Europa e Asia, Cristianità e Islam:
raffronti ed equivoci
Il confronto tra Europa e Islam, comunque lo si voglia impostare, comporta sempre
un sentore di contrapposizione: forse perché si continua a considerarlo – o almeno
a implicitamente avvertirlo – come una sorta di continuazione o di ripresa dell’incontro-scontro
fra Cristianità e Islam; per quanto è ormai impossibile il riferirsi ancora all’endiadi
Christenheit oder Europa, proposta dal Novalis, considerandola appunto come un’endiadi. Il processo di secolarizzazione,
connaturato alla Modernità occidentale, impedisce di continuare a considerar l’Europa
non solo come la Cristianità, ma anche semplicemente come una Cristianità. Tuttavia, almeno da quando il mondo occidentale – a sua volta non più
identificabile tout court con l’Europa – segue con preoccupazione crescente il diffondersi dei movimenti islamici
impropriamente detti «fondamentalisti» (per quanto non si possa certo identificare
per intero l’Islam con i differenti e molteplici volti della galassia «fondamentalista»),
si registra in Europa una diffusa tendenza a vedere nell’Islam un almeno potenziale
avversario. Tendenza che si potrebbe ritenere nuova: ma che molti europei vivono piuttosto
come un revival, un ritorno, il ricorso d’un déjà vu, la ripresa d’una contrapposizione antica e, per così dire, connaturata a una realtà
geostorica e geostrutturale profonda.
Ci sarebbe dunque da chiedersi se il confronto tra Europa e Islam, nella misura in
cui è definibile o quanto meno coglibile come una contrapposizione, non sia spesso
vissuto da una parte come sinonimo imperfetto di quello tra Occidente e Islam (o tra
Modernità e Islam: il che introdurrebbe un ulteriore elemento di complicazione, implicito
nella tendenza a considerare inscindibili Occidente e Modernità), dall’altra come
la prosecuzione di un «confronto-duello» classico e antico, quello tra Europa e Asia,
già intravisto da Eschilo ne I Persiani e interpretato quindi nel De aeribus d’Ippocrate in termini di valori tanto climatico-ambientali quanto politico-istituzionali
(le stagioni miti e il governo monarchico renderebbero imbelli gli asiatici, le stagioni
più aspre e le istituzioni di libertà attivi e bellicosi gli europei) e nella Politica di Aristotele come esito di una «naturale» differenza d’indole. Ma certo, se ardua
e ormai improponibile appare l’endiadi Cristianità-Europa, a maggior ragione impossibile
sarebbe qualunque riduzione dell’Asia all’Islam o viceversa: non tutta l’Asia è musulmana,
com’è noto, e d’altronde il dar al-Islam, la «terra della fede», si estende ben oltre i limiti del continente asiatico.
A ciò si aggiunga l’«asimmetria» almeno apparente fra i termini stessi di «Europa»
e «Islam»: l’uno indica difatti un continente, l’altro una religione. Ma – ed eccoci
a una prima chiave concettuale per uscire dal nostro dilemma – osserva al riguardo
Bernard Lewis:
L’asimmetria è più apparente che reale. «Europa» è un concetto europeo, così come
l’intero sistema geografico dei continenti, fra i quali l’Europa fu il primo. L’Europa
ha concepito e fatto l’Europa; l’Europa ha scoperto l’America, le ha dato il nome
e in un certo senso l’ha fatta. Secoli prima, l’Europa aveva inventato sia l’Asia
che l’Africa, i cui abitanti, fino al XIX secolo – l’era della supremazia mondiale
europea – erano del tutto inconsapevoli dei nomi, delle identità e persino di queste
classificazioni inventate dagli europei a loro uso e consumo.
L’Islam non è un luogo; è una religione. Ma per i musulmani la parola «religione»
non ha la stessa connotazione che ha per i cristiani o che aveva per i cristiani del
medioevo [...]. Per i musulmani l’Islam non è soltanto un sistema di fede e di culto
[...] Esso indica piuttosto il complesso della vita e le sue norme comprendono elementi
di diritto civile, di diritto penale e persino di quello che noi chiameremmo diritto
costituzionale.
Ma la contrapposizione tra Europa e Asia, al pari di quella tra Occidente e Oriente,
conosce uno statuto geostorico e geopolitico di lunga durata che va al di là della
tensione tra l’Europa e l’Islam; per quanto non manchino quanti propongono che in
certi periodi – ad esempio nell’età delle crociate, o in quella dell’egemonia turco-ottomana
sul Mediterraneo orientale e sui Balcani – il duello euroasiatico e quello occidentale-orientale
abbiano assunto l’aspetto di quello che (con molta inesattezza, almeno a livello simbolico)
si usa indicare come il «duello tra la croce e la mezzaluna». Ora, se – al di là delle
indicazioni dei geografi antichi – ci poniamo il problema di come e quando sia nata
una coscienza moderna dell’Europa e dell’identità europea, ci rendiamo conto di quanto
e fino a che punto l’Islam ne sia, magari «al negativo», tra i fattori che l’hanno
aiutata a definirsi. La reiterata aggressione musulmana all’Europa – tra VII-VIII
e X secolo, quindi tra XIV e XVIII secolo –, obiettivamente effettiva o comunque come
tale dagli europei interpretata, è stata una «levatrice violenta» d’Europa. E se qualche
storico ha (paradossalmente?) salutato dunque il Profeta come «padre fondatore» d’Europa,
c’è da chiedersi se analogo ruolo non sia più tardi spettato anche ai sultani turchi
Maometto II e a Solimano il Magnifico che, obbligando il continente a difendersi e
a cercare le vie e i modi per un’azione unitaria, lo hanno indotto anche, in prospettiva,
a meglio definirsi dinanzi a se stesso e all’«Altro».t
I musulmani oltre il «Maghreb al-Aqsa»
Che l’Europa fosse la sede per eccellenza – se non in esclusiva – della Cristianità,
era avviso errato forse ma si può dir concorde degli autori medievali. Con esso, era
radicata l’idea che chi non fosse cristiano, se anche dimorasse in territorio europeo,
vi si fosse installato da estraneo e da invasore. Così l’anonimo chierico toledano
che, verso la metà dell’VIII secolo, proseguiva nella sua Continuatio Hispanica le Historiae avviate da Isidoro di Siviglia, salutava come Europenses gli austrasiani vincitori della battaglia di Poitiers del 732 (in realtà combattuta,
secondo altri, nel 733). Ma ci si può chiedere se egli si sentisse a sua volta Europensis in quanto cristiano, o semplicemente nella misura in cui la penisola iberica rientrava
nell’Europa secondo i termini geografici romani; o se tale non ritenesse – con rammarico
– di poter più dire nemmeno se stesso, da quando gli arabo-berberi invadendo la penisola
iberica l’avevano inglobata nel dar al-Islam. Il che postulerebbe, appunto, confini mobili e rigorosa alterità tra Europa e dar al-Islam; ed escluderebbe la possibilità di parlare di una «Europa musulmana» quando si volesse
alludere ai territori del continente europeo conquistati dall’Islam e insediati da
genti già musulmane o alla nuova fede di recente convertite.
