Introduzione. Tra passato e futuro
La coppia ‘Destra/Sinistra’ è la valuta corrente essenziale dello scambio politico
nelle democrazie occidentali, scrivevano, alla metà degli anni Novanta, John Huber
e Ronald Inglehart1, due dei principali scienziati politici contemporanei. Esattamente come il prezzo
e la quantità nelle transazioni economiche, la collocazione ‘a destra’ o ‘a sinistra’
compare infatti, con irriducibile costanza, in ogni analisi della pratica politica
e delle sue logiche. Ne costituisce, in buona misura, la principale condizione di
razionalità: la base di un sia pur precario ‘ordine del discorso’ dotato di una propria
sintassi condivisa. E così come nel caso del mercato la crisi di fiducia nella moneta
prelude a un qualche, imminente, crollo economico, allo stesso modo la perdita di
operatività e di consenso delle tradizionali culture politiche strutturate sull’antitesi
‘Destra/Sinistra’ può essere letta come il sintomo, inquietante, di un’equivalente
e incombente crisi sistemica in ambito politico.
È questo, in fondo, lo scenario in cui ci stiamo muovendo in questo passaggio di secolo.
Negli stessi anni in cui Huber e Inglehart ne affermavano la centralità, il cleavage ‘Destra/Sinistra’ giungeva infatti al fondo di un travolgente ciclo negativo come
principio di organizzazione del campo politico, facendo registrare il proprio minimo
storico di consenso. Né le cose sono mutate significativamente nel decennio successivo:
il Novecento sembrerebbe essersi chiuso con una fuga disordinata dalle appartenenze
politiche che ne avevano strutturato, nel bene o nel male, l’esperienza storica.
Se prendiamo in considerazione il paese in cui la distinzione tra destra e sinistra
è nata, e in cui la politica ha assunto tradizionalmente carattere paradigmatico –
la Francia, dove una rilevazione Tns Sofres per conto della Fondazione Jean Jaurés
e del «Nouvel Observateur» copre ormai sistematicamente da un trentennio gli umori
dell’elettorato2 su questo tema –, il fenomeno è particolarmente evidente. Qui, ancora all’inizio
degli anni Ottanta, di fronte alla domanda sull’attualità delle nozioni di destra
e sinistra, solo il 33 per cento degli intervistati affermava di ritenerle «superate»,
ma già nel 1984 essi erano saliti al 49 per cento. Alla fine del decennio (nel pieno
del lungo ciclo mitterrandiano) la percentuale saliva al 56 per cento, per raggiungere
il picco del 60 per cento nel 19923. Livello mantenutosi, con piccole variazioni, in tutto il successivo decennio (segnato
da una doppia coabitazione), fino al 2002. Il che significa che, all’inizio del XXI
secolo, solo poco più di un terzo dell’elettorato francese continuava a credere nel
valore identificante di quell’antitesi4. Il grosso ne aveva preso silenziosamente congedo, e non certo la parte più sprovveduta.
Può essere interessante, a questo proposito, considerare il fatto che le percentuali
più alte di giudizi negativi sulla validità della coppia ‘Destra/Sinistra’ si registrarono
tra la parte di popolazione più colta (il 71 per cento dei laureati e diplomati si
pronunciarono in tal senso) e tra i ‘quadri’ e le ‘professioni intellettuali’ (73
per cento): in quello che Paul Ginsborg definirebbe il «ceto medio riflessivo»5, il nucleo più sensibile, anche se meno organizzato, dell’opinione pubblica.
Ciò non significa tuttavia – come ognuno può quotidianamente constatare – che i termini
‘destra’ e ‘sinistra’ siano scomparsi dal nostro linguaggio pubblico. Che, caduti
in discredito, siano anche caduti in disuso. Anzi. Nonostante le infinite dichiarazioni
di morte presunta, continuiamo a ritrovarceli davanti, con insospettata vitalità,
non appena si incominci a parlare di politica. A farne la ‘cronaca’. Sui giornali,
in primo luogo, dove ripudiati un’infinità di volte dagli opinion leaders nelle pagine culturali, o comunque là dove si fanno riflessioni ‘alte’, quegli «screditati
residui dell’epoca delle ideologie e delle appartenenze» vengono poi frequentati sfacciatamente sulle prime pagine dai loro colleghi che
debbono occuparsi, più prosaicamente, della ‘cucina politica’ di tutti i giorni, un
po’ come accade a quei preti spretati che pur non credendovi più continuano a invocare
il loro dio, magari per bestemmiarlo. Ma anche negli atteggiamenti dell’elettore medio,
quando si tratti di autorappresentarsi politicamente, la contraddizione si ripropone.
