Il consumo a Venezia
Una fonte contabile.
di Giovanni Levi
1. Una rivoluzione dei consumi?
Per buona parte del Novecento, gli storici dell’economia in età moderna hanno messo
al centro della loro attenzione il momento della produzione dei beni, ritenendo che
questo fosse il motore della trasformazione capitalistica; i “modi di produzione”
hanno governato le ricostruzioni del passaggio dal precapitalismo al capitalismo.
Ma a partire dall’ultimo quarto del XX secolo – non a caso, nel momento in cui le
economie del “socialismo reale” inauguravano la loro crisi finale, legata proprio
a una divario colossale con i processi di consumo delle società occidentali – è cominciato
il dibattito sulla cosiddetta “rivoluzione del consumo”: un consumo generalizzato
di beni ordinari e non di lusso, riconosciuto come premessa fondamentale della rivoluzione
industriale.
Indubitabilmente, dalla metà del Seicento in Olanda e in Inghilterra, poi in tutta
Europa fra Sette e Ottocento, il consumo divenne un fenomeno dilagante e veramente
rivoluzionario, per le sue dimensioni che investivano un numero sempre più grande
di famiglie. Ma davvero, prima, il consumo era ristretto? Davvero era ampio e libero
solo per fasce limitate di popolazione, per le élites e per l’aristocrazia?
Se vogliono rispondere a domande del genere, gli storici devono porsi – come sempre
nel loro mestiere – il problema delle fonti. È possibile misurare i consumi dell’età
moderna nella loro varietà e nella loro dinamica, al di là delle necessità alimentari
di base e dei beni che passano per il mercato, e i cui prezzi sono misurati dalle
rilevazioni pubbliche dei prezzi delle merci, le cosiddette mercuriali?
Per ricostruire i consumi del passato, spesso si sono usati gli inventari post mortem, cioè gli elenchi dei beni che si trovavano nelle case, e che venivano descritti
e valutati dai notai per permettere la distribuzione fra gli eredi. Senonché un inventario
descrive beni accumulati in più generazioni, tanto che non sappiamo se i vestiti erano
nuovi o ereditati, o se i libri di una biblioteca ci descrivono la cultura di chi
li possedeva oppure solo una continuità possessoria familiare. In alternativa, spesso
si è fatto ricorso a una lettura storiografica che possiamo chiamare “per apparizioni”:
quando e in che quantità compaiono il caffè, il thé, tessuti non prodotti in casa,
cibi non prodotti sul luogo, attrezzi e oggetti nuovi rispetto a uno standard precedente.
Così, oggi sappiamo molto sui consumi dopo una certa data della storia d’Europa, dopo
la rivoluzione industriale; ma abbiamo un’idea piuttosto oscura sul prima, su come
ha funzionato quel rapporto fra cultura, psicologia, tradizione che ha organizzato
i consumi: un meccanismo complesso e rilevante, che ci può dire molte cose sulla società
dell’antico regime.
2. I conti della spesa
Iniziamo dunque dal problema delle fonti, partendo da una constatazione banale: in
molte case di oggi – nella mia, ad esempio – si possono trovare i libri della spesa
delle madri o delle nonne. La politica del consumo familiare vi è seguita giorno per
giorno con una straordinaria minuzia secondo regole condivise di economia domestica,
tardo residuo delle fonti di cui parlerò successivamente. In un’agenda stampata proprio
per registrare le spese domestiche (il che ci conferma la gran diffusione di questa
procedura contabile), compilata da mia nonna, in un giorno di ottobre del 1917, ad
esempio, troviamo:
Carne 8.40 lire
Tram 0.40
Mele 1.30
Giornale 0.05
Peperoni 0.40
Entrate 7.50 da Marianna per tovaglia vendutagli.
Dunque le spese quotidiane, e anche le entrate per lavori fatti in casa.
Possiamo trovare qualcosa di simile per l’epoca preindustriale? Non solo è possibile,
ma – al contrario dei nostri archivi pubblici, che raccolgono solo carte familiari
di famiglie importanti – esistevano allora istituzioni incaricate di raccogliere conti
familiari privati. Ed erano conti assai più dettagliati e generali delle agende dell’economia
domestica otto-novecentesche, perché registravano anche le entrate, le spese di investimento,
i risparmi: la gestione contabile generale della vita economica della famiglia.
