiana». Approvata la dichiarazione, Parri propose, e il progetto fu accolto, che in Valle d’Aosta fosse istituito un «regime particolare di autonomia locale, integrato da adeguate misure economiche e finanziarie». In quello stesso mese di luglio il governo affrontò anche la grave crisi economico-sociale che stava flagellando la Sardegna. Ma ancor più della Valle d’Aosta e della Sardegna, a suscitare preoccupazione nel governo era la Sicilia, dove nel luglio del 1943 era nato il Movimento separatista siciliano, guidato da Andrea Finocchiaro Aprile, che aveva anche un’organizzazione armata, l’Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia (Evis). Che la situazione potesse sfuggire di mano lo disse chiaramente a Parri Salvatore Aldisio, Alto commissario per la Sicilia, nel corso di una breve visita a Palermo che il presidente del Consiglio fece alla metà di luglio¹⁹⁰.

L’esame della questione siciliana avvenne durante il Consiglio dei ministri del 25 agosto, nel corso del quale Parri espresse la sua convinzione che non era vantaggioso «perseguire il separatismo sul terreno legale», ma «perseguire con cruda fermezza ogni manifestazione illegale». E se da queste «forme di illegalità» fossero emersi elementi da imputare a Finocchiaro, sarebbe stato possibile procedere contro di lui. L’impressione era che il presidente del Consiglio avrebbe colpito il separatismo siciliano soltanto nel caso in cui questo avesse fatto ricorso alla violenza, ma i capi del movimento, Andrea Finocchiaro Aprile, Antonino Varvaro e Francesco Restuccia, furono arrestati e inviati al confino nell’autunno seguente. Come spiegò Parri nel Consiglio dei ministri del 3 ottobre 1945, ciò avvenne per due ragioni: «Per il passo fatto arrogantemente da Varvaro al Consiglio dei Ministri per riavere le sedi [e la] libertà di propaganda» e per «l’appello inviato a Londra con espressioni gravi configuranti reati di alto tradimento». Fornite queste spiegazioni, egli era comunque convinto che, nonostante le rassicurazioni date dagli Alleati e dall’ammiraglio Stone in persona di «non assecondare assolutamente il separatismo siciliano, in effetti doveva esserci qualche connivenza»¹⁹¹.

Sebbene in questa vicenda avesse espresso qualche dubbio sul conto di Stone, capo della Commissione alleata, Parri sperava, e lo aveva detto fin dalla presentazione del suo governo, che con il «concorso delle nazioni alleate» si potesse trovare una soluzione adeguata al problema della frontiera orientale. Gli anglo-americani sapevano bene quale fosse la posta in gioco, ovvero consentire all’Urss di definire «attraverso il suo satellite jugoslavo, quali Stati e confini istituire che [fossero] i più idonei alla futura potenza sovietica nel teatro mediterraneo». Da questa consapevolezza scaturì la reazione di Truman, che portò all’arrivo a Trieste il 15 maggio di una squadra navale inglese, scortata da aerei americani, che costrinse le truppe di Tito a ritirarsi al di là dell’Isonzo e della Carinzia, lungo la cosiddetta linea Morgan. Le trattative furono condotte da Alexander e si conclusero con un’intesa che fu raggiunta il 9 giugno. L’accordo prevedeva la divisione della Venezia Giulia in due zone, A e B, occupate e amministrate dagli anglo-americani e dagli jugoslavi. Con «l’infausto compromesso», ha scritto Craveri, si lasciava a Tito «il controllo di un’ampia area dell’Istria che la ‘linea Wilson’ attribuiva all’Italia». Certo, l’Italia riusciva a ottenere che la «questione di Trieste non venisse compromessa, ma subiva comunque un duro scacco»¹⁹².

Il 18 settembre De Gasperi illustrò la posizione italiana alla Conferenza di Londra, ma non disponeva di nessun potere negoziale. Egli ne era ben consapevole e nella relazione del viaggio che fece alla Consulta ammise che «mai nella storia d’Italia» un ministro degli Esteri aveva potuto contare tanto poco «sulle risorse della diplomazia e sugli argomenti della forza». D’altra parte, non poteva essere che così, poiché l’Italia era una «nazione vinta», e quindi «oggetto più che soggetto di relazioni internazionali»¹⁹³.

Per riscattare l’Italia dalle sue colpe era necessario che si avviasse un «rinnovamento morale della vita nazionale», che per Parri passava anzitutto attraverso l’epurazione. Ma il problema era conciliare due esigenze opposte. Da una parte far funzionare meglio la «macchina epurativa» per non alienarsi il consenso delle masse del Nord, dall’altra soddisfare il diffuso bisogno di una normalizzazione della giustizia, che non poteva più essere amministrata facendo ricorso ai «tribunali speciali» né esercitata sommariamente nelle pubbliche piazze. Nel perseguire questo disegno, la prima mossa di Parri fu la nomina di Nenni ad Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo. Il leader socialista scelse come commissari aggiunti Domenico Riccardo Peretti Griva per l’epurazione, Giovanni Macaluso per la punizione dei delitti fascisti e Ferdinando Carbone per l’avocazione dei profitti del regime. Secondo Nenni si trattava di «integerrimi magistrati», nominati seguendo il principio-guida della «spoliticizzazione» per non urtare la sensibilità dei «moderati». La rimozione dei predecessori non poteva tuttavia bastare per appianare i contrasti tra i sei partiti, che emersero nel Consiglio dei ministri del 28 luglio, quando fu preso in esame un provvedimento che estendeva l’epurazione al settore privato. La questione era assai delicata, sicché il dibattito continuò nella seduta del 3 agosto, al termine della quale fu approvato un decreto che venne promulgato il giorno successivo¹⁹⁴.

I partiti avevano visioni assai diverse su molte questioni, e lo conferma la vicenda delle Corti d’assise straordinarie. Il decreto che le istituì in tutte le province settentrionali il 22 aprile doveva rimanere in vigore sei mesi, un tempo adeguato secondo alcuni leader del Cln per arrivare a una resa dei conti con il fascismo. Ma quando i termini stavano per scadere, nel Consiglio dei ministri del 28 settembre fu esaminato uno schema di decreto con cui si prorogavano di un anno. Nenni fece notare che era urgente, e anche Togliatti si schierò a favore della procedura più rapida, mentre Manlio Brosio riteneva che si trattasse di un tipico provvedimento da sottoporre in via preventiva alla Consulta. La discussione fu ripresa nella seduta del 3 ottobre, nel corso della quale Brosio sostenne che era un errore politico «l’estensione» delle Corti straordinarie d’assise in quanto costituivano un «ostacolo alla normalizzazione». Non era di questo avviso Togliatti e neppure Lussu, il quale considerava il provvedimento «moralmente e materialmente necessario». Secondo Mario Scelba, invece, «non bisogna[va] dimenticare che un regime democratico si caratterizza[va] per il fatto che il cittadino non [poteva] essere sottratto al suo giudice naturale» e che non vi era alcuna «ragione politica per estendere a tutta l’Italia una giurisdizione straordinaria». Viceversa, Parri era convinto che non potesse esservi «il trapasso automatico dal fascismo alla democrazia senza un’opera di giustizia». De Gasperi disse che non era d’accordo e inoltre aggiunse che doveva essere sentito il parere della Consulta. A questo punto, Ruini propose l’istituzione di una «Sezione Speciale presso le Corti d’Assise», ma per trovare una mediazione fu costituita una commissione, formata, tra gli altri, da Togliatti, Nenni e Ruini stesso, che elaborò un testo poi «inviato alla Consulta per il parere successivo». Nella sua formulazione definitiva, il decreto aboliva le Corti straordinarie e le sostituiva con «Sezioni speciali di Corte d’assise»¹⁹⁵.

Mentre si faceva un passo avanti sulla strada della riorganizzazione della giustizia, i partiti tornavano a scontrarsi sull’epurazione. Nel Consiglio dei ministri del 31 ottobre, Parri presentò un decreto che riguardava «l’epurazione delle pubbliche amministrazioni, la revisione degli albi professionali, delle arti e dei mestieri e l’epurazione delle aziende private». A tale riguardo, Nenni ricordò che il 15 novembre successivo sarebbero scaduti i termini di applicazione della vecchia legge ed era quindi necessario farne una nuova, «riducendo il numero dei soggetti all’epurazione». Il principio guida della nuova misura legislativa era, come scrisse nel diario, «colpire in alto e indulgere in basso», il che significava limitare l’epurazione degli impiegati ai primi sette gradi. Ma Brosio manifestò la sua contrarietà al provvedimento, perché non si potevano riaprire i termini, e chiese il rinvio alla Consulta.

La discussione proseguì nella seduta del 1° novembre, durante la quale Brosio mantenne la sua opposizione ed espresse una formale riserva. Pur riconoscendo «lo spirito di attenuazione e di conciliazione» che caratterizzava la nuova norma, ribadì: «1) che si imponeva assolutamente il parere preventivo della Consulta; 2) che [era] contrario ad ogni riapertura generale di termini per il collocamento a riposo; 3) che, ferme restando le responsabilità per delitti fascisti e per collaborazionismo, [era] illiberale, inaccettabile e dannosa specialmente nel mezzogiorno d’Italia, da tempo liberato, l’epurazione politica nelle aziende private». Al termine del dibattito furono approvati dal Consiglio due schemi di provvedimenti, con le riserve sopra indicate, e inviati all’esame della Consulta¹⁹⁶.

Nel programma di Parri, come accennato in precedenza, vi era l’impegno a tenere sia le elezioni amministrative sia quelle per la Costituente, ma non vi era accordo sui tempi del loro svolgimento. Mentre infatti le sinistre premevano per eleggere prima la Costituente, le forze moderate, sostenute dagli Alleati, intendevano dare precedenza alle elezioni amministrative. La scelta non era facile e, oltretutto, l’atteggiamento del presidente del Consiglio era «estremamente confuso, titubante e improntato all’incomprensione reciproca nei rapporti con gli Alleati». Non v’è dubbio, d’altra parte, che egli si trovava a giocare una partita assai delicata, poiché la questione delle elezioni italiane deve essere inquadrata nel contesto, che si andava delineando, della guerra fredda. Gli americani erano infatti convinti che per costringere l’Unione Sovietica a consentire nella sua sfera di influenza procedure elettorali corrette altrettanto dovevano fare nella loro, e quindi l’Italia avrebbe dovuto dimostrare la propria volontà democratica il più rapidamente possibile¹⁹⁷.

Gli anglo-americani non erano affatto convinti, come credeva Parri, che l’Italia avesse imboccato la strada della democrazia grazie alla Resistenza, la quale, soprattutto «nel giudizio degli inglesi, rappresentava poco altro che un diversivo, tutto italiano, per non fare i conti con la sconfitta militare». La loro preoccupazione principale, come scrisse a Parri l’ammiraglio Stone l’8 luglio, era che il governo italiano indicesse al più presto le elezioni. Gli Alleati avevano seguito e avrebbero continuato a seguire con grande attenzione i progressi per le prime consultazioni democratiche che si fossero tenute. Il 28 agosto Alberto Tarchiani, rappresentante italiano a Washington, inviò a De Gasperi, ministro degli Esteri, un telegramma in cui si comunicava «la preferenza americana per le elezioni ‘commune by commune’», con la motivazione che negli Stati Uniti il comune era «la cellula base dell’ordinamento democratico» e non si comprendevano le ragioni per cui in Italia non si desse «principio ad esso»¹⁹⁸.

Sollecitato dal suo governo, l’ambasciatore americano in Italia Alexander C. Kirk andò a trovare Parri per chiedere che le elezioni amministrative si tenessero prima di quelle politiche. Ma il presidente del Consiglio, stando al racconto di Kirk, parlava «alla rinfusa di elezioni politiche immediate, oppure rimandate di 3 o 5 anni (in modo da consentire la formazione di un ‘corpo elettorale più illuminato’), del pericolo di moti insurrezionali locali e della necessità di mantenere in Italia le truppe alleate». Sulla veridicità della testimonianza di Kirk si possono esprimere dei dubbi. Quel che è certo è che il 22 agosto Parri si rivolse al presidente Truman senza fare alcun riferimento alle elezioni. In qualità di rappresentante degli «Italians of the resistance movement», più che come presidente del Consiglio, espresse al presidente americano la sua preoccupazione che una «injust peace», con mutilazioni territoriali e risoluzioni radicali del problema coloniale, avrebbe gettato «i semi della delusione e del caos sociale»¹⁹⁹.

Il 12 settembre Parri diede lettura in Consiglio di gabinetto di una lettera che l’ambasciatore Kirk aveva scritto a De Gasperi il giorno prima. Nella lettera si sosteneva che non vi era alcuna ragione per rinviare le elezioni in quei comuni che erano stati restituiti all’amministrazione del governo italiano²⁰⁰. La questione fu esaminata nel Consiglio dei ministri che si tenne nel pomeriggio, durante il quale Parri comunicò che il governo americano aveva chiesto di affrettare le elezioni amministrative per dare il segnale di una «concreta democratizzazione» e di un nuovo indirizzo politico del Paese.

Sulla scia di Parri, De Gasperi ricordò che Truman aveva spiegato a Tarchiani di tenere in gran conto «la prova di democrazia» che avrebbe dato l’Italia. Ma il fatto era che su tale questione non vi era una posizione precisa del governo. Come chiariva Togliatti, vi era una «opinione dei Partiti, cioè non univoca». Le posizioni dei partiti, come si vede, erano assai distanti, sicché si può concordare con Luca Polese Remaggi quando scrive che, «quasi all’improvviso, Parri comprese quanto il suo governo rischiasse di indebolirsi, se avesse continuato ad ignorare le richieste degli Alleati». Nel rispondere a La Malfa, il quale riteneva che occorresse fare le elezioni politiche entro l’anno, Parri sostenne che non si potevano mettere sullo stesso piano le elezioni amministrative e quelle politiche. Bisognava dare rapidamente una risposta agli Alleati, la cui sollecitazione non era peraltro improvvisa né rispondeva a un cambio di atteggiamento. Prendendo la parola, Togliatti ribadì che gli interventi degli Alleati non erano giustificati dallo «Statuto dell’Italia». Di fronte a queste posizioni Parri dichiarò che non si poteva dare una «risposta monca» alla richiesta di indire al più presto le elezioni amministrative. E dunque, se non si fosse raggiunto un accordo, egli se ne sarebbe andato, poiché «al di sopra delle preoccupazioni dei Partiti che [potevano] sfasciarsi, [vi erano] le sorti dell’Italia che non [doveva] perire»²⁰¹.

Non potendo impegnare ufficialmente il governo, Parri si rivolse direttamente agli Alleati, ma la richiesta non sortì gli effetti sperati giacché Stone scrisse a De Gasperi che la lettera di Parri del 20 settembre si caratterizzava per la sua «indefinitezza». Nel giro di un mese furono però fatti importanti passi in avanti, poiché la commissione per la preparazione della legge elettorale per la Costituente terminò i suoi lavori e Parri inviò a Stone il disegno di legge insieme a quello per le elezioni amministrative. Il 27 ottobre arrivò la risposta di Stone, che chiedeva tempo per esaminare i testi e invitava il governo italiano ad aspettare le valutazioni degli Alleati prima di sottoporli alla Consulta²⁰². L’esame delle leggi elettorali avvenne nel corso delle riunioni del Consiglio dei ministri del 30 e 31 ottobre. Al termine della prima fu votato un ordine del giorno per «avviare il Paese verso la normalità democratica dello Stato e dei Comuni». In tale prospettiva fu deciso che le elezioni per la Costituente avrebbero avuto luogo «non oltre la fine dell’aprile 1946»; che le elezioni amministrative si sarebbero svolte entro quell’anno; e che insieme alla convocazione dei comizi elettorali sarebbero stati precisati i modi per arrivare a una «soluzione dei problemi politici connessi alla Costituente»²⁰³.

Le leggi elettorali furono alla fine approvate, ma che l’esperienza del governo Parri fosse ormai giunta al capolinea lo si capì il 17 novembre, quando i liberali inviarono una lettera al presidente del Consiglio nella quale indicavano i limiti più vistosi del suo ministero. Fra questi: «Inefficienza nella direzione del governo, mancanza di unità di orientamento, incertezze sui problemi economici e monetari, carenza di competenze, meccanica distribuzione dei dicasteri troppo numerosi, legislazione tumultuaria e senza controllo, disorientamento dell’amministrazione provocato dall’oscillazione delle leggi epurative e conseguente disagio nel Paese»²⁰⁴.

Il 19 novembre Parri rilasciò un’intervista all’Ansa in cui spiegò che alcune «fondamentali richieste» dei liberali potevano essere soddisfatte, ma non vi era nulla che giustificasse «una alterazione sostanziale della composizione nel carattere del gabinetto e nell’orientamento della sua politica». E dunque, chi avesse deciso di minacciare o promuovere una crisi si sarebbe assunto responsabilità assai gravi²⁰⁵. Il richiamo alle responsabilità non sortì gli effetti sperati, poiché due giorni dopo Cattani, a nome del Pli, comunicò a Parri che il suo partito gli ritirava la fiducia. La sfiducia, nelle intenzioni dei liberali, avrebbe dovuto comportare le dimissioni del presidente del Consiglio, ma Parri non la pensava affatto così. Per uscire dall’angolo convocò il 22 una riunione con i segretari dei partiti, ma questa non portò ad alcun risultato. Il 23 si tenne il Consiglio di gabinetto, nel corso del quale Parri propose di sostituire i ministri dimissionari con «rappresentanti degli interessi e delle idealità liberali». Nenni, Togliatti e Lussu sostennero la proposta e suggerirono di affrontare la questione al Cln e alla Consulta, ma De Gasperi espresse il suo dissenso. A caldo, valutando l’esito della riunione, Nenni annotava che la crisi era stata voluta dai liberali per determinare uno «spostamento a destra del governo». Alle motivazioni politiche bisognava poi aggiungere «l’odio dei giovani liberali alla Cattani per il Partito d’azione e per Parri, odio condiviso in parte dai democristiani». De Gasperi avrebbe infatti parlato dello «spirito semitico dei professori del Partito d’azione». In ogni caso, Parri non si era difeso bene, ed era stato facile per De Gasperi dargli «il colpo di grazia sostenendo l’automatismo delle dimissioni del governo a seguito delle dimissioni dei liberali». In effetti fu quello che accadde, giacché il 24 De Gasperi comunicò a Parri che, secondo la Dc, le dimissioni dei liberali determinavano automaticamente quelle del governo²⁰⁶.

In quello stesso 24 novembre Parri tenne un discorso di fronte al Cln centrale, ai rappresentanti del Clnai e alla stampa estera. Ricordò che i compiti principali del suo governo erano «Costituente, ricostruzione e preparazione e difesa della pace dell’Italia», e sostenne che in generale esso aveva dato «buona prova» di sé. Parri faceva notare che tra le «armi più insidiose» usate contro di lui vi era la sfiducia degli Alleati, che avrebbero fatto pressioni per un avvicendamento alla guida dell’esecutivo. Erano «dicerie infondate», poiché in realtà «una effettiva ragione di sfiducia all’estero» era per l’instabilità del governo, per il timore che l’Italia fosse ingovernabile e per il ritardo che mostrava nel dotarsi di organi rappresentativi. Per questa ragione egli si era reso disponibile a modificare la struttura del suo ministero, a definirne meglio la politica e a dare indicazioni più precise sul piano della normalizzazione e della pacificazione. In altri termini aveva detto: «Eravamo pronti a tutto, meno che ad aprire la strada al fascismo». Soffermandosi poi sugli attestati di solidarietà, aveva affermato che non gli attribuiva troppa importanza e quindi aggiunto: «Ciò che importa e su cui richiamo la vostra attenzione è il loro senso generale, che è un grido di indignazione contro le presunte manovre reazionarie che hanno generato la crisi, ed è un grido di allarme contro le prospettive che essa apre, perché sono le prospettive del 1921 e 1922. Cioè una situazione che possiamo chiamare di prefascismo cioè – amici – di preparazione al fascismo». In questa situazione, assai delicata sia dal punto di vista interno sia da quello esterno, non era «colpo di stato» il suo tentativo di «salvaguardare gli interessi generali e permanenti del Paese». Era semmai «colpo di stato quello del Partito liberale, che rompe[va] un equilibrio così fragile in un momento così grave». E avrebbe potuto essere «colpo di stato quello della Democrazia cristiana», secondo la quale il fatto che uno dei partiti di governo si ritirava impediva agli altri «automaticamente» di tentare «con tutte le prudenze e le garanzie, di salvare la continuità del governo»²⁰⁷.

Il discorso di Parri suscitò un’enorme impressione e così, prima che i giornalisti lasciassero la sala, De Gasperi chiese la parola per replicare. Dichiarando di intervenire come ministro degli Esteri più che come segretario di partito, espresse il timore che i giornalisti stranieri avrebbero potuto attribuire un significato letterale alle affermazioni del presidente del Consiglio. Parri aveva parlato di un «preteso colpo di Stato che la democrazia cristiana avrebbe tentato con il suo atteggiamento», ma egli non voleva che all’estero si pensasse che i democratici cristiani avevano davvero agito «contro la democrazia», giacché la loro politica era anzi quella di difendere in Italia «il giuoco e il metodo democratico». Tutto questo non aveva nulla a che vedere con i colpi di Stato, poiché nella Dc vi era soltanto il «proposito fermo» di non rallentare il processo di costruzione della democrazia e di difendere «i fondamenti della libertà politica» da chiunque, da destra come da altre parti, avesse provato a minacciarli. Era «assurdo e ridicolo» che qualcuno volesse associare il suo partito «sia pure indirettamente a qualsiasi velleità o manovra neofascista». A questo punto Parri sentì il dovere di scusarsi dicendo che le sue parole erano scaturite da una «ritorsione polemica» e alle 21.30 di quello stesso giorno si recò al Quirinale per rassegnare le dimissioni. Iniziava così una nuova fase, che avrebbe portato Alcide De Gasperi alla presidenza del Consiglio²⁰⁸.

Alla vigilia della crisi che si sarebbe conclusa con la caduta di Parri, Domenico Bartoli scriveva sul primo numero dell’«Europeo» che «Maurizio» non era un uomo «scaltro», ma un «moralista». Era il primo «moralista» che andava «al potere nel paese di Machiavelli». L’immagine ha certamente una sua forza evocativa, ma il fatto è che il Paese di Machiavelli si trovava in uno dei passaggi più difficili della sua storia e per guidarlo non poteva di certo bastare il «moralismo acuito ed esasperato» di cui Parri era sicuramente dotato. Egli ebbe il coraggio di fronteggiare le minacce esterne e interne all’integrità territoriale della nazione ma, come ha osservato Luca Polese Remaggi, non colse la portata dei fenomeni che si stavano profilando all’orizzonte, ovvero «la formazione dei vincoli internazionali della guerra fredda e la riproposizione di un conflitto politico-ideologico tra le forze politiche e sociali che aveva radici antiche». Nel radiomessaggio trasmesso all’indomani della formazione del suo governo, Parri aveva detto che «sotto la camicia fascista una nuova Italia [era] apparsa, una povera Italia, una Italia disperata ma ansiosa della sua libertà, ferita nel suo senso di onore», che aveva sentito «il dovere ed il diritto di versare anche il suo sangue per il suo riscatto». Ma quell’Italia era un «paese vinto» in cui i partiti, che pure erano uniti in una coalizione antifascista, «facevano riferimento a sistemi di valori contrapposti, che di lì a poco si sarebbero irrigiditi in una contrapposizione netta tra comunismo e anticomunismo». Una contrapposizione sempre più radicale via via che si delineava la guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica²⁰⁹.

Alcide De Gasperi
di Agostino Giovagnoli

1. Introduzione

Quando divenne presidente del Consiglio dei ministri per la prima volta – il 10 dicembre 1945 – Alcide De Gasperi aveva alle spalle sessantaquattro anni di vita e una ricca esperienza culturale, giornalistica, politica e istituzionale (era passato anche per le prigioni fasciste). Iniziò a guidare il governo dopo aver acquisito una profonda conoscenza dei problemi italiani e aver maturato un ampio progetto per il futuro del paese. Nel 1945 in Italia c’era ancora la monarchia ma era già iniziata la transizione alla democrazia che lo statista trentino avrebbe portato a compimento, guidando l’Italia come presidente del Consiglio di otto governi. È stato definito il presidente della ricostruzione, ma fu una vera e propria rifondazione politico-istituzionale, economico-sociale e, per certi versi, soprattutto morale. Per l’eccezionalità dei tempi in cui ha operato e per l’azione da lui svolta, De Gasperi ha anche contribuito in modo decisivo a modellare il ruolo del presidente del Consiglio. Anche se dopo Benito Mussolini già altri – Pietro Badoglio, Ivanoe Bonomi e Ferruccio Parri – si erano succeduti in quell’incarico, è stato soprattutto lui a imprimere alla guida del governo una nuova fisionomia democratica, pur difendendo competenze e attribuzioni di tale ufficio contro una spinta, allora molto forte, a indebolire eccessivamente quello che era stato il cuore del potere mussoliniano.

Nato a Pieve Tesino, il 3 aprile 1881, Alcide De Gasperi ha fatto parte della minoranza italiana inserita nella grande costruzione imperiale austroungarica. Tale minoranza coincideva con una parte significativa dei cattolici di un impero fortemente segnato dal suo carattere multireligioso – con la presenza di protestanti, ortodossi, cattolici, ebrei e musulmani – oltre che multinazionale – con austriaci, ungheresi, sloveni, croati, italiani ecc. Compì i suoi studi universitari a Vienna, in anni di particolare effervescenza culturale della grande capitale mitteleuropea. Qui si avvicinò al movimento cristiano-sociale austriaco guidato da Karl Lueger, non esente da antisemitismo (De Gasperi fu anche suggestionato dal culto trentino del falso san Simonino e dalle leggende sugli omicidi rituali ebraici)²¹⁰. Maturò invece un atteggiamento di apertura verso le altre confessioni cristiane, che ha poi influito in modo significativo sulla sua visione europeista. Tornato a Trento, si legò profondamente al principe-vescovo Celestino Endrici e svolse qui un’intensa azione politica e giornalistica²¹¹. Da questi osservatori seguì con attenzione le vicende di uno Stato italiano segnato da molte fragilità, tra cui quella determinata dall’estraneità dei cattolici alla vita politica nazionale. Nei primi anni del Novecento, a causa di una Questione romana ancora irrisolta²¹², i cattolici in Italia apparivano in grave ritardo, anzitutto sul piano culturale, rispetto a quelli degli altri paesi europei²¹³. Era allora in discussione l’idea di fondare un’università cattolica, sostenuta tra gli altri da Giuseppe Toniolo, proprio per recuperare tale ritardo. L’autorevolezza conquistata da quest’ultimo e la spinta da lui impressa, sotto il profilo culturale e sociale, al cattolicesimo italiano costituivano per De Gasperi il segno di un’importante novità: mostravano che anche in Italia il laicato cattolico poteva sviluppare il proprio impegno, oltrepassando la Questione romana, senza entrare in conflitto con l’autorità ecclesiastica²¹⁴.

Di nuovo a Vienna nel 1911 quale membro del Parlamento – nel 1914 sarebbe stato eletto alla Dieta di Innsbruck – ebbe modo di fare esperienza diretta della costruzione politico-istituzionale imperiale e di maturare un’ampia visione delle questioni internazionali che interessavano lo scenario europeo. Dopo la fine della Prima guerra mondiale e l’unificazione del Trentino con l’Italia, divenne cittadino italiano ed entrò nel Partito popolare italiano, di cui fu capogruppo alla Camera²¹⁵. Nella difficile situazione determinata per il Ppi dalla formazione del governo Mussolini, operò per l’unità del partito – profondamente diviso sulla legge Acerbo – e dal 1924 ne divenne segretario, portandolo su posizioni antifasciste e facendolo aderire al blocco aventiniano. Rimase segretario fino al 14 dicembre 1925 (nel 1926 il Ppi fu poi sciolto insieme agli altri partiti di opposizione). Cominciò allora per lui un periodo molto difficile, che lo spinse a ipotizzare la via dell’esilio. Venne arrestato l’11 marzo 1927 con false accuse e condannato a quattro anni di reclusione, poi ridotti a due. Trascorse un anno a Regina Coeli e fu poi trasferito in clinica²¹⁶. Dopo un periodo di gravi ristrettezze finanziarie, all’indomani dei Patti lateranensi, fu assunto dalla Biblioteca Vaticana.

Durante il periodo di reclusione, De Gasperi sviluppò una riflessione storica e politica sul ruolo dei cattolici in Italia e in Europa, intrecciata a un ripensamento sulle radici religiose e ideali della loro azione²¹⁷. Malgrado il progressivo consolidamento del regime fascista, continuò a credere in un futuro politico dei cattolici in Italia raccolti in un partito erede del Ppi. Era tuttavia consapevole che il fallimento della democrazia nell’Italia post-bellica era legato in gran parte a una forte mentalità autoritaria diffusa tra i cattolici. Si impegnò perciò in un’opera culturale per trasformare tale mentalità: attraverso articoli e libri, scritti sotto pseudonimo, cercò di mostrare che il pluralismo religioso, ideologico e politico costituiva uno sbocco non solo storicamente inevitabile ma anche moralmente apprezzabile e praticamente vantaggioso dal punto di vista cattolico²¹⁸. Cercò cioè di spiegare che il vero interesse dei cattolici non coincideva con quello dei regimi autoritari o totalitari ma con l’affermazione della libertà e della democrazia²¹⁹.

Malgrado gli effetti negativi sulla sua vita delle scelte di Pio XI – ma la sua assunzione come bibliotecario fu probabilmente avallata dal papa – non assunse atteggiamenti polemici verso la Chiesa né si estraniò dalla mentalità prevalente tra i cattolici italiani, assai legati all’autorità del papa e al suo magistero. Propose però una visione che, sul piano storico, interpretava come favorevole alla libertà – o, più esattamente, al pluralismo confessionale e, indirettamente, politico – l’azione svolta, tra XIX e XX secolo, dai pontefici e dalla Santa Sede anche quando, sul piano teorico, l’autorità ecclesiastica condannava il liberalismo. Non si limitò cioè alle argomentazioni – che pure condivideva – della tradizione cattolico-liberale, ma cercò altresì di dimostrare che la stessa realtà storica del cattolicesimo spingeva anche la Chiesa e i papi verso una democrazia che incorporava i principi liberali²²⁰. Tali posizioni riflettono indirettamente anche una consapevolezza della incompatibilità tra Chiesa cattolica e totalitarismo di cui Luigi Sturzo è stato un precursore – fu tra i primi a usare questa parola – e che negli anni Trenta crebbe anche ai vertici della diplomazia vaticana, in particolare in Eugenio Pacelli²²¹. Si colloca in tale contesto la discussione con Benedetto Croce, assertore della totale incompatibilità tra cattolicesimo e libertà. De Gasperi riconobbe le ragioni di Croce nel sottolineare l’opposizione cattolica al pensiero liberale, ma riteneva che le contrapposizioni teoriche non esaurissero una questione storica più complessa. Richiamando tra l’altro l’opera svolta per secoli dalla Chiesa cattolica, imprimendo «nella coscienza umana il concetto di una libertà spirituale che non esitò a sfidare una costrizione fisica»²²², contestò l’affermazione crociana che la religione trascendente è inevitabilmente contraria al progresso della libertà.

Sostenendo che i papi e la Santa Sede avevano cercato il pluralismo religioso, ideologico e politico, De Gasperi lanciò al mondo cattolico una sfida che appariva assai difficile da realizzare negli anni più oscuri del fascismo e mentre prevalevano le illusioni su una possibile «cattolicizzazione» del regime. Il leader trentino diede idealmente appuntamento all’autorità ecclesiastica al momento in cui il fascismo sarebbe crollato, mostrando le ragioni degli sconfitti e in particolare degli esponenti del Partito popolare che tali autorità avevano contribuito a emarginare. Benché De Gasperi fosse in minoranza nel credere che tale momento sarebbe arrivato, la storia gli ha dato ragione e ha confermato che l’incontro fra cattolicesimo e democrazia rispondeva alle istanze profonde del primo e in Italia costituiva una necessità storica. Si trattava, contemporaneamente, di una sfida lanciata anche a quel mondo laico e anticlericale che non riteneva possibile e forse neanche auspicabile un incontro fra cattolicesimo e libertà. Era anche questa una visione storicamente miope, in un contesto come quello italiano in cui prima l’estraneità dei cattolici alla vita politica nazionale e poi il consenso da loro dato al fascismo avevano bloccato il cammino italiano verso la democrazia. Per quanto ardua, quasi impossibile potesse apparire negli anni Trenta, la trasformazione della Chiesa cattolica in Italia da ostacolo a risorsa per portare a compimento tale cammino costituiva una strada obbligata. De Gasperi lo capì, si batté per fare prevalere questa prospettiva e quando, dopo il crollo del fascismo, le circostanze lo permisero, agì con determinazione per realizzarla.

2. Antifascismo e democrazia

Tra il 1942 e il 1943, De Gasperi si impegnò attivamente nella fondazione della Democrazia cristiana. Benché in tale fondazione abbia collaborato strettamente con altri ex popolari come Giuseppe Spataro, Attilio Piccioni, Giovanni Gronchi e con altri cattolici antifascisti, come il gruppo guelfo di Milano, il leader trentino esercitò in quella fase una sorta di «dittatura morale» che gli venne «spontaneamente riconosciuta» all’interno del nascente partito. La Dc si inserì fin dall’inizio nel Comitato di liberazione nazionale, secondo alcuni una scelta obbligata e compiuta in modo piuttosto tiepido, mentre secondo altri è stato l’inizio di un consociativismo deleterio, di cui la Dc ha avuto la maggiore responsabilità. In realtà, anche se in modo non sempre evidente, l’antifascismo ha costituito un elemento chiave della politica di De Gasperi e del suo partito. Indubbiamente, molti di coloro che avevano sostenuto o accettato il fascismo sono poi stati fra gli elettori della Democrazia cristiana; ci sono state inoltre molte contiguità tra ex fascisti e Dc, specie nei primi anni, come testimoniato dal famoso incontro tra Rodolfo Graziani e Giulio Andreotti ad Arcinazzo nel 1953; e, infine, molti elementi di continuità hanno legato – nei primi anni post-bellici – l’Italia fascista e quella democristiana. Tuttavia, anche se il suo antifascismo non è stato quello dei partiti di sinistra – la Dc non ha esaltato la lotta armata, ha frenato l’epurazione, ha respinto l’antifascismo come ideologia ecc. – questo partito ha fondato sul rifiuto del fascismo la sua identità politica. È stato proprio tale rifiuto che ha separato i popolari dagli altri cattolici e il gruppo fondatore della Dc si è formato intorno all’obiettivo di battere l’alleanza fra clericalismo e fascismo che nel primo dopoguerra ha aperto la strada al regime. Questo rifiuto ha rappresentato perciò un elemento fondante del progetto democristiano, anche se non fu immediatamente compreso in tutta la sua importanza da una parte della «seconda generazione», a lungo è stato poco enfatizzato per evitare reazioni negative in campo cattolico e durante i primi anni della Guerra fredda è stato persino oscurato. L’antifascismo infatti è stato affermato in modo esplicito quale tratto qualificante della politica della Dc solo negli anni Sessanta e Settanta, con la leadership di Aldo Moro. Ciononostante, il rifiuto democristiano del fascismo ha rappresentato una discontinuità storicamente decisiva rispetto all’Italia fra le due guerre, dato il peso molto rilevante della Chiesa e dei cattolici nel consenso dato al fascismo. De Gasperi fece leva sulle mutate circostanze storiche per contrastare un confuso e vasto orientamento antidemocratico diffuso nella società italiana post-bellica, eredità del fascismo che anche buona parte del clero condivideva. Era l’orientamento prevalente in vasti settori sociali popolari e piccoloborghesi, lontani da una mentalità liberale, con forte senso dell’autorità ma scarso senso dello Stato, generalmente disinteressati alle vicende politiche ma sensibili a richiami d’ordine e indulgenti verso azioni violente che a questi si ispirassero. Tale mondo si riconobbe largamente nell’Uomo qualunque e nutrì un forte sentimento anticomunista, ma il primo – dopo una breve e intensa fortuna – si spense rapidamente e dell’anticomunismo la Dc fu il baluardo più efficace senza condividerne le strumentalizzazioni autoritarie o nazionaliste. La Democrazia cristiana riuscì così ad assorbire gradualmente buona parte dell’eredità del fascismo, nel quadro di una democrazia dei partiti contrapposta alla dittatura del partito unico. In questo modo, la leadership democristiana fece prevalere un orientamento cattolico-democratico, allora minoritario nel mondo della Chiesa, in larga parte della società italiana e persino all’interno della stessa Dc.

Fu proprio De Gasperi a guidare questa complessa operazione, contrastando quegli esponenti del «partito romano» che, come monsignor Roberto Ronca, cercarono di far prevalere un disegno clerico-moderato²²³. Non è un caso, perciò, che abbia sempre agito per tenere fuori dalla politica nazionale e dai governi da lui presieduti formazioni neofasciste o eredi del fascismo. Anche dopo il 1948 ha resistito alle forti pressioni che – sulla base dell’anticomunismo – avrebbero voluto un’alleanza della Dc con missini e monarchici, riproposta in seguito con l’operazione Sturzo nelle elezioni amministrative del 1952 a Roma²²⁴. L’antifascismo insomma, ha costituito il primo pilastro della costruzione politico-istituzionale cui De Gasperi ha dedicato il suo impegno per affermare e consolidare la democrazia in Italia.

Lo statista trentino è stato tra i protagonisti anche del fondamentale passaggio storico-politico che ha inserito l’antifascismo alla base del sistema politico-istituzionale post-bellico: la svolta di Salerno. Quale partito del Cln, anche la Democrazia cristiana partecipò infatti alla decisione dei sei partiti antifascisti di entrare in un governo nominato da Vittorio Emanuele III: il secondo governo Badoglio²²⁵. La richiesta rivolta dagli Alleati ai partiti italiani, perché assumessero l’impegno a onorare le pesanti clausole dell’armistizio, innestò un’assunzione collettiva di responsabilità che ha rappresentato il primo atto di ricostruzione della sovranità nazionale. Tale ricostruzione è stata sempre perseguita con urgenza e determinazione da De Gasperi, come mostra anche la sua fermezza, nei primi mesi del 1946, ad affermare il ruolo della presidenza del Consiglio nel coordinamento delle diverse branche dell’amministrazione pubblica. Contrastò così un’azione insidiosa degli Alleati, che in linea di principio accettavano – seppure sotto la loro autorità – il ruolo dello Stato italiano nell’amministrazione del paese, ma lo svuotavano di fatto imponendo la loro volontà attraverso relazioni dirette con le diverse branche di tale amministrazione. Tuttavia De Gasperi era anche profondamente consapevole – a differenza di molti altri leader antifascisti – delle importanti conseguenze che il nuovo quadro internazionale post-bellico stava delineando (non è casuale in questo senso che abbia ricoperto la carica di ministro degli Esteri nel secondo governo Bonomi e nel governo Parri). Sapeva cioè che la sovranità nazionale non avrebbe potuto essere esercitata né nelle forme vanamente inseguite dal fascismo né in quelle tradizionali dello Stato liberale, non solo perché l’Italia era un paese sconfitto ma anche perché il nuovo ordine internazionale spingeva verso una maggiore integrazione tra gli Stati nazionali. La sua adesione alla svolta di Salerno ha rappresentato in questo senso il primo passaggio di una linea da lui perseguita anche in seguito.

Con tale svolta, lo Stato italiano ricominciò a costituire un interlocutore riconosciuto, per quanto fragile, nella comunità internazionale e lo poté fare perché i partiti antifascisti si assunsero la responsabilità di garantire, davanti agli Alleati, per istituzioni screditate dall’occupazione fascista del potere e dai comportamenti di Vittorio Emanuele III. In americani e inglesi era forte il dubbio che gli italiani non avrebbero rispettato accordi assunti da autorità da cui non si sentivano più rappresentati. La svolta di Salerno suscitò forti tensioni con quanti erano impegnati nella Resistenza e nutrivano la speranza di una rifondazione ex novo dello Stato italiano. Entrando nel secondo governo Badoglio, infatti, i partiti antifascisti sembrarono scegliere per la piena continuità istituzionale e per una rilegittimazione della monarchia. In realtà, la debolezza della Corona aprì la strada a un rovesciamento di ruoli²²⁶: la richiesta degli Alleati investì i partiti e il governo da loro espresso della responsabilità di garantire per lo Stato italiano sul piano internazionale, riconoscendo di fatto ai partiti antifascisti nel loro insieme il diritto di parlare a nome del popolo italiano, di assumere il ruolo di principali interlocutori nel processo di restaurazione della sovranità nazionale e di costituire in qualche modo fonti di legittimità del potere. Si trattò di una sorta di rifondazione dello Stato, con i partiti del Cln chiamati a garantirlo «dal basso» mentre veniva meno la garanzia «dall’alto» della monarchia. Il referendum del 2 giugno 1946 ha poi ratificato tale situazione, imprimendo una fisionomia particolare al nuovo sistema politico-istituzionale repubblicano, in cui le funzioni del presidente della Repubblica e quelle dei partiti si sono bilanciate tra loro – «a fisarmonica» – secondo equilibri di volta in volta diversi ma complementari nell’esercitare una parte delle funzioni del capo dello Stato.

