Edizione: 2010 Pagine: 276 Collana: i Robinson / Letture ISBN carta: 9788842094623 ISBN digitale: 9788858101261 Argomenti: Storia medievale, Storia moderna, Storia contemporanea, Storia di città e regioni d'Italia
Gli anni di Genova
Franco Cardini - Michel Balard - Giuseppe Felloni - Arturo Pacini - Carlo Bitossi - Giovanni Assereto - Bianca Montale - Sergio Luzzatto - Antonio Gibelli
Nove grandi storici raccontano gli anni e gli uomini che hanno cambiato la storia di Genova e del mondo.
Dalle crociate al trattato di Ninfeo, dalla fondazione del Banco di San Giorgio alla congiura Fieschi, dalla sfida al regno di Francia all'eroico moto di popolo contro gli austriaci, dalla rivolta contro i Savoia ai funerali di Mazzini, fino al dibattito sull'interventismo alla vigilia della prima guerra mondiale.
Franco Cardini è professore emerito nell’Istituto di Scienze Umane e Sociali (ora denominato Istituto di Scienze Umane e Sociali/SNS), Directeur de Recherches nell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e Fellow della Harvard University.
Antonio Gibelli è tra i massimi studiosi di storia della prima guerra mondiale. Ha fondato l’Archivio Ligure della Scrittura Popolare (ALSP), con sede presso l’Università di Genova, e nel 2015 è stato consulente della Rai per un ciclo dedicato alla Grande guerra. Collabora con i quotidiani “Il Secolo XIX” e “il manifesto”. Tra le sue opere: Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò (Einaudi 2005); L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale (Bollati Boringhieri 2007); Berlusconi passato alla storia. L’Italia nell’era della democrazia autoritaria (Donzelli 2010); La Grande Guerra degli Italiani (Rizzoli 2014).
Questo libro nasce dal ciclo di lezioni sulla storia di Genova tenute tra novembre
2009 e febbraio 2010 a Palazzo Ducale. Agli incontri ha partecipato un pubblico numeroso
e attento, e molte persone sono purtroppo rimaste fuori poiché le sale si sono riempite
completamente. Anche per queste persone – oltre che per tutti i lettori italiani interessati
a Genova – abbiamo pensato, d’accordo con i nostri partner della Fondazione Edoardo
Garrone, di riproporre le lezioni in una forma scritta che rimanesse nel tempo.
Cogliamo l’occasione per ringraziare il Comune di Genova e tutta l’équipe di Palazzo
Ducale Fondazione per la cultura, senza i quali non sarebbe stato possibile svolgere
l’iniziativa in un contesto così rappresentativo della storia della città né promuoverla
in maniera tanto efficace. Un finale ringraziamento anche a Laura Sicignano, che ha
introdotto le lezioni.
Dopo il successo degli Anni di Genova, abbiamo deciso insieme alla Fondazione Edoardo
Garrone di continuare con un nuovo ciclo di lezioni che avrà per tema Genova contemporanea
e che ci auguriamo possa suscitare lo stesso interesse nel pubblico e nei lettori.
1097. Genova e la prima crociata
di Franco Cardini
Una città, come ha detto il grande Roberto Sabatino Lopez, è anzitutto uno stato d’animo.
Non bastano le mura, gli edifici pubblici – religiosi e civili – e quelli privati,
le attività economiche. Un centro demico, grande o piccolo che sia, non è ancora civitas. Quel che «fa» la città è, si direbbe oggi con una parola in sé alquanto ambigua
ma che va di moda, l’identità: cioè una comune e comunitaria visione del mondo. E
bisogna rendersi conto con finezza e profondità quando, nella «lunga durata» (talora
nella «lunghissima durata» delle nostre città mediterranee, spesso plurimillenarie),
irrompono quelle «emergenze», cioè accadono quegli eventi e si elaborano quei valori
che inducono una società di uomini e di donne la quale ha in comune una certa porzione
di territorio, delle strutture abitative, dei legami familiari e solidaristici, delle
tradizioni e degli interessi comuni, a «sentirsi città»; e non solo a organizzare
il presente e a pianificare il futuro, ma anche a rileggere e a reinterpretare il
passato alla luce di questo suo nuovo sentimento ch’è, esso stesso e di per sé, già
in quanto tale un progetto.
Ecco perché può anche esser utile e legittimo, perfino necessario – ma non è mai sufficiente
–, scrivere una storia cronologica e deterministica delle nostre città, trattandole
alla stregua di quello che Oswald Spengler evoluzionisticamente pensava del «destino»
delle civiltà, che nascono, fioriscono, maturano e si avvizziscono come piante.
Parliamo dunque di Genova e della sua storia. Che ha radici senza dubbio molto antiche,
forse celto-liguri, certamente (come tutti sappiamo) romane; fu alleata di Roma nelle
guerre annibaliche e principale porto della Gallia Cisalpina, quindi centro dominato
dall’impero romano-orientale nell’età giustinianea e postgiustinianea, nel tentativo
di ricostituzione dell’unità imperiale spezzata alla fine del IV secolo; poi centro
controllato dai longobardi e forse tenuto un po’ in disparte al tempo dell’esperimento
del regnum Italiae carolingio, tra VIII e primi del X secolo.
Ma, parlando di Genova per quel che fu, o che noi possiamo ricostruire che sia stato,
non si sfugge alla comune logica di chiunque ripercorra vicende passate: di esse si
finisce col parlare sempre e nella misura in cui riguardano il presente. È la legge
enunziata dalla «Seconda considerazione inattuale» di Nietzsche, quella dedicata all’Utilità e il danno della storia per la vita: e non c’è «obiettività», non c’è metodologia storica che tengano. Noi non parliamo
qui tanto della «Genova che fu», ch’è perduta per sempre e non sarà mai ricostruibile
storicamente com’era: parliamo di «Genova per noi», di quel ch’è diventata anche nella
riflessione storica dei suoi studiosi e nell’idea diffusa dei suoi cittadini, quella
che tutti noi possiamo verificare contemplando una volta di più la facciata affrescata
di Palazzo San Giorgio, quella «nobile», a ovest, che guarda il porto antico e il
mare: dove l’effigie dorata di Guglielmo Embriaco, il «Testadimaglio» – una versione
«economica» di quella che avrebbe dovuto essere una costosissima statua in bronzo1 –, mostra trionfalmente la più santa e prestigiosa delle sue prede, il «Sacro Catino
di Cesarea»2. Il Testadimaglio del mito cittadino, che tanto ha inciso sull’elaborazione identitaria
genovese, non è opposto o alternativo alla realtà storica3. Della storia il mito fa sempre parte integrante: è storia esso stesso.
1 Non disponiamo più delle originali pitture primo-seicentesche di Lazzaro Tavarone;
degradate in modo grave e irrecuperabile, esse furono fantasiosamente «restaurate»
all’inizio del Novecento da Lodovico Pogliaghi, che «completava» così la ristrutturazione
neogotico-«ipergotica» del palazzo, dovuta al nostro D’Andrade.
2 Sulla reliquia esiste un’imponente bibliografia: ma è sintomatico che Caffaro, testimone
oculare e cronista dell’espugnazione della città da cui esso sarebbe provenuto, appunto
Cesarea, non ne parli. Della sua fama, cresciuta nel tempo probabilmente da quando,
nella seconda metà del XII secolo, si diffusero i romanzi dedicati al Graal che in
sede cittadina venne identificato con essa, è primo testimone il più illustre cronista
del regno franco di Gerusalemme, Guglielmo arcivescovo di Tiro: il quale scrivendo
alla fine del XII secolo riferisce che durante il saccheggio di Cesarea i genovesi
s’impadronirono di un vas coloris vividissimi, in modo parapsidis formatum, che fu ritenuto – addirittura – ricavato da un enorme smeraldo e che si disse fosse
un catino a suo tempo donato dalla regina di Saba a Salomone, quindi usato da Gesù
nell’ultima cena e infine da Nicodemo per raccogliervi il sangue del salvatore crocifisso.
Dell’esistenza della reliquia a Genova Guglielmo era stato forse informato dai numerosi
genovesi residenti nella città della quale egli era vescovo. Fu anche da lui, oltre
che dalla tradizione cittadina, che attinse un secolo dopo il suo collega vescovo
di Genova, il domenicano Giacomo da Varazze (Iacobus a Varagine, Cronica civitatis Ianuensis, a cura di G. Monleone, vol. II, Istituto storico italiano per il Medio Evo, Roma
1941, pp. 309-15). Cfr. D. Calcagno, Il Sacro Catino: impianto e sviluppo del «culto», e M. Cavana, L’iconografia del Sacro Catino, entrambi raccolti in M. Macconi, M. Montesano (a cura di), Il Santo Graal. Un mito senza tempo dal Medioevo e il Cinema, Marietti, Genova 2002, rispettivamente pp. 31-45 e 47-76. La reliquia, un recipiente
esagonale di vetro verde opera forse dell’artigianato siro-fenicio tardo-antico, è
il pezzo più famoso del tesoro della cattedrale genovese di San Lorenzo. Napoleone
lo aveva fatto portare a Parigi, e durante il viaggio di ritorno si ruppe: il danno,
pur dopo il restauro, è tuttora visibile.
3 Cfr. ora sulla sua figura e la sua famiglia G. Airaldi, Blu come il mare. Guglielmo e la saga degli Embriaci, Frilli, Genova 2006.
Qualcuno continua a parlare di quelli del cosiddetto «Medioevo» come di «secoli bui»:
che senza dubbio non furono tali ma che, se e quando e nella misura in cui lo furono,
tali furono anzitutto e soprattutto in quanto ci fa difetto, per adeguatamente illuminarli,
la luce d’una documentazione archeologica e storica che in effetti purtroppo manca
o è comunque carente. Ma è in quei secoli «bui», nel «buio» della Genova carolingia
e postcarolingia, che bisogna guardare se vogliamo comprendere meglio quel ch’è accaduto
più tardi. Un «buio» brulicante di umanità e di attività, nel quale fermentano e proliferano
le premesse climatiche, ambientali, demografiche, geo-storiche e socio-religiose della
futura e in apparenza repentina «esplosione» civile e culturale.
Le tenebre paiono in effetti d’un colpo diradarsi, come appare in certe fredde mattine
quando Istanbul, vista dal mare, si libera ad un tratto della spessa cortina di nebbia
che fino a un istante prima la nascondeva e – come splendidamente la descrive Edmondo
De Amicis in una magistrale pagina dei suoi diari di viaggio – trionfa nell’inatteso
sfolgorar delle sue cupole d’oro e d’argento. Ma Genova, al pari d’Istanbul, non nasce
affatto d’un tratto, come Atena tutta armata dalla testa di Zeus.
Il momento magico del suo emergere dalla bruma dei secoli bui non è né il 1097, che
qui celebriamo come anno di partenza delle galee cerulee che avrebbero solcato il
mare fino a condurre i genovesi sotto Antiochia, né il 1099, che li vide coprotagonisti
della conquista euro-occidentale di Gerusalemme (la «prima crociata», come si è abituati
a dire), né il 1101, che assisté alla presa di Cesarea di Palestina, né infine il
1109, in cui essi s’impadronirono di Jebail, cioè di «Gibelletto», poi diventata feudo
oltremarino d’una grande famiglia appartenente alla cerchia dei maiores cittadini. Parleremo, certo, di questo glorioso dodicennio: e ne parleremo come fase
centrale e fondamentale d’un più lungo periodo, grosso modo dalla metà dell’XI a quella
del XII secolo, che vide la città ingrandirsi, fortificarsi, cingersi di nuove mura
e acquisire sia una decisa configurazione socio-politica al suo interno, sia una precisa
immagine nel contesto non solo italico, ma europeo e mediterraneo, che si andava profondamente
rinnovando.
Ma è all’evento erratico ed enigmatico del 9354 che bisogna in prima istanza guardare. A quel furioso e crudele assalto saraceno
che in quell’anno colpì Genova lucrando un ricco bottino in beni pregiati e in schiavi,
e alla dura, immediata, rabbiosa rappresaglia che gli fece seguito. Ne parliamo con
sicurezza poiché l’archivio della Genizah del Cairo e gli scrittori arabi confermano
quell’assalto, portato contro una città ch’era non certo debole e povera, bensì al
contrario già tanto ricca da apparire una più che appetibile preda in quanto porto
di un entroterra padano-piemontese ben collegato alla Borgogna e alla Provenza, centro
d’una certa importanza di smistamento di manufatti tessili e tappa di rotte navali
che lo collegavano ad Alessandria e alle città costiere occitano-catalane in un tempo
nel quale – diciamolo come l’avrebbe detto Arnold Toynbee – la «sfida» dell’offensiva
corsara arabo-berbera andava affievolendosi in corrispondenza con l’esaurirsi della
prima ondata offensiva musulmana e la risposta dei «franchi» e dei «latini» euro-occidentali,
dopo la falsa partenza dell’impero carolingio e il frammentarsi della sua esperienza,
si stava al contrario configurando con sempre maggior energia. La notizia dell’immediata
ed efficace vendetta arriva invece da una cronaca più recente, quella tardo-duecentesca
del domenicano e vescovo genovese Giacomo da Varazze: ed è significativa sul piano
dell’elaborazione della coscienza identitaria cittadina, ma in sé appare un po’ sospetta.