In molte società di antico regime, la scomparsa del capofamiglia creava spesso la
necessità di nominare un tutore che gestisse i beni della famiglia, in particolare
se vi erano presenti minorenni, “pupilli”. Era una tutela svolta in genere da un parente
stretto, maschio nella gran maggioranza dei casi; se era svolta da una donna, essa
era quasi sempre affiancata da una figura maschile. Non si trattava solo di minori,
ma anche di persone per varie ragioni non in grado di gestire i propri affari, come
i paralitici o i mentecatti. Né si trattava sempre di morte del padre. Poteva dare
luogo alla nomina di un tutore anche una lunga assenza (un viaggio lontano, per esempio).
Non tutti gli antichi stati italiani crearono una istituzione particolare a questo
scopo, ma sempre la resa dei conti doveva avere un aspetto giuridicamente garantito.
A Torino, capitale del Ducato di Savoia, la contabilità della gestione era affidata
a un atto notarile sotto la dizione appunto di “resa di conti”, il che permetteva
ai minori divenuti maggiorenni di verificare e eventualmente contestare la contabilità.
A Venezia, capitale della Repubblica Serenissima, era invece una delle giudicature
di palazzo – il Giudice di Petizion – a occuparsene: a raccogliere gli atti e a dirimere
le eventuali contestazioni, creando così un grande e affascinante fondo archivistico
di bilanci familiari che coprono oltre tre secoli, dal Cinque al Settecento. E di
Venezia in particolare mi occuperò qui, avvertendo tuttavia che i casi coperti sono
relativamente pochi rispetto alla quantità di famiglie che avevano perduto il proprio
gestore effettivo (poco più di un centinaio per secolo), e che in genere tali casi
riguardano famiglie con un certo patrimonio. Peraltro, in archivio si trovano livelli
di ricchezza molto differenziati, e talvolta anche piuttosto poveri.
Non si tratta di documenti omogenei. Non seguivano una regola organizzativa precisa,
ma registravano tutte le entrate e le spese con diversi gradi di disaggregazione:
dalla registrazione quotidana, voce per voce, a una registrazione più sintetica. Non
se ne può fare dunque utilmente una lettura quantitativa e seriale, che sarebbe di
poca utilità, ma piuttosto una lettura qualitativa e, potremmo dire, etnografica:
perché, in alcuni di questi documenti, è la vita quotidiana che si riflette con una
evidenza minuziosa e stupefacente.
Le contabilità di cui disponiamo ci danno un’immagine dinamica, quasi cinematografica,
dei consumi di varie famiglie veneziane: sono storie di vita che coprono molti anni
e sono piene di annotazioni sulle motivazioni delle scelte, sulle opinioni, sulle
contraddizioni, sui calcoli giusti o sbagliati, sugli accidenti e sulle complicate
strategie che la cultura del consumo rifletteva, mescolando gusti alimentari, tipologia
del vestiario, spese devozionali, scelte scolastiche, letture, fortune e disgrazie.
Do un esempio solo quantitativo della somma delle spese – registrate ogni giorno per
poco meno di due anni, durata della tutela – della famiglia della nobildonna Isabella
Soranzo, vedova del fu Lorenzo Donà, dal settembre 1635 al luglio 1637:
Spese diverse 2254 lire
Spese di vivere 2648
Tanse e decime 7161
Spese di legne e carbone 828
Spese per fabbriche 214
Spese ai mulini 388
Spese di lite 1108
Spese di vestire 1109
Spese di salari 1960.
In questo caso i mulini erano di proprietà, le imposte pagate molto alte (il 40% delle
uscite), e le spese giudiziarie anche (oltre il 5%), cosa comune nella rissosa vita
veneziana dell’età moderna.
Ecco invece un dato quotidiano della famiglia dello speziale Francesco Bertasi, l’11
dicembre 1665, che riporto come esempio di una contabilità ricchissima di informazioni
di ogni tipo, specialmente alimentari:
Pesce e minestra 1 lira e 4 soldi
Olio 1.14
Una scoveta e battifogo 0.14
Speso in vino 1.6
Speso a cena 0.12
Salata (insalata) 0.2.
3. Consumare, ma come?
Lorenzo di Bianchi era piuttosto ricco, perché possedeva a Venezia tre case ed era
socio di una bottega di «marzer all’insegna della Luna», dove si vendevano stoffe.
Morto di peste nel luglio 1631, lasciava tre figli piccoli, Bortolo, Pellegrin e una
figlia di cui non si dice mai il nome, oltre alla vedova Giustina. Loro tutore sarà
Costantin Piazzalonga, «oste all’Orso», in collaborazione col cognato del defunto,
Piero Golin. Gestiranno il patrimonio di famiglia per nove anni.