A Salerno, insomma, è nata quella che Pietro Scoppola ha chiamato la «democrazia dei partiti», di cui proprio De Gasperi è stato uno dei fondatori. Tale democrazia ha avuto nell’accordo tra i partiti antifascisti il suo fondamento storico-politico, seppure non pienamente esplicitato nella Carta costituzionale. Si è parlato spesso di «costituzione materiale», sottolineando il ruolo assunto dai partiti nel sistema politico-istituzionale definito dalla Costituzione repubblicana. Ma è rilevante che le fondamenta di tale ruolo siano state poste ancor prima della stesura della Carta costituzionale e che questa sia stata elaborata quando già la democrazia dei partiti era operante. Non a caso, all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso la scomparsa degli storici partiti post-bellici – Democrazia cristiana, Partito comunista italiano, Partito socialista italiano, Partito liberale italiano, Partito repubblicano italiano, Partito socialista democratico italiano – e l’abbandono del vincolo antifascista quale fondamento dell’accordo fra i partiti hanno privato la democrazia italiana di questo importante fondamento, rendendola più fragile e incerta. Non si è trattato in questo senso solo di una crisi di governo ma di una più complessiva svolta politico-istituzionale, pur in assenza di modifiche costituzionali.

3. Governo dei partiti di massa e «costituzione economica»

Alla fine del 1945, le dimissioni da presidente del Consiglio del prestigioso leader della Resistenza, Ferruccio Parri, aprirono una crisi di governo che, contrariamente alle speranze dei liberali che l’avevano innestata, non si concluse con il ritorno di un’esponente della vecchia classe dirigente prefascista alla presidenza del Consiglio²²⁷. Fu invece incaricato De Gasperi, che formò allora il suo primo governo, con il decisivo via libera di comunisti e socialisti.

Questo passaggio fece emergere il secondo pilastro della costruzione degasperiana: il ruolo dei partiti di massa quali protagonisti principali – seppure non esclusivi – dell’Italia democratica. In questo caso, la discontinuità non fu rispetto al periodo fascista ma all’Italia liberale. Formando il suo primo governo, De Gasperi riprese la trasformazione in senso democratico della politica italiana iniziata nel 1919, proseguita tra le resistenze della classe dirigente liberale e interrotta da un avvento del fascismo favorito anche da tale classe dirigente. La crisi del 1945 segnò infatti, sia concretamente sia simbolicamente, il passaggio della politica italiana dalle mani delle élite tradizionali a quelle dei nuovi partiti di massa o, meglio, delle élite selezionate dai partiti di massa. Nei decenni successivi – pur da posizioni diverse, al governo o all’opposizione – i partiti di massa italiani hanno svolto una importante azione di integrazione sociale e politica non solo della classe operaia ma anche di altri ceti popolari²²⁸. Hanno, insomma, fatto entrare le masse nello Stato, come si diceva un po’ enfaticamente nel linguaggio dell’epoca. Negato decisamente negli anni più bui della Guerra fredda, il ruolo di De Gasperi in questo senso è stato gradualmente riconosciuto a partire dai primi anni Sessanta.

Tra le iniziative più importanti del primo governo De Gasperi c’è stata la decisione finale di sciogliere il nodo istituzionale con un referendum popolare, contraddicendo la decisione presa precedentemente di rimettere il problema all’Assemblea costituente. Presa d’accordo con gli Alleati – in particolare con gli americani – tale decisione dette un’ultima chance alla monarchia, che godeva ancora di vasti consensi nel paese. De Gasperi si mantenne neutrale sulla questione istituzionale – anche se la figlia Maria Romana ha affermato che era favorevole alla Repubblica – ma, dopo che il referendum ebbe sancito la vittoria repubblicana, fu molto fermo nell’esigere la partenza immediata per l’esilio di Umberto II, divenuto re da circa un mese. Dopo la nomina del capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, guidò il suo secondo governo, rimanendo volutamente ai margini dei lavori costituenti (si occupò però dell’attività legislativa ordinaria, che era stata riservata all’esecutivo). Intervenne nella discussione sul (futuro) articolo 7 della Costituzione per sostenere il richiamo ai Patti lateranensi (senza costituzionalizzarli) sia per accogliere il desiderio esplicito della Santa Sede sia per assicurare alla Repubblica la lealtà della Chiesa e dei vescovi a sostegno della nuova forma istituzionale e, più in generale, dell’Italia democratica.

Nei primi anni post-bellici, De Gasperi si adoperò anche in modo significativo per porre le fondamenta della «costituzione economica» e cioè di un insieme non scritto di regole fondamentali riguardanti le attività economiche che sono state delineate tra il 1945 e il 1947, anche in questo caso con il consenso dei partiti politici di massa sebbene parzialmente in contrasto con le loro ideologie²²⁹. Premessa basilare di tale costituzione economica fu l’adesione italiana agli accordi di Bretton Woods del 1944, negoziata nell’estate 1946, sottoscritta nell’ottobre dello stesso anno e perfezionata con l’inserimento effettivo dell’Italia – ben prima di Germania e Giappone che entrarono nel 1952 – nel Fondo monetario internazionale e nella Banca mondiale. Pur garantendo una circolazione di mezzi finanziari ancora molto limitata, gli accordi di Bretton Woods andavano verso la creazione di un mercato mondiale e una progressiva liberazione degli scambi, sulla base del cambio fisso tra dollaro e oro.

Guido Carli ha attribuito questa scelta all’«intuizione politica» di De Gasperi²³⁰. La rapida adesione agli accordi di Bretton Woods esprimeva la volontà di abbandonare immediatamente la politica autarchica del fascismo e di inserire al più presto l’Italia in un mercato internazionale sempre più integrato, accogliendo la saldatura tra economia internazionale e politica internazionale in un’ottica di pace, perseguita da Franklin Delano Roosevelt e dai democratici americani. Aderendo a Bretton Woods, l’Italia repubblicana ha assunto una prospettiva congiunta di politica estera e di politica economica, decisiva per la sua collocazione nel mondo e per il percorso che – pur attraversando profondi cambiamenti a partire dallo shock petrolifero del 1973 – l’ha portata al Trattato di Maastricht nel 1992 e all’adozione dell’euro. È stato un percorso sempre più rilevante anche per gli sviluppi delle sue vicende interne, economiche, sociali e politiche.

Il passaggio della guida del governo ai partiti di massa e l’adozione di una costituzione economica basata sulla libera impresa e un mercato internazionale sempre più integrato hanno costituito le premesse della famosa crisi del maggio 1947, a torto attribuita all’inizio della Guerra fredda. Questa crisi – da cui è nato il quarto gabinetto De Gasperi: il terzo si era formato nel febbraio 1947, dopo la scissione del Partito socialista italiano di unità proletaria che aveva portato alla nascita del Partito socialista dei lavoratori italiani, poi Psdi, guidato da Giuseppe Saragat, e del Psi di Pietro Nenni – è stata molto discussa, anche a seguito di una propaganda comunista che l’ha presentata come atto di «restaurazione capitalistica»²³¹. In realtà, come si è visto, che quella italiana dovesse essere un’economia di mercato fondata anzitutto sull’iniziativa privata era già stato riconosciuto fin dal 1945 dalle forze politiche italiane, compreso il Pci. La crisi del maggio 1947 si collocò invece nel contesto di instabilità economica, dovuta all’aggravamento delle difficoltà post-belliche – non appariva garantita neanche la disponibilità di grano necessaria per assicurare un’alimentazione minima a gran parte della popolazione – mentre l’attività industriale stentava a ripartire. Si scatenò un’ondata di insicurezza mentre gli Alleati non sembravano più voler provvedere agli aiuti concessi fino a quel momento.

La svolta del maggio 1947 è ricordata per l’estromissione di comunisti e socialisti dal governo, quale premessa per l’adozione della «linea Einaudi». Ma la sequenza cronologica di questi avvenimenti è essenziale per comprendere il senso di tale crisi. De Gasperi decise subito l’inclusione di Luigi Einaudi in un nuovo governo: la linea Einaudi, appunto – e cioè una politica economica di contenimento della spesa pubblica, stabilità monetaria, controllo del credito, lotta all’inflazione²³² –, è stata dunque decisa prima della fine della collaborazione con socialisti e comunisti. L’inserimento nell’esecutivo del governatore della Banca d’Italia aveva lo scopo di rassicurare gli investitori italiani ed esteri – era il segnale di serietà richiesto dagli americani che di lì a poco avrebbero lanciato il Piano Marshall – e di rafforzare la fiducia degli imprenditori e della «folla sciocca dei tremolanti», per usare le parole di De Gasperi, in un governo dei partiti di massa. La presenza di Einaudi non bastò a ristabilire tale fiducia e si sviluppò un’iniziativa per allontanare i partiti di massa dal governo, sostituendo De Gasperi con figure più «affidabili» per le vecchie classi dirigenti, come Vittorio Emanuele Orlando e Francesco Saverio Nitti. Anche all’interno del suo partito c’era chi, come Giovanni Gronchi, voleva che la Dc lasciasse la guida del governo e passasse all’opposizione. Ma De Gasperi resistette, respingendo l’offensiva per un ritorno alla politica delle élite. Intanto, però, comunisti e socialisti si trovarono in crescente difficoltà: la loro base popolare sarebbe stata contraria ai sacrifici che apparivano ormai necessari (nel settembre successivo ci sarebbero stati licenziamenti e scioperi, cui seguì l’occupazione della prefettura di Milano). Rientrava piuttosto nei loro interessi lasciare a De Gasperi e alla Dc la responsabilità della «stretta» economico-finanziaria. Si consumò così una rottura non traumatica fra i tre partiti di massa: non fu vissuta come la lacerazione definitiva che è poi diventata in seguito. Dopo la conclusione della crisi di maggio, comunisti e socialisti erano ancora convinti che la collaborazione con la Dc sarebbe ripresa o, quantomeno, che restava nell’orizzonte delle cose possibili. Lo conferma indirettamente l’evoluzione della discussione in Assemblea costituente su una questione chiave: la forma del governo e i poteri del presidente del Consiglio²³³, che le sinistre cercarono di indebolire non tanto nel ricordo della passata dittatura fascista quanto in previsione di una futura collaborazione in governi guidati presumibilmente dalla Dc. Ma lo «scoppio» della Guerra fredda nell’estate del 1947 avrebbe cambiato radicalmente questo quadro.

Il quarto governo De Gasperi nacque con una debole maggioranza parlamentare che si rafforzò nel dicembre dello stesso anno con l’ingresso degli altri due partiti laici, oltre i liberali: Psli e Pri. Nacque così l’alleanza centrista, cui è stata successivamente attribuita dalla propaganda comunista una precipua finalità anticomunista, sulla linea di una piena subordinazione della Dc agli interessi della borghesia e ai diktat degli Stati Uniti e del Vaticano. Ha pesato molto in questo senso l’influenza della Guerra fredda che portò, in pochi mesi, a uno scontro aperto tra Est e Ovest destinato a durare, fra alterne vicende, sino al 1989. Ma le origini del centrismo degasperiano, come si è visto, hanno preceduto l’inizio della Guerra fredda e la sua natura non è esclusivamente riconducibile all’anticomunismo. La svolta del maggio 1947, più che a una subordinazione della Dc al capitalismo, diede vita a un compromesso con la borghesia imprenditoriale: il centrismo nacque per farsi carico delle esigenze di quest’ultima e, più in generale, di un’efficace ripresa economica, mantenendo però la guida del governo nelle mani di un partito di massa e lasciando aperta la strada a una politica di riforme. De Gasperi ha posto così il terzo principale pilastro di una costruzione politica destinata a durare fino agli anni Novanta del secolo scorso.

4. Atlantismo ed europeismo

Nel percorso politico di De Gasperi hanno svolto ovviamente un ruolo molto importante anche le elezioni politiche del 18 aprile 1948, le prime dopo l’adozione della nuova Costituzione e punto d’arrivo del cammino verso la democrazia iniziato nel 1943. Ci fu chi cercò di rinviarle e anche Pio XII subì forti pressioni perché impedisse tali elezioni che avrebbero potuto sancire una vittoria comunista, ma il papa resistette convinto che si potesse battere il comunismo con le armi della democrazia. La scadenza politica italiana si incrociò con la profonda divisione del mondo in due blocchi contrapposti avviata dalla Guerra fredda e assunse anche il significato di un referendum in cui gli italiani furono chiamati a scegliere tra l’appartenenza al campo occidentale o a quello sovietico. La confluenza di socialisti e comunisti in un unico blocco elettorale – il Fronte popolare – rafforzò questa valenza referendaria. La campagna elettorale fu perciò durissima e segnata da molti interventi, interni e internazionali, visibili e sotterranei, da parte di molti soggetti diversi, compresi servizi segreti e finanziatori occulti, con una forte influenza americana e una grande mobilitazione cattolica guidata da Luigi Gedda. I risultati molto netti mostrarono che tra l’America e la Russia, per usare il linguaggio dell’epoca, gli italiani preferivano la prima: la Dc vinse avvicinandosi al 50% dei voti, mentre al Fronte andò poco più del 30%. La scelta occidentale, tanto cruciale per il futuro del paese, è stata dunque assunta attraverso un voto popolare intensamente partecipato, cui ne sono seguiti molti altri che hanno sempre confermato tale scelta.

Dopo le elezioni, De Gasperi realizzò il quarto pilastro del suo progetto politico: impedire un’affermazione comunista in Italia, mantenendo però l’impianto democratico della politica italiana. Per lo statista trentino, il comunismo, prima ancora che un problema di politica interna, ha rappresentato una questione internazionale. Consapevole che la collocazione dell’Italia nel mondo era cruciale non solo per la sicurezza del paese ma anche per il suo assetto interno, dedicò fin dall’inizio molta attenzione a questi problemi. In una prima fase, le complesse vicende del trattato di pace assorbirono quasi tutte le energie della diplomazia italiana, fino alla sua ratifica nel febbraio 1947, che avvenne anche con l’opposizione di anziani esponenti dell’Italia prefascista, come Vittorio Emanuele Orlando, celebrato come il «presidente della Vittoria» ma anche criticato per la «vittoria mutilata» nel primo dopoguerra. Con il suo pesante insulto a De Gasperi – lo accusò di «cupidigia di servilismo» – Orlando diede voce a una vecchia concezione della sovranità nazionale ormai superata nel contesto del secondo dopoguerra. Lo statista trentino era invece ben consapevole che si trattava di un passaggio obbligato, da raggiungere il più rapidamente possibile perché l’Italia potesse riprendere un proprio ruolo nel mondo. Fin dai primi anni del dopoguerra indicò la pace e la cooperazione internazionale quali obiettivi di fondo di un’azione italiana rispondente sia a una visione ideale sia al mutato quadro internazionale, sia al peso effettivo del paese che all’interesse nazionale. Individuò inoltre negli Stati Uniti – oltre ai partner europei – un interlocutore imprescindibile per ricostruire il ruolo italiano e per creare un nuovo ordine internazionale. Su tali orientamenti si è poi sovrapposta la radicale divisione del mondo in due blocchi contrapposti prodotta dalla Guerra fredda, che li ha pesantemente condizionati senza però azzerarli.

All’interno del nuovo contesto internazionale, proprio nel 1948 cominciarono a concretizzarsi due cardini basilari della politica estera italiana fino a oggi: atlantismo ed europeismo. Mentre veniva lanciato il Patto di Bruxelles – sottoscritto da Regno Unito, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo il 17 marzo 1948 – cominciarono a circolare le prime ipotesi di un patto di sicurezza tra gli Stati Uniti e i loro principali alleati. In entrambi i casi non si prevedeva l’ingresso dell’Italia, mentre qui molte erano le voci critiche verso tali iniziative, non solo nei partiti di sinistra ma anche all’interno del mondo cattolico: si sarebbe voluta una collocazione italiana neutrale o indipendente rispetto a entrambi i blocchi, secondo una logica che ancora risentiva di prospettive prebelliche e che era ormai poco realistica. De Gasperi, al contrario, assunse un atteggiamento coerente con il nuovo contesto internazionale, a partire dalla constatazione che una posizione neutrale avrebbe implicato costi di difesa insostenibili per il paese. E, convinto che si dovesse avviare rapidamente un solido percorso di integrazione europea, ritenne che l’alleanza a cinque configurata dal Patto di Bruxelles contenesse una implicazione antitedesca poco lungimirante. Senza insistere sull’inserimento italiano in tale Patto, preparò il terreno per un’adesione dell’Italia a un’iniziativa internazionale americana nei confronti dell’Europa occidentale, strappando a Pio XII un decisivo consenso in questa direzione. Dopo che la Francia ebbe preso decisamente posizione a favore dell’ingresso italiano nel futuro Patto atlantico, De Gasperi e il ministro degli Affari esteri Carlo Sforza si adoperarono per convincere gli americani. Ci riuscirono, malgrado la contrarietà iniziale di Truman, e gli altri paesi europei si adeguarono alla decisione americana: l’Italia fu tra i paesi che aderirono fin dall’inizio al Patto atlantico sottoscritto nel marzo 1949. De Gasperi presentò in Italia tale adesione sottolineandone la compatibilità con future iniziative europeiste e il Parlamento italiano approvò a larga maggioranza, con il voto contrario di Orlando e Nitti oltre che dei neofascisti e delle sinistre.

Diede così «una soluzione al problema della sicurezza della penisola e pos[e] le premesse per il superamento di alcune clausole del Trattato di pace del 1947»²³⁴. Fu un notevole successo sul piano internazionale, colto ad appena due anni dal pieno recupero della sovranità e a soli quattro anni dalla fine di una guerra mondiale che non solo l’Italia aveva perso ma di cui portava pesanti responsabilità. Il Patto atlantico e la Nato non costituirono tuttavia per De Gasperi premesse per uno scontro frontale con il blocco sovietico, ma al contrario garanzie necessarie per conservare la pace e impedire la guerra, in sintonia con principi cristiani che egli non intendeva abbandonare.

Negli stessi anni, cominciò a tracciare le linee portanti del suo europeismo. In un importante discorso tenuto a Bruxelles nel 1948 sulle basi morali della democrazia, collegò strettamente libertà, giustizia (sociale) e pace, sottolineando il nesso tra un ordine internazionale pacifico con i due pilastri della democrazia: libertà e uguaglianza. Prendendo ad esempio il Belgio, esaltò – in un’ottica liberale – la libertà politica come una «discriminante di civiltà»; ma si richiamò anche al cristianesimo: la fraternità è l’essenza della democrazia, affermò, e perciò «la democrazia è di essenza evangelica»²³⁵. Lo statista trentino era convinto che l’inserimento in una futura unità economica e politica europea avrebbe rappresentato una garanzia essenziale per ancorare in modo permanente l’Italia alla democrazia.

Nel superamento del nazionalismo attraverso l’unità europea, De Gasperi ha visto un’inedita saldatura fra politica interna e politica estera. Nel 1951 sostenne con convinzione la nascita della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) e, parlando esplicitamente di «Stati Uniti d’Europa», incoraggiò anche il tentativo di creare un esercito europeo. Oltre che per la difesa contro il nemico esterno rappresentato dal blocco sovietico, l’unità europea su questo terreno gli appariva decisiva anche per la difesa interna contro «una funesta eredità di guerre civili – tali bisogna considerare le guerre europee dal punto di vista della storia universale – questo alternarsi cioè di aggressioni e di rivincite, di spirito egemonico, di avidità di ricchezza e di spazio, di anarchia e di tirannia che ci ha lasciato la nostra storia»²³⁶. Era perciò necessario proiettare la «fratellanza in armi» verso una «solidarietà totale» anche sul terreno economico e sociale. Per lo statista italiano le discussioni sulla Comunità europea di difesa (Ced) avrebbero dovuto portare a una soluzione federale in Europa²³⁷. In quest’ottica sostenne la creazione di un’assemblea parlamentare eletta direttamente dai cittadini dei paesi europei.

5. Anticomunismo democratico

Dopo il 1948, a una politica estera segnata da finalità che non si riducevano allo scontro con il comunismo ma includevano la pace nel mondo e l’unità europea, corrispose una politica interna degasperiana fondata sulla democrazia e aperta alla possibilità di riforme economico-sociali: una politica di centro (in senso politico) orientata a sinistra (in senso sociale), secondo un’espressione a lui attribuita. Nella sua ottica era ovviamente necessario impedire l’ingresso dei comunisti nel governo e una loro influenza sugli aspetti decisivi della politica italiana. Tale esigenza fu rafforzata dall’irrigidimento della contrapposizione Est-Ovest, in coincidenza con la guerra di Corea. In Italia, con l’aggravamento della situazione internazionale, anche i conflitti sociali e le lotte sindacali furono profondamente influenzati e a tratti persino piegati dalla logica della Guerra fredda. Anche quello culturale divenne un aspro terreno di scontro fra comunismo e anticomunismo. In tale contesto De Gasperi giunse a parlare di «Stato forte» e di «democrazia protetta». Ma il Pci non venne messo fuori legge e non sono mai state adottate soluzioni politico-istituzionali che negassero o riducessero il «diritto di rappresentanza»: la presenza di parlamentari comunisti è stata elevata dalla I alla X legislatura.

È stato cruciale in questo senso il modo in cui De Gasperi ha gestito la vittoria democristiana del 18 aprile 1948. Dopo quelle elezioni, ci fu un grande disagio nel mondo cattolico – da Giuseppe Dossetti a Lorenzo Milani – perché a quella vittoria avevano contribuito in modo decisivo forti interessi economici e grandi strategie internazionali, entrambi estranei alle motivazioni religiose dell’anticomunismo. Ma De Gasperi – dopo aver ringraziato pubblicamente Gedda e i Comitati civici che si erano identificati con la causa dell’anticomunismo «comunque» – gestì quel risultato in modo relativamente autonomo sia dai «poteri forti» sia dalle pressioni che venivano dal mondo cattolico conservatore per l’affermazione di uno Stato cattolico²³⁸. Dopo il 1948, la possibilità di abbandonare un sistema politico laico e pluralista sembrò per molti cattolici a portata di mano e divenne ancor più concreta dopo la scomunica comminata dal Sant’Ufficio il 1° luglio 1949 a chi sosteneva i comunisti. Ma De Gasperi si oppose fermamente a quanti avrebbero voluto la confluenza dei cattolici in un largo schieramento moderato caratterizzato dall’anticomunismo²³⁹. Guidò infatti il suo partito verso la collaborazione con i partiti laici, respingendo le critiche di quanti guardavano con perplessità alla collaborazione tra cattolici e non cattolici, compresi i dossettiani, che vedevano nell’alleanza con tali partiti un impedimento a realizzare una politica pienamente cattolica e adeguata alle «attese della povera gente»²⁴⁰. Il centrismo degasperiano mostrò così il suo valore sistemico quale garanzia di pluralismo e spazio di collaborazione tra cattolici e laici. Fu De Gasperi a imporre la scelta di un laico alla presidenza della Repubblica: dopo il ritiro della candidatura Sforza, fu eletto Luigi Einaudi²⁴¹. Fu sempre lui a volere il «mai da soli» e cioè a formare sempre maggioranze che includessero altri partiti anche nel caso che i numeri in Parlamento permettessero alla Dc di formare governi senza altri partiti. Va interpretata in questo senso anche l’espressione «partito della nazione» da lui utilizzata per definire il ruolo della Democrazia cristiana, non nel senso della monopolizzazione del potere ma al contrario come forza promotrice della caduta degli «storici steccati» tra guelfi e ghibellini, del pieno inserimento dei cattolici nello Stato e della fondazione di una stabile democrazia pluralista.

Si colloca in tale contesto ciò che Leopoldo Elia ha chiamato conventio ad excludendum: l’esclusione del Pci dal governo attraverso la formazione di maggioranze, chiuse ai neofascisti e alternative ai comunisti, che presupponevano scelte degli elettori compatibili con tale prospettiva, com’è puntualmente avvenuto fino al 1989. Dopo il 1947, cioè, l’esclusione del Pci dal governo è stata legittimata da procedure democratiche (nel 1978 tale partito è entrato per alcuni mesi nella maggioranza parlamentare, ma non nel governo). L’introduzione di un premio elettorale, con la cosiddetta «legge truffa» del 1953 sostenuta anche da De Gasperi, avrebbe potuto modificare in parte questo quadro. Ma il premio – assegnato comunque a una coalizione che superasse il 50% dei voti – non scattò e la legge fu immediatamente abrogata. Da allora, il sistema proporzionale è stato utilizzato fino al 1994 in modo sempre più esteso, anche al di fuori delle elezioni politiche, favorendo la possibilità che il Pci entrasse nel governo di molti enti locali e, dal 1970, anche di alcune regioni, oltre a esercitare un peso crescente nell’attività legislativa. Tutto ciò ha esaltato ancora di più la flessibilità garantita dalla conventio ad excludendum, che ha influenzato profondamente la politica italiana.

Dal 1948 al 1953 la maggioranza centrista non ha avuto sempre la stessa composizione e non ha espresso sempre lo stesso equilibrio politico. Il centrismo degasperiano, cioè, non è stata una formula statica²⁴². È significativo in questo senso il passaggio dal sesto al settimo governo De Gasperi, nel luglio 1951, da cui rimasero fuori liberali e socialdemocratici ed entrarono invece i repubblicani. Il nuovo governo si caratterizzò per scelte innovative e discusse²⁴³, tra cui le misure proposte da Ugo La Malfa per aprire l’Italia al mercato internazionale, oltre a quelle per l’attuazione della Cassa per il Mezzogiorno e della riforma agraria. Durante questo esecutivo però cominciò ad aggravarsi la questione di Trieste, rafforzando un trend negativo per la Dc già emerso nelle amministrative del 1951 e che avrebbe portato a una forte diminuzione dei voti per questo partito nelle elezioni politiche del 1953, da cui discese la bocciatura parlamentare dell’ottavo e ultimo governo De Gasperi. Seguì un periodo difficile per lo statista trentino – anche per l’amarezza suscitata dal fallimento della Ced – prima della sua morte, il 19 agosto 1954.

Negli anni in cui è stato Presidente del Consiglio, la democrazia italiana ha preso la forma che ha poi mantenuto per molto tempo; l’Italia ha compiuto scelte fondamentali sul piano internazionale che continua ancora oggi a percorrere; sono state poste le basi di quella rapida ripresa che è poi diventata il boom economico. Il sistema politico italiano, cui De Gasperi ha dato un’impronta decisiva, è stato spesso descritto in termini di bipartitismo imperfetto o di pluralismo polarizzato – mentre altri hanno parlato di «partito pivot» (Elia) e di «centralismo democristiano» (Scoppola) – assumendo che, per molti decenni, lo scontro fra Dc e Pci sia stata la chiave esclusiva della politica italiana. Indubbiamente, è impossibile sottovalutare l’importanza della Guerra fredda né gli effetti del «congelamento» all’opposizione di una parte molto rilevante della società italiana. In tal senso, l’espressione «democrazia speciale» o «anomala» ha un fondamento. Tuttavia, nell’impossibilità di un’alternanza di forze diverse alla guida del governo, De Gasperi cercò di rendere il sistema politico italiano il più flessibile e dinamico possibile, evitando che la sola contrapposizione tra comunismo e anticomunismo plasmasse l’intero sistema. A questo proposito, ha sempre resistito alle spinte per assorbire la Dc in un fronte anticomunista con le destre che avrebbe lacerato in modo drammatico l’Italia, aprendo la strada persino alla possibilità di una guerra civile.

Giuseppe Pella
di William Mazzaferro

1. Introduzione

Giuseppe Pella nacque a Valdengo, in provincia di Biella il 18 aprile 1902 in una famiglia di mezzadri. Tra il 1920 e il 1924 visse a Torino, dove, oltre a frequentare il corso di laurea in scienze economiche e commerciali del Regio istituto superiore, entrò in contatto con gli ambienti del Partito popolare italiano, al quale si iscrisse. Nel secondo dopoguerra fu eletto alla Costituente, tra le fila della Dc, nella circoscrizione Torino, Novara, Vercelli. In seguito, tra il 1947 e il 1953, partecipò a tutti i governi De Gasperi ricoprendo posizioni chiave per la gestione della politica economica. Fu deputato dal 1948 al 1968 e senatore dal 1968 al 1976. Tra il 1954 e il 1956 fu presidente della Ceca e dopo il 1976 dell’Associazione nazionale degli istituti assicurativi. Contribuì alla fondazione della Città degli studi di Biella. Morì a Roma il 31 maggio 1981²⁴⁴.

All’indomani delle elezioni politiche del giugno 1953, il presidente della Repubblica Luigi Einaudi conferì l’incarico di formare un governo al presidente del Consiglio uscente, Alcide De Gasperi. Lo statista trentino, dopo aver incontrato una certa diffidenza da parte delle Segreterie dei tre partiti con i quali aveva governato negli ultimi esecutivi (Partito liberale italiano, Partito socialista democratico italiano e Partito repubblicano italiano), optò per la formazione di un governo monocolore democristiano. All’interno di questo ottavo gabinetto De Gasperi, Pella fu chiamato a coprire gli stessi ruoli avuti nel precedente esecutivo: quello di ministro del Bilancio e quello di ministro ad interim del Tesoro. Tale evidente continuità con gli orientamenti della politica economica dei precedenti governi degasperiani²⁴⁵ fu una delle ragioni che portarono i partiti di centro a sollevare delle critiche nei confronti delle dichiarazioni programmatiche che il nuovo gabinetto presentò in Parlamento²⁴⁶. Con i soli voti favorevoli dei democristiani, l’astensione dei partiti di centro e il voto contrario delle restanti forze politiche, l’ottavo governo De Gasperi non ottenne la fiducia e il presidente incaricato si dimise.

Constatato il fallimento del fondatore della Democrazia cristiana, Einaudi conferì l’incarico al vicepresidente del Consiglio del settimo governo De Gasperi, Attilio Piccioni. Durante i giorni in cui Piccioni tentò di formare un esecutivo in grado di ottenere la fiducia, si verificò un primo tentativo di avvicinamento del Psi all’aera di governo: Pietro Nenni, seguendo un’ipotesi mossa da Giuseppe Saragat, inviò un questionario a Piccioni volto a sondare il terreno in vista di un possibile allargamento a sinistra di quella che era da anni la compagine di governo. I tempi per un tale esperimento non erano però ancora maturi e, nel giro di pochi giorni, anche Piccioni rimise l’incarico nelle mani del presidente della Repubblica.

Trovandosi di fronte all’evidente difficoltà dei partiti a esprimere una formula governativa che potesse sostituire il quadripartito, e avendo la necessità di far approvare le leggi di bilancio per l’anno finanziario 1953-1954 entro il 31 ottobre, il 13 agosto Einaudi conferì l’incarico a Pella. In questo modo Einaudi pensò di raggiungere tre obiettivi: ottenere tempo per permettere alle forze politiche di giungere a un equilibrio stabile, rispettare la scadenza per l’approvazione delle leggi di bilancio e garantire la continuità in materia di politica economica. Quello di Pella sarebbe dunque stato un governo amministrativo in grado di lavorare a queste finalità. Il monocolore Dc formato da Pella, sulla cui composizione si tornerà più avanti, venne presentato e ottenne la fiducia in Parlamento tra il 19 e il 24 agosto e rimase in carica fino al 5 gennaio 1954.

I due tentativi di De Gasperi e Piccioni diedero il via alla lunga transizione che nel giro di circa un decennio avrebbe portato ai governi di centro-sinistra. Il breve governo di Pella fu dunque il primo a ottenere la fiducia nel momento in cui la formula centrista iniziò a essere messa apertamente in discussione ma, nonostante ciò, in esso prevalsero senza dubbio gli elementi di continuità.

2. Un economista in politica

Nel 1953 Pella rappresentò dunque una garanzia di continuità, almeno in materia di politica economica. Come si era guadagnato questa reputazione di garante della cosiddetta «linea Einaudi»?²⁴⁷

Di una prospettiva economica definibile, non senza semplificazioni, liberista e monetarista²⁴⁸, Pella era stato un attivo sostenitore almeno sin dal periodo successivo agli studi universitari, studi che si erano svolti all’insegna della scuola einaudiana²⁴⁹. Nel 1925, a pochi mesi dal conseguimento della laurea in scienze economiche e commerciali presso il Regio istituto superiore di Torino²⁵⁰, Pella, in contemporanea con lo svolgimento dell’attività di direttore amministrativo di un’impresa laniera del Biellese²⁵¹, aveva avviato nel capoluogo un’attività da commercialista che gli aveva permesso di intessere fitti contatti con gli industriali lanieri della zona. Nel giro di circa tre anni tali contatti avevano portato Pella a ricoprire la carica di segretario dell’associazione nazionale degli industriali della lana²⁵² e negli anni successivi aveva partecipato a numerose conferenze internazionali in questo settore: Amsterdam 1932, Budapest 1933, Roma 1934, Berlino 1935, Varsavia 1936, Parigi 1937 e Londra 1938²⁵³. Proprio in quelle circostanze l’economista biellese aveva potuto sostenere la necessità di una politica commerciale liberista in grado di contrapporsi al dirigismo fascista; in qualità di rappresentante di un’industria dipendente dall’importazione della materia prima, come quella laniera, assestandosi su posizioni sostanzialmente liberoscambiste, Pella aveva incarnato fedelmente gli interessi degli industriali lanieri.

Successivamente alla caduta del regime, aveva dimostrato la sua adesione alla scuola liberista e monetarista in almeno due occasioni. La prima era stata offerta dal dibattito che si era sviluppato in seno alla Costituente nel settembre 1946 in merito alla concessione della fiducia al secondo governo De Gasperi. In quella sede aveva pronunciato un discorso in cui si era espresso sullo spinoso tema dell’inflazione. Aveva sposato la linea che già aveva adottato Epicarmo Corbino²⁵⁴ prima delle sue dimissioni e che era stata apprezzata dalla dirigenza di Confindustria²⁵⁵: aveva sostenuto cioè la necessità di limitare l’aumento di cartamoneta circolante, che, in accordo con l’interpretazione monetarista del processo inflazionistico, Pella individuava come causa principale dell’inflazione²⁵⁶. Inoltre, a dimostrazione dell’influenza che la dottrina liberista aveva sul politico biellese, si era anche opposto all’introduzione di qualsiasi forma di contenimento politico dei prezzi; ogni calmierazione avrebbe comportato un’ingerenza inaccettabile dello Stato nel mercato autoregolantesi. Gli obiettivi principali erano per Pella il riavvio e l’aumento di efficienza della produzione industriale, obiettivi da raggiungere anche a costo di rinunciare al blocco dei licenziamenti²⁵⁷. Non volendo ricorrere alla monetizzazione del debito pubblico a sostegno della ripresa industriale, aveva posto l’accento sia sul miglioramento del sistema tributario sia sull’esigenza di attirare capitali esteri. Il ruolo principale dello Stato sarebbe stato quello di garantire la stabilità monetaria necessaria alla ripresa produttiva, ma essa avrebbe avuto poco successo se non fosse stata preceduta da un miglioramento dell’efficienza produttiva dell’industria italiana²⁵⁸.

La seconda occasione era stata il convegno organizzato dal «Gruppo dei bancari» delle Acli nello stesso mese. In quell’incontro Pella aveva avuto modo di schierarsi a favore di una riorganizzazione del settore bancario volta a ridurre «l’ingerenza dello Stato nelle Banche»²⁵⁹, riduzione da ottenere anche grazie alla rilevazione, da parte di azionisti privati, delle quote azionarie che l’Iri deteneva presso alcuni dei più importanti istituti bancari italiani. Nelle intenzioni, tali interventi avrebbero minato la proprietà pubblica, all’epoca dominante all’interno del sistema creditizio italiano²⁶⁰.

Prima ancora di ricoprire incarichi di governo, Pella aveva quindi espresso posizioni affini alle dottrine liberista e monetarista in molteplici circostanze: a suo avviso lo Stato avrebbe dovuto creare le condizioni per permettere all’industria privata di funzionare al meglio e gli interventi diretti dello Stato sarebbero stati giustificati solo se indirizzati da una logica produttivistica.

Il contenimento dell’inflazione, e la conseguente stabilizzazione monetaria, rientravano fra i compiti di cui lo Stato poteva e doveva farsi carico, e per il raggiungimento di tali obiettivi Pella aveva iniziato a lavorare dal momento in cui, nell’ottobre del 1946, aveva ricevuto la sua prima nomina di governo in qualità di sottosegretario alle Finanze.

In quei mesi si era consumata la fuoriuscita dei partiti di sinistra dal governo e, nell’ambito della politica economica, il risultato era stato l’allontanamento degli esponenti del cattolicesimo sociale maggiormente inclini all’utilizzo della spesa pubblica, come Ezio Vanoni e Pietro Campilli²⁶¹, e il loro rimpiazzo a opera di esponenti più vicini alla linea Einaudi²⁶², che proprio in quei mesi andava prendendo forma. Così Pella, nel giugno del 1947, in seguito alla separazione del ministero del Tesoro da quello delle Finanze, era stato chiamato a dirigere quest’ultimo. Il suo nome al dicastero delle Finanze aveva soddisfatto in quel frangente sia gli interessi della dirigenza confindustriale, ormai sostenitrice della politica einaudiana, sia le preferenze del governo degli Stati Uniti. Come affermato da Carlo Sforza, allora ministro degli Affari esteri, il governo statunitense «non solo mal tollerava ipotesi di programmazione economica, ma si rifiutava anche di trattare con tecnici e uomini politici italiani inclini a teorizzare interventi dello Stato nell’economia»²⁶³; il liberismo monetarista di Pella era risultato dunque anche più confacente ad assecondare le preferenze del partner atlantico.

La sua adesione alla politica monetaria e di bilancio che Einaudi aveva inaugurato nel 1947 era stata pienamente in linea con il suo produttivismo privatistico. Come ben sintetizzato da Diomede Ivone, tra il 1948 e il 1953 la politica economica di Pella, presentata in più occasioni come politica a sostegno dei redditi fissi e dei risparmi, si era concentrata sul risanamento monetario, sul pareggio del bilancio pubblico (senza il quale si sarebbe reso necessario il ricorso alla monetizzazione del debito con conseguenze inflative), sull’aumento delle riserve valutarie e sul riequilibrio della bilancia commerciale²⁶⁴. Il contenimento della spesa pubblica finanziata a debito aveva permesso di stabilizzare la moneta e, quindi, aveva avvantaggiato tutti quei settori dell’industria italiana fortemente dipendenti dall’importazione di materie prime e interessati all’esportazione di beni di consumo finiti, settori rappresentativi del sistema economico italiano fino alla fine del boom economico²⁶⁵.

L’unica eccezione alla rigida politica di stabilizzazione monetaria era forse stato il ricorso agli aiuti dello European Recovery Program (Erp). In apparente contrasto con la stretta creditizia deflativa voluta da Einaudi, nel 1948 De Gasperi, insieme con il ministro del Commercio Cesare Merzagora e quello dell’Industria Giovanni Gronchi, aveva assecondato la posizione confindustriale convincendo Einaudi ad autorizzare l’avvio di programmi di spesa pubblica finanziati dagli Stati Uniti²⁶⁶. Sul tema dell’utilizzo degli aiuti statunitensi, Pella si era schierato a favore dell’accantonamento di una parte delle risorse del fondo Lire sotto forma di riserva valutaria, al fine di colmare il disavanzo dei conti con l’estero. Nel frattempo, all’interno di Confindustria si stava consumando uno scontro tra la posizione dirigenziale di Angelo Costa, non troppo lontana da quella di Pella, e quella di Vittorio Valletta, più favorevole agli investimenti produttivi da parte dello Stato²⁶⁷. Quest’ultima posizione, non facilmente conciliabile con la politica deflativa di Pella ed Einaudi, era invece in sintonia con lo spirito keynesiano che animava l’attività dell’Erp²⁶⁸; i dirigenti del programma statunitense si erano infatti più volte schierati a favore di una politica di piano, mostrandosi critici nei confronti della volontà di destinare gli aiuti alla soluzione di problemi contingenti.

La vicenda, oltre a costituire un’ulteriore manifestazione dell’inclinazione monetarista e liberista di Pella, può essere letta come un indizio dell’emergere di posizioni industriali non più inclini ad accettare la politica deflativa della linea Pella-Einaudi.

Dal giugno del 1947 all’estate del 1953 Pella aveva dunque dato concreta attuazione alla linea antinflazionistica inaugurata da Einaudi, che aveva sostituito al ministero del Tesoro quando, nel 1948, l’economista torinese era stato chiamato a guidare la Banca d’Italia. Alla luce di tale percorso non sorprende che nel 1953 l’economista biellese sia stato chiamato da Einaudi stesso a rappresentare la continuità con una politica economica che, pur tenendo conto delle posizioni avverse che stavano lentamente emergendo, aveva incontrato fino ad allora – e continuava a incontrare – gli interessi di una parte importante del mondo industriale italiano.