Forse la Genova di quell’anno non aveva ancora la forza di replicare, in realtà, a
un assalto saraceno. Ma esso è prova che la città, arroccata attorno al suo castrum alto sullo specchio delle acque marine, era già in grado d’interessare e magari perfino
di preoccupare quelli ch’erano, allora, i quasi incontrastati signori del Tirreno,
i corsari arabo-berberi provenienti dall’Africa settentrionale e dai nidi costieri
iberici. Il colpo dovette esser grave, ma non tale da metterla in ginocchio: se è
vero quel che appare dalle fonti, che cioè l’attività marinara e mercantile cittadina
ne venne quasi immediatamente rafforzata. Non è certo un caso se pochi lustri dopo,
nel 951, i due re d’Italia, Berengario e Adalberto, approvarono le consuetudines cittadine genovesi: un atto dal quale risulta chiaro come, all’interno della stretta
città murata alta sul mare, il castrum tra Banchi e il colle di Sant’Andrea, si movesse un piccolo universo tanto religioso
quanto laico e operassero anche parecchi forestieri. Il territorio italico nord-occidentale
del tempo era inquadrato nelle tre marche arduinica, aleramica e obertenga, così chiamate
dalle illustri schiatte principesche di esso rispettivamente titolari: ciascuna di
loro, «con i prolungamenti verticali nell’Hinterland pedemontano e padano»5, favoriva i collegamenti con l’Europa e disponeva del suo rispettivo sbocco al mare
con i tre porti di Ventimiglia, di Savona e di Genova. L’anno dopo, il 952, ci mostra
attivo il primo vicecomes al quale gli Obertenghi – arroccati nelle loro fortezze tra Appennino e Lunigiana
– affidarono la gestione cittadina dei diritti e delle prerogative marchionali: Ido,
dal quale prendono avvio i tre orgogliosi rami principali dell’articolato lignaggio
vicecomitale, originari tutti della Valpolcevera (di Manesseno, di Carmandino e delle
isole). Ben presto i sepolcri delle famiglie vicecomitali si sarebbero affollati nella
cattedrale-santuario di San Siro, pegno del nesso cultuale e martirologico che legava
la sede diocesana suffraganea genovese a quella metropolitana di Milano e centro di
un popoloso burgus portuale extramurario6, a ovest-nord-ovest del castrum e di quel che restava del reticolato stradale della città romana.
6 Il burgus, come racconta Caffaro, sarebbe stato compreso col castrum in un’unica nuova cinta muraria edificata in fretta solo negli anni Cinquanta-Sessanta
del XII secolo, per paura di un assalto da parte di Federico I: col quale tuttavia
i rapporti furono nel complesso piuttosto buoni (ivi, p. 102).
S’è detto che la notizia d’una rappresaglia genovese all’assalto del 935, fornitaci
da Giacomo da Varazze, appare incerta e sospetta. Ma essa è probabilmente frutto dell’anticipazione
di un fatto che nell’universo cittadino del tempo dovette lasciare una traccia profonda:
la spedizione organizzata nel 972 dal duca di Aquitania contro il nido corsaro saraceno
di Fraxinetum, vicino all’odierna Saint-Tropez, cui i genovesi presero parte organizzati appunto
dai vicecomites degli Obertenghi. Il lasso di tempo tra 935 e 972 può essersi accorciato nella memoria
cittadina della quale Giacomo è testimone: e, d’altronde, la vendetta è notoriamente
un piatto che si mangia freddo.
Il debutto del ceto dirigente cittadino fu pertanto guerriero e marinaro, e in quanto
tale agricolo per un verso – la terra rimaneva pur sempre la base sicura e concreta
dei maiores, cui appartenevano tanto le famiglie vicecomitali quanto quelle degli advocati, i procuratori e tutori laici dei beni episcopali –, mercantile e cantieristico,
quindi imprenditoriale, per un altro. Come in molti altri centri italici e non soltanto
tali, le nascenti libertà cittadine si andavano catalizzando attorno alla curia diocesana,
non senza tuttavia che una forte e costante tensione venisse a crearsi tra il vescovo
e i suoi vassalli da una parte, le famiglie vicecomitali e i loro clientes dall’altra. Non si potrà mai insistere abbastanza, al riguardo, sul carattere saliente
di un episodio del 1021: quando il vescovo Lanfranco II fece traslare le reliquie
del protettore san Siro dal vecchio santuario a lui dedicato, al centro del popoloso
burgus extramurario, nella nuova cattedrale di San Lorenzo.
Il gesto di Lanfranco ha un valore profondo. Le translationes delle reliquie da aree non difese ad altre, cinte da mura e sorvegliate da armati,
erano state consuete già tra IX e X secolo per difendere quei sacra pignora da saccheggi e profanazioni: e certo il burgus era ancora privo di difese murarie. Il 1021, tuttavia, fu un anno del tutto speciale:
proprio nel corso di esso, difatti, si concluse il conflitto che durava ormai da sei
anni e che contrapponeva le alleate marinerie pisana e genovese all’emiro corsaro
al-Mujahid, signore di Denia e delle Baleari, il quale dai suoi covi impiantati in
Sardegna minacciava e tartassava le coste tirreniche. La vittoria contro al-Mujahid,
che fu costretto a recedere dallo specchio d’acqua nel quale a lungo aveva spadroneggiato,
costituì l’avvio di un vero e proprio movimento di controffensiva (o piuttosto di
una vera e propria offensiva) che nel corso di più di un secolo avrebbe condotto le
città italiche – ma anche provenzali e catalane cristiane – a egemonizzare l’intero
Mediterraneo, a scapito delle marinerie tanto bizantina quanto musulmana. Va tenuta
presente al riguardo l’impresa pisano-genovese del 1034 contro la città algerina di
Bona, l’antica Ippona ch’era stata la sede episcopale di sant’Agostino; nel 1063 ancora
pisani e genovesi, accorsi in appoggio al normanno Ruggero d’Altavilla, che stava
conquistando la Sicilia nella quale ormai il potere aghlabide si era frammentato,
furono protagonisti di un’incursione nel porto di Palermo, ricavandone un bottino
che servì ai primi per fondare il loro prestigioso duomo; infine, nel 1087-88 fu compiuta
«una vittoriosa spedizione – alla quale la Sede Apostolica aveva accordato il vexillum Sancti Petri – contro la capitale zayrita di al-Mahdiyah»7. Tale spedizione, patrocinata da papa Vittore III, «procurò a genovesi e pisani consistenti
privilegi commerciali e ricchi bottini di guerra immediatamente investiti nella costruzione
di imbarcazioni, necessarie per mantenere la nuova egemonia nel Mediterraneo occidentale
e per dilatare le proprie frontiere economiche»8. I pisani celebrarono quella vittoria con un alto e sonoro Carmen in victoria Pisanorum9; i genovesi non furono per il momento in grado da fare altrettanto, così come più
tardi, fra 1113 e 1115, non poterono o non vollero affiancare i rischi e i costi dell’impresa
patrocinata dal conte di Barcellona contro le Baleari, alla quale ancora una volta
i pisani presero parte insieme con catalani e provenzali, traendone sia un buon ricavato
sia una vasta rinomanza da essi stessi espressa in un altro carmen epico10. Va notato che, intanto, non solo la Sicilia era stata completamente conquistata
dai normanni, ma era stato anche scritto un altro capitolo importante della Reconquista navarrese, castigliana e aragonese della penisola iberica, episodio importante della
quale era stato il pur fallito attacco contro Valencia e Tortosa, tra 1092 e 1093,
cui avevano partecipato ancora una volta, uniti, pisani e genovesi11. Ciò non aveva vietato alle due città di entrare frattanto, ormai, in aperto conflitto:
la loro rivalità era stata segnata, in particolare, dalla corsa al conseguimento per
le rispettive sedi vescovili della legazia apostolica sulle isole di Corsica e Sardegna,
sulle quali si appuntavano le attenzioni e le intenzioni egemoniche di entrambe. Dopo
un lungo periodo di lotte svoltesi attraverso alterne vicende e culminate nella lunga
guerra combattuta tra 1066 e 1077, Pisa aveva per il momento vinto la gara, riuscendo
a farsi assegnare tanto la legazia quanto il necessario corrispettivo, la promozione
della sua sede da episcopale ad archiepiscopale.
7 Cfr. A. Musarra, La guerra di San Saba, Pacini, Pisa 2009, p. 4; cfr. anche Airaldi, Blu come il mare, cit., p. 50.
8 Airaldi, Blu come il mare, cit., p. 50, con rinvio a M. Gallina, La formazione del Mediterraneo medievale, in AA.VV., Storia medievale, Donzelli, Roma 1998, p. 243.
9Carmen in victoria Pisanorum, in «Atti della Società ligure di Storia patria», IV, 1886.
10 Cfr. C. Calisse (a cura di), Liber Maiolichinus de gestis Pisanorum illustribus, «Fonti per la storia d’Italia», Tipografia del Senato, Roma 1904; G. Scalia, Epigraphica latina. Testi latini sulla spedizione contro le Baleari del 1113-1115
e su altre imprese antisaracene del sec. XI, in AA.VV., Miscellanea di studi ispanici, Pacini, Pisa 1963, pp. 234-86; Id., Per una riedizione critica del «Liber maiorichinus», in «Bullettino dell’Istituto storico italiano e Archivio muratoriano», LXXI, 1960,
pp. 39-112; B. Garí, Pisa y el control del Mediterráneo occidental, in «Acta historica et archeologica mediaevalia», XIII, 1992, pp. 9-16; M. Tangheroni,
La spedizione pisana del 1113-1115 e la conquista di Maiorca, Pacini, Pisa 1997.
11 Cfr. Airaldi, Blu come il mare, cit., p. 50; Musarra, La guerra, cit., p. 4. L’impresa contro Tortosa da parte di Sancho re di Navarra e del conte
di Barcellona, cui presero parte i genovesi, è stata richiamata altresì da R.S. Lopez,
Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo, Marietti, Genova-Milano 1996, pp. 24-32.
Siamo partiti da un episodio che a noi potrebbe sembrare secondario ed esclusivamente
legato alla storia cultuale-devozionale, la translatio delle reliquie di san Siro nel 1021 dal santuario omonimo alla cattedrale di San
Lorenzo, per sottolineare come non fosse per nulla casuale che essa avesse luogo proprio
mentre le armi cristiane, sul mare, stavano battendo il temibile emiro corsaro al-Mujahid.
In effetti, come s’è già detto, translationes del genere avevano uno scopo difensivo. Ma se si fossero volute tutelare le reliquie
del patrono, esposte in un santuario che stava al centro del burgus privo di mura, dalle possibili profanazioni saracene, esse avrebbero dovuto esser
traslate alcuni anni prima. Il farlo invece a vittoria avvenuta, quindi a pericolo
se non scomparso quanto meno allontanato, parla decisamente un diverso linguaggio:
il vescovo, non tollerando più di mantenere la propria cattedra nella stessa chiesa
ch’era il sacrario delle famiglie vicecomitali, si era fatto costruire una nuova cattedrale
e si era portato dietro il sacrum pignus patronale, umiliando in tal modo i vicecomites e sancendo la sua ostilità nei loro confronti. La lotta per il potere cittadino verteva,
in effetti, sulla contesa tra il presule e i suoi vassalli da una parte, le famiglie
vicecomitali dall’altra. Dopo un pluridecennale braccio di ferro, nel 1052 fu eletto
vescovo Oberto, uscito da una famiglia vicecomitale: quell’episodio segnò la «cattura»
della dignità episcopale da parte dei vicecomites, che in tal modo – conseguendo il controllo sulla Chiesa cittadina, ma nel contempo
accordandosi con la controparte – accedevano a un più ampio controllo sulla società
genovese, evidente preludio alla fine di quel poco che in termini giurisdizionali
e fiscali ancora restava dei diritti marchionali concretamente esercitabili sulla
città, e quindi degli iura regalia spettanti agli imperatori romano-germanici in quanto re d’Italia e gestibili, per
delega, dai marchesi. Dopo non troppo tempo difatti, nel 1056, Alberto Malaspina –
in quanto erede degli Obertenghi e dei loro diritti marchionali – obbligava con giuramento
solenne se stesso e i suoi successori a rispettare le consuetudini degli habitantes in civitate Januensi12.
La lotta civile, sospesa tra 1052 e 1056 in seguito a un accordo tra le parti, riprese
più vigorosa alcuni anni dopo anche per l’articolarsi e il complicarsi della stratificazione
sociale in città, poiché accanto ai maiores, ai meliores di stirpe vicecomitale o avvocatizia, cominciarono ad affermarsi esponenti dei nuovi,
operosi ceti mercantili e artigiani. Ma non va dimenticato, intanto, un fatto fondamentale.