È antiquata e oziosa la discussione se Poitiers abbia arrestato l’invasione musulmana
dell’Europa, o sia stata piuttosto il sintomo d’una stanchezza degli invasori, i quali
ormai non avevano più lo slancio per procedere troppo oltre: sia perché ormai il peso
di quel fatto d’armi appare del tutto circoscritto, sia perché è improprio, dinanzi
all’espansione dell’Islam nei secoli VII-X, parlare d’invasione. Gli arabi non avrebbero
mai potuto disporre, all’interno del loro àmbito etno-geografico, di guerrieri tanto
numerosi da occupare in pochi decenni un territorio esteso dalle Colonne d’Ercole
all’Indo e al Sir Darya nel senso della longitudine e dal Caucaso al Corno d’Africa
in quello della latitudine: fin dalle campagne dei califfi immediati successori del
Profeta, a partire cioè dagli anni Trenta del VII secolo, l’espansione dell’Islam
non corrispose mai a una torrenziale, inarrestabile conquista militare – e tanto meno
a una Völkerwanderung –, bensì piuttosto a un processo non sempre coerente e continuo di conquista e di sostanzialmente
mai provocata e tanto meno imposta conversione di gruppi afferenti a società stanche
o in crisi – fossero i cristiani monofisiti di Siria e d’Egitto, trattati con durezza
dal governo del basileus di Bisanzio, o le genti soggette allo shah sasanide –, desiderose di scrollarsi di
dosso vecchie e sclerotiche signorie e di ridefinirsi senza rinnegare il monoteismo
abramitico attorno a un catalizzatore nuovo, il verbo della sottomissione a Dio propagandato
dal Suo rasùl Muhammad; per quanto molti preferissero poi restare invece fedeli al loro credo accettando
di pagare per questo la tassa di capitazione(jizya) e l’imposta dovuta dai non-musulmani sulla terra (kharadj) nonché di venire considerati, in quanto ahl al-Khitab («genti del Libro»), dhimmi – quindi «protetti», ma anche «soggetti» –; e mostrando insomma di ritenere il governo
degli infedeli migliore di quello dei correligionari.
Comunque il mito di Poitiers, auspice una suggestiva pagina di Edward Gibbon, ha percorso
e contribuito in certo senso a razionalizzare l’intera storia dell’Europa come storia
della contrapposizione rispetto all’Islam: senza Poitiers e l’eroismo di Carlo Martello
– è stato detto e ripetuto più volte e in vari modi – il nome di Allah sarebbe stato
annunziato dai muezzin dall’alto delle torri di Oxford, in quella celebre università si sarebbe studiato
il Corano e le vicende di tutto il mondo sarebbero state diverse.
Inutile ridimensionare il peso e il ruolo della battaglia di Poitiers: per quanto
sia giusto invitare alla prudenza nelle minimalizzazioni e nelle «demitizzazioni»,
va pur detto che ormai nessuno fra gli specialisti, gli studiosi seri e il pubblico
più attento crede più a una sua importanza risolutiva. Il «mito» di quello scontro
sopravvive oggi soprattutto come luogo comune massmediale: ma, d’altro canto, non
v’è nulla di più arduo a sradicarsi d’un luogo comune massmediale. Sappiamo bene che
è stata la propaganda franca e pontificia a esaltare la vittoria conseguita sulla
strada fra Tours e Poitiers, qualche chilometro a nord-est della confluenza della
Vienne con la Creuse, per confermare la gloria della nazione «primogenita della Chiesa
di Roma». Al tempo stesso, c’era forse l’intenzione di eclissare la fama del basileus Leone III Isaurico, che nel 718 aveva obbligato i musulmani ad abbandonare l’assedio
posto l’anno precedente a Costantinopoli e che avrebbe validamente contrastato il
loro potere sui mari mantenendo il controllo di Mar Nero, Egeo e Mediterraneo centrale
fino a dissuaderli per molto tempo dal compiere ulteriori tentativi di penetrare nella
penisola anatolica. Ma i fedeli della Chiesa latina non potevano certo onorare Leone
III, un iconoclasta; più tardi gli si sarebbe rimproverata anche l’appartenenza a
quella civiltà bizantina che un tenace pregiudizio occidentale ha indotto per lungo
tempo a descrivere come vile, decadente, degenerata. Quel che il mito di Poitiers
ha contribuito a dissimulare a noi moderni è piuttosto, se non proprio il silenzio,
le scarse e poco precise voci delle fonti europee coeve rispetto all’Islam. È noto
d’altronde che il periodo corrispondente alla grande esplosione delle conquiste musulmane
fu anche un lungo momento di forte depressione del mondo euroccidentale: silenzio
o notizie inadeguate sono pertanto dovuti anzitutto a disinformazione e a ignoranza.
Tuttavia, vero è anche che nel clima di allora riusciva forse difficile, e tutto sommato
inutile, distinguere i musulmani da altri invasori o incursori: né avrebbe avuto senso
attribuire loro importanza e significato particolari. È stato scritto che quella dell’impero
romano d’Occidente, nella seconda metà del V secolo, era stata una «caduta senza rumore»;
probabilmente, per l’Europa almeno dell’VIII secolo anche l’avanzata islamica fu,
del pari, senza rumore. O meglio, il suo rumore si confondeva con altri. Al confronto,
ad esempio, di Poitiers parlano di più le fonti musulmane, che conoscono l’episodio
come «Balàt al-Shuadà’», la «Strada dei Martiri», e gli attribuiscono una sia pur
mediocre importanza.