3. Un governo all’inizio della transizione

Dal punto di vista istituzionale, Pella dovette la sua nomina al fallimento della nuova legge elettorale fortemente voluta da De Gasperi. Essa, come è noto, aveva introdotto a pochi mesi dalle elezioni un forte premio di maggioranza (65% dei seggi della Camera) per la coalizione che avesse raggiunto il 50% più uno dei voti. Alle elezioni del 7-8 giugno, la coalizione centrista non aveva però raggiunto l’obiettivo, ottenendo il 49,8% dei voti. A determinare questo esito avevano contribuito anche alcune scissioni che si erano consumate nelle settimane precedenti il voto e che avevano tolto circa l’1% dei voti alla coalizione: dalla confluenza di alcuni ex socialdemocratici, alcuni ex repubblicani e alcuni esponenti del gruppo di Giustizia e libertà di Carlo Cassola era nato Unità popolare, mentre dalla fuoriuscita di Giuseppe Nitti ed Epicarmo Corbino del Pli si era costituito il movimento di Alleanza democratica nazionale (Adn).

Visto l’insuccesso elettorale, gli ex alleati di governo della Dc si rifiutarono di partecipare all’ottavo gabinetto De Gasperi e lo statista trentino tentò la strada del monocolore democristiano. Come si è accennato, i principali partiti in coalizione con la Dc (Pli, Psdi e Pri), consapevoli anche della svalutazione del loro peso che si sarebbe verificata se il premio fosse scattato²⁶⁹, si astennero dal votare la fiducia a De Gasperi, decretandone così la caduta. Il tentativo del centrismo di salvaguardare il proprio governo ricorrendo all’introduzione di un cospicuo premio di maggioranza era fallito.

È opinione comune che le elezioni del 1953 abbiano segnato l’inizio della crisi del centrismo e, quindi, della fase di transizione verso i governi di centro-sinistra. Sebbene l’estremo cronologico rimanga pienamente utilizzabile come punto di inizio della transizione, è evidente che un mutamento di tale portata non poté avere le proprie radici esclusivamente in un fatto puramente politico come una riforma della legge elettorale. Il centrismo entrò in crisi sia a causa di un riorientamento degli interessi economici che lo avevano sostenuto, sia a causa dell’emersione di interessi socio-economici differenti, che sin dall’immediato dopoguerra avevano provato, senza riuscirci, ad affermarsi. Tali interessi iniziarono a manifestarsi politicamente non solo attraverso i partiti dell’opposizione di sinistra, ma anche grazie alle frazioni che si erano nel frattempo venute a creare all’interno del partito di maggioranza.

Osservare le cause più profonde alla base della crisi del centrismo significa dunque analizzare il lento affiorare delle forze che avevano tentato di ostacolare la politica economica inaugurata nel 1947 da Einaudi. All’epoca a opporsi erano stati il Pci e il Psi, tale opposizione non aveva però avuto successo e la linea Einaudi si era affermata²⁷⁰.

A distanza di qualche anno, con la ricostruzione ormai ultimata, il gruppo dei sostenitori della politica einaudiana andava però riducendosi²⁷¹ e gli interessi a supporto dell’intervento diretto dello Stato in economia iniziavano a manifestarsi con un certo peso anche all’interno della stessa Dc. A differenza dei partiti di sinistra, un’opposizione interna alla Dc poteva vantare anche l’inserimento entro la cornice dell’atlantismo, dal punto di vista economico più promettente rispetto al blocco sovietico.

Una delle prime circostanze in cui si era rivelata tale opposizione era stata la crisi di governo del 1951. Durante il Consiglio nazionale della Dc, che dal 29 al 3 luglio si era tenuto a Grottaferrata, il gruppo dossettiano, riunito intorno a «Cronache sociali», aveva espresso apertamente il proprio dissenso nei confronti della politica economica di Pella, arrivando a chiedere la sua sostituzione nel governo²⁷². Qualche settimana dopo, Giuseppe Dossetti aveva poi insistito sulla necessità di abbandonare la politica di Pella facendo riferimento alla mutata situazione economica che, a detta del politico reggiano, non preannunciava all’orizzonte un peggioramento della situazione monetaria²⁷³. Quando, di lì a pochi giorni, tali critiche erano arrivate anche dai gruppi parlamentari della Dc, il politico biellese aveva deciso di rassegnare le proprie dimissioni, venendo seguito dal resto del governo, che si dimise il 16 luglio. La crisi politica si era risolta grazie alla concessione dell’eliminazione del ministero del Tesoro di cui era titolare proprio Pella. Secondo le intenzioni, poi non realizzatesi, alcune delle prerogative del ministero del Tesoro sarebbero confluite tra i compiti del ministero del Bilancio, mentre le restanti sarebbero state assorbite da quelle del ministro delle Finanze. In realtà, con l’entrata in funzione del settimo governo De Gasperi, Pella, nominato ministro del Bilancio, aveva continuato a giocare un ruolo chiave nella determinazione della politica economica degasperiana, ruolo che nel 1952 era stato ulteriormente rafforzato dall’assegnazione a Pella del dicastero ad interim del Tesoro, in sostituzione di Vanoni.

Questa sconfitta del fronte dossettiano preparò il terreno alla corrente fanfaniana di Iniziativa democratica, che avrebbe guidato la Dc per tutti gli anni Cinquanta e che, nel tentativo di autonomizzarsi dall’influenza dell’industria privata, avrebbe rivolto il proprio sguardo verso i gruppi di Stato²⁷⁴. La crisi di governo del 1951 fu una delle prime avvisaglie della crisi del centrismo che si sarebbe manifestata pienamente nel 1953 e, non a caso, avrebbe ruotato intorno alla politica economica di Pella.

Con la sistemazione dell’Agip e la nascita dell’Eni nel 1953, il comparto pubblico dell’industria italiana si rafforzò ulteriormente²⁷⁵; le imprese di Stato acquisirono maggior peso, e con esse acquisì maggior peso anche una politica economica meno interessata al contenimento della spesa pubblica e alla stabilità monetaria. Dando nuova linfa a quanti da anni tentavano di opporsi alla politica economica di Einaudi e Pella, tale prospettiva fu uno degli elementi principali che determinò la fine del centrismo. Nel 1953 però la transizione era solo agli inizi.

La crisi del quadripartito, innescata dal fallimento della nuova legge elettorale, liberò i primi minuscoli spazi sfruttabili da chi si opponeva alla politica economica di Pella e di Einaudi. Come ricordato da Pietro Di Loreto, la crisi del centrismo inaugurò una fase in cui all’interno della Dc tutti iniziarono a parlare di un possibile dialogo con Pietro Nenni; persino Pella sembrò accarezzare l’idea ammettendo di aver subito quella che chiamò la «seduzione-Nenni»²⁷⁶. Tuttavia, come già accennato, i tempi per una tale apertura a sinistra non erano ancora maturi e, superata l’infatuazione, Pella rimase fermo sulle proprie posizioni.

Agli albori della transizione verso il centro-sinistra venne dunque istituito il governo di Giuseppe Pella: un governo in cui questi (con l’interim al Bilancio e agli Esteri) rappresentò la continuità della politica economica einaudiana e la cui natura dichiaratamente temporanea lo rese accettabile almeno agli occhi dei monarchici, dei repubblicani e dei liberali che, a differenza di quanto fatto durante l’ottavo governo De Gasperi, votarono a favore della fiducia. All’interno della Dc, De Gasperi incitò la Direzione nazionale a non ostacolare la designazione di Pella per evitare che il partito corresse il rischio di perdere la presidenza del Consiglio²⁷⁷.

Il 17 agosto il presidente e i ministri vennero nominati ufficialmente da Einaudi. L’illustrazione e la discussione del programma del nuovo governo si tennero in entrambe le Camere tra il 19 e il 24 agosto. La mozione di fiducia passò alla Camera dei deputati con 315 voti a favore, 215 contrari e 44 astenuti, mentre al Senato passò con 140 voti favorevoli, 86 contrari e 10 astenuti.

4. La presentazione in Parlamento: un programma ampio per un governo di transizione

Nonostante la squadra di governo proposta da Pella fosse anch’essa monocolore²⁷⁸, la composizione del gabinetto da lui guidato si differenziò abbastanza da quella che era stata l’ultima proposta di De Gasperi. Se ciò non è tanto vero per quello che riguardò il numero e i tipi di ministeri proposti – 17 ministeri per De Gasperi e 18 per Pella – lo stesso non si può dire per le personalità scelte alla conduzione dei vari dicasteri. Contando il nome di Pella al Bilancio, furono in tutto sei i democristiani chiamati a dirigere lo stesso ministero nei due gabinetti: Amintore Fanfani all’Interno, Ezio Vanoni alle Finanze, Rocco Salomone all’Agricoltura e foreste, Leopoldo Rubinacci al Lavoro e previdenza sociale e Pietro Campilli alla Cassa per il Mezzogiorno, l’unico ministero senza portafoglio proposto da De Gasperi. Come riportato da Francesco Malgeri, Pella considerò l’idea di estromettere Fanfani dal governo, salvo poi ricredersi per evitare le complicazioni che Iniziativa democratica avrebbe potuto far sorgere all’interno del partito²⁷⁹. Sempre nell’intento di migliorare i rapporti con la corrente fanfaniana, affidò a Paolo Emilio Taviani il ministero della Difesa, un ministero più importante di quello del Commercio estero che gli aveva affidato De Gasperi²⁸⁰.

Oltre a Taviani, anche altri democristiani furono chiamati a ricoprire ruoli diversi all’interno delle due compagini governative: Umberto Merlin passò dalle Poste ai Lavori pubblici, Silvio Gava dall’Industria al Tesoro e Bernardo Mattarella dalla Marina mercantile ai Trasporti. I nuovi nomi proposti da Pella risultarono in totale sette, tre dei quali con un profilo tecnico: Salvatore Scoca alla Riforma burocratica (il secondo ministero senza portafoglio di Pella), Antonio Azara alla Giustizia e Modesto Panetti alle Poste. Nonostante tali differenze, il mutamento più rilevante intercorso tra le due proposte governative fu comunque l’introduzione della provvisorietà.

La natura provvisoria del governo fu sottolineata dallo stesso presidente del Consiglio che, in occasione della presentazione del programma alla Camera e al Senato, accostò l’esecutivo al concetto di transizione. L’economista biellese, non potendo immaginare quanto sarebbe durato il momento di passaggio politico di cui all’epoca si erano intraviste appena le prime battute, tese a identificare temporalmente la durata del proprio governo con la fase transitoria.

Il dialogo politico sembra destinato a protrarsi ancora nel tempo, ai fini di una feconda e costruttiva chiarificazione. Ma il paese, nel frattempo, vuole che lo Stato assolva alle sue funzioni essenziali e più urgenti: se in tal senso non si provvedesse, ben pesanti sarebbero le conseguenze negative sul piano politico, economico e sociale. [...] In queste condizioni, il signore Presidente della Repubblica mi ha affidato l’incarico di costituire un Governo per affrontare e risolvere i problemi fondamentali del particolare periodo di transizione e porre le premesse tecniche perché altri problemi possano essere consapevolmente affrontati dal Governo il quale avrà la responsabilità dell’esecutivo superato il periodo di transizione: periodo che – in larga ma sufficiente approssimazione – si identifica col tempo necessario per l’accennata chiarificazione²⁸¹.

Dopo aver esordito in tal modo, Pella iniziò a elencare i punti di quello che lui stesso fece fatica a definire «programma di lavoro»; consapevole della limitatezza temporale del proprio mandato, preferì infatti individuare alcuni temi in merito ai quali la sua squadra avrebbe proseguito dei lavori già precedentemente avviati oppure gettato le basi per il lavoro dei governi futuri.

Il primo e inaggirabile obiettivo elencato fu ovviamente la presentazione a l’approvazione delle leggi di bilancio, esposte alla Camera e al Senato (otto alla Camera e altre otto al Senato) durante le stesse sedute del 19 agosto. Pella sollevò quindi il problema del superamento della legge elettorale e menzionò la questione della tredicesima mensilità ai titolari di pensione.

Dal punto di vista della politica estera, fu ribadita l’adesione all’atlantismo, ancorché sfumata da un accenno alla difesa degli interessi nazionali.

La nostra politica estera rimane orientata verso la sicurezza e la pace. Desidero ricordare che il patto atlantico, a cui intendiamo rimanere pienamente fedeli, non è soltanto patto di difesa militare, ma vuole anche essere (articolo 2) strumento propulsore di benessere e di migliore giustizia sociale nel seno della comunità atlantica. Sicurezza e pace! La sicurezza esige fedeltà alle nostre alleanze e leale esecuzione degli impegni con esse ed in esse assunti. [...] Ma a questa ferma determinazione corrisponde una determinazione altrettanto ferma nella difesa degli interessi nazionali, i quali, scaturendo da evidenti ed elementari principi di giustizia, oltre che da riconoscimenti solennemente espressi, non solo non contrastano con gli obiettivi della comune politica di solidarietà, ma ne costituiscono, nella profonda convinzione del Governo e del popolo italiano, un elemento essenziale ed indivisibile²⁸².

Procedendo velocemente, toccò poi numerosi temi: il problema dell’amnistia per i reati politici commessi negli anni dell’immediato dopoguerra; quello del riordino dei servizi di assistenza in relazione all’inchiesta Vigorelli; anticipò che sarebbe stato riproposto al Parlamento il disegno di legge sui danni di guerra già approvato dalla Camera; accennò alla necessità di disciplinare gli sfratti dagli immobili urbani; affermò la volontà di voler completare, a un ritmo compatibile con le disponibilità finanziarie, il programma straordinario di difesa. Sul fronte delle politiche del lavoro definì indispensabile la promozione della validità giuridica dei contratti collettivi e auspicò l’approvazione della legge sull’apprendistato.

Dopo un brevissimo accenno ai non meglio precisati problemi della scuola e della giustizia, passò poi a trattare le materie economiche e finanziarie a lui care. Affermò che il governo avrebbe effettuato il massimo sforzo per creare nuova occupazione, subordinando comunque tale obiettivo a quello della difesa della moneta, presentato anche qui come condizione necessaria per la difesa dei risparmi. In merito al bilancio sostenne che, dopo le «dure prove» degli ultimi due esercizi, sarebbe stata intrapresa la via del riassetto graduale tramite una notevole riduzione del disavanzo: eventuali incrementi nelle entrate sarebbero stati destinati a tale scopo, mentre nuove o maggiori spese sarebbero state coperte con nuovi cespiti. Dopo aver espresso la volontà di estendere a dodici anni la durata del programma decennale a sostegno delle aree depresse del Centro-Nord, come era già stato fatto per la Cassa per il Mezzogiorno, passò a delineare la politica tributaria: lotta all’evasione, introduzione di una nuova imposta sulle società, sistemazione delle imposte sui trasferimenti, riordinamento del contenzioso tributario e miglioramento della legge sulla finanza locale. Il presidente proseguì poi delineando una politica commerciale fortemente orientata al soddisfacimento delle esigenze degli esportatori italiani. Dopo aver scartato la possibilità di ricorrere a qualunque limitazione delle importazioni, affermò che il governo si sarebbe mosso nella direzione del rafforzamento dei legami commerciali con tutti i paesi che rappresentavano dei mercati di sbocco per le esportazioni nazionali, specialmente quelle di beni strumentali.

Avviandosi alle conclusioni passò poi brevemente in rassegna alcuni problemi minori: la politica edilizia, il traforo del Monte Bianco, l’attuazione della riforma fondiaria, la messa in liquidazione degli enti ritenuti inutili, il rigoroso controllo del denaro pubblico nell’amministrazione pubblica e negli enti parastatali e la riforma della legge di amministrazione e contabilità.

In conclusione, come se tentasse di difendersi preventivamente dall’accusa di aver dato vita a un governo provvisorio con un programma da governo duraturo, Pella tornò a ribadire la natura temporanea del suo esecutivo.

L’attuale formazione governativa ha ragione di restare in vita soltanto sino a quando siasi realizzata quella chiarificazione politica di cui ho fatto cenno nelle premesse. Ne consegue che molti punti del programma dovranno essere consegnati al futuro. Ma ci sembrerebbe dannosa perdita di tempo non fare nulla, in via preliminare, per predisporre la «aggressione» di parecchi problemi che, a priori, sappiamo destinati ad esaurirsi al di là della nostra limitata esistenza²⁸³.

5. Pochi mesi movimentati

Due giorni prima della presentazione del nuovo governo alle due Camere aveva avuto luogo la prima riunione del Consiglio dei ministri, nel corso della quale erano stati approvati i disegni delle leggi di bilancio, erano stati attribuiti a Scoca due incarichi particolari (coordinare l’attività amministrativa dei vari dicasteri e preparare e attuare la riforma burocratica), erano stati nominati i sottosegretari dei vari ministeri e Andreotti sottosegretario alla presidenza del Consiglio²⁸⁴. Nel corso del proprio governo, a questa prima seduta ne sarebbero seguite altre diciotto, tutte quante presiedute da Pella che, nonostante gli impegni internazionali legati al dicastero degli Esteri, non mancò mai.

Oltre a illustrare alle Camere i disegni delle leggi di bilancio, per ottenere tutto il tempo legalmente disponibile per la loro approvazione, il governo propose anche un disegno di legge che avrebbe fatto slittare al 31 ottobre la data di scadenza dell’esercizio provvisorio²⁸⁵. In seguito all’autorizzazione del prolungamento, dopo numerose giornate di discussione, i provvedimenti furono approvati nel corso delle sedute parlamentari di ottobre.

Sebbene a causa della ravvicinata scadenza dell’esercizio provvisorio il governo Pella sia stato spesso descritto come un governo d’amministrazione, le vicende che si trovò a dover affrontare negli ultimi mesi del 1953 andarono ben oltre la semplice esposizione delle leggi di bilancio e, per certi versi, superarono anche le più ambiziose previsioni programmatiche menzionate da Pella nel presentare il suo governo. In quello stesso giorno al Parlamento si tenne una riunione del Consiglio in cui i vari ministri diedero il loro parere sui temi toccati nel discorso che il primo ministro avrebbe rivolto alle Camere nelle ore seguenti. Si accennò al tema di Trieste²⁸⁶. Se per Antonio Segni sarebbe stato opportuno evitare di menzionare la questione, secondo Malvestiti sarebbe stato auspicabile farlo, anche per evitare che il silenzio venisse mal interpretato. La questione triestina, che alla fine non trovò spazio all’interno del discorso programmatico effettivamente pronunciato, irruppe, come è noto, nella vita del nuovo governo pochi giorni dopo l’ottenimento della fiducia alla Camera. A fine agosto giunse infatti la notizia della volontà di Tito di proclamare l’intenzione ad annettere la zona B al territorio iugoslavo²⁸⁷. L’accelerazione che questi tentò di imprimere dipese sia dalla situazione di generale debolezza in cui, secondo il maresciallo, l’Italia si trovava sin dalle elezioni di giugno, sia dalle parole che Pella aveva pronunciato alla Camera il 24 agosto²⁸⁸. In quell’occasione, nel vivo della discussione che aveva seguito la presentazione del governo, Pella aveva risposto alle sollecitazioni inerenti alla questione triestina provenienti da alcuni deputati, tra i quali Giorgio Almirante e Carlo Colognatti, riaffermando la validità della Dichiarazione tripartita del 1948:

Desidero assicurare nella maniera più categorica che il presente Governo fa proprie le dichiarazioni fatte in quest’aula il 21 luglio dal Presidente De Gasperi, ed in tal senso vanno esplicitamente interpretate le mie parole secondo cui, nella profonda convinzione del Governo e del popolo italiano, la ferma difesa da parte nostra degli interessi nazionali ed il rispetto da parte altrui degli impegni assunti – primi fra tutti, si intende, quelli riconosciuti nella dichiarazione tripartita – costituiscono elementi essenziali ed indivisibili di una operante solidarietà nazionale.

Il 29 agosto Pella e Taviani si incontrarono con Luigi Efisio Marras (capo di Stato maggiore della Difesa) e Vittorio Zoppi (segretario generale degli Esteri) e decisero di schierare alcune truppe su Gorizia e Monfalcone e una parte della flotta a Venezia²⁸⁹. Come emerge dalla ricostruzione contenuta nel verbale della riunione del Consiglio del 18 settembre, il 29 agosto il primo ministro comunicò agli Alleati che, qualora Tito avesse veramente dichiarato l’annessione della zona B, l’Italia si sarebbe aspettata da loro il disconoscimento esplicito dell’annessione e avrebbe proceduto con la richiesta di poter presidiare militarmente la zona A; qualora la risposta fosse stata negativa il governo italiano si sarebbe dimesso per dimostrare che un tale sforzo diplomatico non si era rivelato sufficiente.

Il 6 settembre, a Okroglica Tito chiese che Trieste fosse internazionalizzata, che il resto della zona A fosse assegnato alla Iugoslavia e che l’Italia ritirasse le truppe dal confine. Il discorso di Tito, giudicato dal governo italiano «non molto aspro», spinse Pella a replicare: la risposta arrivò il 13 settembre al Campidoglio. Con un discorso denso di retorica e non privo di toni nazionalistici, il presidente del Consiglio rivendicò nuovamente la validità della Dichiarazione tripartita e propose di risolvere la situazione ricorrendo a un plebiscito popolare le cui modalità attuative sarebbero state concertate fra il governo alleato, quello italiano e quello iugoslavo. Nelle conclusioni del discorso Pella contemplò le conseguenze di un eventuale rifiuto della proposta plebiscitaria:

Sia però chiaramente inteso che qualora esso dovesse opporre un rifiuto od adottare una tattica dilatoria, tutti dovranno trarne le debite conseguenze. [...] Dalla duplice luce del Campidoglio e del vicinissimo Altare della Patria, nello spirito del Milite Ignoto, che ci sorregge, ci ispira, ma anche ci giudica, un messaggio di fede si eleva verso Trieste ed il suo Golfo: è il messaggio di tutti gli italiani i quali vogliono camminare sulle strade feconde del lavoro, della pace, del migliore umano benessere, della serena solidarietà internazionale, dei valori universali del cristianesimo: di 47 milioni di italiani i quali però da tempo reclamano un atto di giustizia: di quella giustizia che è veramente legge eterna e nella quale l’Italia, anche per la sua ferma volontà ancor oggi vuol confidare. Se ciò non dovesse verificarsi, e mi rifiuto di crederlo, Parlamento e Governo saprebbero rendersi interpreti degli interessi del Paese e della volontà della Nazione²⁹⁰.

Durante la riunione del Consiglio del 18 settembre Pella parlò del suo discorso e affermò che, mentre la Iugoslavia si era detta contraria, l’idea del plebiscito era piaciuta agli Alleati, i quali, prima che il discorso fosse pronunciato, non erano nemmeno a conoscenza dei suoi contenuti²⁹¹. Sul piano interno, la proposta del plebiscito incontrò poi il favore del Pci che, come spiegò Fanfani durante la stessa seduta del Consiglio, tentò di appoggiarla sia per dimostrare che in passato non si era fatto nulla, sia per poterne criticare il fallimento qualora il tentativo non fosse andato a buon fine. Il disegno plebiscitario, oltre a raccogliere la piena solidarietà del Consiglio nazionale della Dc, secondo Pella²⁹², provocò anche l’adesione della destra e il recupero dei socialdemocratici alla linea politica del governo. Tra gli scontenti del quadro di politica estera delineato da Pella vi fu invece De Gasperi, che non ne apprezzò né i toni né i suggerimenti²⁹³.

Nelle settimane successive il dibattito si accese ulteriormente. Nel corso della discussione alla Camera in merito al bilancio preventivo del ministero degli Esteri, Pella ebbe modo di tornare sulla questione triestina. Il 6 ottobre, a conclusione dell’ultima replica del presidente del Consiglio, l’assemblea si pronunciò all’unanimità a favore della tutela dei diritti italiani in tutto il Territorio libero di Trieste. Due giorni dopo, Inghilterra e Stati Uniti dichiararono di voler porre fine al governo alleato nella zona A e di voler restituire il territorio di Trieste all’Italia (la cosiddetta «Nota bipartita»). In risposta Tito affermò che, qualora le truppe italiane fossero entrate a Trieste, quelle iugoslave avrebbero fatto lo stesso²⁹⁴; stanziò inoltre al confine numerose truppe, senza che l’Italia rispondesse per le rime. La mossa di Tito generò alcuni timori tra le fila degli Alleati i quali, non volendo dare alla Iugoslavia un motivo per tornare nell’orbita sovietica, ritornarono sui loro passi e interruppero l’applicazione della Nota. Il 30 ottobre Pella si recò a Parigi per discutere con l’allora ministro degli Esteri francese Georges Bidault della questione triestina; durante l’incontro Pella sostenne che l’Italia avrebbe accettato la proposta di una conferenza internazionale per decidere delle sorti di Trieste solo dopo l’effettivo passaggio della zona A sotto il controllo italiano²⁹⁵. Nel procedere di tale escalation il 4 novembre Pella fece una dichiarazione dai forti contenuti nazionalistici a Venezia (anziché nella prescelta Redipuglia²⁹⁶), a seguito della quale un gruppo di giovani triestini provenienti dal comizio si scontrò con le forze alleate, dando il via alla cosiddetta «rivolta di Trieste». L’episodio portò infine il governo ad accettare la prospettiva di una conferenza a cinque, proposta da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Il 5 dicembre, a circa tre mesi dal discorso di Tito, sia l’Italia che la Iugoslavia ritirarono infine le truppe dal confine.

Pur non giungendo a una conclusione definitiva, la questione di Trieste ricoprì un ruolo molto importante nel plasmare le future vicende dell’esecutivo. Durante le settimane più calde del confronto, la reputazione di Pella migliorò infatti non solo all’interno degli ambienti politici²⁹⁷, ma anche agli occhi dell’opinione pubblica²⁹⁸. La gestione della vicenda triestina sembrò a un certo punto avergli fruttato una diminuzione della dipendenza del suo esecutivo dalle preferenze della dirigenza della Dc: dato l’ampio consenso riscosso in ambiti legati a valori patriottici e risorgimentali²⁹⁹, il politico biellese poté contare su un maggior appoggio da parte dell’opinione pubblica, appoggio che avrebbe reso meno centrale il sostegno del partito. Sull’onda di tale apprezzamento, Pella tentò di allargare il programma e la prospettiva di durata del governo³⁰⁰. Parlando al Consiglio nazionale della Dc il 28 settembre, affermò che il suo governo avrebbe anche potuto superare nel tempo e nel programma le limitazioni che si era autoimposto poco più di un mese prima. I margini di manovra non erano tuttavia così larghi: nonostante il prestigio derivante dalla gestione della questione giuliana, a limitare le intenzioni di Pella rimanevano infatti le ragioni profonde che avevano portato alla sconfitta del monocolore di De Gasperi.

Malgrado l’intensificarsi della vicenda triestina e gli impegni che ne derivarono, durante il mese di novembre Pella riuscì ad affrontare due missioni diplomatiche: la prima, in Turchia, dal 12 al 14 novembre e la seconda, in Olanda, tra il 24 e il 28 novembre. Sebbene tali impegni non fossero direttamente collegati con la questione di Trieste, il presidente del Consiglio – onorando la propria convinzione secondo cui in politica estera «tutte le cose hanno una relazione»³⁰¹ – trovò il modo di parlarne in entrambe le occasioni. Il viaggio in Turchia si inserì pienamente nel tentativo di stringere i rapporti con i partner commerciali dell’Italia, che Pella aveva menzionato nel suo discorso programmatico. Il legame con quel paese non aveva però solamente una valenza economica. Se è infatti vero che l’interscambio commerciale tra i due Stati aveva registrato tra il 1952 e il 1953 un notevole aumento generale delle importazioni italiane provenienti dalla Turchia e un aumento delle esportazioni di alcune merci³⁰², è altrettanto vero che la Turchia pochi mesi prima aveva firmato il Patto balcanico con la Grecia e la Iugoslavia. Dalle poche informazioni trapelate risulta infatti che uno dei principali temi trattati fu proprio quello di Trieste. All’indomani degli incontri, rientrando in Italia, Pella ebbe modo di affermare: «Durante i colloqui di Ankara è stato discusso anche il problema di Trieste. Abbiamo dato ai nostri colleghi turchi informazioni esaurienti sugli ultimi sviluppi ed abbiamo spiegato il punto di vista italiano in merito»³⁰³.

In Olanda Pella prese invece parte alla Conferenza dell’Aja, una riunione tra i ministri degli Esteri di Francia, Olanda, Italia, Lussemburgo, Germania e Belgio in cui si sarebbe dovuto discutere della Comunità europea di difesa. Dopo la firma del patto istitutivo della Ced nel febbraio 1952, in quei mesi si attendevano le ratifiche dei vari parlamenti nazionali. Fu per questa ragione che Pella affermò che la ratifica italiana sarebbe stata agevolata da una soluzione soddisfacente della vicenda triestina. In questo modo il presidente del Consiglio, pur sottolineando che la soluzione della crisi giuliana non costituisse una condizione necessaria per l’approvazione italiana della Ced, tentò di ottenere in ambito europeo un appoggio maggiore alla sua politica estera³⁰⁴. Nonostante questa intenzione, la conferenza si rivelò però abbastanza inutile a causa dell’assenza del ministro francese, chiamato in quei giorni ad affrontare una crisi governativa.

Parallelamente alla vicenda triestina e agli impegni internazionali, Pella tentò di tenere sotto controllo anche l’attività di governo più ordinaria. Il 17 e il 18 settembre il Consiglio dei ministri si era riunito per selezionare tra i disegni di legge decaduti per il pervenuto scioglimento delle Camere quelli da presentare nuovamente al Parlamento. Una delle questioni sul tavolo era relativa alla proroga del blocco degli affitti.

Nella riunione del 18 settembre, mentre Malvestiti, Taviani e Vanoni risposero alla proposta di Azara di aumentare del 25% i canoni dal 1° gennaio e di prorogare al 31 dicembre 1954 il blocco, suggerendo a loro volta un aumento del 50%, Pella manifestò nuovamente la sua attenzione nei confronti degli interessi del mondo produttivo. Il presidente, infatti, pur ammettendo di preferire la proposta del 50%, tenendo conto dell’imminenza di uno sciopero generale dell’industria che i sindacati avrebbero potuto sfruttare facendo leva su un eventuale rincaro degli affitti per rivendicare aumenti salariali, propose una soluzione intermedia: blocco per tre anni con aumenti scaglionati dei canoni (25% al primo anno, 50% al secondo e 75% al terzo). La questione non si risolse nel corso di quella seduta, il Consiglio decise di deliberare in merito in una seduta successiva.

Nelle settimane seguenti il governo trattò anche il tema dell’edilizia popolare. Il 9 ottobre, negli interstizi di una riunione del Consiglio in buona parte dedicata alla questione triestina, fu discusso un programma edilizio dalla portata temporale sicuramente superiore all’arco governativo individuato da Pella il 19 agosto. Secondo il programma in questione, elaborato in seguito a uno studio svolto dal ministro dei Lavori pubblici, lo Stato si sarebbe dovuto impegnare per agevolare la costruzione di abitazioni a «carattere popolare e popolarissimo» nei successivi cinque anni. Per l’attuazione del programma il governo propose l’istituzione di un comitato di coordinamento dell’attività edilizia presso il ministero dei Lavori pubblici. Secondo le intenzioni dell’esecutivo, la nuova legge sull’edilizia popolare, che rimase poi sulla carta, avrebbe dovuto rinforzare i contributi spettanti ai costruttori secondo la legge Tupini³⁰⁵, intensificare l’attività dell’Unrra-Casas e proseguire quella dell’Ina-Casa³⁰⁶.

Nelle settimane di settembre e ottobre il Consiglio discusse di quella che può forse essere ritenuta la seconda questione più spinosa affrontata dal governo Pella dopo quella giuliana: un disegno di legge sull’amnistia e l’indulto. Il 18 settembre Azara presentò due distinti disegni di legge di fronte al Consiglio: il primo per delegare il presidente della Repubblica alla concessione dell’amnistia e dell’indulto, il secondo per la liberazione dei condannati per i reati politici commessi entro il 18 giugno 1946. Dopo un’accesa discussione, i due testi furono approvati con alcune modifiche e il 22 settembre vennero presentati alla Camera. La prima legge proposta prevedeva la liberazione condizionale per i reati politici commessi entro il 18 giugno 1946 anche per coloro che non avevano scontato la metà della pena o che avevano ancora più di cinque anni da scontare, mentre il secondo disegno delegava il presidente della Repubblica a concedere l’amnistia per i reati elettorali che prevedevano una pena detentiva di massimo cinque anni e per gli altri reati (non militari o finanziari) che prevedevano una pena massima di tre anni³⁰⁷. Nel corso del loro iter parlamentare, i due provvedimenti andarono incontro a numerose modifiche: le principali estensioni proposte furono la commutazione dell’ergastolo in cinque anni di detenzione, la riduzione a due anni delle pene per le quali era prevista una detenzione superiore ai vent’anni e il condono delle pene inferiori³⁰⁸. Visto tale allontanamento dal disegno originario, Aldo Moro, nel tentativo di riavvicinare il testo a quelli che erano stati i suoi contenuti iniziali, avanzò una proposta che il Psi, dopo un incontro tra Pella, Nenni e Ferdinando Targetti, dichiarò di poter accettare a patto che venissero apportate due integrazioni: la prima mirata a concedere il condono di otto anni per qualsiasi reato compiuto da appartenenti a formazioni armate fino al 18 giugno 1946; la seconda concernente il condono di sei anni di detenzione per i reati commessi dopo il 18 giugno in occasione di agitazioni politiche o socio-economiche³⁰⁹. Nonostante ciò, i due disegni di legge che vennero alla fine approvati dalla Camera (dopo essere andati incontro a una prima bocciatura l’11 dicembre) apparvero agli occhi del governo profondamente diversi da quelli originariamente proposti. Per questa ragione, Azara tentò di sfruttare la discussione in Senato per riavvicinarli alla proposta iniziale. Dopo l’introduzione di alcune modifiche che sembrarono andare proprio in tale direzione, il testo tornò alla Camera per la seconda lettura e fu confermato.

L’episodio può forse essere letto come un indicatore del basso livello di attenzione che il presidente del Consiglio fu in grado di dedicare alle vicende parlamentari durante le settimane in cui si trovò a trattare il problema giuliano. In ogni caso, la questione dell’indulto permise a Scelba di sollevare delle critiche nei confronti del governo Pella³¹⁰ e gli diede l’opportunità di tentare di convincere i partiti di centro a imboccare nuovamente la via della coalizione centrista. Così facendo, Scelba – sostenitore della politica degasperiana sull’amnistia di cui Pella aveva dimostrato di disinteressarsi³¹¹ – attaccò il governo proprio nei giorni in cui si affacciava un altro pressante problema: la riforma della pubblica amministrazione.

Del pubblico impiego il governo aveva deciso di occuparsi sin da quando Pella aveva scelto di dedicare uno dei due ministeri senza portafoglio alla riforma burocratica. Durante il Consiglio del 9 ottobre fu avviata ufficialmente la discussione sul tema. Una delle questioni in ballo era la sistemazione dello stato giuridico dei dipendenti statali riguardo ai cosiddetti «diritti casuali», vale a dire dei compensi pagati dallo Stato ad alcuni dipendenti ministeriali che venivano versati in busta paga senza essere inseriti nel bilancio statale³¹². Tali «diritti» cadevano solo sulle spalle dei cittadini che richiedevano delle specifiche prestazioni e venivano percepiti solo da alcuni funzionari, nello specifico da alcuni dipendenti dei ministeri delle Finanze e del Tesoro e della Corte dei conti. Questo sistema generava dunque sia delle disuguaglianze tra le paghe dei pubblici dipendenti rientranti nella stessa categoria ma afferenti a diversi dicasteri, sia difficoltà nella gestione del bilancio pubblico³¹³.

Nella seduta del 9 ottobre ebbe luogo un brevissimo dibattito fra Scoca e Vanoni: prima che la discussione venisse rinviata a un’altra riunione, Scoca affermò che non sarebbe stato opportuno ripresentare i disegni di legge già presentati nella precedente legislatura – come asserito da Vanoni – e suggerì di prorogare il regime dei diritti fino alla fine del 1953 e di integrare i diritti casuali nel nuovo trattamento dei dipendenti pubblici che sarebbe entrato in vigore a partire dal 1° gennaio 1954. Il governo sembrò optare per la scelta di non affrontare la questione dei diritti casuali se non nel momento in cui si sarebbe trattato di riordinare tutto l’assetto giuridico ed economico dei dipendenti pubblici; la Commissione permanente finanze e tesoro interpretò così la mancata presentazione di una legge di iniziativa governativa³¹⁴ che di fatto finì per coincidere con il tentativo di riforma della pubblica amministrazione; il Consiglio dei ministri tornò infatti sull’argomento il 16 novembre, quando prese in esame la proposta di legge elaborata da Scoca volta a conferire al governo una delega per apportare modifiche allo statuto dei dipendenti pubblici (la cosiddetta «legge delega»). Il disegno di legge delega – insieme a un altro provvedimento volto a concedere ai dipendenti statali un miglioramento economico pari alla metà della tredicesima – venne poi presentato al Senato il 4 dicembre³¹⁵, ma divenne legge solo più tardi, sotto il governo Scelba.

Parallelamente ai lavori dell’esecutivo, era proceduta in quei mesi anche l’iniziativa parlamentare in merito ai «diritti»; il Parlamento aveva presentato un’iniziativa di legge con la quale le due Camere avevano cercato di prorogare al 31 ottobre 1954 l’esistenza dei diritti. Tale proroga, pur essendo stata votata dalle Camere, non aveva incontrato però il favore del presidente Einaudi, che il 21 novembre l’aveva rimandata alle Camere rifiutandosi di promulgarla³¹⁶. La proroga, integrata con l’obbligo di inserire i diritti nel rendiconto generale dello Stato, divenne poi legge il 27 dicembre.

Il tema della riforma del pubblico impiego si fece problematico per il governo poiché in quei mesi si intrecciò con il moto rivendicativo dei dipendenti pubblici. Poco dopo la presentazione della legge delega, in un contesto caratterizzato da una forte mobilitazione della categoria, fu proclamato uno sciopero generale per l’11 dicembre. I lavoratori della pubblica amministrazione, rappresentati dalle principali organizzazioni sindacali, scesero in sciopero per rivendicare l’adeguamento dei salari al costo della vita e per richiedere che i miglioramenti economici da loro invocati venissero riconosciuti immediatamente dal governo, senza essere posticipati con il resto della riforma burocratica preannunciata con la legge delega³¹⁷. Il governo di Pella rimase però intransigente: un aumento generalizzato degli stipendi pubblici avrebbe comportato, secondo la lettura del primo ministro, un aumento della domanda aggregata e, quindi, del rischio di inflazione. Il giorno dello sciopero il Consiglio dei ministri si riunì e fece il punto sulla situazione: Segni dichiarò che i dipendenti del ministero dell’Istruzione e i presidi di Roma non avevano scioperato, mentre i professori avevano aderito in massa; Mattarella spiegò che i funzionari del ministero dei Trasporti non avevano scioperato se non in minima parte, mentre il personale di macchina era riuscito a fermare circa 150 treni su 6000. In conclusione, Pella si disse soddisfatto del risultato ottenuto grazie alla dimostrazione di inflessibilità³¹⁸.

Nei giorni che precedettero e seguirono lo sciopero, l’operato del governo fu colpito dalle prevedibili contestazioni sia dell’opposizione di sinistra³¹⁹, sia da alcune correnti della Dc. Come riportato da Fanello Marcucci, il 10 dicembre la direzione centrale della Democrazia cristiana (partecipata anche da Fanfani e Salomone) aveva infatti rilasciato una risoluzione dai toni critici nei confronti dell’operato del governo che, almeno fino a quel momento, non era stato in grado di evitare lo sciopero³²⁰.

Il conflitto tra il partito e il governo esplose pochi giorni dopo. Nel tentativo di limitare il fenomeno delle correnti interne, De Gasperi fondò «La discussione», il settimanale che il 20 dicembre ospitò un editoriale destinato a incrinare ulteriormente i rapporti tra la Dc e il governo. Nell’editoriale De Gasperi definì il governo Pella un «governo amico» e Pella sentì immediatamente la necessità di un chiarimento: la formula utilizzata non sembrava infatti contemplare un pieno appoggio da parte del partito all’operato del governo. Con l’editoriale di De Gasperi, e con la successiva risoluzione votata dalla Direzione centrale³²¹, il partito stava cercando di trasmettere al capo del governo quella che era la sua lettura della situazione politica, una lettura che evidentemente non coincideva con quella del politico biellese.

Se è dunque vero che durante il suo governo Pella riuscì ad aumentare i suoi consensi grazie alla vicenda giuliana, è altrettanto vero che la questione del pubblico impiego accrebbe ulteriormente i dissapori tra il suo esecutivo e le forze dell’opposizione, soprattutto quelle interne alla Dc.