Il funerale in tempo di peste è molto costoso: intanto ci vuole il permesso dell’ufficio
di Sanità, che costa 155 lire, poi ci voglion due casse, una dentro l’altra e calce
viva da metter nella cassa e bisogna «maltar» la fossa per 27 lire; bisognerebbe poi
seppellire Lorenzo nella fossa comune (si spendono 6 lire), ma si ottiene che sia
seppellito nella tomba di famiglia: è scritto infatti «dati per far una fosa in giesa
a San Tomaso ma poi non si sepellì in detta fosa ma ben in sua arca». E poi altre
spese e mance ai pizzigamorti e ai preti per 121 lire, e messe ai Frari e a San Tomà,
per 97 lire e 84 lire di ceri.
Insieme c’era il problema di liberare due delle serve di casa, Laura e Anna, dal lazzaretto,
il che era costato 254 lire. E ancora tutta l’operazione di disinfettar la bottega
– operazione eseguita dai pizzigamorti agli ordini d’un sovrastante – con acqua salsa
e incenso e profumi con un mastello e una spugna, per 28 lire. Infine ci sono 147
lire di spese arretrate per alimenti e medicine per Lorenzo in agonia, il fitto della
casa «dove morse» (era stato portato lontano per evitare il contagio) e anche le medicine
per i bambini «come disse il medico», specialmente un’acqua comprata allo speziale
della Colonna.
In totale, le esequie di Lorendo di Bianchi costano 919 lire, oltre il 25% delle normali
entrate annue della sua famiglia. A loro volta le spese annue per mantenere la vedova
e tre bambini, che oscillavano fra le 3500 e le 4000 lire, riguardavano per il 33.6%
l’alimentazione (di cui un terzo era per l’acquisto di vino), per il 13.2% il vestiario,
per il 3.7% la legna per cuocere e scaldare, per il 12.8% le imposte; il 17.8% era
per la riparazione delle case e il 7% per le spese legali, mentre il 5.5% era per
l’istruzione dei due maschi (e nulla per la femmina).
Ho scelto tale esempio per mostrare la minuzia con cui ogni voce era registrata, e
anche per mostrare come questo tipo di annotazioni porti sotto i nostri occhi con
evidenza una quotidianità aperta a infiniti suggerimenti e domande. Il funerale e
le attività relative durano dal 2 luglio al 17 agosto, ma già dal 3 luglio la vita
dei tre bambini e della vedova Giustina è seguita dai tutori giorno per giorno, a
cominciare dall’acquisto di cibo. Il 3 luglio carne e peri, il 4 pesce, il 5 carne
e pesce, il 6 asparagi, carne, marasche e peri, e così via. Pane, vino, farina, aceto,
formaggio e olio si comprano quando occorre, al contrario dei cibi freschi che si
comprano ogni giorno. Non se ne dice la quantità, ma il prezzo sempre. Il cibo è molto
vario, comprende diversi tipi di pesce, capponi, lenticchie, risi, torrone, melograni,
uova, meloni, ecc.
Lo storico dispone così di una contabilità quotidiana che dura nove anni, e che include
le spese di vestiario col dettaglio delle stoffe, delle guarnizioni, della fattura,
le scarpe, il maestro per i «fantolini», la gestione del patrimonio, l’affitto della
bottega, i restauri della casa, le spese legali e notarili per la gestione del denaro
depositato in Zecca, il pagamento delle imposte. Con quali denari? Lorenzo possedeva
varie case – una in ghetto, una a santa Marina e una al ponte de l’Aseo – date in
affitto, e di un buon deposito in Zecca. Le entrate furono integrate vendendo gioielli
e mobili di casa. La bottega di stoffe – gestita dal socio Francesco Vole, che muore
nel 1638 – venne poi chiusa definitivamente, dando un piccolo saldo attivo alla gestione
che da tre anni era in passivo.
A fine gestione, resteranno le case e i denari in Zecca, come risorsa dei due figli
ormai maggiorenni.