Non ci si può certo meravigliare di quel che accadde nel depresso e sottosviluppato
Occidente europeo, dal momento che le stesse ben più avvertite fonti bizantine si
accorsero relativamente tardi che i musulmani non erano barbaroi come gli altri; né si resero subito conto dell’importanza dell’Islam come nuova fede.
E attraverso Bisanzio giunge all’Europa altomedievale un dono inatteso e sconvolgente.
Una parola magica: Sarraceni, poi corretto e nobilitato in Saraceni e con una forma molto inesatta di lectio facilior interpretato come «figli di Sara». Il termine era improprio, giacché serviva a indicare
originariamente un popolo le asserite origini del quale stavano nell’Arabia felix,collegandolo con la progenie uscita secondo il racconto del Genesi dall’unione di Abramo non già con la consorte legittima Sara, bensì con l’ancella
egiziana Agar. Ora, se la tradizione consolidata considerava le genti del deserto
come figlie del Patriarca e della schiava – quindi sorellastre bastarde del popolo
d’Israele attraverso il figlio, quell’Ismaele da quei due generato (da cui il nome
di Ismailitae) –, il termine che sarebbe stato per loro più appropriato, e che difatti è autorevolmente
e ordinariamente attestato, è semmai Agareni.Ma che la parola Saraceni derivi da Sara è forse spiegazione pseudoetimologica a posteriori, sulla base della semiomofonia e del fraintendimento d’una voce derivata dall’arabo
o dal siriaco. Essa è stata avvicinata ad alcune parole arabe: è improbabile che derivi
da sharq, «Oriente», dal momento che la prima ondata musulmana che investì la Siria veniva
semmai da sud – a meno che il termine non abbia origine egiziana –, mentre molto suggestivo
sarebbe il rapporto che la collega al vento del deserto Sharuq (da non confondersi con Sharqiyya, lo Scirocco). Altri hanno tenuto invece d’occhio il carattere di moltitudine che
gli scorridori del deserto presentavano, o la loro caratteristica di associarsi fra
tribù per compiere i loro raids: e hanno chiamato in causa i concetti di shark, «gente riunita», o di sharika, «società», «compagnia». È stato proposto altresì che i saraceni siano stati chiamati
così dai sedentari che erano i loro antagonisti e non di rado le loro vittime in rapporto
al concetto di sarq («rapina», «furto») e al verbo saraq («rubare»), da cui i concetti analoghi di sâriq, «ladro», e di sarrâq,«rapinatore», borsaiolo».
Quelli che i testi definiscono Ismailitae,o Agareni,o Sarraceni, si affacciano presto alla ribalta delle nostre fonti. Troppo poco sappiamo dell’accusa
mossa a papa Martino I (649-653) di aver cercato contatti con i saraceni per contrastare
il basileus Costante II e il suo monotelismo: si trattava comunque dei primi assaggi islamici
di conquista del Mediterraneo, che in quegli anni preoccupavano Bisanzio. Certo è
che, alla fine del VII secolo e ai primi dell’VIII, quella congerie di genti eredi
nella sostanza della tradizione ricevuta dalla Pars occidentis dell’impero romano, scaturita alla fine del IV secolo dalla sistemazione teodosiana,
cui si erano aggiunti gli apporti «barbarici» e le monarchie che ne erano nate – insomma,
gli «europei occidentali», come già possiamo chiamarli –, non disponeva di strumenti
in grado di prepararla al fatto che, di lì a pochi decenni, anche sulle sue coste
e nei mari ad esse prospicienti si sarebbe abbattuta la tempesta saracena.
Ma l’avventura della conquista islamica del Mediterraneo era già cominciata. Dopo
che la Siria e la Palestina erano state invase dagli arabi tra 633 e 640 e l’Egitto
tra 639 e 646, i marinai siriaci ed egiziani avevano abbracciato la nuova fede o si
erano comunque messi presumibilmente non senza piacere – loro, cristiani in maggioranza
monofisiti e quindi perseguitati e discriminati dall’amministrazione imperiale bizantina
– al servizio dei seguaci del Profeta. Nel 649 un capo destinato al califfato, il
governatore di Siria Muhawyya ibn Abu Sufyan – cugino del califfo Othman e futuro
fondatore della dinastia califfale umayyade –, attaccò Cipro; nel 652 si verificò
già qualche modesta scorreria in Sicilia, appartenente ancora all’area dominata da
Bisanzio; tre anni dopo, una grande battaglia navale non lontano dalle coste della
Licia segnava la crisi della talassocrazia romano-orientale. Vi fu sconfitto lo stessoCostante II, ch’era pur a capo d’una flotta di 500 navi.
Di tutti questi avvenimenti, le genti della depressa Europa occidentale del tempo
– ancora prevalentemente mediterranea: i suoi confini orientali erano al Reno e quelli
settentrionali all’alto corso del Danubio – non sapevano e non sarebbero comunque
riuscite a capire quasi nulla. Ma, per renderci conto un po’ più da vicino di un silenzio
o di troppo scarse informazioni, non dobbiamo insistere sull’ignoranza del fenomeno
islamico da parte delle fonti occidentali – che senza dubbio pur c’era –, bensì semmai
e soprattutto sul loro disinteresse. Difatti il cronista franco noto come Fredegario,
che scriveva verso il 658, alludeva a profezie di tipo astrologico circolanti nell’impero
al tempo del basileus Eraclio, secondo le quali la compagine bizantina sarebbe stata battuta e conquistata
da una razza di circoncisi e mostrava di conoscere varie cose sulla prima espansione
islamica in Asia Minore. Sempre nel mondo franco, ai primi dell’VIII secolo, un certo
monaco Pietro forse siriano traduceva dal greco in latino un testo il cui originale
siriaco proveniva dalla Mesopotamia settentrionale: si tratta delle Revelationes del cosiddetto Pseudo-Metodio, più volte poi usato in seguito nella propaganda escatologica
a carattere politico. Secondo tale testo gli ismailiti provenienti dal deserto di
«Ethribum» (quindi di Jathrib, la città prediletta del Profeta, Medina) avrebbero
conquistato l’Oriente, attaccato la Sicilia e sarebbero giunti fin presso Roma; le
loro gesta avrebbero sconvolto anche i boschi, le montagne, le città. Quell’assalto
degli ismailiti avrebbe dovuto immediatamente precedere l’avvento dell’Anticristo:
ma un imperatore cristiano avrebbe alla fine sottomesso le avanguardie del Nemico.