6. Il rimpasto fallito e la crisi

A fine anno la rottura tra il governo e il partito sembrava dunque sempre più vicina. Pella si rese conto di non poter ignorare il problema e prese in considerazione tre possibili scenari: il mantenimento dell’esecutivo allora in attività, la crisi di governo e il rimpasto³²². La prima soluzione fu scartata sia per via delle richieste di Segni, che già da qualche tempo aveva chiesto di potersi dimettere per ragioni di salute, sia a causa del fatto che per Pella non sarebbe stato possibile mantenere a lungo anche il dicastero del Bilancio e quello degli Esteri. In quel frangente il primo ministro giudicò poco conveniente anche la crisi: partendo dalla considerazione che non sarebbe stato ancora facile allargare la maggioranza e che, quindi, la transizione che aveva motivato in primo luogo la formazione del suo esecutivo, non era ancora stata superata, optò infine per il rimpasto. Nelle sue intenzioni, agli Esteri sarebbe dovuto andare Attilio Piccioni, mentre Andreotti e Mario Ferrari Aggradi sarebbero diventati titolari di due ministeri senza portafoglio, Raffaele Resta, Giovanni Braschi e Salvatore Aldisio avrebbero sostituito rispettivamente Segni alla Pubblica istruzione, Panetti alle Poste e Salomone all’Agricoltura³²³. A destare alcune perplessità all’interno della Dc fu proprio il nome di Aldisio. La sua nomina fu interpretata dalla corrente di Iniziativa democratica come un tentativo di rottura nei confronti della politica agraria sostenuta dalla Dc negli ultimi anni. Una parte della sinistra democratico-cristiana temette infatti l’allontanamento dai programmi che avevano portato alla riforma agraria e che i dossettiani, prima ancora della nascita di Iniziativa democratica, avevano appoggiato³²⁴. Nel tentativo di allargare il consenso intorno al nome di Aldisio, Pella chiese anche a Paolo Bonomi, presidente della Coldiretti, di «desistere dall’opporsi» alla nomina del politico siciliano³²⁵. Il tentativo però fallì e il 5 gennaio i gruppi parlamentari della Dc approvarono un ordine del giorno con cui venne ribadita l’opposizione alla nomina di Aldisio. Il rimpasto, pensato anche come soluzione al crescente malcontento generato all’interno del suo partito, si tradusse dunque per Pella in un ulteriore e definitivo motivo di scontro con la Dc. Constatato il fallimento di quest’ultima manovra, a Pella non rimase che dimettersi, e così fece il 5 gennaio del 1954.

7. Conclusioni

Terminò così il breve governo di Giuseppe Pella. Rimanendo abbastanza fedele al proprio programma, nel corso di meno di cinque mesi il governo fece approvare le leggi di bilancio, presentò il disegno di legge sull’amnistia, favorì il commercio estero di alcuni prodotti con una legge presentata inextremis il 4 gennaio³²⁶, propose un provvedimento che sancì l’introduzione della tredicesima ai pensionati³²⁷, e tentò di promuovere una legge sull’edilizia popolare e avviare la riforma della pubblica amministrazione con la legge delega del 4 dicembre. Le cause della fine dell’esecutivo non sono dunque forse da individuare nella politica interna, bensì nella gestione della politica estera. Il pericolo di perdere la presidenza del Consiglio aveva portato una parte della Dc, sostanzialmente riconducibile alla corrente centrista, ad appoggiare il governo ignorandone, o sottovalutandone, la direttrice nazional-atlantica in materia di politica estera. Nel momento in cui tale direttrice si manifestò, il governo Pella, pur ottenendo apprezzamenti da altri partiti politici, si alienò, almeno parzialmente, il sostegno di una parte della Dc che non gli era stata ostile sin dal principio. Mentre la linea dura nei confronti delle rivendicazioni dei dipendenti pubblici ampliò la distanza tra il capo di governo e coloro che ne avevano sempre criticato la politica economica, la gestione della questione triestina scontentò De Gasperi e il comportamento dell’esecutivo in merito alla legge sull’amnistia deluse Scelba. A completare il quadro sopraggiunse poi il tentativo di superare la provvisorietà che aveva permesso al governo di ottenere la fiducia. Ostacolato dalle opposizioni interne ed esterne al partito in merito alla politica economica – opposizioni che non poterono più nemmeno contare sulla certezza della provvisorietà – e dalle forze politiche che un tempo lo avevano sostanzialmente sostenuto, al governo di Pella non rimase che cadere.

Amintore Fanfani
di Vera Capperucci

1. Introduzione

Amintore Fanfani nasce a Pieve Santo Stefano (Arezzo) il 6 febbraio del 1908 e, nel 1930, si laurea con lode all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, discutendo una tesi sugli Effetti economici dello scisma inglese. Nel 1932, grazie a padre Agostino Gemelli, inizia l’attività di professore di storia dei fatti economici, diventando, sette anni più tardi, ordinario di storia economica. Dal 1941 partecipa alle riunioni promosse dalla Cattolica per elaborare un programma di successione dei cattolici al regime fascista. Durante la Seconda guerra mondiale, dopo una prima chiamata alle armi, trova esilio in Svizzera dove proseguirà nell’insegnamento universitario, organizzando anche corsi di formazione per gli esuli. Nel luglio del 1945 rientra in Italia e, su sollecitazione di Pio XII, aderisce alla nascente Democrazia cristiana, divenendo membro del Consiglio nazionale e poi della Direzione. Nel 1946 fonderà, insieme a Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati, l’associazione Civitas humana. Eletto all’Assemblea costituente, entra a far parte della Commissione dei settantacinque e della seconda Sottocommissione. Deputato dal 1948, guida il ministero del Lavoro e della previdenza sociale nel quarto e nel quinto governo De Gasperi, dell’Agricoltura e foreste nel settimo e dell’Interno nell’ottavo governo De Gasperi e nel primo governo Pella. Nel gennaio del 1954 assume per la prima volta l’incarico di presidente del Consiglio e, nel mese di luglio, diventa segretario del partito, fino al febbraio del 1959. Nel luglio del 1958 dà vita al suo secondo ministero, nel quale sarà anche ministro degli Esteri: tornerà alla guida dell’esecutivo per altre quattro volte: nel luglio del 1960, nel febbraio del 1962, nel dicembre del 1982 e, infine, nell’aprile del 1987. Nel marzo del 1965 accetta di entrare nel secondo governo Moro come ministro degli Affari esteri, fino al dicembre del 1965 e poi dal 1966 al 1968. Nel settembre del 1965 viene eletto presidente della XX Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nell’ottobre del 1954 fonda la rivista «Economia e storia» di cui rimarrà direttore fino al 1970. Nominato senatore a vita dal presidente Leone nel 1972, già nel giugno del 1968 assume la carica di presidente del Senato alla quale sarebbe stato confermato nel maggio del 1972, nel luglio del 1976, nel giugno del 1982 e nel luglio del 1985. Dal 1973 al 1975 torna alla segreteria politica della Democrazia cristiana. Ministro dell’Interno nel governo Goria e del Bilancio e della programmazione economica nel governo De Mita dell’aprile 1988, nel giugno del 1992 viene chiamato a presiedere la Commissione affari esteri del Senato. Nel 1994, dopo lo scioglimento della Dc, aderisce al nuovo Partito popolare italiano. Muore a Roma il 20 novembre del 1999.

2. Il primo governo Fanfani

L’esperienza di Amintore Fanfani alla guida dei governi italiani avrebbe, come noto, intersecato diverse stagioni della parabola repubblicana. Una semplice ricognizione cronologica sarebbe da sola sufficiente a definire almeno i contorni di una vicenda complessa che avrebbe accompagnato l’evoluzione della storia politica italiana a cavallo di profonde trasformazioni che avrebbero investito il piano degli assetti e dei caratteri socio-culturali del paese; il piano del sistema politico e partitico; i cambiamenti relativi al sistema delle relazioni internazionali³²⁸.

Rispetto a questi processi, l’arrivo di Fanfani alla presidenza del Consiglio, nel gennaio del 1954, avrebbe assunto una duplice valenza: se da un lato segnava l’avvio di una fase di piena affermazione della sua leadership a livello istituzionale, dall’altra rappresentava il punto di arrivo di un percorso maturato negli anni precedenti nelle file della Democrazia cristiana. Al partito, infatti, Fanfani aveva aderito nel 1945, dopo un lungo periodo trascorso in Svizzera. Divenuto membro del Consiglio nazionale e della Direzione, avrebbe contribuito, nel settembre del 1946, a fondare, insieme a Dossetti, Lazzati e La Pira, l’associazione Civitas humana, atto costitutivo di quel gruppo dei «professorini» destinato a rappresentare la voce di maggiore opposizione alla leadership di Alcide De Gasperi. Una opposizione costruita su presupposti culturali, prima che politici, basata su profonde e solide riflessioni teoriche, culturali e teologiche volta a produrre ricadute rilevanti anche sul piano politico, animando un acceso dibattito nelle file della Dc. Di quelle battaglie, anche dalle colonne del periodico del gruppo, «Cronache sociali», Fanfani sarebbe stato protagonista almeno fino alla crisi del 1950-1951. Quel passaggio avrebbe, infatti, segnato l’avvio del distacco fanfaniano dalla linea dei dossettiani e il progressivo avvicinamento alle posizioni degasperiane. Il ritorno nella compagine ministeriale come ministro dell’Agricoltura nel luglio 1951, come ministro dell’Interno nell’ottavo governo De Gasperi e poi nel primo governo guidato da Giuseppe Pella confermava il piano sul quale avrebbe declinato la futura attività politica. Proprio le dimissioni di quest’ultimo, avvenute a seguito di una crisi di governo rivelatrice delle tensioni interne alla Dc, avrebbero aperto le porte alla nascita del suo primo ministero.

Delle fasi che ne avrebbero preceduto la formazione Fanfani ha lasciato un’ampia e interessante memoria nelle pagine dei suoi Diari. La proposta di rimpasto, avanzata nei primi giorni del mese di gennaio da Pella, appariva a Fanfani come il tentativo di utilizzare la crisi come pretesto per spostare gli equilibri politici, allargando «a destra» la compagine ministeriale³²⁹. Anche la reticenza di Einaudi di fronte al capo dell’esecutivo celava la volontà del presidente della Repubblica di difendere una linea di politica economica basata sul «lasciar fare» che solo il ministero uscente avrebbe potuto garantire. L’emergere di una possibile candidatura di Fanfani giungeva a seguito di una riunione della Direzione nazionale della Dc del 7 gennaio 1954, conclusa con l’approvazione di una risoluzione riguardante la definizione dei punti programmativi per la formazione del nuovo governo³³⁰. L’8 gennaio, la delegazione della Dc, incaricata di condurre le consultazioni per la soluzione della crisi, ufficializzava la designazione di Fanfani³³¹. Il 12 gennaio, dopo aver tentato la soluzione del reincarico, Einaudi avrebbe convocato Fanfani al Quirinale³³². Il 13 gennaio, il presidente incaricato avviava le riunioni per la formazione del suo primo governo. Dall’incontro con i segretari dei partiti e con i capigruppo sarebbero emerse posizioni divergenti tanto rispetto alla composizione della nuova maggioranza, quanto rispetto all’agenda di governo. Per quanto riguarda il primo punto, il tentativo di dare vita a un quadripartito avrebbe incontrato difficoltà difficilmente superabili: se il Pci proponeva la formazione di un governo «delle sinistre», il Psi garantiva l’astensione a condizione di un programma sociale avanzato e dell’esclusione del Psdi. Disponibilità ad appoggiare il nuovo governo veniva, invece, da Alfredo Covelli e Achille Lauro che auspicavano la formazione di una maggioranza a cinque, aperta a repubblicani, socialdemocratici, monarchici e liberali; Cino Macrelli, a nome dei repubblicani, assicurava il voto favorevole ma condizionandolo all’assenza di rappresentanze monarchiche. Su una linea attendista si attestava, invece, Raffaele De Caro a nome dei liberali, mentre l’Msi chiedeva un governo dai tratti fortemente anticomunisti. A favore del monocolore, infine, si schieravano gran parte della Dc, Enrico De Nicola, Enrico Molè, e Luigi Sturzo³³³. A rendere più complessa la formazione del nuovo esecutivo avrebbero poi contribuito le divergenze emerse in merito all’indirizzo politico-programmatico del governo e, soprattutto, le contrapposizioni personali, in gran parte interne alla Dc, rispetto alle designazioni ministeriali³³⁴.

Tra il 16 e il 17 gennaio del 1954 Fanfani ultimava la composizione dell’esecutivo: un monocolore «di minoranza» sul quale provare a raccogliere in Parlamento una maggioranza più larga. La mattina del 18 gennaio Fanfani si recava da Einaudi per firmare i decreti di accettazione e di nomina a presidente del Consiglio, e illustrare la lista dei ministri³³⁵; l’indomani il governo prestava giuramento nelle mani del presidente della Repubblica.

Nei giorni precedenti la presentazione dell’esecutivo alle Camere, seguendo una procedura non del tutto usuale, Fanfani organizzava una serie di riunioni del Consiglio dei ministri per lavorare alla stesura di dodici disegni di legge da presentare ai due rami del Parlamento contestualmente alle dichiarazioni programmatiche del governo. Martedì 26 gennaio, alle 16.00 alla Camera e alle 17.30 al Senato, Fanfani illustrava le comunicazioni del governo³³⁶. Un intervento declinato, sul piano della politica interna, intorno ai temi dell’occupazione, della stabilità economica, dell’assistenza e della giustizia tributaria, dell’aumento degli investimenti statali, della difesa del potere di acquisto della lira, della riduzione del disavanzo come obiettivo per finanziare la spesa sociale, della maggiore attenzione verso l’edilizia popolare, del sostegno all’industria e della tutela delle condizioni della classe lavoratrice. Sul piano della politica estera la direzione muoveva in continuità con la linea seguita dai precedenti esecutivi: solidarietà atlantica, unificazione europea, soluzione della questione di Trieste, coesistenza pacifica con i paesi gravitanti nel blocco orientale. L’annotazione di quella prima giornata nei Diari potrebbe a posteriori apparire un presagio del tono che avrebbe assunto il dibattito nelle aule e del suo stesso epilogo: «Ho l’impressione di un ambiente in genere ostile, e quasi freddo tra i D.C.»³³⁷. Il pomeriggio del 27 gennaio, dopo una breve sospensione dovuta a questioni procedurali, si apriva la discussione sulle comunicazioni del governo. La severità dei toni avrebbero indotto Fanfani a scrivere: «È evidente la manovra generale di far fallire l’esperimento»³³⁸. A negare la fiducia al governo sarebbero state innanzitutto, e come prevedibile, le sinistre. Alle critiche di Pietro Nenni di aver creato un governo illiberale e antidemocratico³³⁹, si aggiungevano quelle di Palmiro Togliatti che accusava la Dc di esercitare un controllo monopolistico sulle istituzioni, dichiarando, al contempo, la disponibilità del Pci a collaborare alla formazione di un governo di pace, di distensione sociale, di rinnovamento delle strutture economiche e politiche del paese³⁴⁰. L’invito a uscire dal limbo dell’autoreferenzialità costituiva l’ossatura del diniego annunciato, a nome dell’Msi, da Giorgio Almirante³⁴¹. Nel far scivolare il primo governo Fanfani lungo il crinale di una imminente sconfitta, avrebbero tuttavia giocato un ruolo determinante i partiti «laici». Fatta eccezione per i repubblicani, che garantivano il proprio sostegno, liberali e socialdemocratici si sarebbero schierati contro la fiducia, non convinti dell’impianto riformista i primi, critici nei confronti di una politica centrista aperta a destra i secondi. La difesa del governo sarebbe stata affidata, tra gli altri, agli interventi di Giuseppe Codacci Pisanelli³⁴², di Benigno Zaccagnini³⁴³, di Paolo Cappa e dello stesso De Gasperi³⁴⁴ che avrebbe accusato le forze di destra e di sinistra di ostacolare il rafforzamento della democrazia, pronunciando un intervento di grande apprezzamento nei confronti del nuovo presidente del Consiglio. Il 30 gennaio del 1954, con 303 voti contrari, 260 favorevoli e 12 astenuti si concludeva la prima esperienza di Fanfani alla guida di un governo della Repubblica. Nelle pagine dei suoi Diari non vi è traccia di commenti o reazioni se non una nota «procedurale»: «Alle 17.30 vado da Einaudi a portare le dimissioni del governo, mi invita a restare in carica per l’ordinaria amministrazione»³⁴⁵. Pochi giorni dopo, quella crisi si sarebbe risolta con la formazione del primo governo Zoli: un esecutivo tripartito, sostenuto dalla Democrazia cristiana, dal Partito liberale e dal Partito socialdemocratico, che avrebbe in qualche modo rappresentato l’inizio di una difficile fase di transizione destinata a investire tanto la struttura del sistema politico, quanto il rapporto tra i partiti e le istituzioni.

3. Il secondo governo Fanfani

Di quel lungo percorso, e delle tensioni che lo avrebbero caratterizzato, l’esperienza del secondo governo Fanfani sarebbe stata forse la sintesi più significativa.

Come accaduto nel 1954, infatti, il ritorno a Palazzo Chigi nel 1958 segnava il punto di arrivo di una serie di processi maturati negli anni precedenti e che avrebbero investito almeno tre piani tra loro sovrapposti. In primo luogo, il piano dei partiti, in particolare della Dc, e della loro collocazione all’interno del sistema; in secondo luogo il piano delle alleanze, anche in relazione al cambiamento degli equilibri internazionali; in terzo luogo, il piano del rapporto con la società civile. Nel corso degli anni Cinquanta, molti dei presupposti su cui si era costruito e consolidato l’impianto repubblicano sembravano destinati a indebolirsi. Il fallimento della riforma elettorale del 1953 e il ritorno al sistema proporzionale, insieme al ricorso sempre più frequente a crisi extraparlamentari, ponevano in termini diversi la questione della commistione tra partiti e istituzioni, inducendo molti osservatori a denunciare, per la prima volta, il rischio di degenerazioni partitocratiche³⁴⁶. Allo stesso tempo, la formula centrista appariva ormai logora e imponeva la ricerca di soluzioni nuove, rese complesse anche dal modificarsi di vincoli interni ed esterni. Se, infatti, l’avvio della destalinizzazione avrebbe aperto le porte a un ipotetico allargamento a sinistra delle maggioranze di governo, i fatti del 1956 in Ungheria e la crisi di Suez dello stesso anno avrebbero rafforzato le resistenze del vasto fronte degli oppositori. A incidere, talvolta come freni, talvolta come acceleratori, su una transizione lunga e difficile da gestire sarebbero state, infine, le trasformazioni della società italiana. L’inizio di una fase di crescita, culminato nell’avvio del boom economico della seconda metà degli anni Cinquanta, avrebbe modificato il tessuto sociale del paese, ponendo i partiti di fronte a una duplice sfida: da un lato governare il cambiamento; dall’altro, conservare, anche rinnovandola, la propria funzione rappresentativa.

Sfide che Fanfani, prima che da presidente del Consiglio, avrebbe affrontato nella nuova veste di segretario politico della Democrazia cristiana, ufficializzata in occasione del Congresso di Napoli del giugno del 1954, costruendo la sua azione politica su tre assi principali. Nella dimensione partitica gli obiettivi principali sarebbero rimasti la difesa dell’unità interna³⁴⁷ e il potenziamento degli apparati, finalizzato tanto alla creazione di un «partito pesante», quanto al rafforzamento del rapporto con lo Stato e le sue istituzioni. Il secondo piano, quello della politica interna, avrebbe rappresentato, per il segretario, la partita più complessa. La definizione dei nuovi equilibri di sistema si sarebbe tradotta nello sforzo di mediare tra istanze di cambiamento e spinte contrarie, sulla base di due presupposti: l’assenza di qualsiasi forma di subalternità ideologica e politica nei confronti del socialismo; la profonda fede nella dottrina sociale della Chiesa. Il problema dell’apertura a sinistra non sarebbe mai stato quello di inchinarsi al socialismo, ma di dare stabilità e autonomia al cristianesimo sociale, scavandone in profondità le radici. Questi punti sarebbero rimasti fermi anche di fronte all’accelerazione che l’incontro tra le due forze politiche avrebbe subito a partire dalla seconda metà del 1957: l’approdo a una nuova formula di governo sarebbe stato subordinato alla definizione di un programma politico, economico e sociale che fosse, innanzitutto, cristiano e democratico. La politica estera rappresentava l’ultimo asse. Anche in questo caso, Fanfani era chiamato a muoversi dentro la cornice delle trasformazioni avvenute a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Forte di un anticomunismo non conservatore, sostenitore dell’importanza del dialogo tra i popoli, avrebbe innovato la strategia internazionale dell’Italia, prestando particolare attenzione alla dimensione economica delle relazioni internazionali³⁴⁸.

La fermezza con la quale Fanfani avrebbe governato queste trasformazioni avrebbe in un certo senso tracciato anche il percorso verso il suo ritorno a Palazzo Chigi nel luglio del 1958. A precedere l’assunzione di quella nuova responsabilità sarebbe stata la tornata di elezioni politiche del 25 e 26 maggio 1958. La linea voluta dal segretario per la campagna elettorale, incentrata sulla formula del «Progresso senza avventure», poneva un freno al dialogo con i socialisti, ancora troppo sensibili al richiamo frontista del Pci³⁴⁹. Il risultato delle urne, che conferiva alla Dc il 42,3% dei consensi, non soltanto confermava il successo della strategia di mobilitazione messa in atto dal leader democristiano, ma rappresentava un segnale indicativo della validità di una proposta costruita intorno al tema della difesa della democrazia.

Le trattative per la formazione del nuovo governo avrebbero, tuttavia, rivelato tensioni tanto nelle file della Dc, quanto nel rapporto con i partiti laici. Anche in questo caso ne restano importanti testimonianze nelle pagine dei Diari di Fanfani. Il primo problema da affrontare riguardava la formula di governo. Sarebbe stato Fanfani stesso a scartare l’ipotesi di un ritorno al quadripartito: l’atteggiamento ostile dei liberali di Giovanni Malagodi suggeriva di tentare direttamente un governo con socialdemocratici e repubblicani. Alle opposizioni mosse da una parte della Dc, favorevole all’inclusione del Pli nella compagine di governo, si sarebbero aggiunte quella della Santa Sede che, attraverso Enrico Mattei, rendeva nota la propria preferenza per un monocolore democristiano presieduto da Tambroni, e quelle del presidente Gronchi, favorevole a un governo sostenuto da Dc e Psdi, guidato dallo stesso Fanfani³⁵⁰. L’approvazione da parte del Comitato centrale del Psdi, svoltosi il 20 giugno del 1958, della partecipazione alla maggioranza di governo, definiva con maggiore precisione il percorso verso l’alleanza bipartitica. Il 25 giugno Fanfani avrebbe ricevuto da Gronchi l’incarico, accettato con riserva³⁵¹. Dal giorno successivo sarebbero iniziate le riunioni per la definizione della nuova compagine governativa. Se i colloqui con i repubblicani si sarebbero conclusi con una dichiarazione di astensione e quelli della Dc con un non semplice tentativo di mediazione rispetto all’assegnazione dei dicasteri, gli incontri più tesi sarebbero stati con i presidenti dei gruppi parlamentari delle sinistre che Fanfani avrebbe commentato con toni non equivocabili: «Terracini e Pajetta erano preoccupati di sapere se la D.C. frenerà i comunisti con un colpo di testa. Non ho risposto. Quando han detto che la D.C. ha 12 milioni di voti perchè è al Governo. Ho risposto che è meno brava dei comunisti che essendo al Governo in Russia hanno il 100%»³⁵². Il 28 giugno, gli organi direttivi della Dc e del Psdi ratificavano l’accordo di governo. Definita la lista dei ministri, la sera del 1° luglio Fanfani si recava da Gronchi per sciogliere la riserva e firmare i decreti di nomina; il giorno successivo si svolgeva la cerimonia di giuramento³⁵³. Tra il 3 e il 5 luglio il Consiglio dei ministri avrebbe lavorato al programma presentato poi alle Camere il 9 luglio. Tre grandi temi definivano l’impegno del governo: la politica interna e la difesa delle libertà; la politica estera, costruita sulla difesa e sulla pace; la politica economica, ispirata allo sviluppo e a una più equa distribuzione della ricchezza. Sul primo punto, Fanfani avrebbe ribadito l’impegno a perseguire qualsiasi iniziativa volta a mettere in pericolo la democrazia e gli ordinamenti statuali; sul piano della politica estera venivano confermati l’atlantismo e l’integrazione europea, assicurando che l’Italia avrebbe svolto un ruolo attivo nel dirimere i conflitti e favorire accordi di disarmo controllato. Sull’ultimo punto, la politica economica, annunciava nuove forme di intervento pubblico finalizzate a sostenere i redditi e l’occupazione per correggere eventuali disfunzioni dell’iniziativa privata e illustrava una serie di azioni concrete tese a incentivare lo sviluppo del Mezzogiorno, a migliorare il sistema scolastico, a perfezionare lo strumento dei contratti collettivi di lavoro, a predisporre l’attuazione dell’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione³⁵⁴. Il 10 luglio si apriva al Senato la discussione per la fiducia mentre alla Camera il dibattito si sarebbe protratto dal 15 al 19. Fatta eccezione per la Dc e il Psdi, Fanfani raccoglieva le dichiarazioni polemiche di un fronte di opposizione piuttosto vasto. Se missini e monarchici motivavano la propria contrarietà sulla base di una evidente svolta a sinistra, comunisti e socialisti accusavano Fanfani di aver compiuto un’operazione di segno esattamente opposto. Contro il governo, ma in nome di un ritorno al centrismo, si schieravano tanto i liberali quanto Sturzo che criticava il carattere minoritario della coalizione, mettendo sotto accusa l’orientamento eccessivamente statalista del programma esposto da Fanfani³⁵⁵. Critiche venivano avanzate anche da alcuni esponenti della Dc: in particolare Mario Scelba, Giuseppe Pella e Francesco Dominedò denunciavano la debolezza del riferimento all’anticomunismo e condannavano un eccessivo dirigismo nell’impostazione delle linee di politica economica. La difesa veniva affidata all’allora vicesegretario della Dc, Mariano Rumor, al nuovo presidente della Cisl, Bruno Storti, e a Giuseppe Saragat³⁵⁶. Al termine della seduta il governo otteneva la fiducia con 295 voti a favore, 287 contrari, 10 astenuti e 4 assenti. Una maggioranza dai margini esigui che avrebbe indotto Fanfani a commentare: «In votazione normale quindi il Governo teoricamente può contare su 305 voti contro 291. In pratica... ci saranno i franchi tiratori, che hanno mandato Scelba e Pella in avanscoperta»³⁵⁷.

Le maggiori difficoltà per l’esecutivo sarebbero venute, tuttavia, non tanto dall’incertezza numerica del consenso parlamentare, quanto piuttosto dai franchi tiratori, che si sarebbero palesati innanzitutto sull’indirizzo di politica estera. In effetti, soprattutto a partire dalla seconda metà del 1958, in qualità di ministro degli Esteri oltre che di presidente del Consiglio, Fanfani avrebbe lavorato per affermare il paese come mediatore delle crisi esterne. Dalla questione delle ex colonie a un nuovo attivismo nelle aree mediorientali, che non poche tensioni avrebbe provocato con i governi di Londra e Parigi, fino alla visita al Cairo nel gennaio del 1959, Fanfani si sarebbe mosso mantenendo ferma la fedeltà all’alleanza atlantica e all’integrazione europea, non senza tuttavia provare a dare alla politica estera italiana una impronta di maggiore autonomia. Proprio questa autonomia avrebbe contribuito ad alimentare la polemica verso la sua presidenza, sia da destra sia da sinistra. Infine, un protagonismo ritenuto eccessivo, volto a imporre una leadership personalistica non più compatibile con un partito «condominio» avrebbe, almeno momentaneamente, eroso le basi su cui si era costruito e consolidato il suo consenso³⁵⁸. Il montare delle opposizioni avrebbe così reso difficile il pieno dispiegarsi dell’azione di governo. In questa direzione segnali chiari sarebbero venuti dalla riunione del Consiglio nazionale della Dc del 15-18 novembre 1958, quando le opposizioni, e una parte rilevante della stessa Iniziativa democratica, avrebbero criticato la gestione autoritaria del partito, il sistema di alleanze e il nuovo corso della politica estera³⁵⁹. La rottura, tuttavia, era destinata a consumarsi proprio sul terreno istituzionale. Il 29 ottobre, nella votazione alla Camera sul bilancio degli Esteri, Fanfani riceveva il primo segnale di una maggioranza sempre meno coesa. Il 7 dicembre del 1958, in occasione del dibattito sul mantenimento di un’imposta addizionale sulla benzina, il governo otteneva 294 voti a favore, 286 contrari. Pochi giorni più tardi, l’11 dicembre, nel voto sul decreto relativo alla disciplina dei mercati, il gioco dei franchi tiratori si ripeteva finché, il 22 gennaio 1959, la mozione presentata dalla maggioranza sul caso Giuffrè, il «banchiere di Dio», passava con lo scarto di un solo voto: 279 contro 278. L’esito della votazione era dipeso, secondo Fanfani, da «dodici franchi tiratori nostri e socialdemocratici»³⁶⁰. Lo svolgimento dei Congressi dei partiti laici e soprattutto il dibattito interno al Psdi sul possibile ritorno all’unità socialista, avrebbero di fatto decretato la fine del secondo governo Fanfani. La possibilità di rafforzare l’esecutivo allargando la maggioranza al Pri veniva esclusa dai risultati del Congresso repubblicano che ribadivano la linea della non collaborazione. Dello stesso avviso il Pli che, compatto sulla posizione di Malagodi, restava all’opposizione. In assenza di alternative percorribili, il 26 gennaio 1959 Fanfani rassegnava le dimissioni. Cinque giorni più tardi, il 31, con una lettera indirizzata al presidente del Consiglio nazionale della Dc, Adone Zoli, e al vicesegretario Rumor, annunciava anche la rinuncia alla segreteria politica. Nel chiarire le ragioni di quella scelta, Fanfani avrebbe insistito sulle responsabilità del partito e sull’impegno sempre profuso in difesa dell’unità della Dc: impegno che gli richiedeva anche quell’ultimo sacrificio³⁶¹. Era ormai evidente, infatti, che quell’unità rispondesse a logiche diverse che il Consiglio nazionale della Domus Mariae avrebbe chiarito: Iniziativa democratica, la corrente che lo aveva sostenuto e con la quale aveva lavorato negli anni da segretario, aveva cambiato volto. Quell’assise, come noto, si chiudeva con l’elezione alla segreteria politica di Aldo Moro che Fanfani avrebbe commentato con una annotazione nei suoi Diari: «Al pomeriggio il C.N. elegge la nuova direzione, accanto a Moro eletto ieri notte nuovo segretario. Continuano le ovazioni di elogio a mio riguardo: lagrime di coccodrillo»³⁶².

4. Il terzo governo Fanfani

Le dimissioni del governo avrebbero aperto le porte alla formazione, nel febbraio del 1959, del secondo governo Segni, un monocolore democristiano garantito da una maggioranza debole indicativa tanto della difficoltà di approdare a una soluzione definitiva sul piano delle nuove alleanze, quanto della difficoltà di ricondurre all’unità una Democrazia cristiana lacerata dalle divisioni interne. Se lo sfaldamento della grande corrente di Iniziativa democratica aveva finito per inasprire la contrapposizione tra destra e sinistra, la costituzione del grande gruppo dei dorotei assegnava proprio a Moro la responsabilità di portare il partito e il paese fuori dal guado. Di questo processo Fanfani non sarebbe rimasto un semplice spettatore. La decisione, maturata già nella primavera del 1959, di dare vita a una propria corrente, Nuove cronache, confermava l’intenzione di proseguire nella battaglia politica³⁶³. I mesi che avrebbero preceduto lo svolgimento del Congresso nazionale della Dc dell’ottobre del 1959 sarebbero stati segnati dal montare di una polemica interna, di cui Fanfani sarebbe stato protagonista. Polemica che, tuttavia, nell’intervento di replica all’ampia relazione presentata da Moro in quell’assise, Fanfani avrebbe smorzato, almeno nei toni, preannunciando in qualche misura l’avvio di quella convergenza verso i dorotei che lo avrebbe poi portato a dare vita, nel luglio del 1960, al suo terzo ministero³⁶⁴. Il senso di quella scelta lo avrebbe chiarito Fanfani stesso: «Chi sospetta gli esponenti di ‘Nuove Cronache’, o li critica ingiustamente o li ingiuria non è amico della D.C. e non vuole la sua unità; anche se sorride alla D.C., plaude all’on. Moro e lagrima su supposte incrinature dell’unità democristiana»³⁶⁵. Gli esiti di quell’assise avrebbero determinato le sorti del governo Segni: la maggioranza di destra che lo reggeva si sarebbe definitivamente incrinata, grazie soprattutto alla posizione dei liberali di Malagodi. Il fallimento del reincarico tentato da Gronchi, finalizzato a dare vita a un governo tripartito con repubblicani e socialdemocratici, avrebbe aperto le porte alla nascita del governo Tambroni destinato ad assumere un duplice significato: da un lato mostrare il definitivo tramonto del centrismo; dall’altro fornire ai sostenitori dell’apertura a sinistra l’occasione di ritenere quella formula ormai necessaria e non più procrastinabile. Non gradito da ampi settori della Dc e appoggiato dai voti dell’Msi, il governo avrebbe innescato nel paese una serie di tensioni dirette a creare allarme sulla tenuta dell’assetto democratico del paese. Il dibattito che si apriva tra il mese di giugno e il mese di luglio, tanto nelle aule parlamentari quanto nelle Segreterie dei partiti, evidenziava i toni drammatici della crisi.

Il 13 luglio la Direzione della Dc approvava la relazione di Moro che ufficializzava la rottura con Tambroni. Tra il 14 e il 15 luglio sarebbero, dunque, iniziate le trattative per la formazione di un governo aperto a Psdi, Pri e Pli, affidato proprio a Fanfani. Dopo una iniziale reticenza dei liberali, il 16 luglio Moro annunciava la nascita delle «convergenze democratiche»: accordi bilaterali per la costituzione di un monocolore di «solidarietà democratica», destinato a dimettersi qualora anche uno solo dei partiti della maggioranza si fosse ritirato³⁶⁶. Il 22 luglio Fanfani riceveva da Gronchi l’incarico per la formazione del governo e, il 27 luglio, la cerimonia di giuramento ufficializzava la nascita del suo terzo ministero³⁶⁷. In qualche modo, proprio sulla tanto contestata leadership di Fanfani non soltanto tornava a compattarsi il partito, ma si costruivano le premesse per la definizione dei nuovi equilibri del sistema. Il 2 agosto Fanfani si presentava al Parlamento. Punti fondamentali del programma erano la difesa della libertà e degli ordinamenti dello Stato, una politica estera basata sulla sicurezza e sulla pace, la collaborazione e l’apertura verso i paesi del Mediterraneo, il sostegno al Mezzogiorno, l’investimento in politiche di sicurezza sociale, la modifica della legge elettorale provinciale in vista delle imminenti elezioni amministrative. Il nuovo governo si muoveva, dunque, all’interno di un perimetro ben delineato: una maggioranza qualificata, costruita sul rifiuto di qualsiasi deriva estremista, sul completamento delle riforme nel settore nucleare, dei monopoli, dei referendum, della scuola e della ricerca, dell’ambiente, dell’attuazione delle Regioni, di politiche edilizie e degli affitti, di politiche organiche di sviluppo economico³⁶⁸. Il dibattito in Senato si concludeva il 3 agosto: il governo otteneva la fiducia con 126 voti a favore, con il voto contrario dei comunisti e dei missini e con l’astensione dei monarchici e dei socialisti. Nonostante le titubanze, per la prima volta dal 1947, il Psi passava dall’opposizione all’appoggio esterno³⁶⁹, garantendo a Fanfani una maggioranza «notevole, la più grande dopo il 1948»³⁷⁰. Il 4 agosto il dibattito si apriva alla Camera, con un andamento simile a quello emerso in Senato. A favore del governo intervenivano Moro, Saragat, Malagodi e Reale. Motivando l’astensione, Nenni sottolineava l’importanza di favorire, con la tregua, il ritorno a condizioni di legalità, da attuarsi attraverso il dialogo di tutte le forze democratiche di centro-sinistra; Lauro, a nome del Pdi, confermava la scelta di valutare il governo sulla base dell’attuazione del programma. Spettava a Togliatti il compito di illustrare le ragioni dell’opposizione comunista. Pur apprezzando lo sforzo compiuto per uscire dalla crisi e porre fine all’involuzione autoritaria e antidemocratica del sistema, riteneva che la formula centrista, il radicale riferimento all’anticomunismo e le linee di politica estera fossero elementi sufficienti a giustificare la posizione contraria del Pci. Pino Romualdi, invece, annunciava la sfiducia dell’Msi. Nel discorso di replica il presidente del Consiglio esprimeva l’auspicio che l’astensione potesse essere il primo passo verso un progressivo allargamento dell’area democratica. Il 5 agosto la Camera votava la fiducia con 310 voti a favore, 156 contrari e 96 astenuti³⁷¹.

Nel corso dei mesi in cui sarebbe rimasto in carica, il terzo governo Fanfani, che lo stesso Moro avrebbe non a caso battezzato con la celebre formula delle convergenze democratiche, si sarebbe trovato a gestire l’ultima fase di quella trasformazione del sistema che poi avrebbe condotto al definitivo approdo al centro-sinistra organico. Una fase segnata da cambiamenti che avrebbero investito in particolar modo il sistema delle alleanze interne e internazionali. Il versante della politica estera avrebbe, forse, rappresentato la sfida più complessa per Fanfani e, in particolare, per il ministro degli Esteri, Segni³⁷². I fronti più sensibili avrebbero riguardato quattro questioni: il problema altoatesino, il rapporto con gli Stati Uniti, l’apertura di spazi di dialogo nel rapporto tra Est e Ovest, il rafforzamento dell’integrazione europea. Era proprio il rapporto con l’Austria, e il tentativo di portare il tema sudtirolese in ambito internazionale, a indurre il governo sin dalla sua costituzione a lavorare per consolidare la posizione dell’Italia e a cercare il sostegno necessario alla difesa degli accordi De Gasperi-Gruber. Sebbene una soluzione definitiva sarebbe stata trovata solo dieci anni più tardi, quella crisi aveva offerto l’opportunità di rafforzare il legame con parte dei paesi dell’America Latina, dei continenti afroasiatici e, soprattutto, con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. L’elezione di John Kennedy alla presidenza degli Stati Uniti nel novembre del 1960 annunciava infatti una svolta nella politica estera statunitense destinata a incidere, oltre che sulle relazioni economiche, anche sul dialogo tra democristiani e socialisti. Se le visite di rappresentanti dell’Amministrazione americana apparivano emblematiche dell’interessamento verso l’evoluzione politica italiana, il viaggio di Fanfani e Segni negli Stati Uniti del giugno del 1961 consentiva al governo di affrontare il tema dell’allargamento a sinistra. Il rapporto con la Gran Bretagna intersecava, invece, la questione dell’allargamento del Mercato comune: l’ingresso di Londra avrebbe dato all’Italia la possibilità di rafforzare i rapporti con il mondo anglosassone e, soprattutto, di costruire un contrappeso all’asse franco-tedesco e alle volontà egemoniche manifestate dal presidente Charles de Gaulle. L’ultimo teatro nel quale il governo si sarebbe mosso, con esiti evidentemente deludenti, sarebbe stato quello del dialogo tra Mosca e l’Occidente. Se il viaggio dell’agosto del 1961 di Fanfani e Segni nella capitale sovietica e la rigidità mostrata da Chrušëv mostravano i limiti di una prospettiva di distensione, l’avvio pochi giorni più tardi della costruzione del muro di Berlino ne segnava il definitivo tramonto, contribuendo a condizionare il rapporto con le forze della sinistra italiana. I segnali che provenivano dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica sembravano, dunque, tracciare in maniera ancora più netta il percorso verso la ricerca di un rapporto più organico tra Dc e Psi. Su questo piano, la formula delle astensioni e l’impegno programmatico di Fanfani nell’ambito della politica economica apparivano segnali di un forte impulso riformista che lo stesso Psi avrebbe potuto apprezzare. Tra il 1960 e il 1962 il governo avrebbe, dunque, lavorato all’attuazione di un modello di economia misto, attraverso piani di intervento in diversi settori ritenuti nevralgici: tra gli altri, la mediazione tra sindacati e imprenditori sulla questione dei salari e sul riconoscimento della parità retributiva tra uomini e donne; l’approvazione del Piano verde; il ribasso dei prezzi su alcuni beni di prima necessità; la disciplina delle locazioni di immobili urbani; l’introduzione di benefici di carriera per il personale statale; l’approvazione del piano autostradale; la previsione di incentivi allo sviluppo delle zone depresse e del comparto agricolo; l’istituzione di assicurazioni volontarie di invalidità e vecchiaia a favore delle casalinghe. Programmazione, interventismo, riformismo costituivano, dunque, indirizzi che avrebbero potuto favorire l’auspicato passaggio del Psi da posizioni astensioniste a un pieno coinvolgimento nelle maggioranze di governo.

Proprio la costruzione degli equilibri più avanzati avrebbe rappresentato l’ultimo grande nodo con cui il governo avrebbe dovuto fare i conti, segnando nei fatti il passaggio senza soluzione di continuità alla nascita del quarto esecutivo guidato da Fanfani.