Molto diverso il caso di Joel Grassini, ebreo, anche lui morto di peste nel luglio
1631, la cui contabilità è tenuta da Caliman e Ventura Grassini, suoi fratelli, e
dal socio Mazo Bordolan, dal 1631 al 1662. Le spese di sepoltura sono poche: 86 lire
«per barca per la sepoltura, per li fanti di sanità, robbe per vestirlo, bollette,
telle e peota» (il barcaiolo), 118.12 lire «alla fraterna per la sepoltura così dalla
medesima tassata», 39.12 di «olio per la luse per la scola e al noncelo» (il becchino),
2 lire per profumar la casa. Poi tutta la gestione riguardante la riscossione di fitti,
il pagamento di pegni ricevuti che vengono riscattati, la riscossione di pegni e oggetti
non riscattati venduti, mobili, vestiti, gioielli, e 42 libri ebraici.
Caratterizza questa contabilità il fatto che molte entrate e spese sono reciproche
compensazioni, valutate in denaro, ma senza passaggio di denaro: la dote della vedova
per oltre 3000 lire è pagata «in tanti mobili consegnati a madonna Anna vedova di
detto Joel a conto pagamento di dote»; il maestro dei figli di Joel – che è il rabbino
Abram Calimani – viene pagato con trasferimento di interessi per denari depositati
nella fraterna, e bonificandogli il fitto di casa; molti dei debiti e dei crediti
vengono pagati con scambio di oggetti, vestiti, mobili. Anche la bottega in cui Joel
esercitava con un socio e la casa dove questi abita sono pagate affittando ad altri
una casa più grande e una bottega nel sottoportego al banco di Jacob Pappo, con un
saldo positivo. Si tratta naturalmente non di proprietà, vietate agli ebrei, ma di
diritti di possesso, mentre la casa che abitano i Grassini è del nobile Michiel.
Va infine notato che le spese di istruzione dei figli di Joel sono alte: 12 lire al
mese per due figlioli, ma con l’aggiunta di molti extra, ad esempio 18.12 lire al
rabbino Calimani «per aver insegnato una predica al putto». Anche le spese comunitarie
sono alte: la tassa per i poveri pagata ogni anno, la tassa comunitaria da pagare
alla Repubblica, le 44.13 lire pagate alla beneficenza della sinagoga «al tempo della
peste, per sua protezione».
4. Il consumo non mercantile
Fin qui la fonte ci dice cose generali: al di là del suo fascino, del ritratto di
una vita quotidiana seguita giorno per giorno, lascia aperte tutte le questioni più
essenziali. Innanzitutto quella che ci dice che livelli differenti di ricchezza e
di reddito mutano le percentuali a cui le spese sono destinate.
La cosiddetta legge di Engel è troppo nota per soffermarci su di essa in questa sede:
«più il reddito d’un individuo o d’una famiglia è grande, più esso offre i mezzi necessari
per soddisfare tutti i bisogni dell’esistenza. Meno è grande, più la quota parte delle
spese di ordine fisico e materiale è considerevole e meno resta per le spese di ordine
religioso, morale, intellettuale e, in genere, per le spese di lusso», dunque «più
è considerevole la parte che deve essere impiegata per il solo nutrimento». Va peraltro
osservato che molte delle spese «di ordine morale» si trovano presenti a ogni livello
di ricchezza, tanto da essere considerate equiparabili a spese «di ordine fisico e
materiale»: a cominciare dalle spese religiose, per giungere a quelle di significato
simbolico, che riaffermano la posizione che si vuole mostrare nella società.
Ma i nostri documenti mostrano anche altre cose, meno evidenti. In effetti, il discorso
sulla rivoluzione dei consumi ha offuscato molte delle domande su come si consumava
prima, quasi a suggerire una rigidità automatica del consumo nelle società precedenti:
trascurando dunque gusti e strategie, scelte e relazioni. In particolare, si è rinunciato
a guardare all’interno della famiglia, suggerendo un consumo omogeneo di tutti i membri.
Si è fatto prevalere così un aspetto “fotografico” del consumo, senza relazione con
il ciclo di vita della famiglia. E si è trascurato un elemento fondante, l’ideologia
del consumo: per cosa, ed entro quali limiti, i comportamenti erano ritenuti ideologicamente
legittimi o illegittimi.
Proprio qui sta uno dei grandi problemi della teoria e della storia economica: gli
aspetti soggettivi dei consumi hanno riferimenti alla cultura individuale e di gruppo
e, per quanto non si voglia negare che le spese per il consumo siano principalmente
determinate dal reddito, non possiamo evitare la sensazione che qualcosa sfugga sempre.