Quegli stessi che nel sondaggio sulla validità del cleavage ne decretavano plebiscitariamente il superamento, poi, se richiesti, nello stesso
questionario, di collocarsi su una scala orientata da sinistra a destra continuavano
a farlo diligentemente. Con una certa difficoltà, certo (sono sempre più esigue le
identità ‘pure’, posizionate agli estremi, cresce il ‘centro’ non politicizzato, espressione
di una qualche difficoltà a identificare una propria collocazione netta), ma tutto
sommato maggioritariamente (solo un terzo si sottrae rifiutando di autocollocarsi
o ponendosi in quella che gli autori della ricerca definiscono «la palude»6). Sintomo, verrebbe da dire, di un qualche disagio psichico della coscienza politica,
di una sconnessione tra pensiero e azione, tra rappresentazione mentale e realtà,
o, se si preferisce, di una distanza via via crescente tra il vissuto collettivo –
l’esperienza quotidiana – e le forme, le figure, il lessico stesso e le categorie
consolidate con cui la politica si rappresenta, quasi appartenessero a piani di realtà
diversi e a differenti ‘logiche del racconto’. Comunque un paradosso, da cui prende
origine, a sua volta, un’intera serie di paradossi.
Un primo paradosso è costituito dall’immagine implacabilmente uniforme, monocroma e omogenea dello spazio pubblico che si otterrebbe se si applicasse rigorosamente agli schieramenti
politici attuali nelle principali democrazie occidentali lo schema intrinsecamente
dicotomico e polarizzato ‘Destra/Sinistra’, concepito all’opposto per panorami differenziati, policromi e
disomogenei, e ad essi destinato. Si guardino, per averne un’impressionistica rappresentazione,
le ‘mappe’ più recenti disegnate seguendo lo schema del political compass7, il quale struttura cartesianamente lo spazio politico in quattro quadranti delimitati
da un asse orizzontale orientato da sinistra a destra a seconda degli atteggiamenti
più o meno ‘interventisti’ in campo economico e sociale e da uno verticale orientato
dall’alto al basso a seconda degli atteggiamenti più o meno autoritari o libertari
nel campo del costume. Si consideri, ad esempio, la cartografia politica dei candidati
alle primarie americane di entrambi i partiti così ottenuta, la quale ce li mostra
affollati, pressoché tutti, nel quadrante degli ‘autoritari di destra’, dove ritroviamo,
in bizzarra convivenza, Hillary Clinton e Newt Gingrich (parecchio più in alto sull’asse
dell’autoritarismo e un poco più a destra), John McCain e Barak Obama (leggermente
più verso il centro rispetto alla Clinton, ma anche più ‘autoritario’), John Edwards
e Rudy Giuliani. Solo due figure minori – Dennis Kucinick e Mike Gravel – sfuggono
a questo destino, rientrando, sia pur di poche lunghezze, nel quadrante dei ‘libertari
di sinistra’... Allo stesso modo per la collocazione dei governi europei, nel 2006:
tutti concentrati nel quadrante in alto a destra, con la sola eccezione di Svezia,
Finlandia, Danimarca e Olanda, pur sempre ‘a destra’ ma, contrariamente agli altri,
di pochissimo al di sotto dell’asse che separa gli autoritari dai libertari. E fa,
bisogna dirlo, un certo effetto – anche se una sua razionalità ce l’ha – vedere il
Regno Unito del new labour Tony Blair quasi con le stesse coordinate spaziali della Grecia dell’ultraconservatore
Costas Karamanlis e significativamente più a destra della Francia neogollista di Jacques
Chirac...
Un secondo paradosso – per molti aspetti un paradosso nel paradosso – consiste nel fatto che questo appannamento (per usare un eufemismo) ed estenuazione
della dicotomia ‘Destra/Sinistra’, questa sua perdita di ‘corso legale’ (per riprendere
la metafora monetaria), si manifestino proprio nel momento in cui, su scala globale,
lo scandalo della diseguaglianza esplode in tutta la sua evidenza. Nella fase storica
in cui, cioè, la questione dell’‘eguaglianza’ – che come ha ben dimostrato Norberto
Bobbio costituisce il principale, se non l’unico, tema discriminante tra sinistra
e destra – assume (o dovrebbe assumere) tutta la sua indilazionabile crucialità ai
fini del confronto, politico per eccellenza, sull’elaborazione di un ‘ordine condiviso’.
Ora, il dover constatare che le distanze politiche tra destra e sinistra si vanno
riducendo nell’immaginario collettivo, fin quasi a perdere di senso, mentre le distanze
sociali tra i primi e gli ultimi sul piano planetario vanno crescendo o comunque rivelandosi
in una dimensione fino a ieri ritenuta intollerabile, la dice lunga sul male oscuro
che sembra minare oggi, nel profondo, la razionalità politica e, in generale, la sfera
stessa del ‘politico’, così come la nostra modernità l’ha concepito.
Certo, i professionisti della rassicurazione vanno da tempo ripetendo che va bene
così. Che questo attenuarsi del contrasto tra opposte identità collettive è normale.