5. Dal terzo al quarto governo Fanfani

In effetti nel biennio compreso tra il 1960 e il 1962, nonostante alcuni freni, tra cui la manifesta opposizione del «Pentagono vaticano» nei confronti di qualsiasi forma di apertura a sinistra, sarebbero maturate le condizioni che avrebbero favorito l’approdo a quella formula. A cominciare dalle elezioni amministrative del novembre del 1960: se l’esito di quella tornata induceva la Dc a rafforzare i toni della polemica anticomunista, la riflessione in casa socialista si concludeva con la vittoria della linea autonomista, premessa alla formazione delle «giunte difficili» che avrebbe anticipato l’evoluzione degli equilibri sul piano nazionale, creando qualche problema anche alla stabilità del terzo governo Fanfani³⁷³. Linea che veniva confermata in occasione dal XXXIV Congresso del Psi, svolto a Milano nel marzo del 1961. Dal canto suo la Dc affrontava la questione degli equilibri politici nel corso dei lavori del Consiglio nazionale del 20-22 febbraio 1961. Nel suo intervento Fanfani richiamava il partito a vigilare sull’effettiva svolta democratica del Psi e sosteneva con forza l’efficacia dell’operato del governo³⁷⁴, in quel momento messa in discussione dalle polemiche sollevate dai liberali di Malagodi³⁷⁵. Un importante segnale di consenso verso la costruzione dei nuovi equilibri sarebbe venuto dall’incontro tra Fanfani e Giovanni XXIII l’11 aprile del 1961. La linea del nuovo pontificato, esplicitata nella formula del «Tevere più largo» e poi ufficializzata sul piano dottrinale nell’enciclica Mater et Magistra del maggio del 1961, allentava i vincoli della possibile evoluzione del quadro politico italiano³⁷⁶, agevolando anche una nuova riflessione sul rapporto tra fede e politica e tra fede e progresso. Sarebbero stati questi, non a caso, i temi al centro dei lavori del primo Congresso di San Pellegrino, organizzato nel settembre del 1961, che avrebbero dato alla Dc un’ulteriore sponda per risolvere in maniera definitiva il nodo del centro-sinistra. L’occasione sarebbe arrivata nel gennaio del 1962, durante l’VIII Congresso del partito. Nella sua lunga relazione Moro avrebbe ribadito gli assi del suo disegno politico. Difesa dell’unità e della centralità della Dc, primato del ruolo dei partiti nel sistema, chiusura nei confronti del comunismo definivano la cornice del futuro centro-sinistra. Nel suo intervento Fanfani conveniva con Moro sull’opportunità di mettere alla prova il Psi, con la riserva di valutare l’effettivo distacco dal Pci³⁷⁷. Il Congresso si chiudeva con l’approvazione, a larghissima maggioranza, della lista Linea Moro-Fanfani, che avrebbe ottenuto anche i voti della corrente di Base e dei sindacalisti. Il documento auspicava la formazione di una nuova maggioranza Dc-Psdi-Pri alla quale il Psi potesse garantire un appoggio diretto o indiretto³⁷⁸. Era, infine, la posizione assunta da socialdemocratici e repubblicani in aula ad aprire le porte alla crisi del terzo governo Fanfani e segnare il passaggio verso la formazione del suo quarto ministero.

Il 17 gennaio, infatti, alla Camera, nel corso della discussione sulle conclusioni dei lavori della Commissione d’inchiesta sulla costruzione dell’aeroporto di Fiumicino, il Pci presentava una mozione contro il governo. Nella votazione del 20 gennaio Fanfani otteneva i voti favorevoli della Dc e del Pli, quelli contrari delle opposizioni e l’astensione del Psdi e del Pri. Pochi giorni più tardi, Saragat avrebbe dichiarato che, in attesa della chiarificazione attesa dal Congresso della Dc, socialdemocratici e repubblicani avrebbero considerato conclusa la loro partecipazione al governo³⁷⁹. Su questi presupposti, il 2 febbraio, Fanfani si recava al Quirinale per rassegnare le dimissioni³⁸⁰. Il 10 febbraio riceveva da Gronchi il mandato per la costituzione del governo e il 12 si aprivano le trattative per il varo della nuova formula politica. Tra il 17 e il 18 febbraio i partiti della nuova maggioranza approvavano una prima bozza di accordo programmatico, il 19 febbraio veniva ufficializzata anche la posizione del Psi: il Comitato centrale, pur non esplicitando il tipo di appoggio che avrebbe dato all’esecutivo, manifestava apprezzamento per il programma economico e sociale di Fanfani, ritenendolo conforme agli obiettivi dei socialisti³⁸¹. Il 21 Fanfani si recava, dunque, al Quirinale per sciogliere la riserva e decretare la nascita del suo quarto ministero³⁸². Il 2 marzo, in un colloquio personale, Nenni comunicava a Fanfani la decisione del Psi di schierarsi a favore dell’astensione, non potendo spingere il partito oltre quel limite³⁸³.

Nel pomeriggio del 2 marzo, Fanfani, prima alla Camera poi al Senato, illustrava il programma. Obiettivi prioritari erano il perfezionamento dell’organizzazione dello Stato, l’estensione dell’obbligo scolastico, il sostegno allo sviluppo programmato dell’economia, il mantenimento dell’equilibrio del bilancio e della stabilità della moneta. Altre misure avrebbero riguardato investimenti nel comparto agricolo, nella previdenza sociale, nel lavoro, nella sanità, nell’edilizia e nel fisco. Gli ultimi due temi su cui Fanfani interveniva investivano la questione del riassetto dell’industria elettrica, che aveva costituito uno dei punti di maggiore attrito durante le trattative per la formazione del governo, e l’ordinamento regionale. In tema di politica estera, il governo si sarebbe mosso in continuità con l’indirizzo precedente: fedeltà all’Alleanza atlantica, integrazione europea, pace, dialogo verso i popoli di nuova indipendenza e meno sviluppati. Al rapporto con il Psi Fanfani riservava la parte conclusiva del suo intervento: il coinvolgimento del Psi andava letto nella prospettiva di un rafforzamento delle basi democratiche dello Stato e nell’esigenza di garantire un più ampio margine di successo allo sforzo di modernizzazione del paese³⁸⁴. Alla Camera il dibattito sulle comunicazioni del governo si sarebbe protratto per tutta la settimana successiva. A favore si schieravano la Dc, il Psdi e il Pri. Contro, i liberali di Malagodi, i missini, i monarchici e il Pci, che con Togliatti avrebbe rivolto critiche al riformismo fanfaniano e alle scelte strategiche dei socialisti. Sarebbe spettato, infine, a Nenni chiarire le ragioni dell’astensione: se la mancanza di un accordo totale impediva il pieno appoggio al governo, l’apprezzamento per il programma di riforme induceva a garantire di volta in volta una collaborazione leale e fattiva. Il 10 marzo il governo otteneva 295 voti favorevoli (Dc, Psdi, Pri e tre indipendenti), 195 voti contrari (comunisti liberali, missini e monarchici), 83 astenuti (socialisti e altoatesini)³⁸⁵. Il dibattito al Senato si sarebbe aperto due giorni dopo, riproducendo le stesse linee di demarcazione emerse durante i lavori della Camera: il 15 marzo Fanfani otteneva la fiducia con 122 voti favorevoli e 68 contrari³⁸⁶.

Sin dalla fase costitutiva l’esecutivo si sarebbe dovuto confrontare con due grandi questioni: da un lato con la capacità e la forza di attuare concretamente il disegno riformatore; dall’altro, con l’esigenza di bilanciare la svolta a sinistra con le pulsioni che muovevano nella direzione contraria. Mediazione che si sarebbe resa necessaria soprattutto nella definizione dell’indirizzo riformista del governo, destinato a un percorso segnato da momenti di accelerazioni e brusche frenate in gran parte determinate dalle diverse interpretazioni che le forze di governo avrebbero dato del riformismo. Nonostante le difficoltà, all’attuazione delle riforme Fanfani avrebbe certamente dato, dai primi mesi del 1963, un forte impulso. Impostato con La Malfa l’iter della programmazione, il governo avrebbe innanzitutto provveduto alla creazione di due Commissioni, una per la riforma della pubblica amministrazione, un’altra per la riforma tributaria, e all’istituzione di una Commissione nazionale per la programmazione economica (Cnpe), incaricata di definire i piani di sviluppo. Tra il mese di maggio e quello di luglio del 1962 venivano presentati alle Camere provvedimenti che riguardavano la nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’istituzione della Regione a statuto speciale Venezia Giulia, la scuola media unica e lo stralcio di riforma dell’istruzione pubblica, l’imposta cedolare secca sui titoli azionari. Se, dopo un lungo dibattito, l’entrata in vigore il 1° gennaio del 1963 della legge sulla nazionalizzazione segnava un successo nell’impegno riformista del governo, nella stessa direzione andava anche l’approvazione del provvedimento legislativo sulla cedolare d’acconto. Su altri temi, quali il settore agricolo, quello urbanistico, quello della distribuzione e quello dell’ampliamento dei servizi sociali (sanità, scuola, casa e previdenza), come anche in quello del decentramento e dell’ammodernamento delle strutture dello Stato l’azione del governo non sarebbe stata altrettanto efficace ma avrebbe, tuttavia, mostrato un certo sforzo innovativo. Nonostante la difficoltà di approvare una riforma organica della scuola, Fanfani sarebbe riuscito a istituire la scuola media unica e a potenziare le risorse destinate all’università. A favore della casa, poi, veniva approvata, nell’aprile del 1962, la legge n. 167, che favoriva l’acquisizione di aree destinate all’edilizia economica e popolare, accompagnata da un tentativo di pianificazione urbanistica alla quale avrebbe lavorato il ministero per i Lavori pubblici. Per quanto riguarda il settore agricolo, il governo si sarebbe mosso nella direzione di una più piena attuazione delle misure previste nel primo Piano verde del 1961, senza tuttavia riuscire a intervenire sul nodo dei patti agrari. Forti resistenze, in special modo da parte della Dc, sarebbero state avanzate sulle riforme istituzionali, in particolare sulla parte relativa all’attuazione delle Regioni, determinando un irrigidimento delle posizioni dei socialisti, favorevoli a quella riforma³⁸⁷.

L’altro fronte che avrebbe visto impegnato il governo sarebbe stato quello della politica estera. Nel giugno del 1962 la visita del segretario di Stato, Dean Rusk, a Roma offriva a Fanfani, che aveva nei mesi precedenti tenuto l’interim degli Esteri in attesa della nomina del successore di Segni, l’opportunità di rinsaldare il legame tra l’Italia e gli Stati Uniti e confermare l’impegno a favore dell’ingresso della Gran Bretagna nel Mec. Nella seconda metà del 1962 l’evoluzione del quadro internazionale avrebbe, tuttavia, reso più arduo il tentativo del governo di sviluppare un’azione autonoma e di salvaguardia degli interessi italiani. Se l’aggravarsi dei rapporti tra i blocchi, culminata nella crisi di Cuba, rendeva più fragile la legittimazione su cui poggiava la nuova maggioranza, gli accordi di Nassau del dicembre del 1962, e il rafforzamento dell’asse tra Parigi e Bonn, riducevano i margini di manovra per l’Italia. Il veto posto da de Gaulle il 14 gennaio del 1963 all’ingresso della Gran Bretagna nel Mec e il Trattato dell’Eliseo il 22 gennaio di quello stesso anno apparivano segnali di un’egemonia sempre più forte di Francia e Germania sul continente europeo. In questa cornice, tra il 15 e il 19 gennaio 1963, Fanfani si recava a Washington per discutere con il presidente Kennedy le questioni relative alla politica degli armamenti, all’evoluzione del processo di integrazione europea, alle aperture verso i paesi del Terzo mondo, al dialogo tra i due blocchi e, soprattutto, alla situazione politica interna dell’Italia. Non a caso, proprio all’inizio del 1963 sarebbero venuti al pettine molti dei nodi sui quali il governo delle astensioni era nato e che avrebbero poi portato, nel giugno del 1963, alla crisi del quarto governo Fanfani³⁸⁸.

Segnali di un’evoluzione del quadro delle alleanze erano emersi già in occasione di un Consiglio nazionale della Dc dei primi di luglio del 1962 che si chiudeva con l’approvazione di una mozione che confermava la presenza di una forte opposizione interna nei confronti delle scelte di Moro e di Fanfani. Toccava a Piccoli, in un’intervista alla stampa nel mese di settembre, sostenere a nome dei dorotei l’esigenza di concepire il centro-sinistra più come un insieme di obiettivi politici che non come un piano di «cose da fare»³⁸⁹. Ai freni evidentemente avanzati da settori sempre più consistenti della Dc, avrebbero fatto da contraltare le conclusioni del Comitato centrale del Psi dell’ottobre del 1962 che invitavano il partito di maggioranza a uscire dalle ambiguità e attuare il passaggio al centro-sinistra organico. L’irrigidimento delle posizioni dei dorotei diventava evidente negli ultimi mesi dell’anno: ne dava conferma lo stesso Fanfani che, nei Diari, annotava di pressioni crescenti su Moro per rallentare la spinta riformista del governo ed evitare un eccessivo vantaggio del Psi ai danni della Dc. Il dibattito in seno al Consiglio nazionale del partito del 10-12 novembre palesava il nuovo posizionamento delle correnti: se i fanfaniani si schieravano a favore dell’approdo verso il centro-sinistra organico, i dorotei motivavano un certo scetticismo sulla maturità democratica del Psi³⁹⁰. Nel corso dei lavori anche Moro sembrava convergere su quest’ultima linea.

In questo quadro, i risultati delle elezioni del 28 e 29 aprile 1963, disattendendo le aspettative della vigilia, non avrebbero dato un’indicazione favorevole al centro-sinistra, almeno nella versione sperimentata fino a quel momento. La Dc, infatti, registrava una marcata contrazione dei consensi, mentre il Psi restava stabile ma su percentuali che non consentivano di spingere il piede sull’acceleratore. Le opposizioni, invece, uscivano rafforzate. Nel dibattito che si apriva nella Dc subito dopo il voto, Fanfani si diceva convinto che le maggiori perdite si fossero registrate dove il partito si era presentato con il suo volto di destra e che il voto stesso rappresentasse un chiaro segnale verso la formazione di un governo coraggiosamente programmatico. A favore della necessità di proseguire verso il centro-sinistra si dichiaravano sia Nenni sia Saragat che, tuttavia, insisteva sull’urgenza di contrastare in maniera più efficace il comunismo e creare maggiore consenso intorno al nuovo indirizzo politico³⁹¹: in questa prospettiva, il 9 maggio, la Direzione del Psdi approvava una risoluzione che auspicava la formazione di un tripartito con appoggio esterno del Psi. Il 16 maggio, in un clima sempre più teso soprattutto all’interno della Dc, Fanfani si recava da Segni per rassegnare le dimissioni del governo, annunciando alla stampa che esse costituivano un atto dovuto a seguito delle elezioni e che il governo sarebbe rimasto in carica per l’amministrazione ordinaria³⁹². Il giorno seguente nel Consiglio nazionale della Dc Moro avrebbe riconosciuto la sconfitta del 28 aprile, attribuito agli elettori più moderati la responsabilità di uno spostamento dei consensi verso le destre e riaffermato l’esigenza primaria dell’unità e della centralità della Dc e il suo impegno per l’allargamento e il consolidamento delle basi democratiche dello Stato. Di quella giornata Fanfani avrebbe conservato questa annotazione: «[Moro] Finisce piangendo. Lo abbraccio per consolarlo. Però mi pare esageri a non vedere gli aspetti positivi del 28 aprile. [...] se questa è la diagnosi, bisogna trarne la conclusione e cioè non mutare e non cedere, ma perfezionare e procedere rafforzando, sottraendo definitivamente Psi al frontismo, i giovani al comunismo e al neo fascismo»³⁹³. Valutazioni che avrebbe scelto di non condividere con il partito, nell’attesa di una «maturità maggiore». In effetti, rispetto alla questione delle alleanze, il Consiglio si chiudeva senza una soluzione definitiva che, tuttavia, permetteva al partito di convergere su una posizione attendista. Nei mesi che avrebbero preceduto il varo del primo centro-sinistra organico, presieduto da Moro nel dicembre del 1963, Fanfani avrebbe continuato a rivendicare la necessità che la Dc si riappropriasse di un’azione riformatrice autonoma: nell’attuazione dei programmi, piuttosto che nella definizione delle formule, stava la chiave per evitare che la Dc subisse un eccessivo condizionamento da parte degli alleati.

6. Il quinto e il sesto governo Fanfani

Tra le crisi di governo del maggio 1963 e il ritorno alla presidenza del Consiglio sarebbero intercorsi vent’anni, segnati da profonde trasformazioni che avrebbero investito tanto il piano degli equilibri politici interni, quanto il sistema delle relazioni internazionali. Il passaggio dal centro-sinistra organico alla crisi della solidarietà nazionale, intervallato dal ritorno a formule neocentriste dell’inizio degli anni Settanta, si sarebbe tradotto, all’inizio degli anni Ottanta, nella ricerca di nuove soluzioni alla questione della governabilità, in risposta alle sfide che avevano minacciato la tenuta dell’assetto democratico. Al contempo, l’avvio di una nuova fase del processo di integrazione europea, scandita da una «seconda guerra fredda», dalla crisi del bipolarismo e dalla contemporanea affermazione di svolte neoliberiste e socialdemocratiche, avrebbe creato in quel decennio le condizioni per la ricerca di un ruolo diverso dell’Italia nel contesto internazionale, sempre declinato nel quadro dell’Alleanza atlantica, ma orientato a rilanciarne le capacità di mediazione soprattutto nelle aree mediterranee e mediorientali. Nelle fasi che avrebbero preceduto quel «lungo decennio» Fanfani avrebbe proseguito la propria attività politica, all’interno della Democrazia cristiana e delle istituzioni. Nella stagione morotea dei governi di centro-sinistra, nonostante un non velato scetticismo nei confronti del carattere formulista di quella alleanza, aveva ricoperto la carica di ministro degli Esteri, arrivando, nell’autunno del 1965, a essere designato presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Senatore dal 1968 e dal 1972 presidente di quell’Assemblea, nel 1973 sarebbe tornato alla segreteria politica della Democrazia cristiana gestendo una delle fasi più travagliate della vita del partito e del paese. La sconfitta nel referendum sul divorzio del 1974, le tensioni legate a un quadro politico segnato dall’emergere degli opposti estremismi, la ricerca di nuove maggioranze di governo e, infine, l’esito fallimentare della tornata elettorale del 1975 avrebbero decretato la conclusione della sua seconda esperienza alla guida del partito. Nella costruzione del difficile dialogo con il Pci si sarebbe schierato su posizioni fermamente anticomuniste, criticando l’approdo al «compromesso storico» tanto nella versione berlingueriana, quanto nell’accezione che quella formula avrebbe avuto nella più generale riflessione di Moro sulla «terza fase»³⁹⁴. Dai banchi della presidenza del Senato, alla quale era tornato nel 1976, Fanfani avrebbe infine assistito alla tragica uccisione del presidente della Dc, appoggiando poi la definitiva conclusione della stagione della solidarietà nazionale, ufficializzata nel Congresso del «preambolo» della Dc del febbraio del 1980.

Le sfide che segnavano l’avvio del nuovo decennio avrebbero fatto, dunque, da cornice alla sua quinta esperienza alla guida del governo. Un decennio contraddistinto, soprattutto sul piano politico, dall’iniziale erosione di molti dei presupposti sui cui l’impianto repubblicano si era costruito e consolidato e che i partiti avrebbero provato a gestire, con strategie ed esiti diversi, nella comune consapevolezza dell’urgenza di accompagnare e governare quel mutamento. Sul versante strettamente partitico, il nuovo protagonismo socialista incarnato nella linea politica di Bettino Craxi, il diverso posizionamento del Partito comunista, i primi segnali della crisi della centralità democristiana si traducevano nella formazione di governi deboli e nel rilancio delle riforme istituzionali come correttivo per attuare il passaggio a un modello di democrazia governante. La competizione che si apriva tra democristiani e socialisti per guidare la nuova stabilizzazione si inseriva, poi, in un quadro marcato dagli effetti della crisi economica, dai nuovi vincoli posti dall’adesione allo Sme e da un allentamento dei legami con una società sempre più secolarizzata e globalizzata. Rispetto a questo quadro, le ragioni che avrebbero portato, nel novembre del 1982, alle dimissioni del governo Spadolini apparivano rivelatrici di una tensione crescente, maturata nei mesi precedenti e accelerata soprattutto dalla volontà del segretario socialista di non accettare posizioni di subalternità alla Dc e dall’ipotesi di arrivare a uno scioglimento anticipato della legislatura. L’insuccesso del tentativo del presidente Pertini di rifiutare le dimissioni, rinviando Spadolini al Parlamento, avrebbe aperto le porte per il ritorno di Fanfani a Palazzo Chigi. Il 16 novembre, infatti, riceveva l’incarico di formare il nuovo governo. Dopo un giro di consultazioni per valutare quale formula politica avrebbe potuto ottenere il sostegno della maggioranza parlamentare, e a fronte del diniego del Partito repubblicano, il 1° dicembre il presidente del Consiglio ufficializzava la nascita del suo quinto esecutivo: un quadripartito retto sull’alleanza Dc-Psi-Psdi-Pli³⁹⁵. Tra il 10 e l’11 dicembre il programma veniva presentato al Senato e alla Camera per la fiducia. Se nel delineare l’indirizzo di politica estera, Fanfani ribadiva l’esigenza di rafforzare la solidarietà occidentale, di riprendere il dialogo con i paesi dell’Est, di rilanciare interventi a favore del disarmo, sul versante interno Fanfani insisteva sulla difesa dell’ordine democratico, sulla lotta alla criminalità organizzata e alle centrali occulte del potere e sulla ripresa del dibattito sulle riforme istituzionali. Nella parte centrale del suo intervento affrontava i punti più specifici delle misure economiche: risanamento della spesa pubblica, investimenti nel campo dell’energia, delle telecomunicazioni, dell’edilizia abitativa, delle infrastrutture costituivano presupposti non più eludibili per contenere le crescenti tensioni sociali e garantire la sopravvivenza del sistema³⁹⁶. Una strategia di «concretezza» che non avrebbe mancato, come prevedibile, di sollevare le voci polemiche delle opposizioni. Nella discussione che si apriva prima al Senato e poi alla Camera sulle dichiarazioni del governo, i comunisti accusavano Fanfani di aver dato vita a un ministero repressivo nei confronti del movimento operaio e sindacale, affatto innovativo sul piano delle riforme, mentre i missini si dichiaravano contrari a un governo «dai giorni contati», che non aveva composto i dissidi tra i partiti emersi in occasione della crisi del governo Spadolini e che presentava, come unico elemento di novità, il ritorno della Dc alla guida del governo³⁹⁷. Nonostante le tensioni, e grazie soprattutto alla posizione di Craxi, che pur non escludendo il ricorso alla fine anticipata della legislatura sottolineava come «scappare di fronte alle difficoltà non è una buona politica»³⁹⁸, il governo otteneva la fiducia: al Senato, con 176 voti a favore e 116 contrari; alla Camera, con 349 contro 244.

Le difficoltà che Fanfani si sarebbe trovato ad affrontare nei mesi seguenti apparivano rivelatrici tanto della precarietà delle basi su cui l’esecutivo era nato, quanto dei forti condizionamenti che le diverse posizioni dei partiti avrebbero esercitato sulla tenuta della maggioranza³⁹⁹. Ai problemi, subito emersi, relativi alla gestione dell’ordine pubblico e alle misure da adottare sul piano finanziario, si sarebbero sommate le reticenze, mai sopite e rese sempre più manifeste da parte del segretario De Mita, a considerare i partiti laici, e in particolare il Psi, un polo credibilmente alternativo alla Dc e al Pci: linea sostenuta anche da Berlinguer in occasione del Congresso del Pci del marzo del 1983. Di contro, la richiesta, avanzata dal Psi, di fissare lo svolgimento delle elezioni politiche per la primavera di quello stesso anno, approfittando di una tornata di amministrative già programmata, segnava il percorso nel quale il quinto governo Fanfani appariva ormai inserito. Del resto i segnali della crisi sarebbero emersi proprio nello scontro che si apriva tra democristiani e socialisti in vista delle elezioni anticipate. L’accelerazione della fine della legislatura, resa esplicita dal Psi nel mese di aprile, avrebbe suscitato la ferma opposizione tanto della Dc quanto del Psdi e del Pli. Alla politica delle «mani libere» dei socialisti, intenzionati a conquistare la guida dei governi dopo le consultazioni elettorali, gli alleati rispondevano subordinando le elezioni anticipate alla definizione di un accordo pre-elettorale mirato a presentare agli elettori una proposta di governo comune per la legislatura successiva. Di fronte a una tensione non più controllabile, neppure dalla paziente opera di mediazione delle Segreterie dei partiti, d’intesa con il presidente della Repubblica, Fanfani avrebbe deciso di parlamentarizzare la crisi, costringendo soprattutto il Psi ad assumersi in maniera esplicita la responsabilità della rottura. Il 30 aprile il Consiglio dei ministri approvava le dimissioni dell’esecutivo e, dopo un tentativo affidato da Pertini all’allora presidente del Senato, Tommaso Morlino, per verificare l’assenza di margini per la definizione di una maggioranza parlamentare, il 4 maggio del 1983 veniva dichiarato lo scioglimento delle Camere. I risultati delle elezioni del 26 giugno del 1983 avrebbero condotto il sistema verso la prima sperimentazione di un pentapartito a guida socialista: il primo governo Craxi, rimasto in carica dall’agosto del 1983 all’agosto del 1986, e il secondo, fino all’aprile del 1987.

Proprio la crisi del 1987 avrebbe segnato il passaggio verso l’ultimo impegno di Fanfani alla guida dei governi italiani. In un clima caratterizzato in maniera sempre più evidente dai dissidi tra i due principali partiti della maggioranza e dal logoramento progressivo dei principi e dei vincoli su cui si era legittimato il sistema repubblicano, Fanfani veniva nuovamente chiamato a traghettare il paese verso la fine anticipata della legislatura. D’altronde le ragioni che avevano indotto Craxi a rassegnare le dimissioni del suo secondo ministero rivelavano una rottura della maggioranza ormai difficilmente sanabile mentre il fallimento del tentativo del presidente Cossiga di affidare prima ad Andreotti poi a Nilde Iotti un mandato esplorativo, rinviando poi Craxi alle Camere, chiudeva all’ipotesi di favorire una nuova tregua istituzionale. Nelle consultazioni avviate per approdare a una soluzione della crisi, la questione della formazione di un nuovo governo si sarebbe sovrapposta al dibattito circa l’opportunità di dare vita a un esecutivo ad hoc o lasciare che fosse il governo uscente, lacerato da divisioni ormai evidenti, a gestire la fase pre-elettorale⁴⁰⁰. Dopo circa un mese e mezzo, e la rinuncia di Oscar Luigi Scalfaro, il 15 aprile 1987 Cossiga affidava proprio a Fanfani l’incarico di dare vita al nuovo gabinetto per gestire le elezioni; tre giorni dopo il presidente incaricato prestava giuramento nelle mani del presidente della Repubblica⁴⁰¹. Il carattere peculiare del nuovo esecutivo, soprattutto rispetto allo scopo, induceva Fanfani da un lato a edulcorare il più possibile il colore politico del governo, dall’altro a presentare comunque un programma. Per quanto riguarda il primo aspetto, la configurazione che assumeva il governo rivelava la presenza di almeno tre componenti: quella istituzionale, rappresentata proprio da Fanfani, chiamato a presiedere l’esecutivo in virtù della funzione di presidente del Senato e non di leader della Dc, marcando un’evidente discontinuità con l’esperienza politica precedente; la componente tecnica, rappresentata dai nove ministri esperti subentrati ai ministri dei partiti laici presenti nel secondo governo Craxi⁴⁰²; infine, la componente politica, garantita dalla riconferma dei ministri democristiani facenti parte del governo uscente⁴⁰³. Per quanto riguarda le linee programmatiche, Fanfani le esponeva alle Camere il 20 aprile, consegnando al Senato il testo del discorso. Nella relazione il presidente del Consiglio mediava tra l’eccezionalità del contesto nel quale il governo si apprestava a nascere e la necessità di conferire allo stesso un profilo pienamente costituzionale. Il governo era nato allo scopo di condurre il paese fuori dallo stallo politico e istituzionale, creando le condizioni per assicurare la necessaria continuità parlamentare e amministrativa dello Stato. I piani di intervento più urgenti riguardavano gli impegni finanziari e di programmazione economica, l’appuntamento referendario, la preparazione del vertice economico che si sarebbe svolto a Venezia nel mese di giugno. Sul tema della politica estera, Fanfani tornava sulla questione del ruolo dell’Italia nel dialogo tra Est e Ovest, sulla sicurezza, sul rafforzamento europeo in materia economica e sociale⁴⁰⁴. Al di là del merito dei singoli temi trattati, che restavano piuttosto generici e che non avrebbero sollevato un particolare dibattito nelle aule, particolarmente significativa era, invece, la polemica che nasceva sulla conclusione dell’intervento del presidente del Consiglio: Fanfani, infatti, non si rivolgeva al Parlamento chiedendo la fiducia, ma dichiarando di «attendere lo svolgimento e le conclusioni del presente dibattito»⁴⁰⁵. Ai molti interventi, volti a sottolineare come Fanfani con quella scelta si fosse collocato fuori dal dettato costituzionale, il presidente replicava con la piena rispondenza a quando disposto dall’articolo 94 della Costituzione e con la convinzione che la presentazione delle numerose risoluzioni parlamentari dimostrasse la difficoltà di approdare a un testo condiviso sul quale, eventualmente, votare la fiducia: l’eterogeneità dei documenti avrebbe portato a «tante sminuzzate fiducie diversamente qualificabili»⁴⁰⁶. Su questi presupposti, il 28 aprile del 1987, alla Camera, il governo otteneva 121 voti favorevoli, 240 contrari e 193 astenuti. Dopo aver consultato i presidenti della Camera e del Senato e il presidente del Consiglio dimissionario, Cossiga procedeva, così, allo scioglimento delle Camere.

Mario Scelba
di Guido Formigoni

1. Da giovane militante popolare a ministro di Polizia

Mario Scelba nacque il 5 settembre 1901⁴⁰⁷. Giovanissimo nella crisi del primo dopoguerra, ebbe modo di fare le prime esperienze politiche importanti proprio in quel delicatissimo frangente. Divenne adulto sotto il fascismo e si affacciò quindi quarantenne al secondo dopoguerra, già con un certo rilevante bagaglio politico.

L’ombra di don Luigi Sturzo fu per lui molto rilevante. Figlio di una famiglia della piccolissima borghesia agricola locale della stessa Caltagirone, con risorse limitate anche se non indigente, Scelba ebbe un percorso formativo agevolato dalla militanza cattolica (compì i primi studi in seminario).

La prima svolta fondamentale della sua vita fu nel 1919: si trasferì giovanissimo a Roma per lavorare alle dipendenze del sacerdote siciliano, eletto segretario nazionale del neonato Partito popolare italiano, mentre studiava all’università. Nel 1921 divenne segretario personale di Sturzo, fino all’esilio cui il prete calatino fu costretto nel 1923. Tale consuetudine personale costituì quindi un notevole apprendistato politico. Laureatosi in legge e conseguito il titolo di avvocato, ebbe occasione di iniziare anche una militanza politica attiva, proprio negli ultimissimi anni di libertà del partito. Restò quindi legato a un manipolo di amici di queste prime battaglie, da Giuseppe Spataro ad Alcide De Gasperi. Ripresi i contatti e la militanza negli anni della guerra, divenne non a caso vicesegretario della neocostituita Democrazia cristiana. Restava molto legato alla memoria popolare, con i principi del liberismo e del regionalismo ben in vista. Con gli accordi ciellenistici, Scelba entrò al governo: fu ministro delle Poste e telecomunicazioni con Ferruccio Parri nel giugno del 1945 e poi con De Gasperi alla fine dell’anno.

La sua vicenda biografica ebbe una nuova importante svolta con la nomina a ministro dell’Interno nel terzo governo De Gasperi del febbraio 1947: l’ultimo tripartito ciellenistico. La scelta – inizialmente piuttosto contrastata all’interno della stessa Dc⁴⁰⁸ – si rivelò presto importante. Dopo la piccola crisi iniziale sul trattato di pace (Scelba si dimise in segno di protesta, ancora in accordo con Sturzo, e De Gasperi lo convinse faticosamente a recedere)⁴⁰⁹, la successiva crisi di maggio 1947 e la rottura del patto ciellenistico con le sinistre cambiarono l’orizzonte.

La collaborazione di Scelba con De Gasperi in quella carica cruciale doveva durare ininterrottamente fino al 1953. Era un ruolo delicato, esposto, e altamente contestato dalle proteste della sinistra contro la durezza della polizia, in cui erano sopravvissuti parecchi dirigenti dell’epoca fascista, mentre la raffazzonata iniziale immissione in ruolo di partigiani era stata bloccata. Già nell’epoca del ministro socialista Giuseppe Romita si era intrapreso un riequilibrio conservatore. L’indubbio consolidamento delle misure di sicurezza, continuato da Scelba, andò assieme alla copertura politica fornita dal ministro verso comportamenti rigidi della polizia negli scontri di piazza, tanto che si registrarono numerose vittime. Si è riflessa anche nella storiografia un’interpretazione di questo irrigidimento come frutto di una cultura politica che andava oltre la «minaccia comunista», interpretando ogni forma di protesta e dissenso, basata su motivi di classe, come un sovversivismo inaccettabile⁴¹⁰. Studi recenti hanno però messo in luce che tutto il dibattito sulla «difesa della democrazia» e sulla «democrazia protetta» fu giocato con l’attenzione di De Gasperi (e di Scelba alla sua ombra) a non condurre a fondo lo scontro. Non si voleva far uscire il delicato equilibrio che si stava realizzando, con le sinistre all’opposizione, fuori dai binari di una «guerra civile fredda». Era un confronto sospettoso e tesissimo, certo, quanto tuttavia molto al di qua di una possibile degenerazione violenta dello scontro: la cosa non era affatto scontata⁴¹¹. Sia nell’aspro confronto elettorale del 18 aprile, sia in occasione dell’attentato a Togliatti del luglio successivo, il potenziale «partito della guerra civile» fu ancora controllato.

Dopo lo scoppio della guerra di Corea del giugno del 1950 il ministro dell’Interno tenne posizioni durissime in pubblico: affermò a un raduno di giovani cattolici che la Costituzione «non [poteva] diventare la trappola per la libertà del popolo italiano»⁴¹². In Consiglio dei ministri, però, Scelba si esprimeva nel frattempo su linee legalitarie e costituzionali, appoggiato da altre figure di austeri conservatori come Attilio Piccioni e Guido Gonella, mentre il ministro della Difesa, il repubblicano Randolfo Pacciardi mostrava più di una durezza semplificatoria⁴¹³. Nell’ottica scelbiana, la radicalizzazione pubblica dei toni sembrava uno strumento utile soprattutto a fini di immagine, mirato a premere sugli avversari minacciando scenari drammatici, oltre che a rassicurare gli alleati statunitensi e le componenti interne più timorose dell’amalgama del 18 aprile. Le misure drastiche previste dai progetti di legge presentati in Parlamento (legge sulla difesa civile, legge polivalente, misure sul diritto di sciopero e il sabotaggio) avrebbero dovuto scattare solo in caso di emergenza. E inoltre, molti di questi provvedimenti alla fine non vennero nemmeno approvati definitivamente dal Parlamento e rimasero quindi a costituire una sorta di «effetto annuncio». Venne completato l’iter della legge applicativa della XII disposizione transitoria della Costituzione sul divieto di ricostituire il partito fascista, forse anche come minaccia ulteriore a tutti i partiti «non democratici»; disse Scelba che «lasciar fare il neo-fascismo significava non andare a fondo a sinistra»⁴¹⁴.

Non si può però trascurare che in varie occasioni di disordini di piazza, più o meno politici, ci furono morti e feriti, soprattutto tra 1949 e 1950 (Melissa, Modena). Scelba ha lasciato scritto nelle sue memorie di aver convocato i responsabili dell’ordine pubblico dopo quelle vicende drammatiche e di averli istruiti sui limiti da seguire in regime democratico, oltre a chiedere procedure più severe per autorizzare l’uso delle armi da fuoco⁴¹⁵.

Mise anche il suo nome sul progetto di riforma della legge elettorale in senso maggioritario, che avrebbe dovuto essere il culmine della «democrazia protetta». Il progetto venne da lui presentato in Parlamento con un riferimento esplicito alla Guerra fredda⁴¹⁶. Dopo una durissima battaglia parlamentare, come è noto, le elezioni del 7 giugno, però, videro fallire l’apparentamento dei partiti centristi nell’ottenere il 50% più uno dei voti alla Camera, quorum del premio di maggioranza. La Dc iniziava a trovarsi in serie difficoltà. De Gasperi consumò la sua leadership nell’inutile tentativo di presentarsi ancora in Parlamento, dove il suo ultimo governo non passò. I giovani di Iniziativa democratica gli chiesero di cambiare il titolare dell’Interno, e Scelba si trovò oggetto di una certa presa di distanza generalizzata nel partito, mentre De Gasperi lo premeva inutilmente perché accettasse un altro incarico⁴¹⁷. Ottenne quindi una risicata fiducia un governo «amministrativo» senza accordi politici, guidato da Giuseppe Pella, politico democristiano con profilo da tecnico, da lungo tempo legato al presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Scelba ne rimase fuori, in posizione molto critica. Votarono la fiducia liberali e monarchici, mentre si astennero i socialdemocratici. Il governo, prendendo una posizione dura sulla questione di Trieste, sembrò evolversi verso una possibile maggioranza di destra nazionalista, ma De Gasperi dalla nuova posizione di segretario della Dc e la gran parte del partito erano molto lontani dall’avvalorare questa ipotesi.

2. La nascita del governo Scelba e i suoi esordi

Pella cadde alla fine nel gennaio 1954 su questioni partitiche interne, prospettando un rimpasto di governo, mal tollerato nella Dc. De Gasperi segnò una presa di distanza fatale, definendo l’esecutivo un «governo amico». Un tentativo di governo monocolore di Amintore Fanfani, senza maggioranza precostituita, fallì in Parlamento, non ottenendo la fiducia. De Gasperi guidò quindi un ultimo tentativo di ricostituire l’accordo quadripartito centrista, premendo sugli alleati con lo spauracchio di un governo di destra Democrazia cristiana-Partito liberale italiano-Partito nazionale monarchico, nonostante non si trattasse di una formula molto amata nel partito⁴¹⁸. Del resto, restavano molte incertezze nella Dc: Giulio Andreotti, Giuseppe Pella e Giuseppe Togni sarebbero stati più che favorevoli a una maggioranza di destra con i monarchici. Si parlò addirittura di una possibile scissione⁴¹⁹. La Dc ottenne alla fine un accordo promettendo un adeguato numero di dicasteri ai partiti laici, cosa che piacque ancor meno ai giovani emergenti nel partito. Giuseppe Saragat premette per un incarico a Giovanni Gronchi, o per un ritorno di De Gasperi, ma quest’ultimo rifiutò e dell’operazione si incaricò proprio Scelba, che riuscì a varare il governo il 10 febbraio del 1954⁴²⁰.

L’accordo programmatico era stato definito con il lavoro di una commissione interpartitica, che lo pubblicò il 5 febbraio. Si fissarono sedici punti, tra cui l’impegno alla ratifica del trattato della Comunità europea di difesa, sospesa dal 1952; lo sviluppo della politica di integrazione europea; «una giusta soluzione del problema del territorio libero di Trieste»; una politica economica e sociale per l’occupazione e per il «migliore tenore di vita» delle classi lavoratrici e dei giovani; la tutela del risparmio e del potere d’acquisto della moneta; la riduzione del disavanzo e l’equilibrio della bilancia commerciale e dei pagamenti; l’aumento della produzione; lo sviluppo di opere pubbliche e in particolare dell’edilizia scolastica; «l’adempimento delle leggi di riforma agraria»; la riforma della burocrazia, della previdenza e dell’assistenza sociale; una legge sindacale; la Commissione sulla disoccupazione e la miseria; la riforma della legge elettorale, ritornando indietro dall’episodio maggioritario⁴²¹.