Lo stesso concetto di reddito pone immediatamente un problema rispetto al comportamento
dei consumatori: il reddito corrente, o quello atteso e previsto secondo le scelte
professionali e di investimento fatte, o quello più alto che abbia in passato determinato
le scelte di consumo? L’inerzia nei comportamenti, e il fatto che un consumo adottato
sia difficile da abbandonare, ci suggeriscono vischiosità che constatiamo anche oggi,
nella fase recessiva in cui stiamo vivendo.
La relazione consumo-reddito, dunque, a parte la sua evidenza tautologica, non è sufficiente
a spiegarci i comportamenti dei consumatori. Se non si esaminano i comportamenti disaggregati
del consumo in epoche precontemporanee si introducono alcuni vizi nella nostra raffigurazione
del passato: nascondendo certe continuità, e immaginando una liberazione dalla “tirannia
della penuria” come derivata solo da fattori economici e non come effetto di una rivoluzione
culturale che ha trasformato la società, allontanando il consumo dalla tradizionale
gerarchia degli status.
L’immagine di una società preindustriale dominata dalla necessità si è conservata
a lungo, troppo a lungo nella storiografia, finendo per suggerire un salto netto da
un’epoca della scarsità a un’epoca dell’abbondanza. Ma sottovalutare la complessità
e la dimensione del consumo prima del Settecento produce una lettura ottimistica della
nuova società capitalistica, e crea un’illusione ottica contro cui mi pare legittimo
avanzare un’ipotesi: la rivoluzione del consumo non è una espansione della domanda
tout court, ma un’espansione della domanda di beni mercantilizzati. Prima – nell’Europa medievale
e della prima età moderna – prevaleva non tanto un’economia della scarsità ma piuttosto
un consumo non mercantile, che rappresentava una quota importante della acquisizione
di prodotto: non solo nelle famiglie aristocratiche, a maggior ragione in quelle artigiane
e dei piccoli commercianti, oltre che in quelle dei contadini e dei lavoratori senza
proprietà.
Tale consumo riguardava non soltanto i prodotti alimentari, ma anche il fabbricare
tessuti in casa, prodursi oggetti, farsi il pane, eccetera. Nella contabilità della
famiglia Mutti, ad esempio, sono comuni notazioni come questa:
30 agosto 1664 8 libbre di lino muneghin per filar in casa
26 settembre far tesser un par de calze
11 novembre 2 libbre di lino ordinario per casa
12 dicembre sacchi 29 formento e 40 sacchi formenton per uso di casa.
E dopo la rivoluzione dei consumi, se pensiamo alle condizioni miserabili della classe
operaia dell’Ottocento, o alla diffusione della pellagra fra contadini che mangiavano
esclusivamente mais, c’è da domandarsi fin dove i nuovi consumi fossero arrivati;
e se non si sia in parte trattato di un’illusione ottica che nasconde la vera trasformazione,
cioè la mercantilizzazione di quanto prima non passava per il mercato. Non è un caso
che nelle campagne del Nord Italia il Settecento veda l’enorme diffusione del mais
(che raggiunge il doppio del frumento in quantità), mentre il frumento, stazionario
come quantità prodotta, vede la sua presenza sul mercato crescere di molto perché
sottratto al consumo contadino ormai fatto esclusivamente di polenta. Non una rivoluzione
agraria ma una rivoluzione della mercantilizzazione dei prodotti pregiati, che non
conoscono aumenti consistenti di rese. Del resto, i precoci sviluppi manifatturieri
in Olanda e Inghilterra sono spesso stati spiegati con la necessità nuova e mercantile
di vestire gli schiavi delle colonie, sostituendo il dispendio di energie della produzione
domestica.
Evidentemente non voglio esagerare questa contrapposizione, né negare che una grande
trasformazione nei consumi ci sia stata davvero, dal tardo Seicento inglese e olandese
al Sette-Ottocento continentale; voglio piuttosto sottolineare che dietro tutto questo
c’è una società d’antico regime che va indagata meglio, e c’è una trasformazione culturale
che ha preceduto e accompagnato quella economica.
5. Il ruolo della disuguaglianza
Una differenza fondamentale delle società preindustriali rispetto alla nostra società
è il ruolo della disuguaglianza, anche all’interno delle strutture familiari e anche
in presenza di sistemi ereditari apparentemente egualitari. Priva di protezioni pubbliche,
la società di antico regime deve differenziare le professioni dei figli per affrontare
l’incertezza, la rigidità del mercato del lavoro, la fragilità della vita. D’altra
parte, la differenza di ambiti professionali deve tuttavia essere giocata mantenendo
un mutuo appoggio, una solidarietà del fronte familiare e parentale. Si deve dunque
investire differentemente nella formazione dei figli, secondo i ruoli che dovranno
ricoprire nella società (ricordiamoci il caso citato dei tre figli di Lorenzo di Bianchi:
il 5.5% delle spese familiari devoluto all’istruzione dei due maschi, e nulla per
la femmina); di riflesso, dovranno essere differenziati tutti quei consumi che sono
connessi con questa strategia.