Di più: che è il segno della compiuta normalizzazione, di un auspicato e auspicabile passaggio della politica, finalmente, dallo stato
adolescenziale a quello della maturità, dall’infatuazione ideologica a una conquistata
dimensione pragmatica, in cui la ricerca comune delle soluzioni possibili prevale
sull’enfatizzazione dei problemi insolubili. Dilagano, ma non convincono. Pur con
la pervasiva forza mediatica del luogo comune, non riescono a dissipare del tutto
la sensazione di un ‘disordine nuovo’ al di sotto di questa inedita commistione degli
opposti. L’impressione che questa politica finalmente liberata dai propri consolidati
‘riferimenti ideologici’, più che pragmatica, sia caotica. Come un mercato dopo la
‘morte della moneta’ o un linguaggio privo di grammatica e sintassi. E che lungi dall’essersi
arricchita di una maggior concretezza, la sfera politica sia al contrario minata da
una accentuata vuotezza, da una crescente inconsistenza di forme e figure.
In fondo, le ragioni della ‘famigerata’ contrapposizione tra destra e sinistra – la
materialità dei problemi e dei (potenziali) contrasti, la durezza e perentorietà delle
alternative –, sono ancora tutte lì, sul tappeto ‘globale’, per certi versi potenziate
e ingigantite dall’unificazione dello spazio planetario. Quello che manca, drammaticamente,
sembrano essere, invece, le soluzioni e i soggetti politici disposti a farsene carico.
Cosicché è difficile sottrarsi alla sensazione che questo indifferenziato convergere
di programmi e proposte su un repertorio ristretto di atteggiamenti condivisi – questa
rinuncia a dividersi, se non sulle ‘questioni ultime’, per lo meno su quelle ‘penultime’
che possono offrire un senso e una direzione all’azione collettiva –, non derivi,
in realtà, dall’approdo a uno stile di risposta razionale alle sfide del tempo, ma
da una non dichiarata né dichiarabile impotenza, da un’obiettiva assenza di risposte
possibili, all’interno dell’orizzonte politico contemporaneo, alle questioni vitali
del nostro vivere in comune. Il che equivarrebbe – bisogna ammetterlo – al fallimento della politica in quello che costituisce, in senso proprio, il suo compito qualificante.
Il libro pone al centro della propria riflessione questo interrogativo. Sul carattere
e sul destino della crisi d’identità delle tradizionali famiglie politiche: se si
tratti, in qualche modo, di un appannamento contingente, di un fenomeno di assestamento
e di riallineamento destinato a essere più o meno rapidamente superato, o se, al contrario,
non si sia di fronte a una caduta strutturale, alla ‘cronaca’ di una morte più volte
annunciata. Ma anche, più in generale, sul rapporto che lega l’estenuazione dell’antitesi
‘Destra/Sinistra’ alle sorti e alla crisi del ‘politico’ in quanto tale: se questa
perdita di consistenza delle consolidate identità contrapposte, questo allentarsi
della loro ‘presa’ sul reale, non rinvii, in realtà, come il sintomo rinvia alla malattia,
a una parallela e più radicale perdita di contatto tra ‘politica’ e ‘mondo’, a una
sua inedita ‘inoperosità’ che rivela a sua volta lo stato avanzato di decostruzione
dei fondamenti stessi su cui essa si era fondata fino ad ora.
È dunque, prevalentemente, un lavoro di ricognizione all’interno degli smarrimenti
contemporanei, condotto non sul livello dell’osservazione empirica – dove la perentorietà
degli indicatori quantitativi ha la forza delle cose ma anche la loro opacità di superficie
–, bensì su quello della riflessione concettuale, in cui la contraddittorietà dei
processi, e la molteplice alternatività delle interpretazioni, hanno maggior spazio
e si conservano, con una qualche persistenza, le tracce di un percorso (come si vedrà)
accidentato e aperto, fitto di rotture e ripensamenti, di fini proclamate e di continuità
riaffermate, come accade nelle epoche in cui, appunto, s’incontrano e sovrappongono
temporalità diverse, e ciò che non ha ancora finito di finire si fonde con ciò che
ha appena incominciato a cominciare.
Il primo capitolo, dedicato alle ‘ragioni dei dissolutori’, ricostruisce con una qualche
aspirazione alla sistematicità il dibattito sviluppatosi tra la fine degli anni Settanta
e la metà degli anni Novanta: un quindicennio decisivo per le sorti della coppia ‘Destra/Sinistra’
come principio ordinatore dell’universo politico. Quello degli ‘assalti frontali’
alle consolidate identità collettive, prima ancora che sul piano concettuale su quello
– chiamiamolo così – antropologico-sociale: del costume, dell’immaginario collettivo,
dello stile di vita e di pensiero, quando il Novecento, con furia iconoclasta, tentò
di chiudersi negandosi, azzerando o rovesciando tutti i caratteri identificanti che
ne avevano segnato l’aspra, travolgente e (soprattutto nella prima metà) sanguinosa
vicenda politica, con il conclamato trionfo della figura ecumenica e appagata del
consumatore opulento su quella conflittuale e coriacea del produttore industriale,
sul piano sociale. E con la damnatio memoriae di tutte le culture politiche forti nell’apologetica della ‘morte delle ideologie’,
su quello politico-culturale, come se la caduta del muro di Berlino – l’evento simbolico
che costituisce in senso proprio il baricentro di quella lunga fase di congedo – segnasse
non solo la cancellazione della linea di demarcazione tra Est e Ovest ma anche la
fine di ogni possibile scansione dello spazio pubblico in identità separate e potenzialmente
contrapposte.