Insomma, qualcosa si sapeva: ma lo si registrava distrattamente.
L’occupazione musulmana della penisola iberica e della Settimania (Linguadoca), nel
corso del secondo decennio del secolo VIII, dovette un po’ cambiare le cose. Nel mondo
visigoto di Spagna – percorso dai residui della controversia ariana e dalle rivalità
interne alla sua aristocrazia – ci si era preoccupati per tempo dinanzi alle notizie
dell’avanzata araba lungo le coste dell’Africa settentrionale. Durante il concilio
di Toledo del 694 il re Egica aveva lanciato l’allarme. Si andava spargendo la voce
che gli ebrei, esasperati a causa delle misure vessatorie assunte nei loro confronti,
si apprestassero a dar man forte ai nuovi barbari che stavano avanzando nel Nordafrica
in direzione est-ovest. Imperversava intanto una guerra civile fra i pretendenti al
trono goto di Toledo e sembra che uno di essi, per evitar di soccombere, si rivolgesse
chiedendo aiuto ai Mauri, agli arabi conquistatori ma anche ai berberi arabizzati e islamizzati che ormai
erano con loro: quelli che da allora e per sempre sarebbero stati los moros, i feroci e affascinanti nemici-compagni degli spagnoli cristiani. È stato d’altronde
proposto che anche in Spagna e nella Settimania, com’era accaduto in gran parte delle
regioni ex bizantine conquistate dai musulmani, i nuovi arrivati sarebbero stati tutt’altro
che malvisti da una parte almeno della popolazione e il loro giogo preferito – perché
ben meno pesante e vessatorio – a quello dei dispotici principi cristiani.
L’antica provincia romana d’Africa, che gli arabi chiamavano Ifriqiya (comprendente
la Tripolitania, la Tunisia e l’Algeria attuali), era stata invasa dai musulmani nel
647; ma solo una quindicina d’anni più tardi la resistenza bizantina e soprattutto
berbera aveva cominciato a cedere. Gli arabi distinguevano, nell’area che stavano
conquistando, tre elementi etnosociali: i rum, un termine che indicava principalmente i bizantini, cioè i sudditi dell’impero romano
(dal greco Romàioi),ma che sul litorale africano ad ovest della Sirte designava genti d’origine o comunque
di lingua latina; gli afriki, autoctoni ormai cristianizzati; e infine i berber, dal latino barbarus, ch’erano rimasti fuori dalla civiltà romana e che si erano cristianizzati solo in
parte e in data recente. Essi finirono con l’accettare l’Islam, però non si assimilarono
mai agli arabi. Erano a loro volta, al pari di quelli, refrattari alla vita di mare:
ma l’apporto dei marinai siriani ed egiziani consentì comunque presto loro di guardare
al Mediterraneo. Già dal 665 i musulmani usavano la base navale di Jaloula, strappata
ai bizantini; nel 670 fu fondata la città di Qayrawan, che assunse il nome dal termine
che in arabo indica il campo militare; dall’anno 700 un buon porto fu organizzato
in Tunisi, dove si trasferì un centinaio di famiglie egiziane esperte nell’arte delle
costruzioni navali; da lì a circa cinque anni dopo, tutta l’Africa settentrionale,
sino a quello che per gli arabi era «il lontano Occidente» (al-Maghreb al-Aqsa), il Marocco, era nelle mani dei conquistatori, mentre si avviava il faticoso processo
d’islamizzazione e di arabizzazione almeno linguistica dei berberi. Fu probabilmente
alla fine del luglio del 711 che una grossa flotta musulmana, al comando del berbero
Tariq ibn Ziyàd, prese terra nella baia di Algeciras, che già l’anno prima era stata
razziata. Le forze arabo-berbere ascendevano forse a 10.000 uomini circa. Sconfitte
le truppe del re goto Roderico, gli invasori puntarono senza indugio su Siviglia,
occuparono quindi Córdoba e nel 713 s’impadronirono di Toledo. L’Aragona fu conquistata
l’anno successivo; entro il 720, i musulmani avevano occupato anche la Catalogna e
la Settimania, vale a dire tutti i territori della monarchia visigota a sud e a nord
dei Pirenei. La rapidità della conquista di quella che gli arabi chiamavano al-Andalus (avevano imparato a definirla così in Africa, dov’essa era ancora «la terra dei vandali»)
fu tale che, per spiegarla, si fece ricorso all’alibi della complicità degli ebrei,
degli eretici e della fazione gota nemica di Roderico.
Dopo aver occupato Narbona nel 718, gli arabi si erano presentati dinanzi a Tolosa
nel 721 e avevano preso Nîmes e Carcassonne nel 725. Ormai, l’intera Provenza col
bacino del Rodano era teatro delle loro gesta. Autun fu incendiata nel 725, o secondo
altri nel 731.
Dalla Spagna e dalla Settimania al sud della Gallia, dominato dai franchi fin dall’inizio
del VI secolo – ma dove le istituzioni erano fragili e le strutture sociali labili
–, il passo poteva esser breve. Il vescovo di Roma Gregorio II, che seguiva con attenzione
tutte le vicende riguardanti il popolo franco «figlio primogenito» della sua Chiesa,
incoraggiò Oddone duca d’Aquitania a resistere nel 721 ai musulmani, dinanzi a Tolosa;
e come eulogia gli inviò alcuni tessuti che erano serviti come copertura per l’altare di San Pietro.
Ridotti in frammenti, essi furono inghiottiti dai guerrieri cristiani a titolo parasacramentale.
Ma la conquista saracena della penisola iberica non era totale; fra le asperità dei
Pirenei e dei Cantabrici sopravvivevano dei focolai di resistenza cristiana. Il goto
Pelagio organizzò nelle Asturie, nel 720, un principato che una ventina di anni dopo
si sarebbe trasformato in regno e avrebbe posto più tardi la sua capitale in una nuova
città, Oviedo, fondata nel 760. Le genti basco-navarresi – che avevano tenuto testa
anche ai visigoti – seppero mantenere dal canto loro l’indipendenza: e si organizzò
così di fatto nel terzo-quarto decennio del IX secolo tra galiziani, cantabrici e
asturiani, con l’appoggio d’un pugno di guerrieri visigoti rifugiati presso di loro,
il piccolo principato di Navarra, che sarebbe divenuto regno circa un centinaio d’anni
più tardi. Dalle Asturie, dalla Navarra e dall’Aragona settentrionale avrebbe preso
l’avvio di lì a poco il movimento della Reconquista.