Per gli storici è difficile cogliere i margini della diseguaglianza legittima: in
effetti, quella di antico regime era una società basata sull’equità e non sull’eguaglianza,
ma anche l’equità seguiva regole implicite di giustizia che dovevano essere rispettate.
Sarebbe improprio pensare, ad esempio, alle rivolte contadine dell’età moderna come
rivolte eversive di un sistema gerarchico: non si trattava di rivolte per l’eguaglianza,
ma di rivolte per restaurare una giustizia violata, il mancato rispetto di ciò che
competeva alla condizione contadina. In modo analogo, anche le tensioni familiari
debbono essere interpretate non come una richiesta di eguaglianza, ma come il frutto
di una reazione a una giustizia distributiva che aveva ecceduto i margini della legittimità.
Lo mostrano bene un altro paio di storie di vita.
Francesco e Nicoletto sono i due orfani quasi coetanei di Nicolò Olini, affidati allo
zio Zuanne. Ricevono in eredità tre botteghe date in affitto e un cospicuo capitale
depositato in Zecca. Li seguiamo per diciotto anni (1655-1672), poi la contabilità
continua, ma Nicoletto – dopo che i beni ereditati sono stati divisi – scomparirà
dalla gestione che continuerà per Francesco, trasferitosi a Roma. Nel periodo di doppia
gestione, seguendo le spese fatte per ciascuno, risulta che Francesco gode del 55.4%
di tutte le spese di consumo della famiglia, e Nicoletto solo del 45.6%. Dopo una
fase in qualche modo di uguaglianza, nella prima infanzia dei due orfani, le spese
(in lire) vanno man mano differenziandosi, quando viene definito il destino adulto
di ciascuno:
|
Francesco
|
Nicoletto
|
1655
|
386
|
379
|
1656
|
150
|
151
|
1657
|
166
|
179
|
1658
|
157
|
150
|
1659
|
252
|
254
|
1660
|
158
|
158
|
1661
|
160
|
160
|
1662
|
525
|
196
|
1663
|
349
|
160
|
1664
|
187
|
403
|
1665
|
267
|
441
|
1666
|
296
|
172
|
1667
|
290
|
2137
|
1668
|
355
|
323
|
1669
|
281
|
696
|
1670
|
1434
|
1816
|
1671
|
3301
|
316
|
1672
|
4188
|
2296
|
Totale
|
12902
|
10387
|
Come si vede, le spese sono distribuite disegualmente nel tempo. Fra 1664 e 1670,
la famiglia Olini investe molto di più su Nicoletto per farlo studiare a Trieste e
poi per farlo entrare in un convento domenicano, malgrado il giovane non ne fosse
entusiasta, se nel 1670 vengono registrate alcune decine di lire «spese in viaggio
di Treviso per andar a trovar Nicoletto per dissuaderlo di maritarsi con certa persona».
Alla fine tuttavia egli accetterà di proseguire la carriera ecclesiastica, mentre
Francesco si trasferirà a Roma come mercante.
Prendiamo un altro caso, quello dei tre figli orfani di Francesco Toselli, mercante
con Alessandria d’Egitto: due maschi, Zuan Antonio e Meneghetto, e una femmina, Lucrezia.
La tutela, con l’aiuto di un «pubblico computista», è gestita da Domenico Battagliola,
padre della moglie di Francesco. Nei 16 anni di gestione verranno spesi per i figli
– per vestiario, alimentazione e scuola – 21306 lire, di cui il 36% per Zuan Antonio,
il 33% per Meneghetto e il 31% per Lucrezia, percentuali non troppo distanti. Ma se
le esaminiamo a fondo, noteremo delle differenze sostanziali. Le spese per vestiario
saranno così distribuite: 43% per Zuan Antonio, 34% per Meneghetto, 23% per Lucrezia.
Al contrario le spese scolastiche saranno a favore di Meneghetto, cui sono destinate
nella misura del 52%, contro il 38% per Zuan Antonio e solo il 10% per Lucrezia.