Le ragioni per un così frettoloso congedo, un paio di decenni in anticipo sulla scadenza
cronologica del secolo, erano tante e tutte di grande rilievo, ben rappresentate da
un ampio repertorio di ‘fini’: la ‘fine del comunismo’ sovietico, con l’implosione
dell’esperienza storica che aveva inaugurato il Novecento e che ne aveva simbolizzato
la natura ideologicamente polarizzata. La fine del lungo ciclo ‘fordista’, della produzione
standardizzata di massa, del gigantismo industriale e delle grandi burocrazie pubbliche
e private, e – più in generale – la decostruzione della tradizionale ‘società di classe’,
strutturata intorno alla polarità capitale/lavoro, che era sembrata costituire l’orizzonte
intrascendibile e stabile della civiltà industriale (intesa come ‘civiltà del lavoro’),
ciò che, con espressione equivoca (e spesso equivocata) è stato definito ‘la fine
del lavoro’. E, all’opposto, l’emergere di un mondo tendenzialmente unificato e uniformato
dal mercato e dall’informazione, dalle merci e dai segni, in rapida transumanza, instabili
come instabili sono i prezzi e le sostanze volatili. Un panorama, dunque, sempre più
irriconoscibile.
Ma mentre i processi materiali che spingevano il secolo ad andare oltre se stesso
erano radicati in profonde ed effettive innovazioni, i dispositivi argomentativi messi
in campo per motivare l’esodo e abbattere i consolidati recinti (in particolare l’antitesi
‘incapacitante’ tra destra e sinistra, come allora venne qualificata) attingevano,
visibilmente, al passato. Quasi che il Novecento non riuscisse a criticare se stesso
se non con ‘argomenti novecenteschi’, rimettendo in circolo vecchie critiche, appartenenti
in prevalenza (sia pur con qualche autorevole eccezione) al patrimonio tradizionale
della destra non liberale, ora emancipate dai ghetti culturali in cui erano state
chiuse per quasi quattro decenni e riproposte all’onor del mondo con la vernice della
novità. Si pensi alle critiche mosse dal punto di vista del tradizionalismo (cattolico
o neo-pagano) alla scissione politica e all’idea stessa del pluralismo e del conflitto
in nome di una visione organicistica, verticale e gerarchica della società. O a quelle
ispirate dal recupero dell’anti-intellettualismo classico, parte integrante della
reazione antirazionalistica e anti-illuministica di quelle componenti vitalistiche,
attivistiche e spiritualistiche che nel rifiuto di ogni principio ordinatore (normativo)
del politico, quale appunto la dicotomia assiale ‘Destra/Sinistra’, esprimono l’idea
della irriducibilità della ‘vita’ a criteri ordinatori e razionali. Della non ordinabilità
dei fatti – in particolare di quelli attinenti alla volontà di potenza e all’esercizio
del potere – secondo principi (‘astratti’) di ragione. O anche soltanto, più semplicemente,
suggerite dal fastidio per l’eccesso di vincoli posti dai valori identificanti alla
logica dello scambio e dell’occasionalismo politico, dal bisogno di nuove, più libere
commistioni che scongelassero gli schieramenti costituitisi alla metà del secolo,
nella lunga ‘guerra civile europea’, e permettessero più disinvolte alleanze.
Su buona parte di quelle argomentazioni disse una parola definitiva, alla metà degli
anni Novanta, Norberto Bobbio, nel suo «fortunato libretto» (così egli lo definì)
su Destra e sinistra8, che ricordava come in un contesto naturalmente conflittuale quale quello politico, «che richiama continuamente il gioco delle parti e della contesa
per sconfiggere l’avversario, dividere l’universo in due emisferi non è una semplificazione,
ma una fedele rappresentazione della realtà»9 (specialmente in un sistema politico come quello democratico, che tanto più è perfetto
quanto più accetta «come regola fondamentale del gioco [...] l’alternanza tra l’uno
e l’altro polo»10). E soprattutto impartiva un’autorevole lezione di metodo invitando i critici a non
confondere tra un uso linguistico descrittivo dei termini ‘sinistra’ e ‘destra’ (destinato a offrire una rappresentazione sintetica
e priva di giudizi di valore delle due parti in conflitto, e tuttora valido) e un
uso assiologico (orientato a esprimere preferenze in senso positivo o negativo) o storico (inteso a segnare differenze tra diverse epoche o fatti distribuiti nel tempo), rispetto
ai quali tutt’al più potrebbero essere mosse accuse di obsolescenza o anacronismo.