Abbiamo appena citato una serie praticamente ininterrotta di cruenti ma altresì lucrosi
fatti d’arme, tra i primi dell’XI secolo e la metà del successivo, che riguardano
il Mediterraneo centrale e occidentale e hanno come protagonisti genovesi e pisani,
mentre l’altra grande città marinara tirrenica, Amalfi, entrava in una lunga e irreversibile
eclisse e l’Adriatico assisteva sia a una crescente attività guerriera e mercantile
di Venezia, sia all’iniziativa delle città pugliesi e nel 1081 all’offensiva marinara
dei normanni del casato d’Altavilla, Roberto il Guiscardo e Boemondo, in Albania contro
Bisanzio13. Vanno richiamati per lo stesso periodo altri fatti: il fratello di Roberto, il «gran
conte» Ruggero, strappava ai musulmani arabo-africani la Sicilia; i pisani saccheggiavano
nel 1087-88 la città tunisina di al-Mahdiya sovrano della quale era lo ziride Tamin14; e la Reconquista iberica procedeva a gran passi, dalla celebre impresa di Barbastro in Aragona del
1063-64 e di Coimbra ancora nel 1064 alla conquista di Toledo nel 1085 fino alla lunga
e ambigua avventura del Cid Campeador per giungere più tardi – dopo la battuta d’arresto
coincisa con l’arrivo nella penisola degli Almoravidi – ad altri qualificanti episodi
come la presa di Almeria e di Tortosa tra 1147 e 1149, contemporanea alla conquista
di Lisbona da parte di Alfonso, figlio di quell’Enrico di Borgogna genero di Alfonso
VI di Castiglia che per lui aveva creato la contea del Portogallo. Tra 1139 e 1143
Alfonso, in seguito alle sue ripetute vittorie sui mori, era stato acclamato e confermato
re di quella terra. La conquista di Almeria e di Tortosa e il ruolo che vi ebbero
i genovesi furono celebrati da un famoso contributo del cronista Caffaro: la cui alta
e commossa prosa non annulla per niente il trascinante effetto epico15. Richiamiamo le date di queste principali imprese guerriere, svoltesi tra Portogallo,
Africa settentrionale, Albania e Sicilia: 1034, 1063-64, 1081, 1085, 1087, 1091-94,
1113-15, 1139-43, 1147-49. Non si può non osservare come – incastonato in posizione
anche cronologicamente centrale in quest’arco di tempo durato oltre un secolo e intensamente
costellato di atti di guerra, tra cui le due spedizioni alle quali siamo abituati
a riferirci come la prima e la seconda crociata – stia il quindicennio 1095-1110,
durante il quale maturarono l’impresa in Siria-Palestina (la prima crociata, per l’appunto)
e le spedizioni guerriere che, tra 1097 e 1109, resero i genovesi coprotagonisti del
nuovo regno di Gerusalemme, fondato dai «crociati» (o, come sarebbe meglio dire con
espressione mutuata dai greci e dagli arabi, dai «franchi») con capitale Gerusalemme,
nonché titolari di numerose colonie commerciali sul litorale del mar di Levante, tra
Giaffa e Jebail.
13 Su Boemondo la bibliografia è immensa. Ci limitiamo a segnalare F. Cardini, N. Lozito,
B. Vetere (a cura di), Boemondo. Storia di un principe normanno, Congedo, Galatina 2003, e il recente libro di R. Russo, Boemondo d’Altavilla. Un pugliese alla prima crociata, Rotas, Barletta 2009, da dove si può conseguire un’attendibile panoramica sulle
fonti e risalire alla precedente, copiosa letteratura.
14 J. Jehel, L’Italie et le Maghreb au Moyen Age. Conflicts et échanges du VIIeau XVesiècle, Presses Universitaires de France, Paris 2001.
15Ystoria captionis Almarie et Turtuose ann. MCXXXVII e MCXXXXVIII, in L.T. Belgrano (a cura di), Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, «Fonti per la storia d’Italia», Tipografia del Senato, Roma 1890; cfr. anche la
traduzione italiana, corredata da un bello studio introduttivo, Caffaro, Storia della presa di Almeria e Tortosa (1147-1149), a cura di M. Montesano, Frilli, Genova 2002. Importanti osservazioni al riguardo
in M. Macconi, Caffaro e i simboli della crociata, in F. Martignone (a cura di), Il Mediterraneo attraverso i secoli, Name, Genova pp. 59-67.
Una vecchia e deterministica visione storica, viziata da un pregiudizio evoluzionistico
che lo storicismo hegeliano di varia tendenza non aveva del tutto sconfitto, chiamava
«precrociate» le imprese condotte nel bacino mediterraneo durante l’XI secolo contro
i vari potentati islamici, scorgendovi il «naturale» punto d’arrivo nell’impresa che
veniva presentata, in un’illusoria e artificiosa coerenza, come predicata da Urbano
II nel Concilio di Clermont del novembre 1095 e sviluppatasi poi fino alla presa della
Città Santa del luglio 1099. La prima crociata sarebbe stata poi all’origine di una
serie d’imprese analoghe, sino alla fine del XIII secolo e anche oltre.
Le cose stanno altrimenti: questa visione arcaica e superficiale va completamente
rovesciata. Le cause e le ragioni della cosiddetta prima crociata sono chiaramente
e profondamente radicate non già nella «risposta» cristiano-occidentale alla «sfida»
aggressiva turco-selgiuchide, che a sua volta si era esaurita da circa un ventennio
dopo la battaglia di Manzikert in Anatolia, bensì nel vorticoso sviluppo demografico,
socio-culturale e socio-economico dell’Europa «latina» (cioè occidentale) del tempo
e nella drammatica ridefinizione socio-politica e religiosa imposta dai fautori della
Riforma ecclesiastica – e civile – del tempo, in particolare dai sostenitori delle
tesi di Gregorio VII, che furono gli effettivi fondatori del monarchismo pontificio
romano medievale. La cosiddetta seconda crociata, bandita nel 1146-47 in seguito alla
caduta della contea crociata di Edessa nelle mani dell’atabeg turco di Aleppo e Mossul che metteva in crisi e in pericolo tutto il regno crociato
di Gerusalemme, fu l’effettivo inizio della peraltro disordinata e rapsodica serie
delle successive crociate – ma quella fatidica parola non era ancora nell’uso – e
il concreto avvio di una tradizione, di una giurisprudenza e se si vuole di una «mentalità»
crociata: tutto ciò avrebbe dato luogo a un movimento e a uno sviluppo giuridico,
culturale e propagandistico di lungo periodo, destinato a tracimare verso aree e obiettivi
diversi da quelli della difesa o dal recupero della Terrasanta e quindi a rinnovarsi
tra XIV e XV secolo attraverso il contatto con il pericolo ottomano, fino a risorgere
in successivi, talora inaspettati revivals moderni. Ma questa lunga e complessa evoluzione, se pretese di trarre origine e modello
dai fatti del 1095-1100, non ha granché a che fare con la fondazione del regno crociato
di Gerusalemme, bensì con la sua crisi avviata a partire dalla metà del XII secolo.
Non a caso, tra il bando della prima e quello della seconda crociata sarebbe passato
circa mezzo secolo.
La spedizione, partita come «pellegrinaggio armato» in soccorso dei cristiani orientali
e conclusasi con la conquista della Città Santa, si accampa viceversa, e non a caso,
proprio nel centro cronologico d’una fase di rigoglio della riconquista cristiano-occidentale
del bacino mediterraneo che ha proprio Genova come suo fulcro vitale. È qui che si
situa il momento forte della nascita dell’identità cittadina, qui che si muovono i
suoi protagonisti. Soprattutto il Rolando genovese, Guglielmo Testadimaglio della
schiatta vicecomitale degli Embriaci, insieme con colui che della Genova tra XI e
XII secolo è il Tucidide e il Tirteo, il testimone oculare, il fondatore della gloriosa
annalistica genovese e il cofondatore della cronachistica crociata: Caffaro di Rustico,
proveniente da Caschifellone presso San Cipriano in Val Polcevera16. Ma procediamo con ordine.
16 Per cui rimandiamo anzitutto alla voce di G. Petti Balbi, Caffaro, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. XVI, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1973, pp. 256-60. Da allora,
la letteratura relativa al cronista è molto cresciuta: ci limitiamo a citare, poiché
riguardano molto da vicino i temi di queste pagine e citano con generosità la precedente
letteratura, i begli studi di E. Bellomo, La componente spirituale negli scritti di Caffaro sulla prima crociata, in «Atti della Società ligure di Storia patria», XXXVII, 1997, pp. 65-92; Ead.,
La prima crociata e il regno gerosolimitano del XII secolo visti dai genovesi, in P. Airaghi (a cura di), Dalla prima crociata alla storia delle crociate: i fatti, gli uomini, i testi, Comune di Rho, Rho 2000, pp. 21-26; Ead., «Galeas... armatas strenue in Syriam direxerunt»:
la prima crociata e il regno gerosolimitano del XII secolo nella cronachistica genovese
sino al Duecento, in M. Meschini (a cura di), Mediterraneo medievale. Cristiani, musulmani ed eretici tra Europa e Oltremare, Vita e Pensiero, Milano 2001, pp. 103-30, poi ricapitolati nell’ampio, arioso E.
Bellomo, A servizio di Dio e del Santo sepolcro. Caffaro e l’Oriente latino, Cleup, Padova 2003.
Nel 1064 un nutrito gruppo di pellegrini tedeschi, inglesi e fiamminghi guidati dall’arcivescovo
di Magonza, terminata la loro visita della Terrasanta, si presentò a Giaffa per prendere
imbarco: e fu accolto da uno stolus Januensis che gli consentì il viaggio di ritorno. La testimonianza, nel suo irrimediabile carattere
rapsodico, sembra attestare una presenza genovese nei porti del mar di Levante che
non doveva essere né isolata né casuale. Tardive fonti genovesi confermano che tra
il 6 e il 14 luglio del 1096, durante il Concilio di Nîmes, Urbano II scrisse ai genovesi
incitandoli a partecipare all’impresa avviata a Clermont nel novembre precedente17. Tale notizia ha sollevato alquanti dubbi: sia per la sua somiglianza con un’altra
lettera – con sostanziale sicurezza ritenuta autentica – inviata dal papa nell’ottobre
successivo «al clero e al popolo» bolognese (e nella quale ci si preoccupava di evitare
partenze affrettate e non autorizzate per l’Oriente), sia perché ci si è chiesti chi
mai potessero essere, concretamente, i destinatari genovesi dell’epistola pontificia.
L’ipotesi più probabile e ragionevole è che, ammesso che la notizia della lettera
corrisponda a verità, essa dovesse venir inviata agli oppositori del vescovo guibertista
Oggero.
17 Cfr. P. Jaffè (a cura di), Regesta pontificum Romanorum a condita Ecclesia ad annum p. Chr. n. MCXCVIII, vol. I, Veit, Lipsiae 1885, ad annum 1096, n. 5651, p. 688.
Più sicura la notizia secondo la quale nel corso della prima metà del settembre di
quell’anno Urbano, di passaggio ad Asti, spedisse a Genova i vescovi Ugo di Grenoble
e Guglielmo V d’Orange per incoraggiare e rafforzare, con ogni evidenza, il movimento
riformatore cittadino che si stava opponendo al vescovo «scismatico». I due vescovi
predicarono nell’antica cattedrale di San Siro, presso le tombe di famiglia dei vicecomites: e ciò era di per sé un’evidente sfida all’ordinario fautore della Chiesa «imperiale»18.
Proposero davvero i due vescovi ai genovesi di unirsi ai guerrieri e ai pellegrini
ch’erano ormai sulla strada dell’Oriente? Quel che sappiamo della politica urbaniana
di quel momento, tesa semmai a gettar acqua sul fuoco e a contenere entusiasmi pericolosi
ora che si trattava di ricostituire nella Cristianità latina un ordine turbato da
quel che fino a poco tempo fa si usava da noi definire «guerra delle investiture»,
autorizza a dubitarne. Ma Caffaro – il quale scriveva, non dimentichiamolo, parecchi
decenni dopo i fatti dei quali era pur stato testimone oculare (e che del resto non
sappiamo se e da quanto tempo avesse cominciato a raccogliere il materiale dei suoi
ricordi) – afferma che alcuni ragguardevoli cittadini presero la croce e che si partì,
con una flotta costituita da dodici galee e un «sandalo» da trasporto, nel luglio
successivo: la preparazione dell’impresa aveva richiesto nove mesi, dei quali però
almeno quattro-cinque sarebbero stati comunque di sosta forzata dal momento che da
metà autunno alla primavera si preferiva non navigare. Si trattava – e va sottolineato –
di un’iniziativa evidentemente privata, patrocinata con ogni evidenza da milites e armatori avversari del vescovo. Ma la discreta consistenza della flotta suggerisce
che ormai la guerra civile correlativa alla contesa pro o contro la riforma della
Chiesa volgeva – non solo a Genova, del resto – alla fine, e che stava riaffermandosi
un periodo di pace. Le navi necessarie a imprese d’un certo impegno si costruivano
espressamente, sulla base di un concorso alle spese che prevedeva quote di partecipazione
anche molto modeste, in modo che perfino gente di umile condizione potesse investirvi
e che le eventuali perdite non fossero rovinose.
Giunte alla foce dell’Oronte, a quel porto di San Simone ch’era lo sbocco al mare
di Antiochia, molti genovesi – Caffaro ci fornisce la cifra di seicento persone, che
appare azzardata – seguirono Boemondo d’Altavilla fino alla città, mentre i restanti,
rimasti nell’accampamento, furono oggetto d’un proditorio attacco musulmano e caddero,
commenta il nostro cronista, ricevendo «la corona del martirio e come martiri di Dio
gli angeli nella sede celeste in compagnia dei Maccabei li posero». Il racconto di
Caffaro conferma quel che sappiamo da altre fonti: la lunghezza dell’assedio, la fame,
la disperazione, infine il miracoloso ritrovamento della santa lancia da parte di
un pellegrino provenzale e la conquista della città, il 14 luglio del 109819.