Leggendo le note minuziose di Domenico Battagliola apprendiamo così che il destino
dei 3 figli si definisce progressivamente come diverso. Zuan Antonio proseguirà il
lavoro del padre, e partirà per Alessandria d’Egitto: deve perciò avere abiti relativamente
lussuosi e, oltre a quelli che gli son stati comprati, prenderà la biancheria che
gli occorre da due casse lasciate dal padre «in tempo che voleva andare in Alessandria
acciò se ne accomodasse di quello le tornava comodo». Evidentemente, un mercante deve
anzittutto ben apparire; gli farà comodo anche avere una buona educazione, ma non
particolarmente specializzata, si specializzerà con la pratica. Meneghetto invece
farà il cambista alla fiera di Bolzano: un lavoro complicato, che richiede un abito
decoroso ma senza fronzoli (l’8 agosto 1635 avrà 101 lire – una cifra molto modesta
– «a farsi drappi per Bolzan»), mentre necessita assolutamente di molta capacità matematica
e contabile. Troviamo così fra le spese per lui molti volumi comprati al «librer de
la Salamandra», libri d’abaco, manuali di cambio e di analisi monetarie, e una notevole
spesa «per dar al maestro le insegna a tener libro doppio». Quanto a Lucrezia, sa
certo leggere e scrivere, ma i suoi libri sono soltanto libri di devozione. Avrà comunque
anche un «maestro de sonar». E quando si sposerà ci saranno molte spese, 965 lire
in «robe per parecchiar la dote» e 637 lire «spesi nel convito delle nozze de madonna
Lugrezia per la parte spettante la commissaria».
I bilanci familiari degli orfani Olini o degli orfani Toselli rivelano, insomma, una
discontinuità che solo nel tempo lungo può essere letta come una diseguaglianza. Ma
noi possiamo intanto trarne alcune prime conclusioni: innanzitutto l’importanza del
ciclo di vita, che implica che i bilanci familiari debbono essere esaminati appunto
nella loro discontinuità nel tempo, mentre qualsiasi immagine statica ci toglie gran
parte delle informazioni sul comportamento dei consumatori.
6. L’utopia della gerarchia
È ormai un luogo comune della filosofia politica e morale il carattere utopico e minaccioso
della pretesa di creare una società di eguali. E tuttavia i sistemi ideologici che
hanno dominato la storia negli ultimi secoli hanno visto succedersi immagini differenti
di quale potesse essere una società giusta.
L’utopia dell’antico regime potrebbe essere definita come quella che poneva il proprio
obiettivo nella creazione di una società giusta, ma gerarchizzata. Ogni livello sociale
aveva diritto a una sua propria giustizia, e norme culturali e morali – tradotte solo
qualche volta in norme giuridiche – conservavano l’idea di una rigorosa differenziazione
sociale. Questo influiva sui modelli di consumo. Le pratiche mercantili agivano in
modo settoriale, per segmenti, senza che giocasse apertamente un sistema globale di
mercato: esistevano più livelli sociali, una giustizia distributiva plurima, più mercati,
che talvolta separavano le merci in circolazione in una pluralità di circuiti, giungendo
addirittura a creare mercati diversi e reciprocamente sordi per la stessa merce. L’aspetto
utopico della società d’antico regime consisteva proprio nella difficoltà di definire
gli strati sociali, che avrebbero richiesto delimitazioni nette e dunque appartenenze
ben identificabili, che non era facile incontrare: gli aspetti informali, nella loro
inevitabile indefinitezza, non potevano consentire una demarcazione netta, una unicità
di appartenenza. Non a caso, fu quella una società in conflitto continuo fra diverse
giurisdizioni, e contemporaneamente posseduta da una vera ossessione classificatoria.
Progressivamente questa utopia perderà forza, la distribuzione della ricchezza sarà
sempre più difforme dalle appartenenze sociali e giuridiche, e si aprirà una via –
lo storico olandese Jan de Vries l’ha definita industrious revolution – che tuttavia mi pare debba essere letta come la crisi della legittimità della diseguaglianza
prima che come il frutto di una crescita della domanda, cioè come un fatto essenzialmente
economico. E con la fine del Settecento, muterà anche la concezione di giustizia:
l’eguaglianza sarà affermata, ma sarà ormai un’eguaglianza formale. Senza più una
pluralità di leggi, la legge sarà uguale per tutti, e tutti gli uomini verranno dichiarati
uguali malgrado le loro differenze. Peraltro, anche questo, proprio per i suoi limiti
puramente formali, creerà una giustizia utopica, appunto quella della legge uguale
per tutti.