La battaglia di Poitiers è certo quindi, di per sé, meno importante del mito cui ha
dato origine: ma, per dare un’idea del contesto nel quale va collocata, non si debbono
dimenticare altri episodi molto meno conosciuti ma forse più significativi. Come quello
del capo berbero Munnuz o Musura, che s’insediò a cavallo dei Pirenei orientali, in
Cerdagna, e sposò una figlia del duca Oddone d’Aquitania prima di venire sconfitto
nel 729 dall’emiro di Córdoba al quale si era ribellato; o quello del duca di Provenza
Moronte, che nel 734 aprì ai musulmani le porte di Avignone.
Poitiers non aveva comunque fermato gli infedeli: nel 734 veniva non solo occupata
Avignone, ma anche saccheggiata Arles e corsa l’intera Provenza; nel 737 fu raggiunta
addirittura la Borgogna dove si razziò un’enorme quantità di schiavi da condurre in
Spagna. Ciò provocò le continue campagne di Carlo Martello contro i musulmani del
sud della Gallia fra 736 e 739: ma il doppio gioco e il tradimento imperavano, per
cui nessuna di queste azioni fu davvero efficace. Gli arabo-berberi, con i loro raids, facevano parte di una complessa lotta politica, alla quale solo molti decenni più
tardi sarebbe stato possibile – nella memoria collettiva, nutrita e magari condizionata
dall’epica – attribuire motivi anche religiosi.
Fatti come questi danno comunque ragione alle ansiose voci che cominciavano a levarsi
in Occidente: dalla traduzione latina dello Pseudo-Metodio elaborata nel monastero
benedettino di Saint-Germain fino alle note del Venerabile Beda che, revisionando
nel 735 – quando era ormai prossimo ad abbandonare questa valle di lacrime – la sua
Historia ecclesiastica gentis Anglorum, richiamava con preoccupazione i progressi dei saraceni e menzionava il fatto d’armi
di Poitiers. Le fonti anglosassoni sono un discreto osservatorio per farci comprendere
che forse dell’Islam si conoscevano, sia pure in modo discontinuo e rapsodico, più
cose di quante non si creda: ad esempio, da due sinodi tenuti in quell’area nel 786
si viene a sapere che, probabilmente attraverso l’informazione dei legati papali e
le notizie pervenute dai monaci benedettini nell’isola tanto diffusi, era in qualche
modo conosciuta la tradizione del Ramadhân.
La plurisecolare storia dell’Islam ha peraltro, come sappiamo, conosciuto solo brevi
e rari momenti di unità effettiva: a differenza di quel che si sarebbe ritenuto nel
corso del medioevo, quando si tendeva a scorgere nella sua compagine un’unità simile
a quella che non c’era nemmeno tra i cristiani, per quanto concordemente si dicesse
che avrebbe dovuto esservi. A noi, che a distanza abbiamo recuperato la dovuta prospettiva
globale delle cose, sembra tuttavia che questo pregiudizio degli europei del medioevo
quasi si giustifichi – sia pure a causa di una coincidenza –, quando si consideri
la storia dell’espansione islamica nella prima metà dell’VIII secolo in un’area che
da al-Maghreb al-Aqsa giunge alle frontiere con la Cina e dall’Anatolia si spinge fino al Corno d’Africa.
Nel 717 gli arabi si erano trovati ancora una volta – come circa quarant’anni prima
– sotto le mura di Costantinopoli, e a guidarli era Maslamah, il fratello del califfo
umayyade; il basileus Leone III li aveva respinti a fatica, grazie anche all’uso del «fuoco greco». Intanto,
nel primo quindicennio del secolo VIII, il governatore della Mesopotamia al-Haggiag
sottometteva il Kwarezm, passava l’Oxus (oggi Amu Darya), occupava Buchara e Samarcanda,
giungeva al Belucistan: il potente impero persiano, che per secoli aveva tenuto in
scacco i romani e i bizantini, si era dissolto come neve al sole. La battaglia del
Talas, del 751, segnò il confine tra l’espansione musulmana e quella cinese della
dinastia Tang mediante la spartizione dell’area altaica.
Tuttavia, verso la metà del secolo, questo slancio era sembrato dovunque arrestarsi.
I bizantini, grazie allo sforzo instancabile di Leone III, parvero aver ragione della
pressione musulmana in Asia Minore; la spinta a oriente si fermò al confine con l’impero
cinese; gli stessi arabo-berberi che avevano conquistato la penisola iberica (e ai
quali si erano uniti molti cristiani locali convertiti) videro esaurirsi la loro forza
propulsiva. Nel 732 o 733, sulla strada fra Poitiers e Tours, tutto quel che il comandante
musulmano Abd ar-Rahman voleva (e, intendiamoci, non era poco) era saccheggiare il
santuario nazionale dei franchi, San Martino: non era con ogni probabilità sua intenzione
procedere oltre, né aveva le forze per farlo. Ad ogni modo, come abbiamo visto, fu
fermato. Alcuni anni dopo, nel 759, i franchi guidati da Pipino il Breve – il figlio
del trionfatore di Poitiers – cacciavano gli infedeli da Narbona e li inseguivano
sino ai Pirenei. Fu anche l’eco delle guerre tra franchi e musulmani di questo periodo,
accanto alla troppo celebrata battaglia di Roncisvalle del 778 e agli eventi immediatamente
successivi, a fornire materia per canti epici che avrebbero tuttavia acquistato fama
e sarebbero stati fissati per iscritto soltanto più o meno tre secoli più tardi. Comunque,
dopo Poitiers, i franchi d’Austrasia furono attratti in Aquitania: il che segnò forse
l’esaurirsi di un processo, già avviato, che avrebbe condotto il territorio aquitano
a conseguire una sua più forte identità come attivo «cuscinetto» tra franchi e musulmani.