La santa lancia, l’autenticità della quale venne violentemente contestata soprattutto
dai normanni in quanto protagonista dell’inventio era stato appunto un provenzale e candidato principale alla signoria sulla grande
e bella città siriana sacra alle memorie dell’apostolo Pietro, Raimondo conte di Saint-Gilles
e marchese di Provenza, era diventata si può dire da subito il Palladio dei provenzali.
Di Antiochia s’impadronì però, con spregiudicata audacia, Boemondo d’Altavilla: e
fu lui a offrire ai genovesi un privilegio che permetteva loro insediamento e buone
prospettive d’affari, e che essi tuttavia dichiararono di accettare solo a patto che
ciò non impedisse loro di mantenere intatta la fedeltà a Raimondo, loro vecchio amico
e alleato. I beneficiari dichiaravano esplicitamente che avrebbero difeso i diritti
di Boemondo contro tutti, eccettuato Raimondo; e che, se si fosse profilato uno scontro
diretto, avrebbero fatto il possibile per dirimerlo restando neutrali20.
20 Per gli stretti rapporti tra genovesi e provenzali in genere cfr. ivi, pp. 67-73,
in particolare pp. 69-70; cfr. anche pp. 76-77.
Pare che la flotta ch’era partita da Genova nel luglio del 1097 rientrasse nella sua
città nel maggio successivo: quindi, ben prima che la conquista di Antiochia fosse
conclusa. Ma non è impossibile, anzi è alquanto probabile, che alcuni genovesi scegliessero
di restare con i «crociati». Ciò spiegherebbe in effetti meglio il privilegio da Boemondo
concesso ai genovesi nel luglio del 1098 e che figura nel Liber privilegiorum della Chiesa genovese in quanto, essendone beneficiaria la città nel suo complesso,
esso non poteva allora aver alcun altro destinatario se non il vescovo, nonostante
fosse chiaro ed esplicito che i cittadini protagonisti dell’impresa si erano mossi
spontaneamente e a titolo privato.
I reduci dell’avventura antiochena, nel viaggio di ritorno, avevano sostato secondo
il tardivo racconto di Giacomo da Varazze nel porto di Myra, in Licia, e cercando
le reliquie di san Nicola vi avevano invece rinvenuto – e rapinato da un monastero
greco – le reliquie di san Giovanni Battista21. Ma Caffaro tace su tale avvenimento, e il suo silenzio appare molto strano: resta
difficile a credersi che un evento di tanta e tale importanza passasse sul momento
inosservato e che solo quasi due secoli più tardi ci si ricordasse ch’esso era legato
alle spedizioni che precedettero e accompagnarono il celebre episodio della presa
di Gerusalemme.
21 Per questo «primo incontro» tra Genova e Bisanzio, dopo il periodo in cui la città
era stata direttamente soggetta all’impero e che si era concluso nel 643, cfr. S.
Origone, Bisanzio e Genova, Ecig, Genova 1992, p. 23.
Sta di fatto che l’eventuale arrivo delle preziose reliquie, se davvero giunsero allora,
non attutì in nulla il clima di lotta che sconvolgeva di nuovo la città e che il consolato
di Amico Brusco non era riuscito a sedare. Solo verso il 1099 si riuscì a trovare
infine un certo equilibrio, fondendo le varie «compagne» che si erano andate intanto
formando e stipulando un patto unico di «compagna» valido tre anni, con una guida
costituita da sei consoli. Il fatto che Caffaro attesti che il patto fosse rinnovato
il 1° febbraio del 1102, prevedendo una durata quadriennale e la riduzione dei consoli
a quattro (e tanto l’accresciuta durata della validità del patto quanto il ridotto
numero dei consoli sembrerebbero indizi di stabilità e di sicurezza maggiori), fa
pensare che esso fosse stato stipulato la prima volta al principio del 1099.
La spedizione del 1097-98 doveva aver fruttato buoni guadagni; e del resto sappiamo
da varie fonti che nel biennio 1097-99 molte spedizioni private, anche di modestissima
entità, provvidero a recar sostegno ai milites e ai pellegrini in marcia verso la Siria-Palestina. Tuttavia, solo le cronache scritte
post eventum ci parlano di, o alludono a, una diffusa conoscenza del fatto che quei milites e quei pellegrini puntassero su Gerusalemme. Dobbiamo ammettere di non sapere con
precisione quando divenne chiaro che quello era l’obiettivo della loro marcia.
Fu comunque nell’estate del 1098 che un deluso, amareggiato e infuriato Raimondo di
Saint-Gilles volse le spalle a quell’Antiochia a lungo desiderata e ormai occupata
da un suo avversario e si diresse, guidando i suoi, verso meridione. La prospettiva
finale della conquista di Gerusalemme, che probabilmente serpeggiava già da molti
mesi tra i prophetae, i Wanderprädiger e i pauperes milites che egemonizzavano le orde dei popolares, divenne soltanto da allora obiettivo degli stessi principes e dei loro rispettivi seguiti.
È probabile che grazie al legame privilegiato tra provenzali e genovesi a Genova
prima che altrove si sapesse o si potesse intuire che la meta finale della spedizione
nata dalle parole di Urbano II a Clermont alla fine del 1095 era ormai la stessa Gerusalemme.
E fu nella primavera del 1099 che una piccola spedizione privata – pare due sole galee,
per quanto altre fonti ne facciano ascendere il numero a sei o addirittura a nove
– partì da Genova per approdare al porto di Giaffa alla fine di giugno. La guidavano
Guglielmo detto Caputmallii (Testadimaglio) e suo fratello Primo de Castro o de Castello, membri della famiglia degli Embriaci del ramo vicecomitale di Manesseno, fratelli
anche, tra gli altri, di quell’Amico Brusco protagonista di un celebre e generoso
ancorché sfortunato esperimento consolare22.
22 Cfr. C. Imperiale di Sant’Angelo, Caffaro e i suoi tempi, Roux, Torino-Roma 1894, p. 306.
Ecco quindi il fatidico incontro con colui che Gabriella Airaldi ha definito il Roland genovese. Come sempre succede, poco sappiamo di lui e dei suoi primi tempi. Aveva
fatto parte del gruppo dei maiores avversari del vescovo tradizionalista Oggero? Oppure, al contrario, era stato in
qualche modo inizialmente collegato con gli avversari della riforma ecclesiastica,
e ora che la cattedra episcopale era saldamente occupata dal riformatore Arialdo o
Airaldo preferiva – com’era poco prima accaduto, in Bassa Lorena, al duca Goffredo,
e come stava accadendo all’arcivescovo di Pisa Daiberto23 – cambiar aria per un po’ e farsi perdonare (o far dimenticare) i suoi imbarazzanti
trascorsi con la parte perdente? In altri termini: per un personaggio emergente, quale
egli doveva già essere nella vita cittadina del tempo, quella partenza con una modesta
flotta in un momento tanto delicato e decisivo di essa, proprio contemporaneamente
al decollo della «compagna» che segnava la rinnovata concordia e l’avvio di un più
solido assetto nel governo e nel controllo di Genova, appare strana e sospetta. Faceva
parte del gruppo dei vincitori in un modo così solido e autorevole da potersi permettere
di assentarsi per qualche mese, con la prospettiva di tornar carico di bottino e di
gloria cristiana da impiegare entrambi poi nel consolidamento delle sue fortune future?
O preferiva – se non era addirittura costretto – eclissarsi per un po’, farsi dimenticar
e perdonare, in attesa di un ritorno talmente significativo, sul piano di una fama
suscettibile di riversarsi sulla città stessa, da consentire ai vincitori di passar
sopra alle sue precedenti scelte sbagliate?
23 Per cui cfr. G. Matzke, Daiberto di Pisa. Tra Pisa, papato e prima crociata, Biblioteca del Bollettino storico pisano, Pisa 2002; Id., Pisa, Daiberto e la I crociata, in M. Tangheroni (a cura di), Pisa e il Mediterraneo. Uomini, merci, idee dagli etruschi ai Medici, Skira, Milano 2003, pp. 145-49.
Una cosa appare comunque, se non certa, per lo meno molto probabile. La spedizione
di Guglielmo e di Primo doveva essere stata concordata e preparata con cura da un
accordo, del quale ignoriamo i particolari, tra il gruppo dei maiores che la concepì e la finanziò da una parte, il conte di Saint-Gilles, o qualche suo
agente rimasto tra Provenza e Liguria, o alcuni genovesi restati ad Antiochia dopo
la partenza della precedente flotta genovese dall’altra. Quando Raimondo aveva abbandonato
Antiochia al suo avversario Boemondo e si era diretto verso la Palestina, quasi trascinandosi
dietro gli altri baroni, milites e pellegrini – si dovrà forse a lui, alla sua profonda pietas, alla sua rabbia e alla sua voglia di rivalsa dopo lo smacco antiocheno la definitiva
scelta di puntar dritto su Gerusalemme? –, era iniziata la fase finale della spedizione
che noi chiamiamo prima crociata: e da allora egli e i capi che bene o male gli si
erano affiancati dovevano ben aver cominciato a preoccuparsi della conquista della
Città Santa, mentre i governanti musulmani della regione si rendevano a loro volta
conto che tali erano ormai le intenzioni di quella sconsiderata banda di faranj sfuggiti al controllo del basileus. In quel contesto, non è affatto improbabile che ci si preoccupasse di ricevere dal
mare rinforzi in uomini, viveri e merci necessari all’assedio. Ciò spiegherebbe come
la flotta genovese avesse trovato al suo arrivo a Giaffa una scorta di provenzali
ad accoglierla; e come da lì, smontate le navi in modo di riutilizzarne il legname
per costruire gli ordigni d’assedio, si percorresse con tanta sicurezza il circa centinaio
di chilometri di strada in salita, disagevole, pericolosa, con la minaccia di venir
assaliti da più o meno ingenti forze saracene che non erano state per nulla sbaragliate
e che anzi si andavano forse riorganizzando per quanto non fossero in grado di assalire
il grosso dell’armata «crociata», e infine, per giunta, sotto il sole estivo – o meglio,
marciando prevalentemente di notte – per giungere a Gerusalemme. E si dovette far
alla svelta: perché una flotta egiziana, la base della quale era Ascalona, incrociava
nelle acque di Giaffa. Il particolare delle navi smontate è essenziale: l’assedio
si annunziava lungo e duro; i genovesi – come le altre genti dei centri costieri italici
– dovevano esser padroni di tecniche cantieristiche e anche poliorcetiche ormai non
troppo comuni e sviluppate in Occidente (a differenza del mondo musulmano e di Bisanzio,
eredi delle tecniche ellenistico-romane); e le riserve di legname in loco molto modeste, a parte le remote montagne del Libano.
Una volta giunti sotto le mura gerosolimitane, i genovesi furono schierati di fronte
alle mura meridionali, insieme con i provenzali. Ciò prova ancora una volta il loro
collegamento con il conte di Saint-Gilles: ma è francamente in contrasto con la questione
del legname delle navi smontato per farne macchine d’assedio, dal momento che l’ubicazione
della Città Santa è tale da consentire solo da un lato, quello settentrionale, l’uso
proficuo di esse. Difatti sia a ovest verso Giaffa, sia a sud in direzione di Betlemme,
sia a est dalla parte rivolta verso il Monte degli Olivi, le alte mura poggiano –
e poggiavano – su scoscese e accidentate pareti che rendevano impossibile l’avvicinamento
degli ordigni e problematicamente efficace l’uso dell’artiglieria nevrobalistica.
Ma a nord e a nord-est, nell’area in cui si produsse in effetti lo sfondamento del
15 luglio, i crociati franco-settentrionali, fiamminghi e normanni là schierati potevano
a loro volta giovarsi di altri marinai, quelli provenienti dalla Fiandra e dall’Inghilterra,
trasformati in combattenti di terra ma soprattutto evidentemente non ignari di lavori
d’ascia e di macchine d’assedio.
La tradizione cronistica avviata da Caffaro vuole che i genovesi si distinguessero
nella conquista della città; sappiamo inoltre che essi parteciparono il 12 agosto
alla battaglia di Ascalona contro le forze egiziane e che successivamente – si può
ritenere non oltre settembre-ottobre, secondo l’uso del tempo che consigliava di evitar
di navigare durante i mesi invernali – ripresero il mare con una galea acquistata
in sostituzione di quelle smontate per l’assedio. Una sola galea, per tutti i superstiti
(alla partenza da Genova potevano essere sui due-trecento, forse di più: ignoriamo
l’entità delle perdite) e per il bottino che doveva senza dubbio essere stato messo
insieme, appare poca cosa: che alcuni genovesi fossero rimasti a Gerusalemme e in
Terrasanta, cedendo alle pressanti richieste e magari alle offerte di vantaggiosi
insediamenti, di facilitazioni commerciali e così via, per quanto le fonti non ce
ne rendano edotti? La galea dei reduci dalla conquista di Gerusalemme attraccò secondo
Caffaro al porto di Genova giusto la vigilia di Natale: Guglielmo e i suoi recavano
lettere di Goffredo di Buglione, eletto dai principi suoi colleghi advocatus Sancti Sepulchri, e del nuovo patriarca latino, il pisano Daiberto, ch’era giunto in Terrasanta verso
la metà di settembre insieme con una flotta della sua città.