Oggi, all’inizio del terzo millennio, ci troviamo di fronte alla ricerca di una nuova
utopia: come creare una società giusta fra differenti, e che però non sia una società
gerarchizzata. L’accettazione della differenza come un carattere ineliminabile – perché
risultato di culture diverse, ma anche di diverse condizioni emotive e psicologiche
fra individui appartenenti alla stessa cultura – ha messo in discussione, tra l’altro,
molti dei risultati della scienza economica. Se le società e gli uomini sono differenti,
e se questa differenza va accettata, il problema diventa come costruire una teoria
economica rinunciando a ipotesi che adottino la semplificazione di una uniformità
di desideri e di scopi degli uomini.
Vorrei chiudere queste considerazioni riassumendo quelle che sono ipotesi di lavoro
più che vere e proprie conclusioni. In effetti, non è possibile in poche pagine dare
conto delle storie di vita che la fonte veneziana ci conserva: qui, si è potuto soltanto
porre domande e formulare delle prime indicazioni. La società moderna mostra un’organizzazione
sociale differente dalla nostra, ma piena di suggerimenti. Trascurare i suoi aspetti
più propri, semplificandone le modalità di consumo come qualcosa governato dalla necessità,
oscura in parte anche la comprensione delle modalità di consumo nella società capitalistica.
Il carattere simbolico dei beni, le strategie legate al ciclo di vita della famiglia
e dei suoi singoli componenti, le forme di legittimità accettabili o inaccettabili,
la cultura, sono temi estremamente rilevanti, che la storiografia ha affrontato finora
in modo inadeguato.
Nell’Europa di antico regime la disuguaglianza era interna alla famiglia, fra maschi
e femmine e fra maschi e maschi, ma era anche, naturalmente, diseguaglianza esterna:
regole non sempre formalizzate in norme giuridiche (per esempio con leggi suntuarie)
erano tuttavia operanti attraverso una sanzione sociale che la sensibilità comune
conosceva e osservava. Se dunque il problema – come ho sostenuto qui – è prima culturale
che economico, sarà necessario partire da un’analisi più attenta dell’idea di giustizia
e di relazioni che la società aveva per capire il senso del consumo in antico regime.
E per capire, all’appuntamento cronologico con il tardo Seicento e poi con il Settecento,
il motivo della crisi di un modello: il senso di una rivoluzione del consumo che poteva
nascere soltanto se la società aveva rotto certi argini culturali, che avevano dettato
un senso simbolico differente alle cose, al loro uso e al loro possesso.
Nota Bibliografica
La fonte su cui mi baso sono le Rese conti del Giudice di Petizion dell’Archivio di Stato di Venezia, filze 970-988. Nel 1855
Frédéric Le Play pubblicò la prima edizione de Les Ouvriers européens,frutto di un’inchiesta sui bilanci familiari: era la prima volta che i redditi e i
consumi familiari venivano assunti come un tema centrale. Da quella data lo studio
dei bilanci ha prodotto molte ricerche. Per l’Italia Stefano Somogyi (Cento anni di bilanci familiari in Italia, 1857-1956, in «Annali Feltrinelli», II, 1959, pp. 121-263) ne ha fatto un’ampia raccolta, tuttavia
concludendo che «l’impossibilità di osservare il comportamento delle medesime famiglie
o di famiglie sostanzialmente identiche per composizione e per situazione attraverso
il tempo rende vano il tentativo di trarre deduzioni valide».
Sulla rivoluzione dei consumi le opere fondative sono N. McKendrik, J. Brewer e J.H.
Plumb, The Birth of a Consumer Society. The Commercialization of Eighteenth-Century England, Europa, London 1982 e J. Brewer e R. Porter (a cura di), Consumption and the World of Goods, Routledge, London-New York 1993. Il libro di C. Shammas, The Pre-industrial Consumer in Britain and America, Clarendon Press, Oxford 1990, è tuttora quanto di meglio sia apparso sull’uso degli
inventari post-mortem.
Sulla lettura culturale del consumo A. Appadurai (a cura di), The Social Life of Things: Commodities in Cultural Perspective, Cambridge University Press, Cambridge 1986 e, per l’Italia, R. Ago, Il gusto delle cose. Una storia degli oggetti nella Roma del Seicento, Donzelli, Roma 2006.