È difficile a dirsi quanto e in che misura il cruento cambio della guardia califfale
tra umayyadi e abbasidi, nel 750, abbia influenzato la crisi e la battuta d’arresto
di questa prima ondata d’espansione islamica. Certo è che il partito fedele ai deposti
califfi damasceni ebbe nella penisola iberica la meglio, ma non senza un duro confronto
con i partigiani della nuova dinastia: e l’emirato di Córdoba, di formale impronta
legittimista, non ebbe nel paese la vita facile. Anche il frazionamento dell’Islam,
l’insorgere di nuovi califfati, l’offensiva delle «sette» sciito-ismailitiche e la
feroce repressione abbaside furono fattori di fondo del disgregarsi della compagine
musulmana e dell’insorgere di quella crisi, di quella battuta d’arresto nell’espansione.
Carlomagno, tra al-Andalus e Baghdad
Nel 777 il re dei franchi Carlo, figlio di Pipino, si trovava in territorio sassone,
a Paderborn, in piena campagna militare. Gli si presentò Suleiman ben al-Arabi, wali musulmano di Barcellona, Gerona e Saragozza: aveva attraversato – non sappiamo purtroppo
con quale itinerario, e nemmeno con quali disagi – l’intero regno franco per sollecitare
l’aiuto del suo potente vicino cristiano contro la tirannia dell’emiro di Córdoba;
e prometteva la dedizione di molti centri a sud dei Pirenei, a cominciare dalle sue
stesse floride città. La Spagna musulmana – assicurava Suleiman – era irrimediabilmente
divisa: e pochi sforzi sarebbero stati sufficienti a conquistarla. A onta della posteriore
rivisitazione politica ed epica di tutti questi eventi, che li avrebbe coperti di
una spessa patina religiosa, nessun pregiudizio sembra essere affiorato da alcuna
delle due parti contraenti a proposito della differenza di fede, o del fatto che i
musulmani nemici dell’emiro di Córdoba si sarebbero trovati a combattere a fianco
dei cristiani contro dei correligionari.
Nella Pasqua del 778 il corpo franco di spedizione – confortato dalla benedizione
di papa Adriano I – mosse verso la Spagna. Tutto sembrava andare secondo il previsto,
e i musulmani avversari dell’emiro cordobano davano buone prove di fedeltà alla parola
data: il wali batté le truppe emirali, altri suoi colleghi si unirono a lui. Ma, quando i franchi
decisero di acquartierarsi in Saragozza per farne fulcro di una futura campagna lungo
il corso dell’Ebro, a quanto pare la città si ribellò contro di loro e contro il suo
stesso signore; o forse questi – preoccupato per gli eccessivi successi degli infedeli
o poco sicuro che la sua gente l’avrebbe seguito nel perpetuare la ribellione contro
l’emiro – fece un rapido voltafaccia. Le vicende di quel torno di tempo sono ben altrimenti
che chiare: sta di fatto che, rientrata la ribellione contro l’emiro cordobano, a
Carlo non restò che intraprendere la via del ritorno dopo aver fatto per vendetta
radere al suolo – almeno in parte – le mura di Saragozza. Durante la ritirata si verificò
(il 15 agosto, secondo la tradizione più accettata) l’episodio del massacro della
retroguardia franca nelle gole di Roncisvalle da parte dei selvaggi montanari baschi,
ch’erano comunque cristiani: la trasfigurazione poetica di questo modesto fatto d’arme
– trasformato in uno scontro con i mori – l’avrebbe consegnato nei secoli all’immaginario
epico euro-occidentale.
L’emiro Abd ar-Rahman I non tentò sul momento alcuna ritorsione contro l’invasore
al di là dei Pirenei. Ma suo figlio Hisham (788-796) avviò nel 793 una dura offensiva
contro la Settimania franca governata in quel momento da un cugino del re, il duca
Guglielmo. L’ondata musulmana si abbatté ancora una volta contro Narbona, che tuttavia
non fu conquistata; indi si diresse su Carcassonne. Nonostante le perdite subite la
spedizione, guidata da al-Hakam figlio dell’emiro, fu un successo: col bottino frutto
della scorreria, pare si finanziassero in parte i lavori per la costruzione della
grande moschea di Córdoba. Un gran bell’investimento. Intanto, dalle coste di al-Andalus
e da quelle del Maghreb, partivano le prime incursioni navali saracene contro le Baleari,
la gente delle quali si rivolse al sovrano franco, che nel frattempo aveva cinto a
Roma una corona «imperiale», per ottenere aiuto.
In seguito a questi episodi Carlomagno avviò la campagna che avrebbe condotto alla
formazione della Marca di Spagna: il duca Guglielmo fu il protagonista della nuova
impresa, che condusse nell’801 alla conquista cristiana di Barcellona per quanto non
si riuscisse a raggiungere il confine dell’Ebro e a insediarsi stabilmente nella città
alla foce di tale fiume, Tortosa. Tra Barcellona e Tortosa, anzi, si stabilì una «terra
di nessuno» che sarebbe stata conquistata soltanto nel XII secolo grazie alla nuova
avanzata aragonese. Intanto il nuovo imperatore cristiano – al quale i contatti diplomatici
con il wali di Barcellona e con l’imperatrice di Bisanzio, la basilissa Irene, dovevano aver insegnato sulla vastità e la complessità del mondo molte più
cose di quante potesse apprenderne dai dotti colloqui con Alcuino di York e con Paolino
d’Aquileia – si guardava attorno in cerca di nuovi interlocutori che, direttamente
o indirettamente, fossero in grado di aiutarlo a controllare meglio i suoi rapporti
con la penisola iberica. E ne trovava di eccellenti.