Quale credito possiamo accordare alle nostre fonti, in particolare a quel Caffaro
che degli episodi che andiamo rievocando fu testimone oculare, ma che all’epoca del
ritorno del Testadimaglio da Gerusalemme aveva più o meno diciassette anni e che redasse
le sue memorie, almeno nella versione definitiva, parecchi decenni dopo? Il fatto
che Daiberto vi venga definito «patriarca», ufficio al quale egli non ascese prima
della fine del 1099 e del quale pertanto i reduci genovesi dalla presa di Gerusalemme
non potevano ancora avere notizia, è indizio del fatto che il testo non fu buttato
giù a caldo: o, se lo fu, venne ripreso successivamente in modo da aggiungervi quel
particolare. Ma è probabile che in effetti il lasso di tempo intercorso tra gli avvenimenti
e la stesura del testo giocasse un qualche scherzo al testimone, il quale ricordava
sì quel che aveva visto (e/o, più probabilmente, sentito da persone allora più anziane
e autorevoli di lui), ma adattava i suoi ricordi a quel che sapeva della posteriore
storia del regno franco di Gerusalemme. In effetti, più che di lettere dell’advocatus Sancti Sepulchri e di Daiberto in quanto patriarca, è molto probabile che la missiva recata fosse
una sola: quella redatta collettivamente a Laodicea dai principi che avevano guidato
l’impresa e da Daiberto, non ancora patriarca anzi giunto proprio allora in Terrasanta,
nel settembre del 1096: essa era indirizzata a Urbano II, ma pervenne solo al suo
successore Pasquale II. Sotto il profilo cronologico, è verosimile che la lettera
sia stata affidata ai genovesi e che essi siano appunto salpati ai primi d’ottobre:
era un po’ azzardato navigare negli ultimi mesi dell’anno, ma si poteva provarci;
e circa due mesi e mezzo tra litorale siro-palestinese e litorale ligure sono un lasso
di tempo per allora congruo. È per noi strano, al punto da indurci a non definirlo
casuale, il silenzio di voci genovesi a proposito della delusione di Raimondo di Saint-Gilles,
il quale avrebbe avuto tutti i titoli per poter occupare il più eminente ruolo tra
i conquistatori della Città Santa e che aveva dovuto inghiottir l’oltraggio di vedersi
preferire a lui il tanto meno energico Goffredo. È improbabile che i genovesi non
abbiano notato il fatto, visti i rapporti stretti che li collegavano al potentissimo
marchese di Provenza, senza dubbio tra i grandi signori dell’Europa del tempo quello
che era loro geograficamente più prossimo: il loro silenzio al riguardo si deve quindi
attribuire senza troppa imprudenza al fatto ch’essi si erano prontamente adeguati
alla congiunta volontà dei capi della crociata (soprattutto di Baldovino di Boulogne
e di Boemondo d’Altavilla) e del papa, rappresentato dall’arcivescovo pisano Daiberto.
Quando i reduci dalla spedizione del Testadimaglio posero di nuovo piede, dopo la
lunga assenza, sullo scalo del porto genovese, in città imperversava ancora la guerra
civile. L’esito della spedizione precedente, e in particolare l’arrivo delle prestigiose
reliquie del Battista, anziché unire gli animi in uno slancio rinnovato di patriottismo
religioso doveva aver agito da pietra dello scandalo: esse erano utilizzabili come
contraltare civico e devozionale rispetto a quelle dell’antico patrono, san Siro,
a costituire con ciò ulteriore titolo di scontro.
Ma ormai le cose stavano rapidamente evolvendosi. La «compagna» assunse presto il
potere: il che vuol dire che il ceto dirigente cittadino seppe attestarsi su un momento
di rinnovata concordia, frutto e perfino simbolo della quale fu una nuova e più importante
spedizione oltremarina. È azzardato interpretarla come un’espressione della volontà
comunitaria, ch’era appunto de facto rappresentata dalla «compagna»? A capo della spedizione, a quel punto, non poteva
esser designato che quel Guglielmo Testadimaglio ch’era ormai aureolato della gloria
conseguita a Gerusalemme.
È improbabile che la scelta sia caduta su di lui solo a titolo di riconoscimento del
suo ormai raggiunto prestigio. Egli doveva detenere anche un qualche requisito che
lo rendeva particolarmente adatto a quel ruolo: forse lo si considerava homo novus nel panorama delle principali figure cittadine, con in più il vantaggio di non essersi
troppo compromesso con le fazioni, se non altro perché era in viaggio allorché la
loro contesa era esplosa con più vigore. O forse, al contrario, poteva trattarsi di
un ex fautore della fazione enriciana ostile ai riformatori, e ora gli si offriva
un incarico prestigioso a testimonianza della sua resipiscenza e del superamento dei
vecchi rancori. A meno che, proprio dati i suoi possibili precedenti, l’onorevole
incarico fosse in realtà un modo per allontanarlo qualche tempo dalla scena politica
cittadina, una sorta di decoroso esilio. D’altronde un po’ dappertutto la Chiesa riformata
stava recuperando i personaggi che più o meno a lungo erano stati legati al fronte
opposto e si disponeva a usarli per la propria causa, oppure preferiva allontanarli
dalla scena occidentale. È esattamente quel ch’era accaduto appunto nei casi di Goffredo
di Buglione e di Daiberto.
Non è tuttavia a questo ormai irricostruibile (faute de sources) gioco di sottintesi politici che Guglielmo deve la sua fama: bensì al fatto che,
a bordo d’una delle navi che costituivano il nuovo stolus Januensis, viaggiava un giovane che di sfuggita abbiamo già ricordato, e che sarebbe stato
il padre della cronistica e della memoria storico-mitica cittadine: quel Caffaro,
figlio di Rustico signore di Caschifellone, destinato a divenire più tardi uomo politico
di rilievo nonché primo cronista «ufficiale» della comunità, un ruolo unico e originale
nelle città del tempo.
Due sono le prove dell’effettiva importanza politica rivestita dalla nuova spedizione
in Terrasanta. La prima ci viene offerta dallo stesso Caffaro, che pone in stretto
rapporto, nei suoi Annales, la prima ridefinizione politico-organizzativa della «compagna» con lo stolus Cesarie. In tale testo si parla di ventisei galee24 e di sei navi da trasporto: ma in un’altra sua opera, il De liberatione civitatum Orientis, il cronista si corregge quanto al numero delle navi, che diventano quattro25. A confronto con le tredici imbarcazioni dello stolus del 1097 e con le due del 1099, le trenta-trentadue di questa nuova flotta appaiono
il risultato di una volontà più ferma ed estesa, anche se ci mancano le pezze d’appoggio
per dichiararla espressione «corale» del ceto dirigente del momento. Comunque, è il
caso di chiamarla «nuova flotta»: negli usi dello scorcio tra XI e XII secolo, le
navi per spedizioni importanti e impegnative si fabbricavano sul momento, ad hoc: e siccome la spedizione fu decisa in un giro abbastanza breve di settimane, se non
proprio di giorni, ciò significa che la Genova del tempo disponeva di cantieri, di
maestranze e di capitali adeguati. Ma per lo scorcio tra XI e XII secolo è impossibile
fornire se non molto approssimativamente dati quantitativi credibili sia sulla popolazione
di Genova, sia sulla media degli uomini necessari alla costruzione di, e atti alla
navigazione su, quei vascelli. Va tenuto presente – lo richiamiamo per quanto sia
arcinoto – che, a differenza di quel che con sempre maggior frequenza accadrà sulle
galee dalla seconda metà del Quattrocento in poi, i rematori delle nostre città marinare
non erano né schiavi né prigionieri incatenati al banco, bensì liberi lavoratori del
mare. Per quel che ne sappiamo, comunque, non è arrischiato calcolare circa cento-centocinquanta
uomini a bordo per ciascuna galea (il calcolo degli equipaggi delle navi da trasporto
è differente e ancor più problematico) e giungere quindi a un totale arrotondato di
3.000-4.000 persone: che sembra eccessivo rispetto alla popolazione che Genova poteva
allora ospitare, per quanto sia del tutto verosimile che manodopera e forza lavoro
marittimo-militare fossero per l’occasione arruolate anche dai centri minori limitrofi
e dall’entroterra, specie nelle terre dei quali alcuni singoli membri della «compagna»
erano signori. Se aggiungiamo a queste considerazioni il fatto che i vascelli venivano
armati tramite il finanziamento raccolto anche da piccoli o minuscoli investitori,
in quote-parti che potevano essere anche molto modeste26, si può giungere alla conclusione che lo stolus fu non solo un’espressione comunitaria ufficiosa della città, ma cointeressò a vario
livello i beni di gran parte delle famiglie genovesi e la vita di molti cittadini
atti a portare le armi.
24 Uno dei codici rimastici dell’opera testimonia però che esse fossero ventisette.
Cfr. Belgrano (a cura di), Annali genovesi di Caffaro, cit., pp. 5 e 112. Cfr. ora altresì l’agile traduzione italiana Gli «Annali» di Caffaro (1099-1163), a cura di G. Airaldi, Frilli, Genova 2002.
25 Ardua la cronologia relativa tra le varie opere di Caffaro, la cui redazione degli
Annales durò si può dire per tutta la vita e subì un forte mutamento di stile e di tono –
come ha notato Giovanna Petti Balbi – tra 1152 e 1163, forse in coincidenza con l’insediamento
del suo più giovane collaboratore, il notaio Macrobio.
26 Cfr. il saggio di M. Montesano in Caffaro, Storia della presa di Almeria e Tortosa (1147-1149), cit.
La seconda prova dell’importanza politica della spedizione, e del fatto che essa si
collegava profondamente con le scelte della città – o della fazione in essa prevalsa
– in ordine alla riforma della Chiesa e al nuovo ordine gestito dal papa27, è che con essa viaggiava il nuovo legato pontificio per la Terrasanta, Maurizio
cardinale-vescovo di Ostia. Egli era partito da Roma nel maggio – la sua lettera credenziale
è datata al 4 di tale mese – ed era forse ormai a Genova da qualche tempo. È verosimile
che l’accordo tra il pontefice e i genovesi per il trasporto dell’illustre prelato
oltremare si fosse concluso proprio nell’inverno precedente, quando i reduci dell’impresa
gerosolimitana avevano recapitato alla curia pontificia la lettera (o le lettere)
dei principi conquistatori di Gerusalemme e dell’arcivescovo di Pisa. Sappiamo con
certezza che il cardinal Maurizio era già in Genova almeno dal 20 luglio (e probabilmente
già da alquante settimane prima). A quella data la flotta avrebbe già dovuto essere
pronta, in quanto il periodo di navigazione si apriva con la Pasqua: si era forse
stabilito di partire nella tarda primavera, quindi nei mesi di maggio-giugno, che
erano in assoluto i migliori. Il peraltro leggero ritardo sarà da attribuirsi al grosso
sforzo tecnologico e finanziario necessario a mettere a punto una flotta così importante,
e forse a nuovi contrasti all’interno dei cittadini che stavano «facendo compagna»:
contrasti ipotizzabili e quasi sicuri, ma sui quali non si può dir nulla di certo
poiché nessuna fonte li testimonia.
27 Urbano II era mancato il 29 luglio del 1099; gli era succeduto Pasquale II, eletto
e consacrato fra il 13 e il 14 agosto successivi.
Stando a Caffaro, che è l’unico a informarcene, lo stolus partì il 1° agosto del 1100 per giungere a Laodicea, il grande porto siriano, verso
la fine di settembre. Lì c’erano ad attenderli notizie poco felici: Goffredo, l’advocatus Sancti Sepulchri, era morto nel luglio; Boemondo d’Altavilla era caduto prigioniero dell’emiro di
Siwas; a Gerusalemme era in atto un sordo conflitto di successione tra il patriarca
Daiberto, che aspirava forse (d’accordo con il papa?) a perpetuare la reggenza ierocratica
della città e magari a formalizzarla, e i fautori del fratello di Goffredo, Baldovino
di Boulogne, ch’era dal 1098 signore di Edessa. L’Embriaco e i suoi genovesi, per
i quali ormai dovevano essere emerse abbastanza chiare la possibilità, e quindi l’opportunità,
di proseguire il forse già avviato lavoro d’impianto d’insediamenti commerciali genovesi
in Gerusalemme e in Antiochia – anche in previsione d’una prossima e necessaria progressiva
conquista dei centri costieri tra le due città –, non dovevano avere dal canto loro
dubbi sul fatto che fosse auspicabile favorire l’instaurazione oltremare di stabili
signorie con le quali fondare solide relazioni: il che significava a Gerusalemme Baldovino
fratello di Goffredo, ad Antiochia Tancredi nipote di Boemondo. Si trattava forse
anche di ostacolare il patriarca Daiberto, che pare non fosse nelle grazie del nuovo
pontefice e che oltretutto era un pisano, dal momento che la rivalità tra le due città
tirreniche era ormai già in atto da qualche decennio, dopo i contrasti insorti per
l’egemonia sulla Corsica e sulla Sardegna?
Difatti, Baldovino transitò nell’ottobre appunto a Laodicea, diretto da Edessa a Gerusalemme.