Con ciò si può dire che (almeno apparentemente) il caso fu chiuso11. Ma quel dibattito rimane, tuttora, la testimonianza di uno ‘strappo’ significativo,
il primo, sia pur contraddittorio, segnale di una destabilizzazione categoriale (non
dimentichiamo che esso costeggiò esattamente il periodo in cui più violenta fu la
caduta di consenso nella ‘diade’, registrata nei sondaggi).
I capitoli centrali (dal secondo al quarto), poi, contengono un’ampia ricognizione
concettuale all’interno del campo lessicale costituito dall’antitesi ‘Destra/Sinistra’.
Sulle questioni di metodo che essa solleva, in primo luogo, affrontate nel secondo capitolo, in cui è messa
in evidenza la natura essenzialmente relazionale (dunque non sostantiva) della distinzione:
il carattere spaziale dei due concetti, destinati a qualificare porzioni distinte
dello spazio pubblico e non qualità intrinseche ai soggetti storici del gioco politico
(i quali possono quindi spostarsi liberamente da una collocazione all’altra senza
con questo destituire di significato la distinzione). In secondo luogo sulla definizione,
anzi sulle molteplici definizioni dei concetti di destra e di sinistra, di cui si
occupa il terzo capitolo, mostrando l’ampiezza davvero sconcertante dello spettro
semantico dei due termini, il loro radicamento in una molteplicità di strati della
coscienza e dell’esperienza umana, da quello più superficiale della scansione dello
spazio, giù giù al piano del simbolico, dell’immaginario individuale e collettivo,
oltre il livello delle scienze politiche e sociali, sconfinando nel campo dell’antropologia
e più oltre, in quello delle neuroscienze. Nel quarto capitolo, infine, si tenta di
‘smontare’, per così dire, una struttura sintetica ma per sua natura complessa (multidimensionale,
appunto) come quella rappresentata dai concetti di destra e di sinistra nei suoi elementi
costitutivi, diversi a seconda del piano analitico selezionato: l’antitesi tra conservazione
e progresso sul piano temporale, quella tra gerarchia ed eguaglianza su quello socio-spaziale,
o tra eteronomia e autonomia per ciò che riguarda la dimensione decisionale, o ancora
tra irrazionalità e razionalità dal punto di vista cognitivo. Per verificarne le rispettive
interdipendenze, il grado di maggiore o minor coerenza, ed enuclearne, se possibile,
una componente egemonica, un elemento qualificante o, meglio, una determinante di
senso principale – la ‘variabile indipendente’, direbbe un metodologo – che ‘spiega’
le altre (costituita, lo si può anticipare, dall’antitesi tra eguaglianza e gerarchia,
vera stella polare nelle pur molteplici vicende delle tante ‘destre’ e ‘sinistre’
storiche che si affollano lungo l’ormai bisecolare percorso della modernità politica).
Considerati nel loro insieme, questi tre capitoli ci dicono quanto in realtà sia ‘pesante’,
la diade ‘Destra/Sinistra’, e ingombrante, piantata com’è negli strati profondi della
nostra coscienza collettiva, al confine stesso tra conscio e inconscio, tra cultura
e natura, un po’ come i ‘residui’ paretiani, sorta di a priori istintivo per ogni atto che implichi un orientamento. E dunque quanto difficile sia – e per molti aspetti anche rischioso – sbarazzarsi
di essa, nonostante tutto. Come il navigante che pensasse di semplificarsi il viaggio
gettando a mare il sestante o bruciando le carte nautiche.
Ci si potrà lamentare che in quella mappa a due sole dimensioni finiscono per affastellarsi
troppe cose alla rinfusa che dovrebbero invece restare distinte, con un eccesso di confusione (come tenere insieme, nella stessa ‘famiglia politica’, figure così diverse come
Robespierre e Benjamin Constant, o come Lenin e Lord Beveridge, da una parte, o come
Maistre e Guizot, o Hitler e Churchill, dall’altra?). O si potrà obiettare, all’opposto,
che troppe ne risultano escluse, con un simmetrico eccesso di semplificazione (dove collocare tutti quelli, e sono indubbiamente tanti, che resistono a una classificazione
precisa, i nomadi dello spazio politico, coloro che sono passati magari più volte
da un campo all’altro, o che affollano il centro?). Ci si potrà, d’altra parte, convincere,
con Francis Fukuyama, che la ‘fine della storia’ segni anche la fine di quella dicotomia
che ne aveva determinato lo sviluppo e l’accelerazione più recenti, soprattutto osservando
il campo ‘di sinistra’ ora desolantemente rarefatto, per non dire deserto. O che,
al contrario, proprio la potenza trascinante della storia, il suo incessante movimento,
finisca per affastellare ai due poli dell’antitesi identità così diverse nel tempo
e nello spazio da risultare tra loro inconfrontabili e inclassificabili in contenitori
comuni e con denominazioni stabili.