Era stato del resto già ampiamente preceduto. Se la monarchia carolingia – erede di
quella merovingia e alleata col papato e quindi collegata agli orizzonti geoculturali
di entrambi – aveva un’idea abbastanza ristretta della situazione politica nel mondo
eurasiatico-mediterraneo dell’VIII secolo, altrove il panorama si dominava da ben
altri osservatorî. Ad esempio da Costantinopoli e da Baghdad, ben attente a sorvegliarsi
a vicenda e a cogliere quindi, nella scacchiera delle forze in presenza, sia i possibili
alleati sia i potenziali «amici dei nemici» e quindi obiettivamente avversari. Alla
corte califfale insediata da poco nella nuova capitale mesopotamica – a poche miglia
dall’antica e gloriosa Ctesifonte – che, fondata nel 762, aveva dapprima ricevuto
l’augurale nome arabo di Medinat as-Salam, «Città della Pace», già vitali erano forse i germi di quel disinteresse per le civiltà
diverse da quella islamica che è stata nei secoli una caratteristica costante della
cultura uscita dalla rivoluzione religiosa di Muhammad e che, a lungo andare, sarebbe
stata una delle componenti della sua crisi moderna; del resto, si guardava semmai
a Bisanzio, all’India, alla Cina, senza troppo preoccuparsi – e in quel periodo non
a torto – di quei barbari dell’estremo nord-ovest che apparivano ben poco degni di
considerazione. Tuttavia, ci si dovette rendere ben presto conto che essi avrebbero
potuto se non altro procurare qualche problema sia agli umayyadi cordobani che si
ostinavano a non riconoscere la nuova autorità califfale, sia all’impero di Rum, quello che noi chiamiamo Bisanzio.
C’era già stato tra 765 e 768 uno scambio di ambascerie tra l’abbaside Abu Giafar
al-Mansur (754-775) e Pipino. Il figlio di questi aveva due buone ragioni per riallacciare
i rapporti col nuovo califfo, il grande Harun ar-Rashid (786-809), il sovrano delle
Mille e una Notte. Anzitutto la situazione iberica, dov’era ormai endemico lo scontro tra gli emiri
di Córdoba che si rifacevano ancora alla vecchia dinastia umayyade (o che accampavano
questo pretesto per una politica e per il mantenimento di un prestigio politico e
religioso loro propri) e i wali che preferivano guardare al «Principe dei Credenti» residente nella lontana Mesopotamia
(o che consideravano il loro lealismo un comodo pretesto per non soggiacere alla dinastia
umayyade trapiantata in al-Andalus); nel 799 il governatore saraceno di Huesca aveva
fatto avere a Carlo in Aquisgrana doni onorevoli e la promessa che la città gli si
sarebbe data, se egli avesse intrapreso una nuova campagna oltre i Pirenei. In secondo
luogo, la città di Gerusalemme, controllata dagli abbasidi ma visitata da un crescente
numero di pellegrini occidentali: desideroso d’inserirsi in qualche modo nel colloquio
tra i chierici e i santuari della Città Santa e la Cristianità – un colloquio che
egli non intendeva lasciare al monopolio dei basileis –, il re franco aveva ricevuto una missione del patriarca gerosolimitano che aveva ricambiato
e dalla quale aveva ricavato benedizioni e reliquie. Gli Annales regni Francorum parlano addirittura della «consegna delle chiavi» della basilica della Resurrezione
con le cappelle del Calvario e del Santo Sepolcro, forse esagerando qualche espressione
di cortesia diplomatica.
Intanto, Carlo – appena quattro anni dopo l’incursione di al-Hakam, e mentre organizzava
la Marca di Spagna – aveva nel 797 inviato un’ambasceria anche al califfo: essa era
costituita dai laici Lantfrido e Sigismondo e dall’ebreo Isacco, che secondo un testo
proveniente dal monastero di Reichenau, i Miracula sancti Genesii, avrebbero fatto il viaggio d’andata insieme con due ecclesiastici inviati da Gebhard
conte di Treviso con l’incarico di procurarsi in Terrasanta delle reliquie dei santi
Genesio ed Eugenio.
Nel giugno dell’801 l’imperatore, che risiedeva in quel momento in Pavia e che appena
due mesi prima aveva congedato i messi del prelato gerosolimitano, ricevette la notizia
che gli ambasciatori del califfo erano approdati nel porto di Pisa: era la risposta
al suo messaggio di quattro anni prima. Si trattava in effetti di un rappresentante
del califfo e di un inviato dell’emiro di al-Abbasiya (oggi Fostat in Tunisia), i
quali gli annunziarono che l’unico superstite dei tre ambasciatori da lui inviati
alla corte di Baghdad nel 797, l’ebreo Isacco, era di ritorno in Europa con i doni
del Principe dei Credenti: ma si era dovuto arrestare sul litorale africano in quanto
uno di essi era piuttosto ingombrante.
Fu pertanto inviata una squadra navale franca a rilevare Isacco, il quale nell’ottobre
successivo poté sbarcare a Portovenere recando con sé, fra le altre cose, il dono
che l’imperatore attendeva con ansia: l’elefante Abul Abbas. Ma non era certo il caso
di costringere il bestione ad affrontare un viaggio alpino d’inverno, dato che intanto
Carlo aveva fatto ritorno alla sua Aquisgrana. Egli fu costretto dunque ad attendere
il luglio dell’802 prima di potersi incontrare con quell’animale di cui tanto sovente
parlano le storie romane ma di cui non si vedevano più esemplari in Occidente da molti
secoli. Purtroppo Abul Abbas non sopportò a lungo il clima renano, duro per lui che
proveniva dalla calda India (era infatti di là che s’importavano in Persia gli elefanti
domestici). Si spense malinconicamente nel giugno dell’810, accompagnato dal dolore
del sovrano franco che gli si era affezionato e dalla curiosità della gente che si
aspettava di veder le sue ossa trasformarsi in avorio, secondo la leggenda.
È comunque probabile che, a parte l’elefante, Harun avesse offerto a Carlo qualche
prerogativa sia pur soltanto onorifica sul Santo Sepolcro di Gerusalemme (il che era
evidentemente una mossa tesa a ridimensionare la tradizionale auctoritas che il basileus deteneva sui Luoghi Santi cristiani); e che in qualche modo – ma le fonti arabe tacciono
– la vera questione trattata fra i due fosse quella spagnola. Meno probabile che si
sia parlato anche di faccende economiche: i pallia fresonica inviati in dono da Carlo a Harun, buone stoffe di lana, non erano certo tali da abbacinare
comunque col loro splendore la corte di Baghdad; e le molte merci e monete musulmane
segnalate dal cronista Teodulfo d’Orléans nell’812 nella Gallia meridionale, dov’era
attivo il grande porto di Marsiglia, non sembrano comunque poter testimoniare rapporti
particolarmente stretti con l’Oriente (anche perché, a parte le perle, gli articoli
provenienti dal mondo musulmano ivi reperibili dovevano esser tutti di fonte iberica
o nordafricana). Comunque, nell’807, Carlo ricevette un’altra ambasceria dal califfo;
e nello stesso anno un’altra legazione del patriarca di Gerusalemme.