Rispetto alla composizione, Saragat ottenne la vicepresidenza, mentre i socialdemocratici aggiunsero anche ministeri di peso come le Finanze (Roberto Tremelloni), i Lavori pubblici (Romita) e il Lavoro (Ezio Vigorelli): anche nella divisione dei sottosegretari, Saragat chiese posti al Partito socialista democratico italiano nei settori economici⁴²². Ai liberali andò l’Industria con Bruno Villabruna e soprattutto la Pubblica istruzione con Gaetano Martino (ceduta dalla Dc non senza remore). I repubblicani non entrarono direttamente, e questo non fu un buon segnale per l’esecutivo, anche se garantirono di votare la fiducia. Nella squadra democristiana, Scelba mantenne per sé l’Interno (sostituendo Andreotti), mentre alcuni ministri furono confermati nei ruoli indicati da Fanfani all’inizio dell’anno (Piccioni agli Esteri, Ezio Vanoni al Bilancio, Gennaro Cassiani alle Poste e telecomunicazioni, Giuseppe Medici all’Agricoltura e foreste, Michele De Pietro alla Giustizia) e alcuni altri in quelli risalenti al governo Pella (Paolo Emilio Taviani alla Difesa, Silvio Gava al Tesoro, Bernardo Mattarella ai Trasporti). Nuovo il ruolo di Mario Martinelli al Commercio estero (unico vicino a Iniziativa democratica). A Pietro Campilli fu confermato il ruolo di coordinamento della Cassa per il Mezzogiorno e degli investimenti relativi. Oscar Luigi Scalfaro assunse il ruolo di sottosegretario alla presidenza.

L’11 febbraio si tenne la prima riunione del Consiglio dei ministri. Scelba disse: «Trae quindi lieto auspicio – per l’arduo lavoro cui si va incontro – dal fatto che il governo si riunisca per la prima volta nell’anniversario della Conciliazione tra Chiesa e Stato»⁴²³. Il presidente del Consiglio presentò poi il 16 febbraio ai colleghi le dichiarazioni programmatiche. Saragat sottolineò che una «energica politica sociale» doveva condurre ad allargare il consenso all’area democratica, mentre Martino chiese di fare «opera di recupero alla democrazia delle masse orientate verso destra». Non ci furono impuntature su particolari punti programmatici. Fu Tambroni a sottolineare ulteriormente che occorreva chiarezza sulla capacità dello Stato di difendere i cittadini dal «pericolo comunista». Sulla politica estera, risaltava in diversi interventi la preoccupazione di evitare l’accusa di «rinunciatarismo» sulle questioni del confine orientale⁴²⁴.

Presentandosi in Parlamento il 18 febbraio, Scelba polemizzò fortemente con le «forze totalitarie», rivendicando l’alleanza centrista come orizzonte della democrazia: «Come la divisione delle forze democratiche crea le condizioni più favorevoli per l’avanzata delle forze totalitarie, così l’unità ne costituisce l’elemento indispensabile di sicurezza e di forza»⁴²⁵. Precisò peraltro che non si trattava di un perimetro chiuso, con un blando cenno alla distinzione dell’elettorato socialista dai comunisti, che però si era persa per la linea miope del partito di Nenni. La seduta parlamentare fu tesa e polemica, con molteplici interruzioni e incidenti. Il 26 febbraio, comunque, egli ottenne la fiducia del Senato con 123 voti favorevoli e 110 contrari; il 10 marzo quella della Camera con 300 voti favorevoli e 283 contrari⁴²⁶. I giorni di dibattito furono funestati da un morto in piazza a Milano e quattro a Mussomeli (Caltanissetta).

Scelba non aveva remore a fornire un’immagine di sé piuttosto sbrigativa e decisionista, al limite dello sprezzo verso le opposizioni. L’8 maggio vietò ai giornalisti dell’«Unità» e dell’«Avanti» di entrare nelle sedi del Viminale, per ritorsione alla pubblicazione sull’«Unità» del telegramma di solidarietà che egli aveva inviato al presidente francese Joseph Laniel dopo la sconfitta di Dien Bien Phu, che segnava la fine della guerra francese di Indocina.

I primi mesi dell’attività di governo conobbero alcune fibrillazioni, collegate soprattutto alla complessa situazione del dibattito in casa democristiana. De Gasperi aveva ottenuto il ritorno al centrismo, ma il partito vedeva rumoreggiare la destra interna. Inoltre, si stava assestando la figura di Fanfani come erede designato (il Congresso di Napoli a fine giugno vide l’anziano leader trentino riconoscergli questo passaggio di consegne) e quindi l’emergere della corrente di Iniziativa democratica come perno del partito. Tale innovazione però doveva scuotere molte posizioni dell’antico gruppo dirigente, per cui il governo non doveva navigare in acque troppo tranquille.

3. Innovazioni e progetti

Scelba istituzionalizzò riunioni di un gabinetto ristretto composto da un ministro per ognuno dei partiti della coalizione (Piccioni, Saragat e Martino, qualche volta Eugenio Reale). Riunendosi alla sera in segreto quest’organismo – secondo i ricordi del presidente – facilitò l’intesa su alcuni progetti di legge controversi⁴²⁷.

Il governò insediò poi rapidamente una Commissione, presieduta da Sturzo, per la riforma della pubblica amministrazione (con Ernesto Rossi, Giovanni Malagodi, Adone Zoli), costituita con d.p.c.m. del 16 marzo 1954, «per l’applicazione delle direttive parlamentari in materia di gestioni fuori bilancio, di cumulo delle cariche e di incarichi ai funzionari statali». La Commissione aveva l’obiettivo di fissare regole per la buona amministrazione degli enti e per il controllo parlamentare del nuovo personale. Tale Commissione lavorò con zelo, ma a quanto sembra senza grandi esiti. Vennero però rapidamente introdotti almeno alcuni provvedimenti popolari di semplificazione amministrativa. Ci sono degli appunti piuttosto dettagliati allegati al verbale della riunione di Consiglio, in cui si considerava la possibilità di migliorare la pubblicità degli atti, di snellire le procedure per i pagamenti della pubblica amministrazione, di favorire la «speditezza» dell’attività rispetto a controlli, firme e incroci tra uffici (recuperando progetti dei precedenti governi De Gasperi)⁴²⁸.

Venne rafforzato l’ufficio legislativo della presidenza del Consiglio, per formulare meglio le leggi. Scelba disse di volersi avvalere in questo senso dell’aiuto del guardasigilli: a suo parere la qualità tecnica e la coerenza interna della produzione legislativa erano di per sé garanzie di risparmio di tempo e impegno⁴²⁹. Seguendo i verbali del Consiglio dei ministri si deve rilevare un ruolo sempre molto attivo del presidente nel sollecitare i ministri su alcuni provvedimenti importanti e anche nel gestire le divergenze e nel chiudere le controversie proponendo formule di mediazione, spesso funzionali.

Tra i primi provvedimenti del governo, ci fu un’ondata di piccole misure per il sostegno alla cultura (che colpiscono, ricordando come Scelba nel 1949 avesse sprezzantemente definito «culturame» il ruolo degli intellettuali): un premio alla cultura dotato di 50 milioni di lire, premi per giovani artisti, provvidenze per la diffusione della cultura italiana all’estero, integrazioni alla Cassa di previdenza per autori, scrittori e musicisti. Fu finanziata anche la missione del Consiglio nazionale delle ricerche per il Karakorum (che avrebbe condotto alla vicenda della prima ascensione occidentale del K2)⁴³⁰.

Il 5 maggio ci fu una discussione piuttosto rivelativa sulle possibili misure contro la disoccupazione. Scelba insistette sulla necessità di interventi straordinari, ma Gava obiettò con una puntigliosa descrizione della situazione delle entrate e delle uscite che i margini di manovra erano limitatissimi, se non inesistenti. Tremelloni disse che c’erano margini di aumento della pressione fiscale sulle imposte dirette, ma molto limitati sulle indirette, auspicando piuttosto prestiti sia interni sia internazionali. Alcune proposte di Vigorelli furono alla fine rinviate, su pressione soprattutto di Martino. Tutti i ministri con competenze di portafoglio riferirono nelle successive riunioni su possibili progetti già in corso (o nuovi) destinati ad aumentare l’occupazione, e Scelba alla fine tirò le somme costituendo un comitato di ministri per decidere le priorità delle spese da compiere rapidamente⁴³¹. Uno dei punti importanti fu l’approvazione di un piano per la costruzione di strade e autostrade⁴³².

Una delle grosse questioni che affaccendò il governo era la legge delega sulla questione dello statuto del pubblico impiego e delle connesse retribuzioni degli statali, terreno piuttosto minato per via dei vari conflitti aperti e per un iter lungo e complesso. In luglio ci fu ad esempio uno sciopero proclamato dai sindacati «democratici» nell’amministrazione delle dogane, che fece tornare il Consiglio a dibattiti aspri sulla necessità di limitare lo sciopero nei servizi pubblici⁴³³. In novembre il governo discusse a lungo sull’ipotesi deprecata di dover istituire nuove tasse per coprire le richieste sindacali⁴³⁴. Lo scontro con la Cisl era allora ai vertici. Si trovò una mediazione solo a fine anno, ma si dovette ancora discutere molto in Consiglio per individuare i provvedimenti fiscali con cui coprire l’aumento delle spese per il contratto degli statali⁴³⁵.

Nel mentre, si integrava disorganicamente e per piccole aggiunte un sistema di welfare che raggiungeva nuove categorie, con nuove spese: il governo appoggiò la legge di iniziativa parlamentare per estendere l’assicurazione di malattia ai coltivatori diretti, secondando la forte pressione della Coldiretti di Paolo Bonomi⁴³⁶.

4. La questione comunista tra Roma e Washington

Il governo Scelba fu comunque molto contrassegnato dalla questione comunista, sia per la caratterizzazione politica dell’ex «ministro di polizia», sia per il livello raggiunto dalle relazioni con gli Stati Uniti a questo proposito. Si erano intensificate le pressioni sull’Italia da parte di Washington, a seguito di una certa disillusione degli entusiasmi sull’operazione di political warfare del 1948. Eisenhower era infatti convinto che «di tutti i paesi in cui ci siamo opposti al comunismo, noi abbiamo avuto meno successo in Italia che in qualsiasi altro»⁴³⁷. Il nuovo documento NSC 5411/2 sosteneva che il governo statunitense avrebbe appoggiato la coalizione di centro, ma aggiungeva, in modo piuttosto evocativo: «Anche un governo autoritario di destra sarebbe stato molto meno pericoloso di un regime comunista». La parte solo recentemente declassificata del documento teneva assieme una serie di classici assiomi «riformisti» delle precedenti amministrazioni ad altri che risentivano di nuovi orientamenti rigidi e «battaglieri» (chiedere al governo misure per «colpire le basi organizzative del potere comunista», continuare le «operazioni coperte»). Ipotizzava infine interventi estesi all’uso della forza militare, nel caso in cui il Pci avesse assunto il controllo dell’Italia con mezzi «apparentemente legali», o addirittura nel caso in cui il governo italiano «cessasse di mostrare determinazione di opporsi alle minacce comuniste interne o esterne»⁴³⁸.

La linea seguita in proposito da Scelba fu piuttosto articolata. Da una parte, egli fece una certa resistenza alle pressioni statunitensi per radicalizzare la lotta anticomunista, che arrivava fino ai consigli serrati di mettere fuori legge il partito stesso. Abbiamo documentazione di discussioni aspre con Clare Boothe Luce, cui il capo del governo italiano chiedeva di rispettare gli spazi di autonomia del paese nel decidere le modalità della lotta anticomunista. Il 3 marzo egli ricevette l’ambasciatrice e le disse: «Il comunismo in Italia è affare che riguarda in primo luogo l’Italia. Se altri, come l’America, se ne interessa e preoccupa, ciò è per motivi politici o economici. Noi italiani [...] conosciamo il problema meglio di chi che sia, e meglio che chi che sia possiamo apprezzarlo nelle giuste proporzioni e stabilire il modo migliore per fronteggiarlo»⁴³⁹.

Dall’altra parte, egli manifestò pubblicamente l’intenzione di assumere una linea molto più rigida, promuovendo misure legislative e amministrative ricalcate sulle proposte americane, annacquate però in seguito operativamente. Già il 18 marzo si discussero in Consiglio dei ministri le prime misure amministrative da prendere. Martinelli chiese di «affidare tutto il controllo del commercio di importazione con i paesi dell’Est europeo a un organismo idoneo» (dato che si presumeva che il Pci lucrasse intermediazioni sul monopolio sostanziale, gestito fino ad allora, di questi traffici). Il Consiglio soppesò peraltro rischi e benefici di tale stretta, dato che occorreva evitare il rischio di ridurre gli scambi, quando tutti gli altri paesi li stavano normalizzando. Ci fu incertezza anche sulle proposte di Scelba di controllare meglio i finanziamenti al cinema, le mostre d’arte e le sovvenzioni alle cooperative, per non concedere vantaggi al Pci. Si parlò anche della necessità di evitare che fossero nominati professori comunisti nelle commissioni di concorso universitario⁴⁴⁰.

In giugno, un piano di «moralizzazione della vita pubblica» si propose di ridurre una serie di prerogative dei sindacalisti. Contemporaneamente, il segretario di Scelba, Paolo Canali, comunicò all’ambasciata americana che erano stati espulsi i comunisti da quindici edifici requisiti alle organizzazioni fasciste⁴⁴¹. In Consiglio emerse la necessità di fare un inventario dei beni del demanio, ancora del tutto incompleto⁴⁴². In agosto, peraltro, alla vigilia delle ferie, il governo non aveva ancora presentato in Parlamento i previsti provvedimenti sugli scioperi e sulla stampa: fu chiesto a Saragat di riprendere in mano le cose per l’autunno⁴⁴³. Il 26 ottobre una riunione di Scelba alla Camilluccia con i dirigenti democristiani Fanfani, Mariano Rumor, Aldo Moro e Stanislao Ceschi (cioè la Segreteria e i capigruppo) portò però il consiglio di prudenza: «Uso leggi normali per difesa democrazia»⁴⁴⁴.

In novembre, Scelba sostenne in Consiglio dei ministri che al momento della costituzione del governo ci fosse una situazione di «rassegnazione – almeno apparente – della pubblica opinione alla prevista dittatura». Il lavoro dell’esecutivo aveva cambiato il clima. Certo, la propaganda comunista restava forte e l’organizzazione del partito solida. Occorreva una risposta di efficienza e solidità amministrativa da parte dell’esecutivo⁴⁴⁵. In una successiva riunione, le tensioni crebbero ancora. Scelba si lasciò andare a uno sfogo dai toni recisi e affermò: «Occorre partire da una precisa constatazione: che il partito comunista agisce fuori dalla Costituzione». Ribadì la sorveglianza necessaria sull’attività economica del partito con la rete delle «quasi duemila» cooperative e con le intermediazioni in corso per tutte le attività delle amministrazioni locali «rosse» («si tratta del maggiore capitalista esistente oggi in Italia»). Occorreva «modificare la mentalità che fa ritenere normale ogni attività del P.C. ponendola su un piano di parità con qualsiasi altro ente o cittadino». Nel settore della stampa, «l’attuale legislazione è inadeguata a tutelare contro l’aggressività della stampa comunista». Un altro problema era quello delle radio estere come Radio Praga⁴⁴⁶.

In questo crescendo, si giunse alle misure amministrative e legislative annunciate in Consiglio dei ministri il 4 dicembre 1954, che prevedevano la rimozione di funzionari pubblici non fedeli allo Stato («i posti-chiave vengano dati solo a funzionari che diano la massima garanzia», disse Scelba), la sospensione di sindaci che avessero commesso irregolarità amministrative, la requisizione ulteriore di sedi del Pnf passate al Pci e alla Cgil («64 stabili dell’ex Gil, oltre a stabili dell’ex fascio e dell’ente fascista della cooperazione»), l’esclusione dalla Rai di ogni notizia collegata all’attività del Partito comunista o a discorsi dei suoi capi. Del resto, disse ancora il presidente, «gli iscritti al P.C. trasferiscono la loro fedeltà dal paese che è la loro Patria e al quale sono legati da vincoli di cittadinanza, al partito comunista e, attraverso il partito, a una potenza straniera». Per questo molti paesi democratici avevano messo fuori legge il partito (ma l’eventualità restava caratteristicamente sospesa nel discorso di Scelba). Si decise poi una dura protesta contro il governo di Praga per lo spazio dato alle trasmissioni radiofoniche in mano al Pci, con l’ipotesi anche di rottura delle relazioni diplomatiche. Saragat tenne un discorso di appoggio alla linea Scelba, che passava per definire il Pci come composto «di moltissimi terroristi», ma purtroppo appoggiato dal «fattore più grave» della situazione italiana, cioè un partito socialista «completamente legato» al Pci. Precisò solo di passaggio che i comunisti sarebbero stati sconfitti «quando i poveri saranno convertiti alla democrazia», con una politica sociale adeguata. Dal canto suo, Martino, oltre a recriminare per le incapacità organizzative dei partiti democratici, arrivò a ipotizzare «una soluzione giuridica idonea a consentirci di mettere il partito comunista fuori legge». Vanoni domandò di premere sui proprietari dei «giornali cosiddetti indipendenti» per ottenere più attenzione per l’azione positiva del governo⁴⁴⁷.

Come condizione per fare approvare questo pacchetto, Scelba chiese e ottenne la promessa di sostegno militare americano in caso di movimenti insurrezionali del Pci causati dalla reazione a tali provvedimenti⁴⁴⁸. Queste decisioni erano senz’altro al limite del tanto vantato rispetto della Costituzione. Anche in questo caso, però, agli annunci non sempre seguirono rapidi sviluppi operativi, facendo pensare a un approccio piuttosto renitente. Fanfani lo fece notare a Luce, criticando astiosamente proprio la politica scelbiana degli annunci. Come esempio delle difficoltà attuative, basti citare la discussione in Consiglio sul decreto che conferiva ai prefetti compiti di vigilanza sulle cooperative, criticato con decisione dai socialdemocratici, mentre Scelba ne faceva un baluardo dell’impegno per impedire che il Pci si arricchisse illecitamente⁴⁴⁹. Molta parte dell’apparato dello Stato prese comunque spunto da tali proposte per irrigidire prassi amministrative, controlli personali, schedature e discriminazioni⁴⁵⁰.

In questa linea si collocò anche il favore del governo Scelba per l’iniziativa di Edgardo Sogno e Luigi Cavallo di lanciare il movimento di agitazione propagandistica Pace e libertà, su un modello francese: esso aveva già avuto il via libera da Pella, ma con il nuovo governo ottenne un appoggio più deciso. Al ministero dell’Interno fu costituito un «comitato ristretto per i problemi della guerra piscologica»⁴⁵¹ presieduto dal sottosegretario Carlo Russo (con Giorgio Tupini e Sogno stesso) che governava finanziamenti e coordinava le iniziative per mettere in difficoltà i comunisti con giornali murali e notizie scandalistiche. Sotto questa parte palese, balenavano cenni a una sorta di organizzazione paramilitare riservata. Il distacco progressivo maturò peraltro entro la fine del 1954, perché a quanto sembra Scelba non volle concedere i margini di autonomia chiesti dall’ambasciatore e l’iniziativa sfiorì⁴⁵².

La reazione complessivamente moderata del Pci a questa escalation verbale e fattuale salvò da un possibile circolo vizioso tra reazione violenta e messa fuori legge del partito, cui il presidente del Consiglio non voleva arrivare. Il Pci ne era consapevole: come disse Umberto Terracini in Direzione, con Scelba non ci sarebbe stato pericolo di «colpo di Stato»⁴⁵³. Lo conferma un ricordo di Taviani: nel 1955 il generale Ettore Musco, comandante del Sifar, gli aveva consegnato prove di un finanziamento di due miliardi di lire arrivato al Pci tramite la Svizzera. Una riunione ristretta con Scelba e Martino decise di non rendere pubblica la notizia, per evitare di alzare il livello di scontro («comporterebbe necessariamente mettere al bando il Pci. Dunque la guerra civile»)⁴⁵⁴.

5. Tra l’Europa e Trieste

La questione di Trieste attraversò ancora momenti delicatissimi, con l’irrigidimento di Scelba e Piccioni rispetto alle trattative occidentali con la Iugoslavia. La retorica pubblica era ancora forte: l’Italia non avrebbe accettato che la restituzione di tutto il Territorio libero, secondo la Dichiarazione tripartita del 1948 (l’opinione pubblica non avrebbe capito un «cedimento»)⁴⁵⁵. Il condizionamento della ratifica del trattato Ced a una soluzione positiva per Trieste fu usato in modo piuttosto pesante. Piccioni non era certo un entusiasta sostenitore della Ced, cosa che procurò più di un’amarezza a De Gasperi in questi mesi⁴⁵⁶, mentre occorre ricordare che Taviani era da tempo stato convinto da Pietro Quaroni che il trattato sarebbe caduto in Francia e quindi fosse inutile compiere una battaglia in Italia⁴⁵⁷. Comunque, il fatto che la ratifica fosse una delle poche armi per premere sugli alleati (assieme al tema «minore» del cosiddetto patto balcanico in gestazione) rendeva la cosa ancora più complicata. Se ne parlò in occasione di un incontro con Konrad Adenauer: riferendo in Consiglio, Piccioni e Scelba dissero che non avevano legato strettamente le due cose, ma che il legame era nei fatti⁴⁵⁸. Poi lo si fece presente anche agli alleati americani: dapprima in una lettera al segretario di Stato John Foster Dulles del 27 marzo, ancora piuttosto moderata, poi in un incontro diretto il 3 maggio a Gallarate, in cui Scelba fu molto deciso⁴⁵⁹. Ancor più rigida fu la risposta italiana dopo aver conosciuto il contenuto degli accordi del 1° giugno degli occidentali con Tito, che otteneva una correzione di confine a favore degli iugoslavi tra zona A e zona B⁴⁶⁰. Il 23 dello stesso mese una discussione in Consiglio sulle dichiarazioni di Piccioni attese in Senato vide una concordanza abbastanza ampia: il ministro degli Esteri chiarì: «Dalla dichiarazione di Pella, che Trieste era il banco di prova dell’alleanza atlantica, ad un’impostazione che mandasse avanti la Ced comunque si dovesse svolgere la questione di Trieste, gli parrebbe passo eccessivo»⁴⁶¹. Ma ormai si era fatta strada la convinzione che ottenere il ritorno di Trieste città era quanto di meglio si potesse raggiungere, lasciando da parte il resto del Territorio libero di Trieste⁴⁶².

Nell’agosto del 1954 la fine traumatica del progetto della Ced segnò anche la fine delle occasioni privilegiate di «europeismo forte», con la delusione cocente dell’ultimo De Gasperi⁴⁶³. Il governo italiano prese atto – continuando a esprimere una certa critica verso le mosse della Francia – della soluzione emergente con la mediazione britannica (allargamento del Patto di Bruxelles; ingresso della Repubblica federale di Germania nella Nato), che risolveva almeno la questione dello status tedesco in Occidente. Tale vicenda però introdusse anche la politica estera italiana in una dimensione più tradizionale e per certi versi meno traumatica, in cui vennero ricuciti alcuni fili di «politica nazionale» con sobrietà e realismo.

Tale normalizzazione da una parte, e le dimissioni del renitente Piccioni dall’altra⁴⁶⁴ – causate dai riflessi dell’oscuro caso di cronaca nera dell’omicidio Montesi, che in quel momento coinvolgeva suo figlio Piero⁴⁶⁵ – aprirono un varco per un ammorbidimento della posizione italiana sulla questione dei confini orientali. Dopo aver discusso dell’ipotesi di nominare Saragat⁴⁶⁶, aver sondato la nomina di un ambasciatore «politico» come Manlio Brosio o di un esponente del Partito repubblicano italiano, agli Esteri andò il liberale Gaetano Martino, spostato in quel ruolo dalla Pubblica istruzione, proprio perché ormai favorevole a tagliare il nodo triestino (come disse esplicitamente in Consiglio)⁴⁶⁷. Risulta ancora in queste settimane qualche pressione della Dc con «l’invito a non cedere nuovi territori agli jugoslavi in zona A e a difendere strenuamente le nostre minoranze nella zona B»⁴⁶⁸. Nell’ottobre del 1954 si ebbe la conclusione sostanziale della controversia, con l’accordo che restituiva l’amministrazione della gran parte della zona A e quindi della città giuliana all’Italia, mentre la zona B andava affidata al controllo iugoslavo (dopo la missione del vicesottosegretario di Stato Robert Murphy a Belgrado, si ottenne una piccola correzione dei confini). Si restava al riparo della formula che lasciava ancora teoricamente aperta la questione della sovranità definitiva. Il governo poteva però mostrare almeno un risultato positivo, anche se non certo quello inizialmente auspicato.

A fine anno la nascita dell’Unione europea occidentale, che era il tramite per l’adesione della Germania alla Nato, consolidava tacitamente il quadro, senza contraccolpi negativi per il paese. Martino raccontò ai colleghi che l’Italia aveva compiuto opera di mediazione rispetto alle richieste rigide francesi di controllo del riarmo tedesco: esso ora era vincolato ai limiti già decisi dalla Ced, e soprattutto bilanciato dalla persistenza delle forze inglesi e americane sul territorio⁴⁶⁹.

In parallelo alla partecipazione a questo complesso passaggio europeo e occidentale, il ministro Martino promosse un incisivo movimento diplomatico: richiamò a Roma come segretario generale del ministero Alberto Rossi Longhi (diplomatico rigidamente atlantista), mandò a Washington uno degli ultimi ambasciatori politici, il liberale Brosio, e a Londra il conte Vittorio Zoppi. In Consiglio fu espresso qualche malumore: Taviani avrebbe valorizzato di più Quaroni, mentre Saragat sostenne con forza la candidatura di Ivan Matteo Lombardo per l’ambita casella statunitense (la scelta fu rintuzzata con l’argomento che non bisognava inserire nuovi estranei in diplomazia)⁴⁷⁰.

6. Lo Schema Vanoni e l’ipotesi della programmazione

L’approccio del governo intendeva fin dall’inizio essere «produttivistico», come molti ministri continuavano a ripetere nelle discussioni in Consiglio. Ma era abbastanza evidente il lungo riflesso di una visione ancora timorosa e prudente sulle capacità di sviluppo del sistema italiano, con le preoccupazioni di non aumentare troppo la spesa per non riaccendere inflazione e incertezze. Angelo Costa, presidente di Confindustria, mandava al governo un appunto che metteva in guardia dall’aumento della spesa pubblica, in un paese in cui non c’era eccesso di capitali non investiti: era la classica impostazione «continuista»⁴⁷¹. Una discussione importante fu quella del 15 luglio 1954, in cui – dopo aver preso in considerazione la relazione di indagine sul disastro della miniera di Ribolla, nel Grossetano, che aveva causato 43 morti poche settimane prima – i ministri considerarono preoccupanti alcune crisi aziendali. Fu il sottosegretario al Bilancio Mario Ferrari Aggradi il primo a portare una serie di motivazioni in controtendenza, sottolineando come l’economia stava conoscendo un trend inaspettatamente positivo: per la prima volta dal dopoguerra crescevano in doppia cifra i consumi e i risparmi, migliorava la bilancia dei pagamenti. Ci si attendeva un 4% di aumento del Pil, nonostante le difficoltà del raccolto agricolo⁴⁷².

Il tentativo più organico di inquadrare e guidare tale sviluppo fu proposto dal ministro del Bilancio Ezio Vanoni, che nella seconda metà del 1954 fece elaborare dalla Svimez di Pasquale Saraceno uno Schema decennale (comunemente noto come «piano») sullo sviluppo degli investimenti, del reddito e dell’occupazione. L’ipotesi era stata presentata a Napoli al V Congresso nazionale della Dc, alla fine di giugno del 1954, e in qualche modo fatta propria da De Gasperi stesso: per questo era politicamente non aggirabile, nonostante Scelba ne fosse fin dall’inizio poco entusiasta, proprio per la sua formazione liberista sturziana⁴⁷³. Dall’altra parte, Saragat premeva per un indirizzo più riformista: il governo in novembre sembrava vicino alla crisi, scongiurata con l’ennesima riunione interpartitica⁴⁷⁴.

L’approccio programmatorio non piacque nemmeno a Washington. Dall’ambasciata di Roma il liberista Henry Tasca sosteneva che effetto dei «piani di nazionalizzazione delle sinistre democristiane» sarebbe stato «quello di consegnare pacificamente l’Italia ai comunisti nelle prossime elezioni»⁴⁷⁵. Egli arrivò a suggerire a Henry Luce di fare «un appropriato indottrinamento» a Vanoni, in occasione della visita che quest’ultimo compì a Washington in settembre per la riunione del Fondo monetario internazionale⁴⁷⁶. Il ministro italiano fu molto prudente nel chiedere finanziamenti diretti statunitensi, secondo un vecchio schema operativo dei governi italiani. La questione delle risorse per gli investimenti sociali restava però aperta: gli americani suggerirono di cercare un sostegno presso l’Organizzazione per la cooperazione economica europea (cosa che egli tentò di fare, ottenendo un riconoscimento teorico dell’importanza della pianificazione)⁴⁷⁷. Peraltro, Vanoni ebbe assicurazioni che la Banca mondiale avrebbe concesso altri prestiti a lungo termine per la Cassa per il Mezzogiorno, come riferì soddisfatto in Consiglio (anche se Campilli smorzò gli entusiasmi sottolineando che la procedura rischiava di essere molto lunga)⁴⁷⁸.

Lo «Schema» nella sua prima versione fu presentato al Consiglio dei ministri nell’ultima riunione alla fine dell’anno 1954, senza discuterlo: si decise di istituire un comitato di ministri per sorvegliare la sua attuazione⁴⁷⁹. Confermando le scelte per la stabilità monetaria e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, lo schema ipotizzava investimenti in crescita del 7% all’anno per ottenere un aumento del Pil del 5%, il che avrebbe prodotto 4 milioni di nuovi occupati e l’attenuazione degli squilibri strutturali tra Nord e Sud, migliorando anche le condizioni dei lavoratori, ma senza espandere eccessivamente i consumi. Senza utilizzare strumenti coattivi, si immaginava di poter orientare con sostegni e incentivi gli investimenti privati, prevedendo in modo piuttosto prudente l’agricoltura, l’edilizia e le infrastrutture come luoghi di investimenti pubblici «propulsivi»⁴⁸⁰.

La fragilità del piano stava peraltro nelle divisioni della classe politica di governo: una componente liberista del governo lo criticò precocemente, mentre per altri esisteva il timore che si trattasse di un’operazione politica di significato sottilmente anticentrista. Scelba criticò il piano già incontrando Harold Stassen l’11 dicembre e poi non esitava all’inizio del 1955 a prenderne le distanze, di fronte a funzionari americani, esprimendo a Brosio forti preoccupazioni per il suo senso politico⁴⁸¹. Il presidente del Consiglio vedeva con preoccupazione la competizione con Vanoni e aveva capito soprattutto che la logica dello Schema era in controtendenza rispetto alle preferenze dell’Amministrazione Eisenhower. Per questo, egli tentò di accreditarsi su un piano diverso nella sua visita a Washington (28 marzo-7 aprile 1955), collegando la richiesta di un consistente pacchetto di aiuti (800 milioni di dollari in tre anni), all’efficacia delle misure anticomuniste. Alluse con Eisenhower anche a misure che non si potevano «annunciare in pubblico»: «Ormai può dirsi che il commercio Est-Ovest è stato in Italia ‘statizzato’ al 70%»⁴⁸². La richiesta di aiuti, poco coordinata tra governo e diplomazia italiana (con Scelba che tese a scavalcare il ministero degli Esteri), sostenuta dall’ambasciatrice Luce, non venne approvata dal Dipartimento di Stato. La visita si risolse in un successo di immagine modesto, dato che a Scelba fu impedito anche solo di annunciare le poche misure economiche concordate⁴⁸³.

La questione si collegava all’eterno problema dello status dell’Italia. All’inizio del 1955 il governo aveva preso a considerare la nuova normalità raggiunta come premessa per un recupero di ruolo internazionale⁴⁸⁴. Il presidente disse ai colleghi al suo ritorno da Washington che aveva fatto capire che «l’Italia (escluso il problema tedesco, che interessa direttamente gli occupanti) desidera essere informata su tutto per poter essere presente». Questa richiesta di considerazione (e di essere tenuti informati) si riferiva in primo luogo alle voci su un primo possibile incontro dei quattro Grandi, collegato al «disgelo» sovietico. La preoccupazione era forte perché la «guerra psicologica con la Russia» sul tema della possibile distensione toccava direttamente la politica interna italiana, sul crinale dell’anticomunismo. Scelba disse che ormai il governo era così solido da potersi anche permettere che ci fosse un dialogo distensivo. Naturalmente, aggiunse, «non tollereremmo che la Germania diventi un altro grande, rimanendo noi in una posizione inferiore». Inoltre, sulla questione degli aiuti, Scelba confermò che ormai il paese era cresciuto e poteva trattare con maggiore chiarezza: molti soggetti privati statunitensi volevano ormai investire in una Italia stabile. Chiuse poi l’intervento dicendo che l’Italia avrebbe dovuto prendere esempio da Oltreoceano per l’educazione e la coesione nazionale («Ogni manifestazione iniziava con il canto dell’Inno nazionale: anche i Cardinali in piedi cantavano»)⁴⁸⁵.

In effetti, al Consiglio atlantico del maggio 1955 vennero almeno riconosciute decadute le clausole discriminatorie del trattato di pace italiano dalle potenze occidentali firmatarie. Martino fece anche sapere che con i sei ministri degli Esteri della Ceca si era concordata una conferenza da tenersi a Messina per il rilancio dell’integrazione europea⁴⁸⁶.

7. La crisi e le dimissioni del governo

Intanto, la dinamica della politica italiana entrava in una stagione di progressiva divaricazione tra gli alleati centristi. Molto indicativa fu la questione dei patti agrari, da lungo covata. Fin dagli ultimi anni del regime fascista, e poi ripetutamente tra il 1944 e il 1947, i contratti agrari erano stati congelati con successive proroghe per evitare crisi nella situazione di emergenza economica del paese. Con il cosiddetto «lodo De Gasperi» della primavera 1946 divenne peraltro chiara l’esigenza di una necessaria riforma complessiva del sistema, su cui si stentava a intavolare un dialogo tra le parti. La situazione era molto complessa e variegata, con la sovrapposizione di modelli antichissimi, usi locali, varianti infinite delle stesse tipologie contrattuali⁴⁸⁷ (ad esempio, la mezzadria funzionava diversamente in diversi contesti regionali e locali). Il centrismo aveva deciso di affrontare la questione, in parallelo alla riforma fondiaria: Antonio Segni d’accordo con De Gasperi aveva fatto con grandi difficoltà un progetto di legge alla Camera (22 novembre 1950), che però era arenato al Senato a causa delle divisioni intrademocristiane e dell’ostilità dei liberali⁴⁸⁸.

Il tema, che non fu affrontato dal governo Pella, tornò a galla alla fine del 1954 e dopo che era stata presentata in Parlamento una proposta di legge dal democristiano Renato Gozzi, simile nei contenuti al progetto Segni. Il presidente del Consiglio tentò di far da mediatore fra i quattro partiti della coalizione e all’interno del proprio stesso partito, divisi tra la posizione filopadronale dei liberali e della destra Dc (contrari al concetto di «giusta causa» per le disdette) e quelle a favore dei mezzadri e dei coloni dei socialdemocratici, di Segni e delle sinistre democristiane (compresi i sindacalisti). La questione suscitò ulteriori rumori di crisi di governo. Il 12 febbraio Scelba propose alcuni emendamenti al progetto Gozzi: sostanzialmente si stabiliva un limite temporale all’ipotizzata e confermata «giusta causa» per le disdette dei contratti (dopo 9 o 12 anni, a seconda dei casi, i proprietari avrebbero potuto disdire i contratti pagando un indennizzo). Il dibattito fu intenso, con Saragat che accettò la proposta sottolineando i sacrifici compiuti dal proprio partito e i liberali Raffaele De Caro e Martino che cercarono di anticipare la possibilità di disdetta con indennizzo, almeno nel caso dei mezzadri. Alla fine, anch’essi però recedettero e l’accordo faticoso fu raggiunto⁴⁸⁹. Nel gruppo parlamentare Dc il compromesso suscitò voci contrarie, ma fu approvato, purché gli alleati consentissero⁴⁹⁰. Fu proprio quello che non avvenne: l’8 marzo il governo sfiorò la crisi per l’irrigidimento di Malagodi sulla questione, che sconfessò i suoi ministri. Il 18 marzo, specularmente, il Consiglio nazionale del Pri decise di ritirare l’appoggio esterno, definendo troppo vicino ai liberali l’orientamento del governo sui patti agrari.

Sullo sfondo, balenava la questione socialista. Nella Direzione Dc si discusse di varie ipotesi in caso di crisi di governo, negando la possibilità di considerare un’apertura ai socialisti, ma Fanfani sostenne necessaria non solo un’estrema prudenza, ma anche «non pregiudicare l’azione che il mondo cristiano deve condurre per spaccare il fronte socialcomunista. Attraverso un’azione del nostro partito accelerare la chiarificazione nella base socialista»⁴⁹¹. Il 6 aprile Saragat protestò per un intervento di Nenni che parlava di dialogo con i cattolici⁴⁹², sollecitato secondo alcune voci da Fanfani. Nel dibattito interno alla Dc non era solo la Base a ritenere possibile un qualche rapporto con i socialisti. Il responsabile organizzativo Luciano Dal Falco registrava i nuovi orientamenti di Zoli (eletto presidente del Consiglio nazionale dopo la morte di De Gasperi), Vanoni e Segni. A suo parere, Fanfani non credeva al quadripartito e avrebbe volentieri forzato le cose per andare al governo⁴⁹³. Voci in tal senso furono diffuse anche all’ambasciata americana⁴⁹⁴.

Le elezioni del presidente della Repubblica allo scadere del mandato di Einaudi furono un ulteriore passaggio critico per lo stesso partito democristiano e per la maggioranza centrista. Scelba aveva sostenuto l’ipotesi di candidare un non democristiano, che scaturisse dall’intesa centrista. Il segretario Fanfani, con l’appoggio dei presidenti e dei direttivi dei gruppi parlamentari, si orientò verso la presentazione della candidatura dell’indipendente Cesare Merzagora, presidente del Senato. La spaccatura della Dc si rese evidente, però, già dalla proposta di rieleggere Einaudi, avanzata dalla destra interna (Pella, Andreotti e altri). Nelle votazioni, emerse poi la candidatura di Gronchi, proposta dalla eterogenea Concentrazione antifanfaniana e appoggiata su forti pulsioni interne al partito e ai gruppi parlamentari per avere un candidato democristiano. Si delineò quindi una composita maggioranza anticentrista, estesa dalle destre fino ai socialisti e poi anche al Pci, con molti elettori democristiani che conversero il 29 aprile sul nome del presidente della Camera, eleggendolo⁴⁹⁵.

Scelba inizialmente resistette all’idea di un obbligo di dimissioni da consegnare al nuovo presidente, sostenuto in questo da Fanfani⁴⁹⁶. Il 10 maggio riferì lungamente in Direzione democristiana, dichiarando che molti democristiani non sopportavano i partiti minori, mentre bisognava riconoscere che dopo il 7 giugno «ci hanno permesso di fare un governo senza dover scegliere tra destra e sinistra». Si mostrava però preoccupato per le difficoltà nel gestire la presenza ingombrante di Saragat. Precisò anche che «l’elezione di Gronchi ha portato sulla politica estera negativi riflessi»⁴⁹⁷.

Il presidente sostenne poi in Consiglio dei ministri che nessuna dottrina potesse riconoscere un automatismo o un diritto del nuovo presidente di nominare un nuovo governo. Egli rifiutava anche il concetto di dimissioni formali, «per ossequio» al nuovo capo dello Stato: le regole formali costituzionali prevedevano il mantenimento in carica di un governo che avesse la fiducia delle Camere. Scelba riferiva che gli organismi dirigenti di Dc, Psdi e Pli gli avevano comunicato la volontà di continuare la collaborazione senza crisi di governo, con un «chiarimento dei rapporti tra i partiti». Il Consiglio approvò quindi l’idea di un atto di ossequio consistente nelle dimissioni personali dei ministri⁴⁹⁸. Scelba presentò a Gronchi le dimissioni «formali» con mille cautele verbali, perché non fossero considerate effettive, scontentando il presidente.

La Direzione della Dc l’8 giugno chiese comunque un «chiarimento politico»⁴⁹⁹. Una interminabile riunione dei gruppi parlamentari nei giorni successivi sostenne questo orientamento. Scelba, quindi, ritenendo che il programma iniziale del governo fosse «attuato in pieno»⁵⁰⁰, propose un rilancio con un nuovo programma e un rimpasto di incarichi. Egli sperava di coinvolgere sia i repubblicani sia gli esponenti della Concentrazione. Al Consiglio dei ministri del 20 giugno propose un nuovo schema programmatico. Liberali e socialdemocratici, ma anche i ministri democristiani, approvarono con enfasi, mettendo a disposizione i portafogli per il rimpasto. Saragat si spinse ad affermare: «Se nel partito della D.C. coesistono uomini di diversa concezione politico-sociale ma legati da un sentimento di religione che è fondamentale, così possono coesistere liberali e socialisti in questo Governo perché c’è la fede preminente nella libertà che, in fin dei conti, è una emanazione della stessa fede religiosa cristiana»⁵⁰¹.