Ma è difficile sfuggire alla constatazione che non poteva trattarsi di un fatuo gioco
dell’astratta ragione, né di un espediente ideologico contingente, se quelle categorie
e quell’antitesi sono sopravvissute per oltre due secoli alle sfide del tempo, con
alterne vicende, certo, ma ritornando ogni volta, tenacemente (e «dispettosamente»,
dice Bobbio), a dividere il campo politico. E se – come mostra il quinto capitolo
–, pur nell’estrema varietà delle soggettività storiche e delle esperienze politiche,
la vicenda otto-novecentesca ha finito per riproporre, nell’uno e nell’altro campo,
tutto sommato un repertorio assai limitato di identità di fondo, una quantità di membri
delle rispettive famiglie politiche riconducibile, a ben guardare, a pochi ‘archetipi’,
formatisi in realtà tutti immediatamente a ridosso della frattura che ha dato origine
alla diade, l’Ottantanove francese, i cui caratteri di fondo sono poi riconoscibili,
come i tratti di un comune patrimonio genetico, nelle successive esperienze politiche:
tre destre – si suggerisce qui –, l’una ‘tradizionalista’, l’altra ‘orléanista’, la
terza ‘bonapartista’, secondo la nota classificazione di René Remond, strutturatesi
tutte nella prima metà dell’Ottocento ma poi replicatesi e reincarnatesi fino a tutto
il Novecento maturo. E tre sinistre, l’una ‘liberale’, la seconda ‘democratica’ e
l’ultima ‘socialista’ o meglio sociale, costituitesi in forma per così dire ‘istantanea’ nei pochi anni che vanno dall’Assemblea
nazionale al Termidoro e diventate ‘matrici’ di tutte le sinistre successive.
Gli ultimi due capitoli sono stati – devo ammetterlo – i più sofferti. Quelli in cui
più spesso, come si suol dire, mi sono sorpreso a concepire idee che stento a condividere.
Riguardano il dibattito più recente: quello che ha preso corpo nel corso degli anni
Novanta giungendo poi a segnare il primo decennio del nuovo secolo. Un dibattito solo
apparentemente in continuità con la discussione precedente (presentata nel primo capitolo),
in realtà da quella profondamente diverso. In primo luogo per l’identità e la collocazione
dei protagonisti: ora, per la prima volta, intellettuali provenienti in prevalenza
dalla ‘sinistra culturale’, sia pure eterodossa, come Christopher Lasch, o Ulrich
Beck e Anthony Giddens, o Zygmunt Bauman; e poi per gli argomenti utilizzati, non
più tratti dalla tradizione irrazionalistica, o antirazionalistica, novecentesca,
né riesumati dalle vecchie dispute, tutte ‘ideologiche’, sui vizi e i pericoli delle
‘ideologie’, ma fondati su uno sguardo disincantato (e radicalmente razionale) sulla fattualità del presente, dunque, proprio per questo, tanto più efficaci, e
difficili da confutare.
In pressoché tutti i principali interventi di questa nuova fase del dibattito – lo
si può notare facilmente – la messa in discussione della diade ‘Destra/Sinistra’ e
della sua legittimità a ‘organizzare’ credibilmente il panorama politico attuale non
trae più origine da un fastidio culturale ‘preventivo’ nei confronti delle categorie
in questione né dall’ostilità verso una visione politica orientata a ideali. Al contrario,
si alimenta piuttosto della presa d’atto – da parte di autori che a quel confronto
tra idealità politiche contrapposte avevano partecipato attivamente, identificandovisi
–, di una serie di trasformazioni dalla portata sconvolgente in campo non solo politico,
ma anche tecnologico, economico, sociale e culturale. A cominciare da quella politicamente
più clamorosa: dall’accelerato, fin troppo evidente processo di decomposizione e di
collasso di uno dei due corni della diade, la ‘sinistra’, resosi clamorosamente evidente,
e persino imbarazzante, proprio nel corso degli anni Novanta e proseguito, a ritmo
sostenuto, nell’incipit del nuovo secolo.