Si accordò con i genovesi a proposito di una spedizione militare da intraprendere
nella successiva primavera e ripartì, scortando il legato pontificio con il quale
ebbe durante l’itinerario tutto il tempo d’intendersi.
La flotta genovese svernò, dal canto suo, comodamente a Laodicea, approfittando dei
mesi di riposo per compiere anche qualche raid corsaro a danno dei centri costieri vicini, ancora in mano ai saraceni. Non è improbabile
che i suoi capi si recassero a dicembre in Giudea – certamente per via di mare, da
Laodicea a Giaffa – per assistere all’incoronazione di Baldovino, che fu celebrata
nella basilica della Natività di Betlemme la notte di Natale: ma Caffaro non ne parla.
Con la primavera seguente, si aprì come di consueto la nuova stagione per navigare
e per guerreggiare. Mossi da Laodicea il 6 marzo 1101, i vascelli genovesi puntarono
su Giaffa prendendosela comoda: all’altezza di Haifa, ch’era stata conquistata dai
«franchi» nel luglio precedente, ci mancò poco che incrociassero una flotta saracena
e, per quanto Caffaro parli di una tempesta che impedì loro di assalirla, dal contesto
del suo racconto pare piuttosto ch’essi abbiano preferito tirar in secco le navi nelle
vicinanze del porto amico piuttosto che misurarsi con essa, o addirittura sfuggirle.
Fu insomma un viaggio lento e non privo di pericoli: il mondo musulmano circostante
la costa siro-palestinese si era riavuto dallo stupore che lo aveva colto tra il 1098
e il 1099 e andava riorganizzandosi. Lo specchio d’acqua tra Egitto, Siria e Cipro
era senza dubbio dominato dalla forte marineria fatimide: si potevano tentare colpi
di mano, ma era per il momento impossibile rovesciare tale situazione. La talassocrazia
mediterraneo-orientale era ancora nelle mani dei musulmani, le flotte bizantine erano
in grado di ostacolarla relativamente poco e quelle italiche si stavano appena affacciando
alla ribalta di quello scenario.
Lo stolus attraccò a Giaffa il 15 aprile, lunedì della settimana santa. Se, com’è probabile,
Guglielmo e i suoi avevano pensato, movendosi da Laodicea, di celebrare la Pasqua
al Santo Sepolcro, la tempesta presso Haifa – o l’incrociar dei vascelli nemici –
non solo doveva aver causato loro un ritardo leggero, ma aveva anche rischiato di
far mancare loro l’appuntamento pasquale. Comunque tutto era andato secondo i piani,
evidentemente ben congegnati: dal momento che Baldovino era nel porto ad attenderli.
Si poté quindi volgere i passi verso i Luoghi Santi, dove i genovesi sciolsero il
voto di pellegrinaggio formulato alla partenza e assisterono al «miracolo del fuoco
sacro», la cerimonia – forse d’origine etiopica – che si svolgeva ogni notte di Pasqua
nella basilica della Resurrezione28.
28 Una bella descrizione della cerimonia nel «diario» dell’egumeno russo Daniele (Daniil
Egumeno, Itinerario in Terra Santa, a cura di M. Garzaniti, Città Nuova, Roma 1991, pp. 158-65).
Dopo le celebrazioni pasquali si passò al programma strategico elaborato d’accordo
con Baldovino, che consisteva nella conquista delle piazzeforti costiere prossime
a Giaffa attaccandole contemporaneamente dalla terra e dal mare. Non era tuttavia
certo il caso di cominciar dal formidabile porto di Ascalona, importante base della
flotta fatimide. Si doveva puntare semmai a settentrione, dove i discreti scali di
Arsuf e di Cesarea costituivano altrettante almeno potenziali frecce sul fianco occidentale
dell’ancor gracile dispositivo difensivo «franco». Per la verità si trattava di altrettanti
centri mercantili poco o nulla, in quel momento, collegati a poteri superiori. I rispettivi
emiri sarebbero stati pronti a ossequiare i nuovi signori venuti dall’Europa: ma l’insignorirsene
direttamente significava – a parte le appetibili immediate mire del saccheggio – conseguire
il controllo di tutte le basi costiere tra Giaffa e le pendici del Carmelo, ai piedi
delle quali sorge la città di Haifa, a quel tempo già «franca». L’accordo tra il re
e i genovesi prevedeva che essi avrebbero avuto diritto a un terzo delle spoglie delle
città conquistate.
Arsuf cadde dopo un assedio di tre giorni: secondo alcune fonti cronistiche «crociate»
alla fine di aprile, ma stando a Caffaro il 9 maggio. Gli abitanti trattarono con
Baldovino una resa onorevole della città, che difatti fu pacificamente evacuata con
immaginabile disappunto dei genovesi, che per ovvie ragioni avrebbero preferito il
saccheggio, ma con soddisfazione del sovrano, che pensava a governare quelle città
conquistate e preferiva vederle prospere che spogliate e magari abbandonate. Ma il
passaggio dall’economia di rapina a quella di gestione e di sfruttamento non era agevole,
almeno in quei tumultuosi anni. Non c’è dubbio ad ogni modo che la presenza della
flotta era stata per gli assediati un ottimo deterrente: se avessero potuto contare
su un mare sgombro e quindi sul probabile arrivo di rinforzi fatimidi da quella parte,
avrebbero senza dubbio resistito.
Si procedette quindi a settentrione, con obiettivo Cesarea, che Baldovino, contando
sulle notizie che viaggiavano veloci, tentò di ottenere a sua volta pacificamente,
come nel caso di Arsuf. Ma stavolta forse i genovesi, decisi a non perdere quella
seconda occasione, attaccarono in modo più incisivo, o forse i difensori si rivelarono
più ostinati e combattivi: la città cadde nella seconda metà di marzo29 e il saccheggio ebbe luogo. Ma un accordo, magari dell’ultim’ora, doveva essere intervenuto
tra gli abitanti, il re e i capi della flotta: non pare che nell’occasione accadessero
particolari episodi di violenza, com’era in quei casi la regola. Forse si trovò un
compromesso fra i genovesi – che un po’ per desiderio di bottino, un po’ per punto
d’onore, volevano comunque saccheggiare –, il sovrano e gli abitanti: Cesarea era
una città ricca, i cittadini pronti a sborsare riscatti anche pingui e in ultima analisi
più utili a tutti da vivi che non da morti.
29 La data proposta è il 17; altri la indica però nella fine del mese.
A quel punto la primavera era ormai inoltrata; i genovesi erano lontani dalla patria
da nove mesi: un po’ troppi per un tempo d’instabile tregua cittadina. Ci si congedò
pertanto da Baldovino e si risalì la costa siriana fino a San Simone, porto di Antiochia,
dove ci si fermò per prendere contatto e stipulare accordi anche con il principe Tancredi:
anche in Antiochia c’erano dal 1098 alcuni interessi genovesi da curare. In quell’occasione,
Caffaro informa che si procedette alla spartizione dell’ingente bottino.
Davvero soddisfacente, il ricavato dell’impresa. Detrattone circa il 15 per cento
ad ammortizzare le spese d’armamento della flotta con i relativi interessi per chi
vi aveva finanziariamente contribuito, e dopo aver accantonato altresì i donativi
per i capi e i doni riservati a chi si era dimostrato più valoroso, la quota spettante
a ciascuno di quelli che avevano partecipato al viaggio fu di 2 libbre di pepe a testa
(la droga serviva abitualmente come moneta di scambio) e di 48 soldi, cioè quasi 2
libbre e mezzo di denari del Poitou, evidentemente calcolati non in moneta liquida
bensì in merci o in metallo prezioso per un corrispondente valore. In quell’occasione,
durante il saccheggio di Cesarea era stato conquistato anche quel vas coloris vividissimi, in modo parapsidis formatum, come l’avrebbe descritto alla fine del secolo il cronista Guglielmo di Tiro: ma
Caffaro non lo notò, e comunque non ne fa parola30.
30 Ignoriamo quindi se fin dall’inizio l’oggetto fu donato al tesoro della cattedrale
o a qualche altra istituzione cittadina, o se fu parte del bottino di un privato genovese
che solo più tardi, sull’onda della fama delle reliquie della Passione del Signore
affermatasi durante la seconda metà del secolo dopo il successo del Perceval, ou la Roman du Graal di Chrétien de Troyes, fu all’origine della leggenda secondo la quale in San Lorenzo
era custodito il «vero» Graal, reliquia in grado di competere in fama con la «sacra
coppa» della cattedrale di Valencia in Spagna. Da allora, nomi come «Percivalle» entrarono
gloriosamente nell’onomastica genovese.
Se il saccheggio aveva costituito un ricco affare, più importanti ancora erano stati
i contatti assunti con i principi della nascente monarchia feudale di Gerusalemme.
Il rinnovo dei privilegi genovesi in Antiochia, nel 1101, e soprattutto il privilegio
concesso nel 1104 ai genovesi dal re di Gerusalemme, sono senza dubbio il diretto
risultato di questa spedizione.
La sosta sul litorale siriano si protrasse ancora per un certo tempo. Solo verso la
fine di luglio la flotta di Guglielmo riprese il mare. Pare che all’altezza di Itaca
si scontrasse con una di quelle squadre navali bizantine che dall’inizio del movimento
«crociato» pattugliavano instancabili Ionio ed Egeo. Non è per la verità chiaro se
ci sia stata davvero una battaglia, comunque seguita – secondo la versione di Caffaro
– dall’invio di un’ambasciata genovese a Costantinopoli; le fonti greche sostengono
che ci si limitò a qualche trattativa. In ogni modo i bizantini, visti gli amichevoli
rapporti che dal 1097 i genovesi mantenevano con la casa d’Altavilla, avevano senza
dubbio motivo di diffidare di loro. Durante le trattative, o comunque subito dopo
lo scontro, la flotta di Guglielmo fece sosta nell’isola di Corfù: qui s’incontrò
con un’altra squadra navale genovese, guidata da Mauro de Platealonga e Pagano de Volta, anch’essi due personaggi ragguardevoli della «compagna», e a sua volta diretta in
Libano, dove avrebbe partecipato alla conquista di Tortosa insieme con un altro amico
di Genova, Raimondo di Saint-Gilles. Questa nuova impresa era più modesta, con un
carattere decisamente «privato», ma prova che in quel momento la situazione politica
cittadina era tranquilla e che i fatti d’oltremare venivano seguiti a Genova con attenzione,
forse con entusiasmo, e con sempre maggiori speranze di guadagno.
Era l’ottobre del 1101 quando la flotta di Guglielmo Embriaco rientrava finalmente
nel porto della sua città. Un’altra spedizione avrebbe seguito quasi immediatamente
il suo esempio, navigando verso la Terrasanta: una grande flotta partita nella primavera-estate
del 1103, la quale nel corso dell’anno successivo conquistò Jebail31 e subito dopo il più grande porto del litorale palestinese ancora rimasto in mani
saracene: Acri. È ovvio, per quanto non se ne abbiano dirette prove documentarie,
che anche questa spedizione era stata combinata in accordo con i principi «franchi»
d’oltremare e forse con la curia romana. In Jebail si sarebbero addirittura insediati
più tardi i discendenti del Testadimaglio32.
31 La Gibeloth o «Gibelletto» delle cronache occidentali: è l’antica città fenicia
di Byblos. Jebail, o Jbeil, non va confusa con quella che Caffaro chiama «Gibello
maggiore», ch’è l’attuale Jabalah.
32 Si tratta di Ugo e Nicola Embriaci; Nicola, che secondo alcuni era figlio di Guglielmo,
risulta in un documento del 1147 titolare fin dal 1125 della città di Jebail in quanto
feudo ricevuto dalla città di Genova: cfr. C. Imperiale di Sant’Angelo (a cura di),
Codice diplomatico della repubblica genovese, vol. I, «Fonti per la storia d’Italia», Tipografia del Senato, Roma 1936, n. 170,
pp. 218-21. Iniziò così il processo di «feudalizzazione» oltremarina degli Embriaci,
trasformati nel nobile casato franco-siriaco degli Embriacs, o Gibelletti, o Gibelet,
per cui cfr. Airaldi, Blu come il mare, cit., pp. 115-228. Se accettiamo come plausibile l’ipotesi da me formulata, che
Guglielmo sia nato negli anni Sessanta dell’XI secolo, non possiamo escludere che
sia addirittura egli stesso «il destinatario dell’affidamento delle spettanze genovesi
in oltremare stipulato nel 1125» (Bellomo, A servizio di Dio, cit., p. 151).
Il ritorno di Guglielmo era stato salutato con gioia e con onori. La città permaneva
tranquilla: nel febbraio del 1102 fu rinnovato il patto della «compagna» mentre, a
testimonianza di prosperità e di libertà, fu coniata una nuova moneta sotto forma
di pur modesti denari argentei, detti «piccoli bruniti»33. Se la precedente «compagna» si era retta con sei consoli eletti per tre anni, la
nuova se ne dava solo quattro, ma di durata quadriennale. Il diminuito numero dei
magistrati, unito all’accresciuto periodo di durata, parrebbe sintomo di una diminuita
tensione nell’aristocrazia cittadina e di una crescente tendenza alla concentrazione
del potere: si aveva la sensazione che le istituzioni, ormai collaudate, fossero più
solide. I nuovi consoli furono Guglielmo stesso, suo padre Guido Spinola, il loro
congiunto Ido di Carmandino e, forse a titolo di continuità rispetto alla «compagna»
precedente, Guido di Rustico de Rizo, ch’era uno dei sei consoli uscenti. Era chiaro che l’Embriaco gestiva personalmente
o tramite suoi stretti familiari buona parte del potere cittadino.