La successiva crisi di governo fu a questo punto frutto di divisioni nella Dc, ma anche tra Dc e laici. Su quest’ultimo fronte, pesò il ruolo più assertivo assunto dal Pli, con Malagodi che colse la questione aperta sui patti agrari per tentare di blindare il centrismo sulle proprie posizioni⁵⁰². Tale irrigidimento rallentò specularmente l’avvicinamento del Pri, che però secondo Scelba alla fine decise di restare fuori per non aver ottenuto quanto seccamente richiesto: o il ministero dell’Interno o quello degli Esteri, mentre egli avrebbe concesso al massimo la Giustizia. Dopo il rifiuto, il segretario Eugenio Reale aveva fatto sapere che avrebbe valutato caso per caso le situazioni, mentre Pacciardi scrisse al capogruppo democristiano Moro che avrebbero votato contro la fiducia⁵⁰³. Sul fronte interno, il 21 giugno la Direzione democristiana alzava il prezzo per la sua partecipazione al rimpasto in termini di ministeri, considerando infine che l’assenza confermata del Pri portava a dichiarare incompiuto il chiarimento politico⁵⁰⁴. Varie testimonianze accreditano l’idea di una pressione personale di Fanfani per la crisi: messo in difficoltà dalla vicenda presidenziale, egli non voleva probabilmente far rafforzare troppo Scelba (nonostante su questo punto non avesse il sostegno di tutti gli iniziativisti)⁵⁰⁵. Sullo sfondo, Gronchi riconfermò l’ostilità decisa al mero rimpasto⁵⁰⁶. Il 22 giugno quindi Scelba rassegnava le dimissioni dell’esecutivo, nonostante i ministri liberali gli avessero suggerito di provare a cercare un voto in Parlamento (egli rifiutò perché sarebbe stato troppo imbarazzante per la Dc)⁵⁰⁷.

La crisi vide quindi un’ipotesi di incarico a Guido Gonella per un monocolore basato sulle idee presidenziali, preferito da Gronchi⁵⁰⁸. Saragat – molto critico verso Fanfani – propose la candidatura di Moro⁵⁰⁹. Emerse infine la capacità della Segreteria democristiana di imporre Segni e quindi in qualche modo la vittoria di Iniziativa democratica. La stessa formula quadripartita fu confermata con una certa difficoltà, data la continua pressione programmatica dei liberali. Non ci fu l’auspicato ingresso dei repubblicani, ma Segni riuscì a coinvolgere due dei critici della destra interna come Andreotti e Gonella.

Scelba sarebbe rimasto un fiero oppositore della cosiddetta «apertura a sinistra» nella Dc, fondando nel 1959 la corrente di Centrismo popolare. Tornerà al governo solo come ministro dell’Interno, nel governo Fanfani delle «convergenze democratiche» dopo la crisi Tambroni (1960-1962). Restò un europeista progressivamente più convinto: nel luglio del 1959 fu designato quale rappresentante dell’Italia al Parlamento europeo, vedendosi sempre confermato nell’incarico fino al 1979, e ricoprendo anche la carica di presidente dell’Assemblea tra 1969 e 1971. L’ultima elezione in Parlamento fu nella legislatura 1979-1983, dopo la grossa delusione della bocciatura elettorale alle elezioni dirette del Parlamento europeo del 1979, le prime a suffragio universale. Sarebbe morto a Roma nel 1991.

Antonio Segni
di Salvatore Mura

1. Premessa

Antonio Segni, che era nato a Sassari il 2 febbraio 1891 in una famiglia benestante, aveva 64 anni quando per la prima volta, il 6 luglio 1955, fu nominato presidente del Consiglio. La sua biografia, già allora, contava un numero considerevole di incarichi politico-istituzionali: deputato ininterrottamente dal 1946; presidente della Commissione istruzione e belle arti della Camera dal 10 marzo 1954 al 30 giugno 1955; sottosegretario al ministero dell’Agricoltura e foreste dal 21 giugno 1945 (governo Parri) sino al 13 luglio 1946 (governo De Gasperi); ministro dell’Agricoltura e foreste dal 13 luglio 1946 al 26 luglio 1951 (dal II al VI governo De Gasperi); ministro della Pubblica istruzione quasi ininterrottamente dal 26 luglio 1951 (VII governo De Gasperi) al 18 gennaio 1954 (governo Pella, ma era rimasto fuori dall’VIII governo De Gasperi).

La sua idea di riforma agraria, che aveva uno spiccato carattere sociale, e la determinazione con cui aveva cercato di realizzarla gli avevano procurato la fama di un uomo coraggioso, orientato al cambiamento, disposto a lottare con tutte le sue forze contro le resistenze interne al mondo delle campagne, al suo partito e al governo. Attraverso la sua opera, in effetti, aveva dato un contributo fondamentale alla chiusura di un’epoca che riconosceva la sacralità della proprietà fondiaria, l’intoccabilità del potere del latifondista, la naturale subalternità dei contadini e dei braccianti. La legge Sila e soprattutto la «legge stralcio» sarebbero state considerate tra i provvedimenti più rilevanti dell’intera storia della Repubblica⁵¹⁰.

Sebbene fosse stato tra i principali fondatori della Democrazia cristiana in Sardegna e in seguito uno dei padri della corrente dei dorotei, Segni era – più che un leader di partito – un uomo di governo e un legislatore. Lo conferma anche il suo archivio, dove prevalgono largamente gli appunti, le note, le osservazioni, i carteggi sui progetti di legge in elaborazione e in discussione in Parlamento rispetto alle carte riconducibili al suo partito. Neanche durante le fasi di più intensa attività politica la sua attenzione alla normativa, nutrita da una forte passione per i problemi giuridici, venne meno. Alle origini c’erano una laurea in giurisprudenza, l’esercizio della professione forense, un periodo di formazione (poco prima dello scoppio della Grande Guerra) sotto la guida di uno dei più autorevoli processualcivilisti italiani, Giuseppe Chiovenda, decenni di insegnamento e di ricerca – tra le Università di Perugia, di Cagliari, di Pavia e di Sassari – in continuo contatto con i grandi giuristi del suo tempo (come testimonia l’amicizia con Piero Calamandrei)⁵¹¹.

Considerando anche il suo secondo governo, che durò poco più di un anno dal 15 febbraio 1959 al 25 marzo 1960, presiedette 140 sedute del Consiglio dei ministri (99 durante il suo primo governo, 41 nel secondo), assentandosi soltanto tre volte (il 26 e il 30 settembre 1956 lasciò il posto a Giuseppe Saragat, che era il vicepresidente, e il 20 febbraio 1960 fu sostituito da Umberto Tupini, che era il ministro più anziano). In un’occasione convocò un breve Consiglio dei ministri nella sua abitazione privata, in un appartamento di Roma, pur di non mancare. Quasi tutte le sedute, però, si tennero al Viminale, una minoranza a Montecitorio (dodici) e a Palazzo Madama (tre), al fine di consentire ai ministri di partecipare ai lavori parlamentari, e quattro a Villa Madama.

Il presidente Segni garantiva flessibilità e richiedeva ai «suoi» ministri grande disponibilità: non c’era una convocazione periodica regolare del Consiglio dei ministri (poteva tenersi una sola riunione al mese, come accadde nell’agosto 1959, o persino sette riunioni in nove giorni, come dal 13 al 21 dicembre 1955); non c’era un orario in cui si convocava il Consiglio (anche se 90 riunioni furono convocate di mattina, ma ci si poteva riunire anche alle 20.30), né una durata precisa (si oscillò dai cinque minuti, in un Consiglio chiamato ad approvare un unico disegno di legge per l’assunzione a carico dello Stato delle spese per i funerali di un senatore, alle dieci ore per una lunga discussione, fra l’altro, sull’impostazione di bilancio). Capitò anche (cinque volte) che si svolsero due sedute in un giorno (antimeridiana e pomeridiana): il 21 luglio 1956, ad esempio, il Consiglio si riunì al Viminale dalle 10.00 alle 19.00, e poi nuovamente a Montecitorio dalle 19.30 alle 23.15.

Il politico sardo, che appariva fisicamente fragile ma aveva un carattere forte e risoluto, non può essere definito il dominus dei governi che presiedette. Fu tendenzialmente un primus inter pares, che promosse e coordinò l’attività governativa senza imporla, anche se su alcuni problemi – come si vedrà – pretese che i ministri, il Parlamento, i partiti della coalizione si allineassero alle sue posizioni e perciò minacciò le dimissioni (utilizzando, in fondo, l’unica vera arma che aveva a disposizione per far valere le proprie scelte)⁵¹². La sua funzione di direzione, comunque, non prevalse su quella di mediazione, e non tanto perché Segni mancasse di determinazione quanto perché su questo ruolo era stato costretto, sin dall’inizio, dalla forza dei leader dei partiti della coalizione di governo e dalla pressione del capo dello Stato che si comportavano come i principali azionisti dell’esecutivo in grado di concedergli o di revocargli la fiducia.

Più concretamente da presidente del Consiglio Segni fu impegnato su tre direzioni: mediare tra i segretari dei partiti della coalizione, i membri del governo, i capigruppo parlamentari di maggioranza (ma anche di opposizione quando, ad esempio, si trattò di eleggere i giudici della Corte costituzionale) e il presidente della Repubblica; interpretare l’indirizzo governativo di fronte alle gerarchie ecclesiastiche, ai vertici dei governi esteri, ai grandi capitani d’industria, ai sindacati; garantire l’attuazione del programma di governo attraverso il controllo della produzione normativa e una stretta collaborazione con le Camere. Il suo modello esemplare di presidente del Consiglio era Alcide De Gasperi. Lo precisò lui stesso, il 7 luglio 1955, dichiarandosi lieto e commosso di sedere al posto dello statista trentino⁵¹³, che però aveva unito leadership e premiership.

2. Il primo governo Segni

Nei primi mesi del 1955 Antonio Segni non era molto influente all’interno della Democrazia cristiana, non poteva contare su un consistente gruppo di parlamentari a lui legato, non aveva gli organi di stampa a suo favore né uno stretto legame con l’Amministrazione degli Stati Uniti, ma, particolarmente attivo sulla questione dei contratti agrari e sui problemi della riforma fondiaria, era uno dei riferimenti dell’opposizione interna al governo Scelba⁵¹⁴. Con l’elezione di Giovanni Gronchi ebbe una grande occasione, in qualche misura inaspettata, che seppe sfruttare abilmente. Un fronte ampio, diviso su molte questioni ma unito dalla percezione che fosse il momento di chiudere con il maccartismo scelbiano, promosse indirettamente la candidatura di Segni. Anche Pietro Nenni fece trapelare un significativo apprezzamento nella convinzione che fosse l’uomo adatto per facilitare la distensione⁵¹⁵. Ma fu soprattutto il gruppo parlamentare della Dc alla Camera dei deputati che lo sostenne. Il 24 giugno 1955, all’interno del direttivo del gruppo alla Camera, si tenne una consultazione per indicare il designato presidente del Consiglio che sarebbe stato proposto al capo dello Stato: Segni raccolse sedici preferenze, Giuseppe Pella sette, Mario Scelba ed Ezio Vanoni sei, Guido Gonella appena due⁵¹⁶. Era la prova che Gronchi aspettava, ma affidò a Segni solo un mandato esplorativo al fine esclusivo di avviare i contatti preliminari con i rappresentanti dei partiti. Il presidente della Repubblica stava modificando la prassi fino ad allora seguita. Così gli aveva suggerito il suo consigliere giuridico, Francesco Cosentino, il quale sosteneva che l’incaricato avesse soltanto una «mera ‘credenziale’ a trattare con le forze politiche interessate, ferme restando le conclusive determinazioni spettanti al presidente, sia quanto ai nominativi dei ministri sia quanto al programma del futuro esecutivo»⁵¹⁷.

Gli spazi di manovra che Segni aveva a disposizione erano, dunque, molto stretti: non soltanto perché il contesto internazionale gli impediva di muoversi in autonomia e i numeri in Parlamento non gli consentivano di rompere lo schema consueto dell’alleanza con i partiti «minori» (Partito liberale italiano, Partito socialista democratico italiano e Partito repubblicano italiano), ma principalmente perché il Quirinale e Piazza del Gesù si assunsero il compito di decidere per lui, sottraendogli le facoltà che la Costituzione formalmente gli attribuiva. Al presidente del Consiglio era riconosciuto di fatto un potere di indirizzo politico ben minore rispetto a quello che avrebbe dovuto avere. Furono i segretari dei partiti, Amintore Fanfani, Giovanni Malagodi e Giuseppe Saragat, a concludere l’accordo per la riconferma dello schieramento di maggioranza, e Segni dovette attenersi. Il candidato alla presidenza del Consiglio era, comunque, ben consapevole sin dall’accettazione dell’incarico che sarebbe stato difficilissimo sottrarre anche piccole fette di potere decisionale ai partiti e al contempo mantenere il loro indispensabile consenso. Neanche Segni, come gli altri presidenti del suo tempo, si ribellò al «principio» che la fiducia dei partiti della coalizione preesistesse al rapporto governo-Parlamento.

Anche sulla scelta del programma l’incaricato non ebbe grande influenza, perché poche settimane prima si era raggiunto un accordo che difficilmente poteva essere rimesso in discussione. Il 16 giugno 1955 Mario Scelba aveva condiviso un memorandum con i quattro partiti (Dc, Psdi, Pli, Pri) in cui aveva illustrato i punti programmatici principali: attuare la Costituzione (e cioè sollecitare l’approvazione dei disegni di legge sul Csm e sul Cnel e invitare il Parlamento a procedere alla nomina dei giudici della Corte costituzionale); approvare una nuova legge elettorale proporzionale per la Camera dei deputati; rinviare l’attuazione dell’ordinamento regionale; estendere la legge stralcio a tutta Italia e modificare la normativa sui contratti agrari; dare il via alla riforma dell’Iri; esaminare lo schema Vanoni ed elaborare i primi provvedimenti per attuarlo; istituire il ministero delle Partecipazioni statali⁵¹⁸.

Non vanno tuttavia sottovalutate le discussioni in Consiglio dei ministri dell’8 e del 12 luglio 1955 sulle dichiarazioni programmatiche che Segni aveva predisposto in vista del dibattito parlamentare: intervennero quasi tutti i ministri e non soltanto ci fu una condivisione delle scelte di fondo, ma anche un dibattito su molti dettagli. La riunione non fu una semplice formalità, anche perché, a differenza degli incontri fra le delegazioni dei partiti per la definizione del programma, stavolta si valutò la fattibilità economico-finanziaria delle proposte con un’attenzione particolare al bilancio dello Stato⁵¹⁹. Il ministro del Tesoro, Silvio Gava, manifestò una certa apprensione: le molte proposte dei colleghi, in effetti, non erano accompagnate da puntuali indicazioni sulla copertura della spesa. Già qui era presente la distanza del titolare del Tesoro dal presidente del Consiglio. La lontananza con il tempo si sarebbe accresciuta sino a portare alle dimissioni di Gava all’indomani della difficile trattativa con i sindacati che Segni, interessato anzitutto alla pacificazione sociale, chiuse con sostanziose concessioni agli statali⁵²⁰.

La squadra di governo – composta da un vicepresidente del Consiglio, Saragat, 4 sottosegretari alla presidenza del Consiglio, 16 ministri, 3 ministri senza portafoglio, 33 sottosegretari, 4 alto commissari – si era rinnovata soltanto parzialmente, e meno di quanto Segni avrebbe voluto. La Costituzione gli affidava il potere di proporre i ministri, ma la prassi della Prima repubblica era diversa. La formazione della lista dei ministri, anche in questo caso, fu un’operazione collegiale, in cui il presidente del Consiglio svolse soprattutto il ruolo di mediatore. Il suo delicato compito consisteva nel gestire le richieste del capo dello Stato, dei partiti, dei gruppi parlamentari, delle correnti, dei territori, delle associazioni di categoria, evitando di generare eccessive tensioni che avrebbero messo in pericolo la nascita del governo e, in seguito, reso più complicati i passaggi parlamentari, specialmente quelli con il voto segreto. E questo spiega, almeno in parte, perché all’interno del governo rimasero dieci ministri già presenti nell’esecutivo guidato da Scelba e soltanto due di questi (Bernardo Mattarella e Fernando Tambroni) cambiarono dicastero.

Gli stessi uomini facevano parte sia dell’organo esecutivo che di quello legislativo. Tutti i membri del governo, a eccezione dell’alto commissario al Turismo Pietro Romani, erano parlamentari: 49 deputati e appena 12 senatori. Anche se allora la Camera contava 590 membri e il Senato 237 membri, quest’ultimo ramo del Parlamento era sottorappresentato. L’influenza del presidente della Repubblica sulla lista dei ministri si era concretizzata con la nomina di Tambroni all’Interno e di Armando Angelini ai Trasporti (ma, fra l’altro, Gronchi aveva imposto anche il nome Alberto Folchi come sottosegretario al ministero degli Affari esteri). Diventarono ministri per la prima volta i giovani, ma già politici affermati, che avevano promosso la nomina di Segni: Emilio Colombo, con il compito delicato di guidare l’Agricoltura, e Aldo Moro, che lasciava una carica più importante, quella di capogruppo dei parlamentari Dc alla Camera, per andare alla Giustizia⁵²¹.

Le principali scelte economiche a cui il governo Segni dovette attenersi non erano state decise dal presidente del Consiglio, né dal governo nel suo insieme e neanche, a ben vedere, dalle segreterie dei partiti al momento in carica. Allora c’era una programmazione di medio-lungo periodo che prescindeva dall’inquilino del Viminale (sede della presidenza del Consiglio sino al 1960). Le scelte di indirizzo erano dentro un paradigma culturale, prima ancora che politico, che godeva di un largo consenso. Lo Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-1964 era un impegno irrinunciabile⁵²². Come era imprescindibile proseguire con l’intervento dello Stato per correggere gli squilibri regionali e affrontare la questione meridionale, considerata un passaggio obbligato al quale nessun presidente del Consiglio poteva sottrarsi. In sintonia con autorevoli tecnici come Pasquale Saraceno, Segni sostenne il cambio di orientamento in senso industrialista della Cassa per il Mezzogiorno, presentando lui stesso alla Camera, il 17 settembre 1956, il progetto di legge «Provvedimenti per il Mezzogiorno» che avrebbe portato alla storica legge del 29 luglio 1957, n. 634⁵²³.

Nel biennio 1955-1957 l’economia italiana era in espansione e presentava diversi dati incoraggianti, ma i frutti del governo Segni vanno ricercati anche su altri terreni, come quello dell’attuazione della Costituzione. Nel 1956 entrò in funzione la Corte costituzionale, nel 1957 fu approvata la legge istitutiva del Cnel e il disegno di legge sul Csm superò l’esame del Senato. Tre risultati che si attendevano ormai da qualche anno. Non che il merito fosse di Segni, ma lui svolse sicuramente un’azione di impulso maggiore rispetto ai suoi predecessori, in particolare durante le operazioni di scelta dei giudici costituzionali. A differenza di Fanfani, che in questo caso dimostrava un’ingiustificata intransigenza anticomunista, non intravedeva alcun motivo di tanto timore per l’equilibrio della Corte se soltanto un giudice su quindici fosse stato riconducibile al Pci⁵²⁴.

Se appare evidente che l’ingerenza illimitata dei segretari dei partiti sull’azione di governo e le forti pressioni del Quirinale depotenziarono l’organo presidente del Consiglio, diversi, e non insignificanti, furono gli episodi di resistenza da parte di Segni. Quando Fanfani, all’indomani dei fatti d’Ungheria, invitò i gruppi parlamentari della Dc a studiare iniziative legislative anticomuniste⁵²⁵, egli si oppose: «Mi rifiuto di specularvi ancora su» – annotò nel suo diario⁵²⁶. Una legislazione contro il Pci poteva essere persino controproducente, perché avrebbe inasprito le polemiche, fermato l’allontanamento di Nenni da Palmiro Togliatti, oscurato la crisi di coscienza di molti intellettuali e autorevoli dirigenti che avevano abbandonato il Pci. Arrivò a minacciare le dimissioni, ma non cedette, e alla fine prevalse su Fanfani, che pure per la sua iniziativa raccolse il plauso dell’Amministrazione americana e della Chiesa⁵²⁷.

Nell’esercizio della politica estera il presidente del Consiglio svolse un ruolo centrale. È il campo, questo, in cui il suo potere di direzione si espresse con maggiore forza. Segni evitò sia un allineamento alle posizioni di Fanfani sia un avvicinamento a quelle di Gronchi e nelle sedi di negoziazione internazionale promosse un atlantismo moderato, «centrista», che non doveva essere piegato né troppo a sinistra né troppo a destra. Lo scontro con il segretario della Dc, che accusava anche pubblicamente il governo di aver seguito una linea ambigua e incoerente sulla crisi di Suez⁵²⁸, e il conflitto istituzionale con il capo dello Stato, in seguito alla nota lettera indirizzata a Dwight Eisenhower poi bloccata da Gaetano Martino⁵²⁹, si possono interpretare anche come una reazione al rafforzamento del presidente del Consiglio.

Sul piano internazionale il governo Segni, infatti, raggiunse due traguardi epocali: l’ammissione dell’Italia all’Onu e la nascita della Cee con la firma dei Trattati di Roma. Senza curarsi troppo dei malumori interni al suo partito e alla coalizione, degli avvertimenti degli Stati Uniti e di quelli delle gerarchie vaticane, il presidente del Consiglio tenne un atteggiamento più dialogante nei confronti del mondo comunista convinto che avrebbe aiutato, se non altro, all’instaurazione di un confronto. «Nell’atlante politico del governo Scelba la Cina non esisteva»: Segni invece permise a un gruppo di studiosi e di scrittori italiani di recarsi a visitare la Repubblica popolare cinese, «senza correre per questo il rischio di trovarsi al ritorno sottoposti a vigilanza speciale»⁵³⁰. Era «più colto, più indipendente e più umano» rispetto al suo predecessore, commentò Piero Calamandrei⁵³¹. Bisogna tuttavia considerare che il suo anticomunismo poteva essere smorzato perché aveva al suo fianco, come ministro degli Esteri, Martino, sempre molto attento alle buone relazioni con Washington⁵³².

Eppure la politica estera diventò un problema. Il capo dello Stato era sofferente di fronte all’attivismo di Segni e di Martino, che non soltanto rifiutavano di allinearsi alle indicazioni del Quirinale ma persino, in diverse occasioni, le contrastavano (più apertamente il ministro degli Esteri, più pacatamente il presidente del Consiglio). Nella primavera del 1957 i rapporti con Gronchi erano diventati ormai insostenibili. Allora dominava una considerazione generale dei poteri del capo dello Stato come di un’istituzione «notarile», e anche per questo appariva eccessivo, e persino discutile sotto il profilo giuridico, l’interventismo del presidente della Repubblica⁵³³. Il conflitto istituzionale alimentò ulteriormente i venti di crisi, che già soffiavano forti: il 24 febbraio 1957 il Partito repubblicano aveva annunciato il passaggio all’opposizione.

Il segretario della Dc evitò di sostenere gli sforzi del presidente del Consiglio. I due, durante quell’esperienza di governo, dialogarono ben poco e più volte giunsero al limite della rottura. Anche per questo Segni incontrò maggiori difficoltà a svolgere la complessa attività governativa. I singoli ministri, inoltre, si comportavano come rappresentanti degli interessi dei partiti della maggioranza e delle correnti. I segretari delle forze politiche minori della coalizione erano in fermento, angosciati dal timore di pagare un caro prezzo alle elezioni politiche del 1958. Il Partito liberale cominciò ad alzare la posta in gioco, insistendo sul nodo mai risolto dei contratti agrari, ma anche, più in generale, sulla politica economica, considerata da Malagodi troppo statalista, e sulla politica estera, non abbastanza atlantista⁵³⁴. La sinistra del Partito socialdemocratico, che auspicava l’unificazione con il Psi dopo le prese di distanza di Nenni da Togliatti, metteva in difficoltà Saragat⁵³⁵. Il 5 maggio 1957 il Psdi, interessato anzitutto alla soluzione dei propri problemi interni, uscì dall’esecutivo. Intanto anche Giulio Pastore aveva avvertito Segni che il disegno di legge sui contratti agrari avrebbe incontrato alle Camere le resistenze dei parlamentari sindacalisti⁵³⁶. Nessuna mossa del presidente del Consiglio avrebbe potuto salvare il governo. L’indomani Segni salì al Quirinale e, senza passare attraverso il voto di sfiducia del Parlamento, rassegnò le dimissioni.

Ma il bilancio del suo primo governo era positivo. Il «primo ministro» aveva raggiunto traguardi apprezzabili ritagliandosi il ruolo di principale mediatore. Nei primi mesi, che furono i più proficui, cercò una propria autonomia e si sforzò di seguire attentamente, collocandosi al di sopra delle parti, il programma concordato con le forze politiche di maggioranza. Concentrato specialmente sull’attività del governo, sui disegni di legge, sui lavori parlamentari, aveva evitato di farsi condizionare troppo dagli orientamenti e dagli umori interni ai partiti. Così era riuscito in più occasioni ad allargare la maggioranza e a conquistare in Parlamento i voti dell’opposizione, specialmente delle sinistre⁵³⁷. A lungo andare, però, questa impostazione andò perdendo forza. Segni prestò sempre più attenzione alle richieste dei partiti minori e delle correnti della Democrazia cristiana, come se il programma fissato nel luglio del 1955 non fosse più valido e dovesse essere rinegoziato.

Alcune misure importanti erano rimaste solo ai nastri di partenza, altre non avevano concluso il loro iter. Il testo unico di pubblica sicurezza non vide la luce. Anche la promessa legge sull’ordinamento della presidenza del Consiglio dei ministri, sebbene la sua urgenza fosse largamente riconosciuta, non ebbe seguito⁵³⁸. Non si realizzò la riforma dell’amministrazione né la riforma costituzionale del Senato. Numerose iniziative trovarono l’opposizione di alcuni suoi ministri, come quella relativa al provvedimento di amnistia e indulto che incontrò la netta contrarietà di Moro⁵³⁹. Il presidente del Consiglio accantonò quasi subito l’ambizione di arrivare a una legge di riforma agraria generale, dissipando i pregiudizi che certi ambienti conservatori e liberisti nutrivano nei suoi confronti.

La sua mancata riconferma al Viminale, tuttavia, non dipese dalla valutazione del suo operato, che a giudizio di molti osservatori era ampiamente positivo⁵⁴⁰. Lo stesso Segni, in realtà, non mostrò particolare interesse a riprendere la guida del governo per circa un altro anno, sino alle elezioni del 1958. Nella direzione della Dc il presidente del Consiglio uscente si era espresso per le elezioni anticipate o, in alternativa, per un monocolore⁵⁴¹. I gruppi parlamentari della Dc, del Psdi e del Pri lo indicarono come primo candidato, ma il 15 maggio 1957 Gronchi conferì l’incarico al fanfaniano Adone Zoli.

3. Il secondo governo Segni

Le elezioni del 1958 indebolirono Segni. Nel suo collegio elettorale un deputato di Cagliari, Antonio Maxia, raccolse più preferenze dell’ex presidente del Consiglio. E questa fu una «sconfitta» che lasciò il segno. Le elezioni, peraltro, consolidarono ulteriormente il potere di Fanfani, che ricevette il compito di formare il nuovo governo. Segni, che ambiva al ministero degli Affari esteri, accettò senza entusiasmo la vicepresidenza e la guida del dicastero della Difesa⁵⁴², ma la sua aspirazione di tornare alla presidenza del Consiglio rimase sempre molto forte. In questi mesi, come mai prima, cercò di orientare le scelte del suo partito con l’intento, più o meno evidente, di ridurre il peso di Fanfani, che contemporaneamente era segretario della Dc, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Anche questa somma di cariche alimentò ulteriormente i malumori e già alla fine del 1958 non c’erano più le condizioni per proseguire l’azione di governo.

Fanfani, che aveva la maggioranza all’interno dei massimi organi del partito, sembrava destinato nuovamente alla presidenza del Consiglio. Se fosse dipeso dal presidente della Repubblica l’incarico sarebbe stato affidato a Tambroni⁵⁴³, ma la maggioranza della direzione della Dc, rifiutandosi di sostenere il segretario, si espresse a favore di Segni⁵⁴⁴. Quest’ultimo garantiva ai notabili del partito il rispetto della tradizionale collegialità democristiana. Tenace, ma non autoritario, aveva dimostrato, alla guida del suo primo governo, di essere un buon tessitore. Dopo un periodo di forti tensioni interne, causate anche dall’atteggiamento poco incline al compromesso di Fanfani, un uomo come Segni sembrava più adatto di altri per il ritorno alla leadership plurale⁵⁴⁵.

Il tentativo del politico sardo, però, si rivelò, sin da subito, più difficile del previsto. La sua autonomia, rispetto a quella che aveva avuto durante la formazione del suo primo governo, era ora maggiore, soprattutto perché la Dc mancava di un segretario forte, ma i problemi interni al Partito socialdemocratico, che rischiava di dividersi, ostacolavano la replica di una coalizione quadripartitica. Alla fine si impose la soluzione di un monocolore, appoggiato dall’esterno dal Pli, come conclusione meno azzardata e meno pericolosa per l’unità della Dc. Non c’era, comunque, l’idea di rilanciare la politica anticomunista di matrice scelbiana. L’intento, ambizioso, era di presentare un’alternativa all’alleanza con il Partito socialista, che si stava delineando come sbocco necessario. La strategia di Segni, che avrebbe dovuto rafforzare le ragioni della continuità rispetto a quelle della svolta, era tuttavia condita con un eccessivo pessimismo⁵⁴⁶. La spinosa questione di Berlino lo angosciava, convinto, come molti, che la situazione tedesca potesse causare lo scoppio di un’altra guerra mondiale. Le scelte della Dc, perché troppo accondiscendenti nei confronti delle sinistre, gli parevano che potessero esporre troppo l’economia italiana, allontanando gli investitori di capitali.

Il secondo governo Segni giurò il 15 febbraio 1959: nessun vicepresidente, 4 sottosegretari alla presidenza del Consiglio (e nuovamente Carlo Russo con la funzione di segretario), 17 ministri, 4 ministri senza portafoglio, 36 sottosegretari, un alto commissario. La Dc era in una fase di transizione: Fanfani si era dimesso dalla carica di segretario il 31 gennaio, ma neanche stavolta il presidente del Consiglio incaricato ebbe la libertà di scegliersi i ministri. Tambroni passò dall’Interno al Bilancio, ma avrebbe ricevuto anche, perché così chiedeva il capo dello Stato, l’interim al Tesoro⁵⁴⁷. Al di là delle perplessità più volte manifestate pubblicamente, la sinistra della Dc conservò le chiavi della Cassa per il Mezzogiorno, destinate all’intoccabile Pastore, che si era mosso anche in sostegno della nomina a ministro di Benigno Zaccagnini⁵⁴⁸. Segni, al fine di rafforzare la sua funzione, si riservò anche la carica di ministro dell’Interno. La parte di Iniziativa democratica che aveva preso le distanze dal segretario veniva valorizzata: Colombo all’Industria e Mariano Rumor all’Agricoltura ne erano un segnale evidente. La destra della Dc ottenne per Pella la poltrona più ambita di ministro degli Esteri. Giulio Andreotti andò alla Difesa. Non trovò spazio, invece, Scelba, che in effetti era una figura ingombrante, anche se i rapporti fra lui e Segni erano meno tesi rispetto a qualche anno prima. Anche Umberto Tupini rimase fuori, con la promessa che avrebbe avuto un posto, e infatti sarebbe stato istituito il ministero del Turismo e dello spettacolo (legge del 31 luglio 1959, n. 617)⁵⁴⁹. L’assenza più significativa era quella di Moro, il quale però aveva già ben chiaro il suo obiettivo di arrivare sino alla guida del partito⁵⁵⁰.

La formazione della lista dei sottosegretari non risultò meno complicata perché si trattava di un monocolore: le correnti della Dc si comportavano come se fossero i partiti di una coalizione. Il potere di scelta del presidente del Consiglio ne risultava fortemente condizionato. Investito di numerose richieste e pressioni, Segni dovette scontentare molti, anche associazioni di categoria e personalità di grande influenza sul consenso elettorale della Democrazia cristiana. Per esempio, Paolo Bonomi, a nome della presidenza della Coldiretti, aveva chiesto quattro sottosegretari, ma ne ottenne soltanto uno per Guglielmo Schiratti al Tesoro, e non quindi quello all’Agricoltura, che Segni riservò al suo fedele amico, il sardo Salvatore Mannironi⁵⁵¹.

Con i sindacati il capo del governo cercò costantemente il confronto, senza avere necessità di convocare le forze sociali in un tavolo separato, al fine di discutere e di negoziare i provvedimenti che riguardavano i problemi dell’economia e del lavoro. D’altronde le maggiori associazioni di categoria di orientamento cattolico erano direttamente rappresentate all’interno del governo. Il presidente del Consiglio, peraltro, era sostanzialmente espropriato dal controllo diretto della politica economica e della spesa pubblica, gelosamente custoditi dal ministero del Bilancio, da quello del Tesoro e da quello delle Finanze⁵⁵².

Nella «galassia governo» il presidente del Consiglio non aveva un ruolo ben definito sotto il profilo normativo e notevole era l’incertezza che regolava i suoi rapporti con i ministri. Anche se Segni avesse prediletto un’impostazione di tipo gerarchico, non avrebbe avuto il potere di sanzionare i membri del governo inadempienti alle sue direttive (magari attraverso la revoca del ministro «ribelle»). Il suo metodo, comunque, sia per scelta che per indole personale, si fondava sull’ascolto, sul confronto, sulla valutazione delle diverse posizioni, sulla ricerca di un compromesso per tenere il più possibile unite le diverse anime della compagine governativa. In Consiglio dei ministri si presentava spesso ponendo interrogativi e chiedeva se fosse opportuno o meno affrontare un determinato tema nelle dichiarazioni programmatiche o presentare un disegno di legge in Parlamento, senza ritenere che il proprio pensiero dovesse necessariamente contare più di quello degli altri⁵⁵³.

Proseguire con cautela, in continuità, senza strappi era il programma di Segni, che riconfermava l’incondizionata fedeltà all’Alleanza atlantica, il sostegno al processo di integrazione europea, all’entrata in funzione del Csm, allo Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito. Non mancò tuttavia il consueto elenco di riforme e di provvedimenti difficilmente realizzabili: sulla legge di pubblica sicurezza, sulla finanza locale, sul contenzioso tributario, sull’ordinamento giudiziario, sul Senato, sull’ordinamento della presidenza del Consiglio. Grande attenzione era dedicata ai lavori pubblici – in particolare alle strade, alle case popolari, alle bonifiche e ai miglioramenti fondiari –, ma restava prioritaria la scuola che, secondo Segni, costituiva «il problema fondamentale» dell’Italia, il «centro propulsore» del progresso, della vita sociale e familiare⁵⁵⁴. Fu durante il suo governo che Giuseppe Medici, ministro della Pubblica istruzione, presentò il disegno di legge sulla scuola media che avrebbe portato alla riforma del 1962⁵⁵⁵.

La ricerca dei voti a destra impose al presidente del Consiglio una linea sostanzialmente conservatrice. Ne è prova, fra l’altro, il suo patriottico richiamo, al termine delle dichiarazioni programmatiche, al centenario della prima guerra del Risorgimento, alle forze armate, ai caduti per l’Italia e al trentennale dei Patti lateranensi⁵⁵⁶. Ora la Chiesa e gli Stati Uniti preferivano la prudenza di Segni all’attivismo di Fanfani. Ma il governo rimaneva condizionato soprattutto dagli equilibri interni alla Democrazia cristiana. Nel marzo 1959 il presidente del Consiglio sbagliò quindi i suoi calcoli, perché, in senso antifanfaniano, sostenne Moro, il quale, una volta eletto segretario grazie al supporto decisivo di Segni – in quei mesi, come ha scritto Baget Bozzo, «l’effettivo leader della maggioranza democristiana»⁵⁵⁷ –, si mosse, prima con circospezione e poi con crescente determinazione, per ricucire con Fanfani, per rilanciare il centro-sinistra e arrivare alla caduta del governo⁵⁵⁸. Il congresso della Dc di Firenze (23-28 ottobre 1959) avrebbe confermato ciò che era già evidente da qualche mese: il presidente del Consiglio percorreva una strada diversa, se non in aperto contrasto, rispetto a quella che seguiva il segretario del partito di maggioranza⁵⁵⁹.

Questa situazione era contro il «principio» non scritto che prevedeva l’adattamento del governo alla volontà dei massimi organi dei partiti della coalizione. Nessun presidente del Consiglio durante la cosiddetta Prima repubblica esercitò i suoi pieni poteri sulle scelte programmatiche, sulle nomine dei ministri e dei sottosegretari, sulle principali decisioni politiche. Neanche Segni, che guidò un governo monocolore durante un anno di transizione per la Dc, trovò il modo di far valere la sua autonomia. L’ascesa di Moro, infatti, non modificò il rapporto tra partiti e governo. Il neosegretario non riconobbe l’autonomia di Segni e dei ministri dal partito. L’esigenza di attuare il precetto costituzionale, attraverso una legge sull’ordinamento della presidenza del Consiglio, incontrò una sostanziale resistenza da parte della Dc alla quale Moro non si oppose. Il presidente del Consiglio, come avveniva con la segreteria Fanfani, era considerato ancora, anzitutto, un rappresentante della Democrazia cristiana.

Questa condizione limitante, tuttavia, non impedì al secondo governo Segni di raggiungere risultati significativi. La Banca d’Italia registrò per il 1959 «una fase di elevata espansione»: il reddito nazionale in termini reali era aumentato del 6,6%⁵⁶⁰. Il governo, nonostante i malumori del partito di Malagodi, aveva allargato il raggio d’azione dello Stato, attraverso, fra l’altro, il programma d’investimento delle aziende a partecipazione statale, il progetto sull’impianto siderurgico di Taranto e quello termoelettrico nel Sulcis. Furono finanziati il piano quinquennale per l’ammodernamento e il potenziamento della rete ferroviaria e il piano verde per l’agricoltura con una spesa prevista di 500 miliardi in cinque anni. Conclusero l’iter parlamentare i disegni di legge per l’impiego pacifico dell’energia nucleare, per la tutela della libertà di concorrenza, per l’attribuzione di efficacia generale ai contratti collettivi di lavoro (il cosiddetto erga omnes). Di fronte ai ministri il 31 luglio 1959 Segni, soddisfatto dall’attività del governo, fece un bilancio quantitativo dei cinque mesi trascorsi: 286 disegni di legge approvati dal Consiglio dei ministri, 2 decreti legge, 33 decreti presidenziali⁵⁶¹. Nettamente prevalenti le discussioni sulla politica estera rispetto a quelle sulla politica economica. Il ministro degli Esteri, che pure era quello maggiormente assente dal Consiglio dei ministri, era l’unico che relazionava periodicamente sulla sua attività.

Segni era (e voleva apparire) un fedelissimo alleato degli Stati Uniti. La distensione non gli sembrava più un’occasione per alimentare le contraddizioni interne al mondo sovietico, ma una minaccia all’unità dell’Alleanza atlantica e un aiuto ai partiti comunisti⁵⁶². Questo cambio di linea, rispetto alle posizioni che aveva tenuto durante il suo primo governo, avvicinò Segni alla destra della Democrazia cristiana. Ciò risultò evidente in diverse occasioni, come il 5 dicembre 1959, quando ricevette Eisenhower, al quale chiese, come se fosse un’assoluta urgenza, la rapida installazione in Italia dei missili nucleari⁵⁶³. L’insistenza del presidente del Consiglio affinché il suo paese fosse adeguatamente difeso può apparire eccessiva, ma allora i timori dello scoppio improvviso di un conflitto fra Stati Uniti e Unione Sovietica apparivano giustificati e Roma, senza un contributo economico e tecnologico esterno, non avrebbe potuto garantire la propria sicurezza nazionale. Le preoccupazioni di Segni erano ulteriormente alimentate dall’atteggiamento di Charles de Gaulle, che rischiava di dividere, e quindi indebolire, il blocco occidentale.

Il Quirinale, come era già accaduto in passato, mise il presidente del Consiglio in difficoltà. Gronchi intendeva recarsi in visita ufficiale a Mosca, anche se ciò avrebbe creato al governo una serie di imbarazzi internazionali, anzitutto con gli Stati Uniti, e problemi interni, in particolare con la Chiesa⁵⁶⁴. Una parte dei ministri era assai perplessa⁵⁶⁵. Segni tentò una difficile operazione di persuasione, sforzandosi di riconoscere, suo malgrado, che la ferma ostilità del governo avrebbe esasperato irrimediabilmente il conflitto con il presidente della Repubblica e suscitato un vortice che avrebbe travolto l’esecutivo. Di fronte alla determinazione del capo dello Stato il presidente del Consiglio cedette. La visita di Gronchi a Mosca, che pure si tenne con la partecipazione del ministro degli Esteri Pella, incrinò ulteriormente i rapporti, comunque prossimi alla rottura, con le destre.

Il 20 febbraio 1960 l’insofferenza di Malagodi, che doveva difendere anche la sua segreteria dalle tensioni interne al partito, si trasformò in un rifiuto pubblico ad appoggiare il governo Segni, considerato non sufficientemente atlantista e troppo disponibile all’istituzione delle Regioni a statuto ordinario e del referendum abrogativo⁵⁶⁶. Il presidente del Consiglio, tuttavia, era già abbastanza sfiduciato, anche perché il suo stesso partito, in primo luogo, non lo sosteneva come avrebbe dovuto. Il segretario Moro guardava oltre, desideroso di chiudere quanto prima l’esperienza del secondo governo Segni, che a suo giudizio dimostrava quanto una coalizione orientata a destra fosse impraticabile e controproducente per il paese.