Un fatto, si potrebbe ritenere, certo destabilizzante sul piano della contingenza
storica, ma non tale, di per sé, da destituire di senso i fondamenti ideali della
consolidata topografia politica12; che però gli autori in questione riconnettono – con un movimento simile a quello
che riconduce la sovrastruttura alla struttura – a fenomeni più profondi e dirompenti,
a una vera e propria frattura storica, o meglio a una torsione violenta nel percorso
della modernità industriale, tale da comportarne una sorta di rovesciamento di tutti
i valori, un mutamento di segno valoriale di quegli stessi riferimenti ideali che
avevano assunto carattere identificante delle contrapposte culture politiche: l’idea
di progresso, in primo luogo, con i suoi corollari della crescita e dello sviluppo,
fino a ieri sinonimi di democratizzazione e di possibile superamento delle diseguaglianze
sociali (e cavallo di battaglia delle diverse sinistre), oggi intrinsecamente connessi
all’idea di rischio e di minaccia e alla proliferazione di nuove diseguaglianze (spesso
col sostegno di una destra indifferente alle ricadute ecologiche e sociali in nome
di un utile mercantile insofferente a ogni limite). Ma anche l’organizzazione di massa
dell’agire politico e l’apparatizzazione dei sistemi di produzione di servizi, nati
come modelli di efficienza e rovesciatisi in oppressive macchine burocratiche. E lo
stesso ‘modello cibernetico’ che sottostava al progetto socialista (per usare un’espressione
di Giddens): l’idea che la sottomissione di processi complessi alla guida di una mente
direttiva pubblica potesse favorire equità e ordine sociale, rivelatasi invece fonte
di inefficienza, di disordine e infine di oppressione. Conseguenze, queste, non di
un’interruzione nella marcia lineare della modernità, di un arresto determinato non
da resistenze o volontà opposte, ma da una sua radicalizzazione. Da un compimento
delle sue logiche intrinseche, portate tanto all’estremo da destrutturare i propri
stessi presupposti iniziali (sistematizzato in forma assai convincente nel concetto
di ‘modernizzazione riflessiva’ formulato da Beck e rappresentato in forma immaginifica
nell’espressione ‘modernità liquida’ coniata da Bauman).
Sullo sfondo – come poteva mancare? – la globalizzazione, la forma compiuta del processo
di modernizzazione. Per la verità l’argomento secondo cui con la globalizzazione «la
vecchia distinzione [tra destra e sinistra] avrebbe perduto tutta la sua efficacia
descrittiva» era già comparso nel ‘vecchio’ dibattito (lo troviamo ripreso con un
certo rilievo, per respingerlo con nettezza, da Bobbio nella seconda replica ai propri
critici13). Ma il termine era usato allora ancora nella sua accezione prevalentemente, anzi
esclusivamente, economica, secondo la vulgata dell’ideologia neoliberista per cui
«la mercatizzazione totale dei rapporti umani [avrebbe rappresentato] la soluzione
di tutti i problemi»; alla quale era tutto sommato facile replicare, come fece appunto
Bobbio, che al contrario «quanto più il mercato si estende, tanto più aumentano i
problemi che il mercato solleva o non riesce a risolvere»14. Ma ora, invece, il concetto compare in tutta la sua estensione, come fatto implicante
la totalità delle relazioni umane: non solo la sfera economica, dunque (la prima ad aver colpito l’attenzione dei commentatori
e tuttavia, in fondo, la più superficiale), ma anche – alla luce del moltiplicarsi
delle riflessioni su un piano multidisciplinare –, l’intero sistema dei rapporti socio-culturali,
sottoposto a una torsione violenta, a un vero e proprio sconvolgimento, sotto la spinta,
potente, di una doppia rivoluzione tecnologica, nel campo dei trasporti e delle telecomunicazioni,
che ha mutato nel profondo le coordinate fondamentali della relazionalità umana, il
senso della distanza e della vicinanza, della presenza e dell’assenza, del tempo e
dei luoghi.
È questa l’accezione in cui il concetto di globalizzazione entra in campo nella fase
più recente del dibattito sul destino della diade ‘Destra/Sinistra’: una trasformazione
non solo globale (nel senso dell’estensione quantitativa) ma anche totale (nel senso della profondità qualitativa, degli aspetti sociali, esistenziali, culturali
coinvolti). Una rivoluzione, dunque, anzi, per essere più precisi, una ‘rivoluzione spaziale’: una trasformazione
radicale della percezione sociale dello spazio, o se si preferisce una metamorfosi
integrale dello ‘spazio sociale’, dell’habitat umano, della sfera di esperienza, cioè,
entro la quale si percepisce che avvengono gli eventi suscettibili di influenzare
direttamente e in tempo reale la nostra vita. Ed è chiaro che, così intesa, essa non
può rimanere senza conseguenze per ciò che riguarda il destino, e le capacità di sopravvivenza,
dei fondamenti identitari strutturati sull’antitesi ‘Destra/Sinistra’. Due concetti,
appunto, spaziali per la loro stessa natura, principi ‘cardinali’ di orientamento
in uno spazio politico presupposto come stabile e ordinabile; minacciati mortalmente, se quello spazio si
scompone e decostruisce, se si fa incerto e liquido, se viene meno, in sostanza, il
supporto ‘materiale’ – come lo definisce Manuel Castells – che ne sorreggeva la razionalità
funzionale.