33 Cfr. G. Felloni, G. Pesce, Le monete genovesi. Storia, arte ed economia nelle monete di Genova dal 1139 al 1814, Cassa di risparmio di Genova e Imperia, Genova 1975.
Le tracce sicure della permanenza di Guglielmo su questa terra si perdono con quest’ultima
notizia, per quanto qualche indizio potrebbe aiutarci a protrarre tale limite ancora
per alcuni anni34.
34 Non è né chiaro né sicuro che con lui sia possibile identificare quel Willelmus Embriacus presente a un atto di Bertrando di Saint-Gilles redatto in Genova il 10 agosto 1108
e al quale come rappresentante della città di Genova questi rimetteva, il 29 giugno
1109, il possesso di Jebail e di altri luoghi della Siria (Imperiale di Sant’Angelo
[a cura di], Codice diplomatico, cit., nn. 224, 24, vol. I, pp. 28-33). Secondo Caffaro, Jebail sarebbe stata affidata
ai genovesi e da questi commessa in guardia a Ugo Embriaco (figlio del Testadimaglio?)
per due terzi, ad Ansaldo Corso per uno. Sulla base di un documento del 16 gennaio
1106 (citato da G. Andenna nell’Introduzione a Caffaro, La liberazione delle città d’Oriente, Marietti, Genova-Milano 1820, 2001, p. 34), si potrebbe ritenere che in un primo
tempo era il conte di Tolosa a essersi riservato i due terzi della città, che probabilmente
il suo successore avrebbe passato ai genovesi.
Primo di Castello, fratello del Testadimaglio e suo compagno nell’impresa di Gerusalemme,
dovette sopravvivergli forse relativamente a lungo; lo troviamo nel 1122 console insieme
con l’amico Caffaro di Caschifellone, a sua volta ormai non più giovanissimo. Già
da allora dovette consolidarsi la memoria di quegli anni di gloria: Antiochia, Gerusalemme,
Cesarea, Jebail. Caffaro sarebbe vissuto a sua volta abbastanza a lungo35 da poter comporre, ormai anziano, l’operetta Ystoria captionis Almarie et Tortuose ann. MCXXXVII et MCXXXVIII36, lucida testimonianza – come del resto alcuni coevi scritti d’origine pisana – che
la «crociata» d’Oriente, di Siria, e quella d’Occidente, di Spagna erano strettamente
collegate nell’elaborazione di un «mito di fondazione» cittadino radicato nelle glorie
guerriere, nella santa epopea della liberatio e delle reliquie di Terrasanta, nella conquista degli spazi commerciali e degli empori
nei quali la tenace gente genovese avrebbe saputo «distendersi» per il mondo, come
avrebbe cantato l’anonimo del Due-Trecento, fino a costituire, dovunque fosse andata
e si fosse insediata, un’«altra Zena».
35 Tanto da poter essere inviato nel 1154 (e doveva già essere più o meno settantacinquenne)
come ambasciatore della sua città al giovane re dei romani Federico I, cui recò in
dono alcuni animali esotici; sarebbe morto, vegliardo ormai, nel 1166.
36Ystoria captionis Almarie et Tortuose, cit.; se ne veda la traduzione italiana con ampia introduzione in Caffaro, Storia della presa di Almeria e Tortosa (1147-1149), cit. Per l’inquadramento dell’impresa genovese del 1147-49 (non meno che della precedente
pisana contro le Baleari nel 1113-15) nel generale movimento di Reconquista, quindi nel «fronte occidentale della crociata», cfr. G. Petti Balbi, Lotte antisaracene e «Militia Christi» in ambito iberico, in AA.VV., «Militia Christi» e crociata nei secoli XI-XII, Vita e Pensiero, Milano
1992, pp. 519-45.
Bibliografia
In generale, e come riferimento di base, è ineludibile la grande Storia di Genova. Mediterraneo, Europa, Atlantico, a cura di D. Puncuh, Società ligure di storia patria, Genova 2003.
Per un inquadramento delle vicende qui richiamate, uno sguardo di efficace sintesi
è quello offerto da P. Lingua, Breve storia dei genovesi, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 29-37; si può inoltre ricorrere a R. Pavoni, Liguria medievale. Da provincia romana a stato regionale, Ecig, Genova 1995; G. Airaldi, Guerrieri e mercanti. Storie del medioevo genovese, Aragno, Torino 2004; Ead., Genova e la Liguria nel medioevo, Frilli, Genova 2007; Ead., Storia della Liguria. Vol. 1. Dalle origini al 1492, Marietti, Genova 2010.
Indimenticabili infine le lucide e intense pagine iniziali di G. Pistarino, Genovesi d’Oriente, Civico istituto colombiano, Genova 1990, pp. 9-37. Sotto il profilo architettonico-urbanistico,
vale la pena di conoscere l’originale e divertente saggio di A.N. Eslami, Genova e il Mediterraneo. I riflessi d’oltremare sulla cultura artistica e l’architettura
dello spazio urbano, XII-XVII secolo, De Ferrari, Genova 2000.
Non possiamo eludere la presenza nella storia genovese medievale di un grande «classico»,
ora riproposto in nuova edizione: R.S. Lopez, Storia delle colonie genovesi nel Mediterraneo, prefazione e aggiornamento bibliografico di M. Balard, Marietti, Genova-Milano 1820
(rist. 1996; l’edizione originale è del 1338), cui andrà tuttavia accostato, a titolo
di aggiornamento tematico e problematico, almeno G. Ortalli, D. Puncuh (a cura di),
Genova, Venezia, il Levante nei secoli XII-XIV, Società ligure di storia patria, Genova 1901.
Sulle relazioni di lunga durata tra Genova, la crociata e Gerusalemme cfr. G. Airaldi
(a cura di), Le vie del Mediterraneo. Relazioni tra Genova e Gerusalemme nel medioevo e nell’Età
Moderna, Ecig, Genova 1996. Per un inquadramento della politica coloniale genovese nel contesto
della presenza delle genti italiche nel regno crociato di Gerusalemme resta fondamentale
M.-L. Favreau-Lilie, Die Italiener im Heiligen Land. Vom ersten Kreuzzug bis zum Tode Heinrichs von Champagne
(1098-1197), Hakkert, Amsterdam 1989. Un quadro generale degli avvenimenti della prima crociata,
con particolare attenzione alle vicende riguardanti Genova, è proposto da uno storico
francese molto esperto di cose liguri, J. Heers, Libérer Jérusalem. La première croisade, 1095-1107, Perrin, Paris 1995.
1261. Genova nel mondo: il trattato di Ninfeo
di Michel Balard
«Nell’anno 1261 i Genovesi, memori delle iniquità ad essi fatte dai Veneti e dai loro
complici nelle parti d’Oltremare, volgevano l’animo ad offenderli in tutti i modi
che potessero. E così, per deliberato consiglio, fu ordinata una legazione solenne
che andasse al serenissimo messere Paleologo imperatore dei Greci, il quale aveva
guerra con i Veneti, per fare con lui confederazione contro essi Veneti»37. In poche parole, l’annalista ignoto, che ha continuato la redazione degli Annali
genovesi per l’anno 1261, ci ha presentato la situazione politica dell’epoca e la
sfida che i Genovesi dovevano affrontare. Vinti dai Veneziani nelle acque di Acri,
cacciati dalla capitale del regno latino, cercavano di prendersi la rivincita contro
i Veneziani, cioè di annientare la loro potenza in un’altra zona, Costantinopoli,
dove la Serenissima appoggiava per quanto era possibile il tramontante impero latino,
di cui era il più importante fondatore e sostenitore. Per Genova non c’era altro da
fare che cercare l’alleanza dell’imperatore di Nicea, il quale aspirava alla riconquista
dell’antica capitale dell’impero bizantino, Costantinopoli. Per capire la scommessa
genovese, si deve dunque descrivere la situazione internazionale negli anni Sessanta
del Duecento, poi presentare il trattato di Ninfeo che durante due secoli, fino alla
caduta di Costantinopoli in mano ottomana, è stato alla base delle relazioni tra Genova
e Bisanzio, e finalmente evocare le conseguenze a breve e lungo termine del trattato
che ha dato via al «volo del Grifo».
37Annali genovesi di Caffaro e dei suoi continuatori, trad. di G. Monleone, vol. VI, R. Istituto de’ sordo-muti, Genova 1929, p. 77.
Dopo lunghe negoziazioni con Manuele I Comneno nel 1155 e nel 1169-70, poi con Isacco
II Angelo e suo fratello, Alessio III, nel 1192, 1201 e 1203, i Genovesi avevano ottenuto
un posto di rilievo nella capitale bizantina, un quartiere lungo la riva del Corno
d’Oro, con scali, depositi, chiesa, case e forno, non senza gravi scontri con i loro
concorrenti occidentali, Veneziani e Pisani38. Purtroppo, il fatto che i Genovesi non abbiano partecipato alla quarta crociata,
deviata dalla sua meta iniziale – l’Egitto – verso Costantinopoli, sotto la direzione
del vecchio doge Enrico Dandolo, ha lasciato ai Veneziani la preminenza nell’impero
latino di Costantinopoli, creato sulle rovine dell’impero bizantino. Malgrado l’aiuto
prestato dai Genovesi al conte di Malta, che si opponeva alla presa di possesso dell’isola
di Creta da parte dei Veneziani39, nonostante il tentativo della loro alleanza con Giovanni Vatatze, imperatore greco
di Nicea, fallite a causa dell’amicizia tra questo e Federico II40, i Genovesi non sono riusciti a contrastare la Serenissima e a recuperare il possesso
della colonia che avevano fondato a Costantinopoli nel XII secolo. Il loro commercio,
i loro investimenti nel Mediterraneo orientale furono avviati quasi esclusivamente
verso la Siria-Palestina fino agli anni Cinquanta del Duecento.
38 M. Balard, La Romanie génoise (XIIe-début du XVesiècle), 2 voll., Roma-Genova 1978, vol. I, pp. 17-45; S. Origone, Bisanzio e Genova, Ecig, Genova 1992, pp. 85-109.
39 G. Gerola, La dominazione genovese in Creta, in «Atti della R. Accademia di Scienze, Lettere e Arti degli Agiati in Rovereto»,
serie III, VIII, 1902, pp. 1-44.
40 M. Balard, Les Génois en Romanie entre 1204 et 1261. Recherches dans les minutiers notariaux
génois, in «Mélanges d’Archéologie et d’Histoire publiés par l’Ecole française de Rome»,
LXXVIII, 1966, pp. 481-83 (ora in Id., La mer Noire et la Romanie génoise XIIIe-XVesiècles, Variorum, London 1989, n. 1).
Ma appunto in quest’epoca la situazione interna ed esterna di Genova cambia. Dopo
anni di dominazione della nobiltà guelfa, si era creata una società del popolo, composta
da mercanti, banchieri, artigiani, genti delle arti, che aspiravano a una partecipazione
al potere cittadino, tanto più che la nobiltà, che lo reggeva, si divideva in lotte
feroci tra i partigiani del papa e quelli dell’imperatore. I populares volevano il riconoscimento della loro organizzazione politica. Quando il podestà
Filippo della Torre termina il suo mandato, il 18 febbraio 1257, una frazione del
popolo si mette in moto, proclamando «capitano del popolo» Guglielmo Boccanegra, nato
in un ceto popolare ma imparentato con nobili casati, e creando un Consiglio degli
anziani composto da quattro membri per ciascun distretto della città41. Si sospetta un broglio dei nobili ghibellini, che approfittano del malcontento dei
populares per rovesciare la nobiltà guelfa, con la speranza di governare controllando il capitano.
Ma Boccanegra si rivela subito l’unico capo del governo; si preoccupa dell’appalto
delle gabelle, troppo favorevole a quelli che le avevano comprate, a detrimento dell’erario
pubblico. Si oppone così alla nobiltà, lesa nei suoi immediati interessi, senza guadagnare
il sostegno forte delle classi medio-basse, che non risultano sufficientemente organizzate
per appoggiarlo. In queste condizioni Boccanegra è costretto a cercare qualche successo
nella politica estera per placare gli animi degli avversari.
41 G. Caro, Genova e la supremazia sul Mediterraneo (1257-1311), 2 voll., Società ligure di storia patria, Genova 1974, vol. I, pp. 17-22; S.A. Epstein,
Genoa and the Genoese 958-1528, The University of North Carolina Press, Chapel Hill 1996, pp. 137-38; D. Puncuh
(a cura di), Storia di Genova. Mediterraneo, Europa, Atlantico, Società ligure di storia patria, Genova 2003, pp. 193-96.