Il 24 febbraio Segni rassegnò le dimissioni, senza neanche prendere in considerazione l’ipotesi di proseguire con l’appoggio determinante dei parlamentari del Movimento sociale. Ma per questa scelta di non presentarsi di fronte alle Camere prima di salire al Quirinale fu duramente accusato di aver tenuto un comportamento irriguardoso nei confronti del Parlamento. Il presidente del Senato, in particolare, sollevò una polemica che raccolse grande attenzione, anche da parte dei maggiori quotidiani: Cesare Merzagora accusò Segni di accettare con rassegnazione le decisioni dei segretari dei partiti, scavalcando le istituzioni⁵⁶⁷. Non era certo la prima crisi extraparlamentare, e il problema era serio, ma le dimissioni volontarie, frutto di «un’autonoma valutazione della reciproca posizione governo-Camere», erano assolutamente contemplate⁵⁶⁸. Se il presidente del Consiglio si fosse presentato alle Camere avrebbe salvato soltanto la forma, senza avere una reale incidenza sul potere dei partiti, che poi era il vero bersaglio delle preoccupate osservazioni critiche della seconda carica dello Stato.

4. Conclusioni

Le due esperienze di Segni presidente del Consiglio furono, dunque, piuttosto diverse fra loro: la prima era durata 684 giorni (solo De Gasperi era riuscito a fare meglio con il suo settimo governo, 721 giorni), era stata incisiva e innovativa, sia in politica interna che in politica estera; la seconda era stata breve (404 giorni), più faticosa e meno efficace. Entrambe, comunque, erano state contrastate dal segretario dello stesso partito del presidente del Consiglio e dal capo dello Stato.

Mancò per poco la terza esperienza, che sembrava potersi concretizzare il 10 marzo 1960, quando Gronchi, prima di rivolgersi a Tambroni, incaricò Segni, il quale ricevette dalla direzione del suo partito il compito di formare un governo di coalizione Dc-Psdi-Pri in grado, attraverso un coraggioso programma, di intercettare il consenso dei socialisti, meglio se attraverso un appoggio esterno. Questa iniziativa, però, non riuscì, prima di tutto perché Segni non si sentì pronto ad aprire ai socialisti. Interferirono con determinazione le gerarchie ecclesiastiche, si mossero la destra della Dc e più in generale il composito mondo dei conservatori. Come era prevedibile, Segni rinunciò al suo terzo incarico⁵⁶⁹.

E già qui si potrebbe porre uno dei principali problemi storiografici legati alla figura di Segni: quando e perché un sincero riformatore si «trasformò» in un autentico conservatore?⁵⁷⁰ Domanda ulteriormente complicata dal fatto che Segni non fondò né entrò mai a far parte di una corrente di destra della Dc, ma rimase sempre ufficialmente al centro del partito. Il suo pensiero, tuttavia, già in qualche misura da Vallombrosa (luglio 1957) e, ancora più chiaramente dopo le elezioni del 1958, risultava essere maggiormente in linea con quello dominante alla destra della Dc. Le sue idee, in particolare sull’apertura ai socialisti e sulla politica estera, erano più simili a quella di Andreotti e di Pella, che non a quelle di alcuni autorevoli esponenti della sua stessa corrente dei dorotei, come Moro⁵⁷¹.

Questa «svolta a destra», se così con qualche forzatura può essere definita, avvenne perché Segni avrebbe voluto conservare gli equilibri politici che avevano caratterizzato gli anni Cinquanta, mentre percepiva che Fanfani, prima, e anche Moro, poi, stavano lavorando per superarli in un senso che poteva mettere a rischio non soltanto il consenso elettorale della Democrazia cristiana ma anche la sua stessa unità, il sostegno delle gerarchie ecclesiastiche, la sua collocazione internazionale. Fu quindi una scelta politica e, al contempo, anche una scelta tattica in vista dell’obiettivo per lui (e per il suo ristretto gruppo) più importante, la presidenza della Repubblica⁵⁷².

Nel complesso i due governi Segni furono, dunque, differenti anche perché il presidente del Consiglio tra le due esperienze compì una svolta politica, ma il lavoro del «premier» in concreto non cambiò: egli rimase un mediatore, dedito per la gran parte del suo tempo alla risoluzione dei conflitti e alla ricerca dei compromessi, sempre attento a salvaguardare il patto, più o meno esplicito, con i partiti, i gruppi parlamentari, il Quirinale, gli alleati internazionali, il Vaticano, le massime associazioni di categoria. Questa pluralità di centri di potere, che lo limitava sul piano dell’indirizzo politico, esaltava il suo insostituibile ruolo di raccordo e di mediazione, che si esplicava, in realtà, soltanto in minima parte all’interno del Consiglio dei ministri. Anche durante i governi Segni si riscontrò la tendenza (già in atto prima di lui e poi più forte) a spostare il momento decisionale nelle riunioni riservate con i segretari o i capi delegazione dei partiti, cioè dalle sedi ufficiali a quelle informali.

Adone Zoli
di Salvatore Botta

1. Un giurista prestato alla Resistenza

Adone Zoli nasce a Cesena il 16 dicembre 1887 da una famiglia di Predappio, città natale di Benito Mussolini. Completati gli studi a Bologna, dove si laurea nel 1907 in giurisprudenza, esercita la professione di avvocato a Genova e Firenze. Capitano di artiglieria durante la Grande Guerra⁵⁷³, all’indomani del conflitto mondiale, inizia il suo impegno politico sul fronte cattolico come consigliere comunale nella frazione di Borgo San Lorenzo, dove risulta eletto nel 1920. L’anno successivo al Congresso di Venezia del Partito popolare italiano entra nel Consiglio nazionale in cui rimane fino al momento del suo scioglimento da parte delle autorità fasciste. Pur non potendo svolgere apertamente attività politica, negli anni del regime Zoli continua a sostenere le proprie idee di libertà e democrazia. Lo fa nella sua veste di componente del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Firenze nel momento in cui anche sulle sponde del Tevere si apre la stagione dei processi politici⁵⁷⁴; mantenendo i contatti con personalità di spicco dell’antifascismo (i fratelli Carlo e Nello Rosselli, Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi, Piero Calamandrei⁵⁷⁵), oltre a esponenti del popolarismo (Attilio Piccioni, Giovanni Gronchi, Mario Scelba). Il suo studio legale, insieme all’Azione cattolica diocesana e alla Fuci fiorentina, diventa punto di riferimento di tanti giovani determinati a prendere le distanze dal regime⁵⁷⁶. È in questo contesto che Zoli tiene i contatti con Giuseppe Spataro allo scopo di creare la sezione fiorentina della costituenda Democrazia cristiana⁵⁷⁷.

Alla caduta del fascismo partecipa alla formazione del Comitato toscano di liberazione nazionale. Arrestato dai repubblichini insieme ai suoi figli il 1° novembre 1943 trascorre due mesi in una cella della Fortezza da Basso⁵⁷⁸: «Le attività per cui era finito sotto il controllo fascista erano, soprattutto, la fabbricazione, nel suo studio legale, di documenti militari di congedo e di esonero, di falsi certificati della organizzazione Todt, di falsi lasciapassare per consentire ai partigiani di uscire dai nascondigli, per proteggere i prigionieri alleati evasi dai campi di concentramento e per contrastare la persecuzione razziale contro gli ebrei»⁵⁷⁹.

Rilasciato grazie alla mediazione del cardinale Elia Dalla Costa⁵⁸⁰, partecipa alle riunioni del Comitato fino alla liberazione di Firenze⁵⁸¹. Dopo la Liberazione assume la carica di presidente dell’ordine forense fiorentino e in questa veste si preoccupa di sollecitare una serie di riforme (del Codice di procedura penale, del gratuito patrocinio, della previdenza e assistenza degli avvocati) necessarie a liberare la professione togata dalla «cappa di piombo» del fascismo⁵⁸².

Zoli è nominato vicesindaco a Firenze nella Giunta guidata da Gaetano Pieraccini e viene candidato dalla Dc locale all’Assemblea costituente, risultando il primo tra i non eletti. Quale sia il suo pensiero sulla rinascita democratica dell’Italia emerge in modo evidente dagli articoli da lui firmati per «La Nazione del Popolo», organo del Comitato di liberazione nazionale. Degno di nota, in particolare, quello pubblicato il 30 maggio 1946 nel quale dichiara:

La democrazia cristiana parte nella formulazione del proprio programma delle sue premesse democratiche e cristiane. Essa constata che lo stato liberale, anche ove non ha fallito al proprio compito di difesa della libertà politica, non ha saputo realizzare la giustizia sociale: essa constata che lo stato socialista, laddove ha più intensificata la propria azione per il raggiungimento della giustizia sociale, ha in maggiore o minore misura, ma giungendo anche alla esasperazione, sacrificato le libertà. La democrazia cristiana per contro pone sullo stesso piano libertà e giustizia sociale, che considera reciprocamente condizionate l’una dall’altra⁵⁸³.

Riconoscimento delle «libertà intangibili» tutelate da una equilibrata suddivisione dei poteri fondamentali dello Stato, da un’apposita «Corte Suprema di garanzia della Costituzione»⁵⁸⁴, da un’attenta politica di decentramento; ma, al contempo, sviluppo di una politica sociale (sul fronte, innanzitutto, dell’occupazione e fiscale) che, in base a una «concezione cristiana della persona e della società», dia valore al concetto di giustizia sociale. L’attenzione alla dignità umana si traduce in Zoli anche nell’auspicio – da lui formulato in seno alla Consulta nazionale della Dc – di una legge elettorale per l’Assemblea costituente che cancelli l’esclusione dal voto dei ricoverati in ospizi di carità, o dei condannati per mendicità⁵⁸⁵.

Nonostante il mancato ingresso alla Costituente, Zoli svolge un’intensa attività politica. Viene eletto nel 1946 tra i consiglieri della Dc alle prime elezioni amministrative di Firenze. Due anni dopo entra in Senato, per essere poi riconfermato nelle elezioni del 1953 e del 1958. Nel corso di queste legislature Zoli ricopre diversi incarichi: vicepresidente del Senato, ministro della Giustizia nel settimo governo De Gasperi, delle Finanze nel primo governo Fanfani, del Bilancio nel primo governo Segni⁵⁸⁶.

Zoli assume la carica di ministro del Bilancio in sostituzione di Ezio Vanoni deceduto il 16 febbraio 1956 in seguito a un malore che lo coglie nei locali di Palazzo Madama. Le sue competenze in campo economico non sono certo paragonabili a quelle del suo predecessore e di questo Zoli è cosciente quando ricorderà:

Un giorno sono diventato inopinatamente, per me e per tutti, Ministro del Bilancio. Ho così fatto, da uomo non competente, una modesta esperienza [...]. Io succedevo a valorosi, competenti ministri [...]. Mi lasci dire, onorevole Mariotti [che lo aveva interrotto ad alta voce, gridando: ‘Umiltà esagerata!’, N.d.A.]; mi lasci dire, io non avevo mai pensato di fare il Ministro del Bilancio e tanto meno il Presidente del Consiglio⁵⁸⁷.

Zoli mostra però di essere lungimirante nel momento in cui fa dell’attuazione del Piano Vanoni⁵⁸⁸ uno dei pilastri portanti della propria politica economica. Di fronte all’alternativa tra liberismo e rigida pianificazione, preferisce percorrere la via «intermedia» di una programmazione che indica e suggerisce, senza ledere l’iniziativa degli imprenditori:

Ma proprio per questo lo Schema Vanoni non è un piano: non si può chiedere ad esso precisione di previsioni e coincidenza fra previsioni ed attuazioni. Non si tratta di un’applicazione della «automazione» per cui, messo in moto il congegno, l’operazione meccanica si svolga, ma si tratta di una meta che si raggiunge controllando periodicamente i tempi di marcia e regolando quelle parti del meccanismo che abbiano dimostrato di non essere al giusto posto⁵⁸⁹.

E come il suo predecessore ritiene che per rilanciare l’economia sia necessario puntare, più che su consumi, sulla virtù del risparmio e nelle sue potenzialità di mutarsi in investimento.

2. Cronaca di un governo «a minoranza precostituita»

La nascita del governo Zoli avviene alla fine della II legislatura in un momento in cui il quadro politico è quanto mai confuso⁵⁹⁰ e il progetto di centro-sinistra è agli albori. Da qui la scelta di un monocolore che porti a termine la legislatura sbrigando gli affari correnti. Il segretario della Dc, Amintore Fanfani, vorrebbe che a guidarlo fosse un «traghettatore», mentre il presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, punta a un «governo del presidente» in grado già di anticipare un programma di centro-sinistra. In questo Zoli si dimostra una guida tutt’altro che incolore. In linea con il progetto fanfaniano ritiene che l’istruzione tecnico-professionale sia un fattore strategico per la crescita economica del paese. Condivide anche l’idea che lo Stato debba investire nell’edilizia abitativa, facendo così del Piano casa il perno della sua politica d’investimento⁵⁹¹. Altrettanto fanfaniana è l’idea di fare del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, organo previsto dalla Costituzione, il pungolo di governo e Parlamento in materia di legislazione economica e sociale. Anche Zoli è convinto che la crescita non possa essere lasciata agli istinti del mercato, ma che debba essere governata e partecipata al fine di coinvolgere pure gli strati più disagiati della popolazione⁵⁹². Da qui l’importanza di dialogare con i sindacati nella scelta degli indirizzi generali di politica economica facendoli sedere al tavolo del Cnel. Da questo punto di vista appare ingeneroso definire il governo Zoli un «governo elettorale», molto più realistico è pensarlo come un «precursore» del centro-sinistra. Ma la sua nascita è comunque tormentata.

Le elezioni del 1953 (quelle del premio di maggioranza) segnano un sensibile arretramento della Dc che perde circa l’8% dei consensi scendendo a poco più del 40%. Calano anche i partiti laici, mentre registrano una sensibile crescita sia i comunisti sia le forze di destra, monarchici e missini. A confermare l’apertura di un quadro politico incerto è l’elezione nel 1955 di Giovanni Gronchi a presidente della Repubblica, contro il candidato ufficiale della Dc, Cesare Merzagora. Il «presidenzialismo» di Gronchi si può ricondurre quindi in primo luogo a questo: la sua elezione è avvenuta contro la maggioranza scudocrociata, allineatasi dietro il suo nome pur di non essere sconfitta in Parlamento. In assenza di «legittimazione» nell’urna, Gronchi ne cerca una «di fatto» elaborando una propria linea politico-istituzionale che «compensi» l’incertezza che regna tra i partiti. Il capo dello Stato si fa promotore di un allargamento dell’area di governo coinvolgendo progressivamente il Partito socialista in un progetto riformista che affonda però le proprie radici nel popolarismo cattolico. Il suo attivismo in politica interna, ma anche in politica estera, alimenta giudizi contrastanti. Se da un lato non da tutti è apprezzato il suo impegno a favore del «disgelo» nei confronti dei socialisti, dall’altro, suscita perplessità il suo coinvolgimento personale nell’azione di governo e i contrasti che fatalmente ciò produce con la dirigenza Dc.

Il 15 maggio 1957 Zoli riceve da Gronchi l’incarico di formare un nuovo governo dopo le dimissioni dell’esecutivo guidato da Antonio Segni. Il passaggio di consegne avviene però in uno dei momenti più critici della storia repubblicana. A far vacillare la maggioranza è da alcuni mesi la riforma dei patti agrari che vede gli alleati della Dc esprimersi in modo critico sul disegno di legge. Dal mese di febbraio i repubblicani non garantiscono più il sostegno all’esecutivo, mentre socialdemocratici e liberali per motivi diversi si mostrano dubbiosi circa l’esito del provvedimento. Nel momento in cui Segni pone la questione di fiducia chiedendo il passaggio alla Camera degli articoli del progetto di legge sui patti agrari affiorano tutti i limiti e le insidie della formula centrista. La richiesta del governo passa, infatti, per soli tre voti: «con il suffragio di due deputati neofascisti espulsi dal Msi» (gli onorevoli Fabio De Felice e Cesare Pozzo) e con «l’indiretto ausilio di alcuni monarchici, assentatisi volontariamente dalla votazione»⁵⁹³. L’estrema destra offre la propria «stampella» al governo anche all’indomani della nomina del democristiano Giuseppe Togni alla guida del nuovo ministero delle Partecipazioni statali. Una scelta osteggiata dal Psdi che ritira la propria delegazione dall’esecutivo⁵⁹⁴, mentre monarchici e missini passano dalla sfiducia all’astensione. Le turbolenze politiche sono ormai tali che Segni è costretto a dimettersi⁵⁹⁵, mentre la crisi appare fin da subito di non facile soluzione. Perché Pri, Psdi e Pli non ritengono riproponibile una formula di governo quadripartita e perché il Psi – pur avendo scelto al Congresso di Venezia di rompere l’alleanza con il Pci⁵⁹⁶ – non pare ancora disponibile ad avviare un esperimento di governo con la Dc (anche a causa delle resistenze interne al mondo cattolico).

Anche le consultazioni per la nascita del nuovo governo appaiono subito difficili. La riproposizione di una formula quadripartita (Dc, Pli, Psdi, Pri) è osteggiata dai repubblicani, mentre i socialdemocratici escludono una partecipazione a una maggioranza che non comprenda anche i repubblicani. Unica via di uscita è quella di un monocolore Dc rappresentativo di tutte le correnti del partito, in attesa che il clima politico si rassereni prima di giungere a nuove elezioni previste per il 1958. In quest’ottica il capo dello Stato, Gronchi, affida l’incarico di formare il nuovo esecutivo al senatore Zoli (in quel momento presidente del Consiglio nazionale della Dc e relativamente estraneo al «correntismo» democristiano) che si affretta a definire il suo un «governo a minoranza precostituita», stante l’impossibilità di ricomporre la coalizione di centro con gli ex alleati: «Questo governo è un governo di minoranza precostituita: esso ritiene che sulla base delle intenzioni che manifesterà, troverà quel tanto di consensi e di attesa che gli permetta di procedere, per il residuo tempo della legislatura, sulla via che indicherò»⁵⁹⁷.

Il programma presentato alle Camere da Zoli – malgrado la fragilità della maggioranza e la brevità di un esecutivo destinato a traghettare il paese alla fine della II legislatura – appare comunque ambizioso. Prevede la creazione del Cnel, la modifica delle relazioni industriali con la fuoriuscita delle aziende targate Iri dalla Confindustria, l’istituzione del Consiglio superiore della pubblica amministrazione, una diversa gestione delle concessioni telefoniche, lo snellimento delle procedure per la liquidazione degli «enti superflui», favorire l’iter per la costituzione del Consiglio superiore della magistratura⁵⁹⁸, modifiche alle norme del Codice penale riguardanti l’attentato e il vilipendio degli organi costituzionali, la nascita del ministero della Sanità pubblica⁵⁹⁹. Inoltre, alcuni caposaldi della politica democristiana: il rifinanziamento della Cassa per il Mezzogiorno, la prosecuzione della politica di edilizia popolare, della politica energetica e di quella scolastica. Il tutto sotto l’ombrello di un’idea impegnativa del concetto di libertà e democrazia: «libertà, intesa [...] non come semplice libertà di diritto, ma come effettiva libertà di fatto; difesa dell’uomo non con un significato statico, ma con un significato dinamico di elevazione materiale e morale di esso; Stato di diritto, sì, sicuramente, ma non solo Stato di diritto. Perciò, accanto alla libertà, la giustizia sociale»⁶⁰⁰. Visione destinata a tradursi, innanzitutto, in nuove disposizioni in ambito pensionistico e in una rinnovata riflessione sul «tema caldo» dei patti agrari. Nell’ambito della politica estera Zoli formula l’auspicio che l’alleanza militare della Nato assuma sempre più i caratteri di una paritaria collaborazione politica, economica e sociale e che giungano al più presto ad approvazione i Trattati di Roma che consentano una fattiva liberalizzazione dei commerci⁶⁰¹.

Tuttavia, il dibattito parlamentare non fa che ribadire l’ampio fronte di opposizione al governo che va dalle sinistre comuniste e socialiste ai partiti laici tradizionalmente alleati della Dc. A esprimere sostegno nei confronti del progetto di governo del senatore Zoli sono i monarchici e i missini che si ergono a baluardo contro possibili spostamenti a sinistra dell’esecutivo. Si produce così di fatto un pericoloso sbilanciamento verso destra della maggioranza⁶⁰² a cui Zoli cerca di porre rimedio durante il dibattito sulla fiducia in Senato (29 maggio 1957) insistendo sul fatto che il suo programma di politiche economiche e sociali, benché sostenuto da una «minoranza precostituita», si colloca in continuità con l’alleanza quadripartita che fino a quel momento ha sostenuto i governi centristi.

Ma gli attacchi a Zoli arrivano dal suo stesso partito⁶⁰³. A criticarlo è Luigi Sturzo con un ordine del giorno illustrato nella seduta del 4 giugno dal senatore Carmelo Caristia. Nel mirino del padre nobile del popolarismo vi era l’influenza dei partiti sulla formazione della compagine governativa che limita la libertà di azione del capo dello Stato e della guida dell’esecutivo con la libertà di mandato dei parlamentari e con la nomina di un vicepresidente del Consiglio non previsto da norme costituzionali e legislative.

Ciononostante, il Senato vota un ordine del giorno di fiducia favorevole a Zoli: 132 voti a favore, 93 contrari, 4 astenuti⁶⁰⁴. Non mancano critiche anche alla Camera dei deputati. Nella seduta del 6 giugno, il socialdemocratico Alberto Simonini stigmatizza le «consultazioni intermedie» e la presunta influenza del presidente della Repubblica nella formazione della lista dei ministri. Ma il vero punto debole del governo Zoli sta nell’appoggio determinante di monarchici e missini. Alla Camera egli cerca di arginare il problema, da un lato, accogliendo la cauta apertura dei socialisti che spera possa tradursi in una strategia dell’astensione, dall’altro, dichiarando che, ai fini della fiducia, non avrebbe tenuto conto del sostegno dei missini: «Non ho alcun intendimento di offenderli, ma debbo confermare quello che dissi al Senato e cioè che, quale che sia il risultato della votazione ed anche se questa mia decisione dovesse indurmi a proporre al Consiglio dei ministri di rassegnare il mandato, nonostante l’apparente fiducia, io detrarrò dal calcolo dei voti favorevoli i voti del Movimento sociale italiano»⁶⁰⁵.

Ovviamente, assai negativa è la reazione dell’Msi⁶⁰⁶. Giovanni Roberti, capogruppo alla Camera e tra i deputati più attivi nel difendere la legittimità del voto, ricordando quella particolare congiuntura, così si è poi espresso:

Il ministero Zoli dunque, che durò circa un anno, fino alla scadenza della legislatura, fu sostanzialmente di ordinaria amministrazione: ma assunse per noi un’importanza fondamentale per un episodio che determinò la dichiarazione formale di piena costituzionalità della nostra formazione politica, smentendo clamorosamente la taccia di illegittimità ripetutamente lanciata contro di noi dalle altre forze politiche per discreditare di fronte all’elettorato il nostro partito e, con esso, la possibilità di una valida e consistente opposizione nazionale⁶⁰⁷.

La fiducia ottenuta alla Camera con 305 voti favorevoli (su una maggioranza di 281) non aiuta a chiarire il quadro politico nel quale Zoli sarà chiamato a operare. Inizialmente, sia pur per un solo voto, il suo governo sembra disporre di una maggioranza «non inquinata» dall’estrema destra (i voti dell’Msi sono 23). Ma da un successivo controllo emerge che il conteggio è sbagliato: figura erroneamente tra i favorevoli un deputato comunista (l’onorevole Ferdinando Amiconi), mentre un deputato missino (l’onorevole Filippo Anfuso) è stato computato tra gli astenuti nonostante il voto contrario. La maggioranza passa così da 305 a 303, quindi un voto in meno di quelli necessari per avere la maggioranza, tolti i voti dell’Msi. Salendo così il quorum a 282, il voto dell’onorevole Domenico Leccisi (Msi) diventa determinante.

Il «soccorso» dei missini non è accettabile per un uomo della Resistenza come Zoli che, come visto, già alla Camera, nella seduta del 7 giugno 1957, ha preso le distanze dall’estrema destra. È impensabile per Zoli che il suo governo si regga sui voti dell’Msi, tradendo la pregiudiziale antifascista⁶⁰⁸, quindi rassegna le dimissioni nelle mani del presidente della Repubblica. Al termine delle rinnovate consultazioni, Gronchi rilascia la seguente dichiarazione: «Quello che importa non sono le formule che debbono essere considerate strumenti per raggiungere delle finalità, e le finalità [del procedimento di formazione di un governo, N.d.A.], secondo me, sono due: rispondere alle esigenze del Paese e rispettare l’autorità e il prestigio del Parlamento». Inoltre, continua, «secondo la costituzione italiana la scelta del Capo dello Stato costituisce di per sé il governo nella pienezza dei suoi poteri» e il Parlamento interviene solo successivamente con il voto di fiducia, rendendo quindi la responsabilità del capo dello Stato italiano diversa da quella del presidente francese, che nomina un governo che può dirsi formato soltanto dopo l’investitura del Parlamento⁶⁰⁹.

Nel tentativo di comprendere quanto i partiti minori siano lontani dall’orbita della Dc Gronchi si riserva di decidere se accettare le dimissioni del primo ministro e il 16 giugno affida un «mandato esplorativo»⁶¹⁰ al presidente del Senato, Cesare Merzagora «al fine di accertare quali concrete possibilità esistono per costituire un governo che sia in grado per la sua posizione e per il suo programma di riscuotere la fiducia delle Camere e del Paese». I liberali ritengono però la formula del «mandato esplorativo» incostituzionale, perché esclude a priori l’azione autonoma di un presidente del Consiglio incaricato, e quindi politicamente «opaca». Stante la rinuncia di Merzagora, il capo dello Stato il 18 giugno conferisce l’incarico di formare un nuovo governo al segretario della Dc Amintore Fanfani. Ancora una volta il Pli si mostra intransigente, sollevando la spinosa questione dei patti agrari e della costituzione delle Regioni. Ma a vanificare gli sforzi di Fanfani è il suo stesso partito che teme una eccessiva concentrazione di potere nelle mani del proprio leader.

Fallito il dialogo anche con repubblicani e socialdemocratici, il capo dello Stato rifiuta le dimissioni di Zoli – che, alla prova dei fatti, ha comunque ottenuto la maggioranza in entrambe le Camere – e lo invita a presentarsi in Parlamento per illustrare l’attuazione del programma e avviare la discussione sui bilanci.

Il «decisionismo» di Gronchi⁶¹¹, rispetto al ruolo «ingessato» riconosciuto fino a quel momento alla più alta carica dello Stato⁶¹², solleva non poche perplessità e critiche, tra cui quelle del senatore Sturzo che richiama i limiti imposti dagli articoli 89 e 90 della Costituzione e dagli articoli 92 e 95 della stessa all’azione del presidente della Repubblica e alle prerogative del presidente del Consiglio⁶¹³. Si tratta di un attivismo favorito dal quadro politico instabile segnato dal passaggio dal «centrismo» al «centro-sinistra»⁶¹⁴ e di critiche frutto anche dei timori suscitati dalla ancor troppo recente esperienza della dittatura fascista. Al Senato Luigi Sturzo, ormai anziano senatore a vita, si mostra particolarmente polemico: nei confronti del capo dello Stato che ha rinviato alle Camere il governo Zoli senza far precedere tale scelta da alcuna comunicazione formale e nei confronti degli ambienti presidenziali per l’ingerenza nella gestione dei ministeri. Punta il dito anche contro il «correntismo» dilagante all’interno dei partiti, che ostacola una chiara presa di posizione delle forze politiche in Parlamento⁶¹⁵, nonché contro gli effetti distorsivi della «partitocrazia» (riprendendo così il termine coniato nel 1949 da Giuseppe Maranini⁶¹⁶): da un lato il ruolo crescente dei partiti nelle crisi di governo, che ostacolano un’assunzione di responsabilità in sede parlamentare, dall’altro la scarsa trasparenza nella scelta e nomina dei ministri, non più facilmente riconducibile a una valutazione del presidente del Consiglio⁶¹⁷.

Fatto sta che la situazione di stallo è superata su impulso del presidente della Repubblica. Il 13 giugno Gronchi dichiara che il ruolo del capo dello Stato non è semplicemente quello di registrare una formula, bensì di «collaborare alla formazione del Governo» allo scopo di «rispondere alle esigenze del Paese e rispettare l’autorità ed il prestigio del Parlamento». Per poi chiarire che, a differenza di quanto avviene in Francia, l’atto di nomina del Presidente costituisce già un governo «nella pienezza dei suoi poteri»⁶¹⁸. A ribadire la posizione di Gronchi è Francesco Cosentino, consigliere giuridico del Quirinale. In un intervento sulla «Stampa» del 15 giugno afferma che la nascita del governo è frutto di un procedimento complesso nel corso del quale il capo dello Stato doverosamente si interessa alla stesura del programma e alla struttura del ministero in via di formazione⁶¹⁹. Un’interpretazione estensiva delle funzioni presidenziali giustificata dalle condizioni politiche nelle quali il presidente del Consiglio incaricato si trova a operare, ma che fa «storcere il naso» alla coeva dottrina contraria a una lettura dei poteri d’indirizzo della massima carica dello Stato oltre i limiti fissati dalla Costituzione⁶²⁰.

Se l’ipotesi di un ingresso dei socialisti nell’area di governo appare ancora prematura, la destra, che tanti timori suscita nella maggioranza, non rappresenta certo una valida alternativa. Per questioni ideologiche, ma anche organizzative: l’accordo del 1955 tra il Movimento sociale italiano e il Partito nazionale monarchico «scricchiola». Mentre il fronte monarchico deve fare i conti con i continui dissidi tra le sue due anime: il Partito nazionale monarchico e il Partito monarchico popolare. A indebolire la destra è anche il no dei liberali a qualunque alleanza con l’estrema che ne comprometterebbe l’identità.

Alla luce di questo quadro politico la scelta di Gronchi di inviare nuovamente Zoli alle Camere appare obbligata. Così il 26 giugno 1957 il politico romagnolo si ripresenta alla Camera e il giorno dopo al Senato per avviare i lavori del suo governo senza passare per un nuovo voto di fiducia, ma mettendo bene in chiaro che quella formatasi un mese prima non è da lui considerata una «maggioranza politica» perché risulterebbe composta da forze inconciliabili: Dc e Msi. Sua intenzione è invece quella di realizzare un «programma democristiano»⁶²¹.

3. Riformismo difficile, ma non impossibile

L’ingombrante ruolo della destra estrema segna il pur breve cammino del governo Zoli ben oltre la sua travagliata nascita. A partire dai tragici fatti di San Donaci, un Comune in provincia di Brindisi dove il 9 settembre 1957 si tiene una manifestazione contro la speculazione su prezzi dell’uva da vino, dopo un’annata disastrosa per la viticultura, che scatena la rabbia dei coloni sommersi dai debiti. Le proteste di un gruppo di giovani all’arresto di una donna provoca la reazione della polizia che apre il fuoco uccidendo tre braccianti. L’azione repressiva delle forze dell’ordine prosegue con denunce e arresti. Chi, come Carmine Blasi, il segretario comunista della sezione di San Pietro Vernotico, sfugge alla cattura vive una difficile latitanza. L’episodio imbarazza non poco il governo Zoli il quale si ritrova tra «l’incudine» di un ministro dell’Interno, Fernando Tambroni, convinto che dietro quei tragici fatti si celi la regia di sobillatori professionisti, e il «martello» della sinistra, convinta, come dichiara il deputato Giorgio Napolitano, che si debbano «abbandonare per sempre i metodi vergognosi della repressione fascista e scelbiana»⁶²². Anche l’elezione il 9 gennaio 1958 a sindaco di Roma del democristiano Urbano Cioccetti solleva non poche critiche: il primo cittadino ha ottenuto infatti l’incarico grazie ai voti determinanti dei missini. A incendiare la polemica ci pensa poi «Paese Sera» con un’inchiesta che denuncia il patto tra Dc e Msi dietro il quale si celerebbe un piano di lottizzazione a favore della Società generale immobiliare. Le reazioni, anche nella Dc, non mancano: Luigi Granelli, Giovanni Galloni e Nicola Pistelli sottoscrivono un documento congiunto con socialisti, socialdemocratici, repubblicani e radicali contro l’alleanza con la destra missina che ha portato Cioccetti alla guida del Campidoglio.

Gli esordi del governo Zoli coincidono anche con il dibattito parlamentare sul disegno di legge per la ratifica degli accordi costituitivi della Cee e dell’Euratom firmati a Roma il 25 marzo 1957. La nascita dell’Europa unita segna il profilarsi sullo scacchiere internazionale di un soggetto politico indubbiamente collocato all’interno del blocco occidentale, ma allo stesso tempo in cerca di una propria soggettività nel contesto della Guerra fredda. In quest’ottica il governo Zoli si fa interprete di quella linea «neoatlantista»⁶²³ che alla fine degli anni Cinquanta mira a garantire ai paesi europei una maggiore autonomia, sia pur nell’ambito mai messo in discussione dell’alleanza con gli Stati Uniti. Anche per l’Italia si profilano spazi nuovi che si traducono nella soluzione della spinosa questione di Trieste⁶²⁴ e nell’avvio di un proprio programma energetico nel contesto di una politica estera segnata dalla crisi di Suez e dalle difficoltà delle ex potenze coloniali⁶²⁵. Da qui l’accordo finanziario italo-egiziano e quello commerciale con il Marocco del luglio 1957. La visita del ministro del Commercio con l’estero Guido Carli al Cairo e l’incontro a Roma con il colonello Gamal Abdel Nasser, protagonista in questi anni delle vicende del mondo arabo (si pensi alla nascita della Repubblica Araba Unita e la conferenza dei paesi non allineati da lui organizzata alla fine del 1957).

Il governo Zoli compie alcune scelte fondamentali per la politica di difesa dell’Italia. Nel corso del Consiglio atlantico che si tiene a Parigi nel dicembre 1957 gli Stati Uniti offrono agli alleati europei la possibilità di schierare entro i propri confini missili balistici a medio raggio dotati di testate nucleari⁶²⁶. La proposta, che mira a contrastare l’iniziativa sovietica nel settore dei missili balistici intercontinentali, vede l’Italia accettare nella primavera del 1958 l’istallazione sul proprio suolo di missili Jupiter. A guidare la delegazione italiana è il presidente del Consiglio Adone Zoli (insieme al ministro degli Esteri Giuseppe Pella, al ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani e al ministro del Tesoro Giuseppe Medici) che dichiara:

Di fronte alla superiorità sovietica in armamenti convenzionali, è stata finora la nostra superiorità nel campo delle nuove armi quella che ci ha consentito di ristabilire l’equilibrio globale, anzi, di assicurarci qual margine di vantaggio che ha permesso, fino a questo momento, di salvare la pace. I progressi compiuti dall’Unione Sovietica minacciano ora di annullare questo margine. Lasciare che questo processo continui il suo corso significa esporre la pace e la nostra stessa esistenza ai rischi più gravi. Il Governo italiano rimane persuaso che una soluzione giusta e duratura dei problemi militari può trovarsi soltanto nel quadro di accordi per un disarmo generale e controllato. [...] il Governo italiano ritiene imperativo che i paesi atlantici [...] facciano il massimo sforzo per non perdere la situazione di superiorità globale a loro favore sul piano militare. Esso è convinto che un tale risultato potrà essere ottenuto soltanto se i Paesi atlantici si impegneranno con ogni mezzo al rafforzamento della loro cooperazione al fine di trarre il maggior partito dalle loro risorse congiunte⁶²⁷.

Le affermazioni di Zoli volte a incoraggiare sempre più la collaborazione tra i paesi Nato in materia di politica militare servono a costruire un’immagine affidabile dell’Italia, dopo gli esiti nefasti del secondo conflitto mondiale. Questo non significa però che la visione del presidente del Consiglio si possa interpretare come la manifestazione di una pedissequa fedeltà nei confronti degli Stati Uniti. Nell’ottica di un ripensamento della politica atlantica Zoli chiede di dare attuazione all’articolo 2 del Trattato allo scopo di perseguire non solo obiettivi militari, ma anche finalità economiche e sociali rendendo maggiormente attiva e collegiale la partecipazione degli alleati alle politiche del blocco occidentale. La ricerca di nuovi spazi di manovra vede inoltre l’Italia coinvolta nella proposta lanciata dal governo francese⁶²⁸, e allargato alla Germania occidentale, di un consorzio per la produzione di armi, comprese quelle nucleari⁶²⁹. Si tratta di un progetto che ricalcando quello della Comunità europea di difesa mira a un’integrazione europea sul piano militare in grado di allentare il monopolio statunitense. Come nel caso della Ced, la proposta non andrà a buon fine a causa delle divergenze tra Italia e Francia in merito alla struttura politica di questa nuova organizzazione e al rapporto con gli Stati Uniti⁶³⁰. Un rapporto quest’ultimo che l’Italia non intende comunque compromettere⁶³¹.

La posizione filoatlantica di Zoli trova conferma nella risposta da lui formulata il 20 gennaio 1958 alla lettera che Nikolaj Aleksandrovi Bulganin, primo ministro sovietico, ha inviato ai governi dell’Europa occidentale per manifestare le proprie preoccupazioni circa le «derive guerrafondaie» della Nato. Alle ansie sovietiche Zoli replica ricordando che scopo dell’Alleanza atlantica è solo difensivo, mentre con l’invasione dell’Ungheria il Patto di Varsavia ha svelato il suo lato aggressivo. Nonostante ciò, Zoli deve confrontarsi con il radicato conservatorismo delle gerarchie vaticane. Con un editorialedal titolo Servire la Chiesa, non servirsene pubblicato sul giornale dell’Azione cattolica «Il Quotidiano» del 21 gennaio 1958, il cardinale Alfredo Ottaviani accusa di tradimento Dino Del Bo, ministro scudocrociato per i Rapporti con il Parlamento, reo di aver sostenuto che le divergenze di vedute con Mosca non devono pregiudicare il dialogo con l’Urss. In scia si pone Luigi Sturzo che, richiamandosi all’articolo 95 della Costituzione sull’unità d’indirizzo politico del governo chiede le sue dimissioni. Comunisti e socialisti criticano invece le interferenze del clero nella vita politica italiana. Alle accuse rivolte al governo dal senatore del Pci Ambrogio Donini di aver tollerato la violazione dell’articolo 7 della Costituzione e degli articoli 24 e 43 del Concordato lateranense, Zoli replica che le osservazioni fatte da Del Bo sono di forma e non di sostanza, e che quindi non esiste alcun disaccordo sulla linea politica del suo esecutivo. Nel tentativo di smorzare la polemica l’«Osservatore Romano» si spinge a dichiarare che le considerazioni di Ottaviani sono formulate «a titolo personale», ma l’anticomunismo dilagante nelle stanze vaticane certo non si stempera, così come la presa di distanza dal progetto di «apertura a sinistra» in corso di elaborazione in seno alla Dc⁶³².

La questione dei rapporti con la Chiesa diventa un tema sensibile per il governo Zoli nel momento in cui, in vista delle elezioni politiche del 1958, radicali e repubblicani si alleano facendone un argomento chiave della propria campagna. A dare fuoco alle polveri oltre all’articolo del cardinale Ottaviani èla condanna di monsignor Pietro Fiordelli, vescovo di Prato, da parte del Tribunale di Firenze.Il vescovo, saputo che due battezzati della sua diocesi si vogliono sposare secondo il rito civile, invia al parroco dello sposo una lettera nella quale definisce il matrimonio civile tra i due cristiani uno scandaloso «concubinato». Denunciato dagli sposi per diffamazione, monsignor Fiordelli non si presenta alla prima udienza, non riconoscendo la giurisdizione italiana su una materia riguardante il governo spirituale dei fedeli. Condannato in primo grado a pagare 40.000 lire di multa Fiordelli è assolto in appello⁶³³. All’interno delle gerarchie vaticane c’è chi grida allo scandalo nei confronti di una sentenza che si configura come uno strappo al Concordato del 1929. C’è chi ritiene, invece, che cedere alle critiche sollevate dai cattolici significherebbe per lo Stato rinunciare alle proprie prerogative costituzionali nel campo della giustizia. La polemica entra in Parlamento nel momento in cui il presidente del Consiglio è chiamato a rispondere ad alcune interpellanze che sollevano critiche sul contegno del ministro delle Finanze Giulio Andreotti intervenuto in difesa del vescovo di Prato. In Senato il discorso pronunciato il 6 marzo dal ministro Tambroni anima la discussione al punto tale che esponenti della Dc e del Pci vengono alle mani.

Nonostante il clima politico surriscaldato dagli attriti con la Chiesa di Pio XII^{{
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I presidenti e la presidenza del Consiglio dei ministri nellItalia repubblicana

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