Preoccupato per i rapporti diplomatici tra Aquisgrana e Baghdad e per le continue
sollevazioni all’interno del suo regno, che avevano toccato anche Córdoba e Toledo,
l’emiro umayyade al-Hakam (796-822) si rassegnò ad accettare il fatto che la frontiera
con il regno dei franchi giungesse fino all’Ebro. Ne derivò una serie di trattati
fra lui e Carlo, nel biennio 810-12. Ma le insurrezioni nella Spagna musulmana continuavano:
quella di Córdoba dell’814 poté venir domata solo a prezzo d’una sanguinosa repressione
da parte della guardia emirale, gli schiavi-soldati detti «mamelucchi» (dall’arabo
mamluk, «posseduto», «schiavo»). Né le cose migliorarono con il successivo emiro Abd ar-Rahman
II (822-852), che dovette affrontare la ribellione di Mérida e di Toledo e che tentò
invano di riconquistare Barcellona: una mossa maldestra ch’ebbe anzi l’effetto – anche
grazie alla tempestiva risposta del duca Bernardo di Settimania – di consolidare la
nascente identità catalana.
Nuove nubi si addensavano intanto all’orizzonte mediterraneo, quindi anche euromeridionale.
Le incursioni normanne che attaccarono e desolarono i litorali europei in quel secolo
e nei primi anni del successivo sono considerate – insieme con quelle marittime dei
saraceni e quelle per via terrestre degli ungari – tra i fattori determinanti della
crisi di quel periodo: caratterizzato anche dalla polverizzazione del potere nelle
aree interessate dall’esperienza carolingia, dalle lotte tra i regni della cosiddetta
«eptarchia» in Inghilterra e dalla depressione socioeconomica. Richiamando questo
quadro, si deve però tener presente che l’Islam stava attraversando a sua volta una
fase d’intensi mutamenti. L’immensa compagine del califfato di Baghdad perse progressivamente
il controllo di vasti e ricchi territori periferici, a ovest del Sinai e a nord-est
della Persia propriamente detta. Emersero nuove egemonie dinastiche: gli aghlabiti
si resero autonomi in Tunisia ai primi del IX secolo e intrapresero a partire dall’827
una campagna d’invasione della Sicilia che li avrebbe condotti, in circa settantacinque
anni, al possesso dell’isola; i tulunidi conseguirono il controllo dell’Egitto nell’869;
fra Transoxiana, Kwarezm e Seistan un’area immensa – compresa tra Sir Darya, lago
d’Aral e Oceano Indiano – venne progressivamente controllata da tahiridi, safawidi
e samanidi, mentre alla fine del IX secolo una rivolta di «eretici» qarmati, avviata
nel Bahrein sulla costa araba del Golfo Persico, danneggiava il commercio da e per
Bassora e di conseguenza l’economia della capitale, spostando verso il Corno d’Africa
e il Mar Rosso il flusso delle merci che dall’Estremo Oriente erano dirette all’Egitto,
al Mediterraneo e a Bisanzio.
Intanto i normanni, feroci incursori sulle coste europee, non risparmiavano quelle
di al-Andalus. Nell’844 una cinquantina di poderose navi, dopo aver assalito Nantes
e circumnavigato le coste atlantiche della penisola iberica tentando di saccheggiare
Lisbona, si presentò alla foce del Guadalquivir; da lì, un gruppo di vascelli si diresse
su Cadice mentre il grosso della flotta navigava fino a Siviglia, la conquistava sottoponendola
a un terribile saccheggio e ripiegava sotto la pressione degli ibero-musulmani, che
seppero tuttavia rispondere adeguatamente, sconfissero gli assalitori e li costrinsero
a reimbarcarsi precipitosamente. Un buon numero di prigionieri normanni, catturati
in quell’occasione, sarà andato ad accrescere col tempo la vasta schiera degli spagnoli
musulmani biondi e dagli occhi azzurri, eredi dei vandali e dei goti, cui si sarebbero
aggiunti i molti schiavi provenienti dal mondo slavo (la parola, «schiavo» appunto,
è lì a testimoniarlo).
L’assalto normanno dell’844-45 indusse l’emiro umayyade alla costruzione dei ribat, una catena di fortini costieri non dissimili dalle nostre vecchie, gloriose «torri
saracene» che disseminano le coste europee fino all’Egeo. I ribat furono affidati alle cure di volontari, i murabitùn, che vi si insediarono per adempiervi ai doveri dello jihad e condurvi al tempo stesso una vita di preghiera. Grazie a loro, i normanni furono
da allora in poi tenuti lontani da al-Andalus: per quanto nell’859 riuscissero a incendiare
la moschea di Algeciras mentre oltre un secolo dopo, nel 966, i danesi, guidati nientemeno
che da Harald Blåtand («Dentazzurro»), infliggevano presso Lisbona agli arabo-iberici
un’altra sonora sconfitta.
I musulmani non furono quindi per nulla esclusivi protagonisti delle incursioni lungo
le coste sudeuropee e nelle isole mediterranee che caratterizzarono i due secoli finali
dell’alto medioevo, tra i più duri della storia d’Europa: anzi, ne furono come s’è
visto talvolta le vittime. Certo però gli europei occidentali considerarono gli Agareni i primi e forse più diretti responsabili di esse; col tempo, la memoria degli assalti
nel bacino mediterraneo e delle guerre nella penisola iberica si sarebbe anzi ingigantita,
sarebbe stata ripercorsa e veicolata dalla tradizione epica e sarebbe stata a torto
o a ragione considerata la «sfida» alla quale le crociate si sarebbero incaricate
di fornire una «risposta». Nell’Europa medievale, la memoria delle incursioni normanne
e ungare del IX-X secolo si andò perdendo in quanto quei due popoli si erano convertiti
ed erano entrati a far parte della Cristianità latina. I «saraceni» divennero pertanto
gli unici responsabili dell’assalto dei barbari all’Europa in quei due secoli: e si
andò elaborando quel patrimonio di leggende e di gesta epiche su cui si sarebbe fondata
una lunga tradizione posteriore, rinfrescata nei secoli XIV-XVIII dagli eventi connessi
con la minaccia ottomana e barbaresca, che aveva connotati differenti dalla «prima
ondata» musulmana dei secoli VII-X ma che fatalmente la richiamava.