Purtroppo dal 1256 Genova era alle prese con molte difficoltà all’estero. Nel 1258
un conflitto oppone la città a Pisa per la dominazione della zona di Cagliari, che
i Genovesi furono costretti ad abbandonare. Con la Sicilia, Boccanegra riesce a far
confermare un trattato negoziato dal precedente regime con Manfredi. Il re di Sicilia
accetta di abbassare i diritti doganali pagati dai mercanti genovesi, di concedere
una loggia in diverse città del regno meridionale e il permesso di esportare ogni
anno fino a 10.000 salme di grano. Ma accanto a questo successo, la sfortuna viene
da Oltremare. Ad Acri si era creata una coalizione di Veneziani, Pisani, Provenzali,
templari, teutonici contro i Genovesi, appoggiati soltanto dagli ospedalieri, dai
Catalani e dagli Anconitani. La guerra detta di San Saba, dal nome di un monastero
di Acri al quale apparteneva una casa collocata al limite dei quartieri genovese e
veneziano rivendicata dalle due parti, scoppia nel 1256 e volge presto a danno dei
Genovesi. Grazie al sostegno dei suoi concittadini, Boccanegra invia ad Acri nel 1258
una flotta di quattro navi e venticinque galere al comando di Rosso della Turca. L’ammiraglio
si presenta nel porto di Acri, ma la sua pessima strategia genera una grave disfatta
di fronte alla flotta veneziana al comando di Lorenzo Tiepolo. La metà dei natanti
viene distrutta, quasi 1.700 marinai morti, e il quartiere genovese di Acri danneggiato
con violenza feroce dai Veneziani, che trasportano nella madrepatria le pietre della
torre genovese su una delle loro navi. I mercanti liguri sono costretti a cercare
rifugio a Tiro, presso il loro alleato Filippo di Montfort. Boccanegra non era responsabile
del disastro, ma il suo prestigio ne viene colpito, tanto più che il crollo parziale
del commercio d’Oltremare pregiudica gli interessi del ceto mercantile che l’aveva
portato al potere. Si sforzò dunque di riunire le forze cittadine con una grande voglia
di rivincita contro Venezia42.
42 J. Prawer, Histoire du royaume latin de Jérusalem, 2 voll., Éditions du Cnrs, Paris 1969-70, vol. II, pp. 365-73; J. Richard, Histoire des croisades, Fayard, Paris 1995, pp. 402-403.
Il dramma di Acri era così importante perché questa città costituiva la base fondamentale
del commercio genovese in Oriente. Secondo i dati raccolti dai cartolari notarili
genovesi, si evidenzia che negli anni 1253-55, cioè prima della guerra dei comuni
nella capitale del regno franco, più della metà degli investimenti genovesi nel Mediterraneo
prendeva la via d’Oltremare, cioè della Siria-Palestina. L’ammontare dei capitali
investiti ha un significato minore rispetto a quello percentuale, perché è legato
alla quantità degli atti notarili pervenutici. Nel 1256, quando comincia il conflitto
tra i comuni, la percentuale degli investimenti verso la Siria crolla, si rialza nei
due anni seguenti, grazie alla protezione dei mercanti genovesi da parte di Filippo
di Montfort, ma sparisce quasi completamente a partire dall’anno 1260. La distruzione
del quartiere genovese ad Acri e la dominazione marittima del nemico veneziano nelle
acque siriane rovesciano del tutto i flussi tradizionali del commercio genovese e
suscitano nel ceto mercantile rancore e voglia di rivincita.
Boccanegra non poteva trovare un campo migliore per vendicarsi se non nell’impero
latino di Costantinopoli. Infatti, dagli anni Quaranta del Duecento il povero imperatore
latino Baldovino II era a corto di quattrini e di uomini per la difesa della sua capitale,
alla quale si limitava ormai il suo impero, assalito dai Greci di Nicea alleati con
i bulgari. L’imperatore fu costretto a impegnare le più famose reliquie di Costantinopoli,
tra cui la corona di spine, prima presso prestatori veneziani e poi presso Luigi IX,
re di Francia, il quale la collocò nella Sainte-Chapelle di Parigi, costruita a questo
scopo. Il proprio figlio, nato nel 1240, fu dato in ostaggio a due mercanti veneziani
a garanzia di un altro prestito, e ritrovò la sua libertà soltanto nel 1261 grazie
alla generosità del re di Castiglia, Alfonso X. Per preservare il suo potere nella
capitale, Baldovino non aveva altro sostegno che la flotta veneziana, capace di respingere
da sola gli attacchi dei Greci di Nicea e di proteggere il dominio latino43.
43 A. Carile, Per una storia dell’Impero Latino di Costantinopoli (1204-1261), Patron, Bologna 19782.
Dopo la quarta crociata i nobili greci, estromessi da Costantinopoli, avevano creato
un impero-rifugio nell’Asia Minore, a Nicea (oggi Iznik, in Turchia), sotto la direzione
di una grande famiglia aristocratica, i Lascaris44. Ma per loro il possesso di Costantinopoli, sede del potere imperiale, rappresentava
un elemento costitutivo dell’ideologia imperiale45. Si capisce quindi il sogno della renovatio imperii e della «grande idea», la riconquista della capitale. Giovanni III Vatatze, alleato
con il bulgaro Giovanni Asen, ne tentò un assedio nel 1236, ma fallì. Nel 1258 il
suo giovane nipote Giovanni IV fu sottomesso alla reggenza del generale Michele Paleologo,
coronato co-imperatore, il quale, dopo la vittoria di Pelagonia contro una coalizione
dell’Epiro, di Manfredi, re di Sicilia, e del principe di Acaia, sognava la riconquista
di Costantinopoli, l’unica cosa che poteva legittimare il suo potere e sbarazzarlo
dei suoi avversari. Malgrado l’armamento di due piccole squadre nella Propontide e
nell’Egeo, i Greci disponevano di una flotta troppo debole per opporsi a quella veneziana,
come è testimoniato dall’insuccesso di un altro assalto nell’estate del 1260. Il Paleologo
aveva dunque bisogno di trovare una potenza marittima capace di aiutarlo ad assediare
la capitale, tanto per terra quanto per mare. In quell’anno l’ambizione del Boccanegra
di compensare la perdita della colonia di Acri e quella di Michele Paleologo di concretizzare
il sogno dei Greci si incontrarono. Ne risultano negoziazioni tra le due parti, allo
scopo di contrarre un’alleanza contro Venezia.
44 M. Angold, A Byzantine Government in Exile. Government and Society under the Laskarids of Nicaea
(1204-1261), Oxford University Press, Oxford 1975.
45 H. Ahrweiler, L’idéologie politique de l’empire byzantin, Presses Universitaires de France, Paris 1975.
L’iniziativa viene avviata dal Boccanegra, che deve affrontare un grave rischio. Da
una parte, un accordo firmato nel 1258 tra Genova e Venezia proibiva alle due parti
un’alleanza con i Greci, salvo consenso delle due potenze. Dall’altra, il papato poteva
accusare i Genovesi di connivenza con l’imperatore scismatico e quindi scomunicare
il Comune, col pretesto che la riconquista di Costantinopoli da parte dei Greci avrebbe
posto fine al tentativo di unione delle Chiese. Nonostante ciò, Boccanegra accetta
il rischio. Negli ultimi mesi del 1260, quando era ancora in carica il podestà Martino
da Fano, nominato nel testo del trattato, egli manda in gran segreto due ambasciatori,
Guglielmo Visconte e Guarnerio Giudice, a Ninfeo (oggi Kemalpasa, a est di Smirne),
allora sede dell’impero di Nicea, e, nello stesso tempo, per ingannare i Veneziani,
negozia con la Serenissima un accordo per la restituzione dei prigionieri della guerra
di San Saba. Si trattava di un’iniziativa del tutto personale o piuttosto di un’impresa
che concretizza una voglia generale di aprire il Mar Nero al commercio genovese? La
partecipazione dei consoli delle arti e il sostegno delle corporazioni artigiane alla
ratifica del trattato sembrano provare che Boccanegra ebbe l’abilità di cogliere un
momento felice per ottenere durevoli vantaggi per la sua città.
Secondo l’anonimo annalista genovese, «i legati ebbero piena potestà di trattare e
di fare confederazione da parte del comune di Genova contro i Veneti sopradetti. Dunque
i legati andarono all’imperatore, il quale li ricevette onorevolmente e fece loro
molte onoranze, e accettato il negozio per il quale erano andati, anche perché nell’intimo
del cuore reputava i Veneti odiosi, fece con i predetti ambasciatori patti e confederazione»46. Il 13 marzo 1261 il trattato di Ninfeo fu firmato; Michele Paleologo aggiunse un’appendice
il 28 aprile e mandò a Genova con pieni poteri tre legati, Isaac Ducas Murtzuphlos
– il quale morì a Genova e fu sepolto nella cattedrale di San Lorenzo –, Teodoro Kriviziotes
e Leone, arcidiacono di Santa Sofia, i quali, dopo qualche modifica al testo, assisteranno
alla ratifica, il 10 luglio, da parte di un’assemblea di cittadini47. La dilazione tra la firma e la ratifica del trattato è comprovata senz’altro dall’armamento
della flotta da inviare a Costantinopoli. Infatti, nei giorni seguenti quattro navi
e dieci galere, al comando di Marino Boccanegra, fratello del capitano, salparono
per la Romania, «destinate a tenere in iscacco, nell’imminente assedio di Costantinopoli,
le navi veneziane che vi si trovavano»48.
Gli articoli del trattato di Ninfeo, che apre un nuovo capitolo nelle relazioni tra
Oriente e Occidente, comportano un’alleanza militare, la concessione di privilegi
economici, territoriali e giuridici e le tradizionali onorificenze accordate dagli
imperatori di Costantinopoli alle potenze estere49.
49 Cfr. il testo del trattato in C. Manfroni, Le relazioni fra Genova, l’Impero bizantino e i Turchi, in «Atti della Società ligure di Storia patria», XXVIII, 1898, pp. 791-809. Riassunto
del trattato in P. Lisciandrelli, Trattati e negoziazioni politiche della Repubblica di Genova (958-1797). Regesti, ivi, nuova serie, I, 1960, p. 75 e in Geanakoplos, Emperor Michael Paleologus, cit., pp. 87-89.
Il trattato di Ninfeo è soprattutto un’alleanza militare tra Bizantini e Genovesi
contro Venezia: non soltanto un’alleanza difensiva, ma soprattutto offensiva, con
la quale i contraenti si impegnano a non terminare la guerra contro Venezia senza
un mutuo accordo. Per Genova, si tratta di una rottura completa della convenzione
del 1258 firmata con Venezia. La città, ma anche tutto il suo contado, si impegnano
in una guerra totale, unica soluzione per mantenere le loro posizioni commerciali
e vendicarsi delle offese subite in Siria-Palestina. Tutte le forze disponibili nelle
Riviere saranno a disposizione del governo comunale. Per i Greci questa clausola garantisce
la continuazione della guerra fino al suo termine, cioè fino alla riconquista di Costantinopoli.
L’alleanza militare è soprattutto un’alleanza navale. Si tratta dapprima dell’arruolamento
individuale o collettivo di mercenari al servizio dell’armata imperiale. Non è qualche
cosa di nuovo: già nel 1251 il marchese Bonifacio del Carreto aveva noleggiato una
nave e una saetta ai Gattilusi, per mettersi con uomini d’arme a disposizione dell’imperatore
Giovanni III Vatatze50. D’altra parte, i Genovesi trovatisi nel territorio imperiale devono impegnarsi a
difenderlo.
50 Balard, Les Génois en Romanie, cit., pp. 484-86.
Il punto nodale dell’accordo è costituito dall’armamento di galere genovesi – da una
a cinquanta –, che devono salpare alla volta di Costantinopoli a spese dell’imperatore.
Questo ha dunque la scelta dei mezzi da impiegare, dato che l’armamento e la manutenzione
della flotta sono a suo carico. Soltanto sedici natanti, infatti, partirono da Genova
nel luglio 1261, comandati da Marino Boccanegra. Perché così pochi? Michele Paleologo
pensava senz’altro che questo numero fosse sufficiente per combattere la squadra veneziana
all’ancora nella capitale. D’altra parte Genova non voleva destare l’attenzione di
Venezia: se avesse mandato un’importante flotta in Romania, questa non sarebbe potuta
passare inosservata. Infine, i mezzi finanziari del basileus erano limitati, al punto che egli fu costretto a contrarre prestiti a Genova per
pagare l’equipaggio e aveva voluto inserire nel trattato una clausola che gli consentisse
il diritto di licenziare la flotta appena ottenuto il successo sul nemico51. Una riserva tuttavia: la flotta genovese non poteva essere utilizzata contro la
Chiesa romana, per evitare il rischio della scomunica, né contro gli alleati del Comune.
A queste clausole militari si può aggiungere la reciproca promessa di sicurezza per
i Genovesi presenti nell’impero e per i Greci che sarebbero venuti in Liguria. Si
vuole evitare il ripetersi degli incidenti che avevano turbato le relazioni tra Bisanzio
e Genova al tempo di Alessio III Angelo, a causa della pirateria nelle acque dell’impero52. Tra tutte queste clausole militari, è chiaro che la più importante riguarda l’invio
di una squadra genovese in Oriente a spese del basileus. Essa giustifica tutte le concessioni di Michele Paleologo a favore dei Genovesi.
51 Geanakoplos, Emperor Michael Paleologus, cit., p. 87; Caro, Genova e la supremazia, cit., p. 109.
52 H. Ahrweiler, Byzance et la mer, Presses Universitaires de France, Paris 1966, pp. 294-97.