Ed è questo l’argomento davvero decisivo – l’experimentum crucis – che rende le più recenti diagnosi (e le conseguenti prognosi, generalmente infauste)
sullo stato di salute dell’antitesi ‘Destra/Sinistra’ così convincenti, o comunque
così difficilmente oppugnabili, e anche così inquietanti per chi non vorrebbe arrendersi
alla deriva di una politica senza principi né criteri di orientamento e coerenza,
e ha tentato fino all’ultimo d’illudersi del carattere transitorio dell’eclissi. Quello
infatti che emerge, sul grande schermo dello sguardo ‘globalizzato’, è un paesaggio
sociale terremotato, sempre più solcato da flussi e sempre meno strutturato in luoghi,
dunque mobile e incerto (senza più l’antica consistenza delle misure sicure), ‘lavorato’
dalle tecnologie della comunicazione istantanea fino a perdere il senso delle rispettive
collocazioni, l’ordine garantito dalla distanza e dalla contiguità, sostituito dalla
commistione tra i distanti, dalla compresenza degli altrove.
In un contesto siffatto – appare persino superfluo suggerirlo – diventa davvero impresa
ardua, se non disperata, tener fermi i consolidati criteri di orientamento spaziali,
o continuare a ‘mantenere le proprie posizioni’ e restare, in sostanza, ‘se stessi’.
E ciò non tanto per una consapevole disponibilità dei soggetti, individuali o collettivi,
alla transumanza e al mimetismo (al ‘tradimento delle proprie origini’, si direbbe
volgarmente), o per un’insufficienza della volontà sottomessa all’opportunità che
impedirebbe di mantenere con coerenza ‘il proprio posto’ (certo anche per questo).
Ma soprattutto perché in uno spazio non più ‘euclideo’ come quello attuale non ci
sono più ‘posti’ certi e stabili in cui radicarsi. Dunque, per un’intrinseca, e universale, labilità dei ‘luoghi’ (e ‘destra’ e ‘sinistra’
sono appunto luoghi simbolici dello spazio politico, non dimentichiamolo), per la loro polisemicità e multiformità,
in una spazialità (inedita) in cui è possibile essere contemporaneamente ‘qui’ e ‘altrove’
e in cui l’infinitamente lontano (geograficamente) può essere contemporaneamente infinitamente
vicino (socialmente, affettivamente, culturalmente) e viceversa.
L’eclissi della diade ‘Destra/Sinistra’ si rivela, per questa via, parte del più generale
spaesamento contemporaneo. È, per molti aspetti, l’effetto di un ‘cedimento strutturale’
del contesto stesso in cui quella contrapposizione aveva preso forma (la spazialità
‘solida’ dello Stato-nazione) e aveva catalizzato in sé buona parte dei fattori ‘di
senso’ dell’agire politico: come tale difficilmente superabile grazie a un qualche
‘scatto d’orgoglio’ dei protagonisti politici, in forza di una tante volte auspicata
quanto regolarmente rinviata autoriforma degli stili politici prevalenti. Sembra assai
più probabile, al contrario, che la lunga agonia delle identità politiche ‘forti’
e della competizione saldamente strutturata intorno a universi di senso contrapposti
continui, nell’estenuazione dei confini e nella commistione dei programmi all’interno
di luoghi comuni mediaticamente prodotti ed enfatizzati. Che cioè l’‘inoperosità’
(o quanto meno la neutralizzazione) dell’antitesi ‘Destra/Sinistra’ sia destinata
a continuare, secondo i voti dei tanti fautori del ‘superamento delle contrapposizioni
ideologiche’ e delle ‘astratte’ divisioni ideali, per una politica finalmente e pragmaticamente
ridotta all’amministrazione dell’esistente, in cui sia la forza delle cose (e del
mercato) a suggerire le soluzioni condivise. E tuttavia non son sicuro che vi siano
ragioni per festeggiare, neppure da parte loro.
Perché destra e sinistra cadono, è vero. Ma non cadono da sole. Con loro ‘va giù’
anche buona parte della politica moderna o, meglio, della modernità politica, con la sua carica di negatività, più volte riconosciuta (l’affidamento alla risorsa
della forza e al mito della potenza come strumenti di ‘produzione’ dell’ordine sociale,
la vocazione al travalicamento e all’abolizione dei limiti, la minaccia subliminare
del delirio implicito «nell’ideologia dell’onnipotenza dell’autocostituzione della
prassi»15, il rischio permanente del nichilismo e del solipsismo). Ma anche con il suo patrimonio
di positività: la distinzione visibile tra dimensione pubblica e dimensione privata,
la sovranità della legge nell’ambito della parallela sovranità nazionale, la costruzione
di uno ‘spazio pubblico’ regolato e controllato, il costituzionalismo, il principio
di rappresentanza democratica, la tutela collettiva dei diritti, l’eguaglianza giuridica
e politica e, insieme, quanto meno la promessa dell’eguaglianza sociale... Un patrimonio
– occorre sottolinearlo – radicato in quella stessa spazialità che aveva trovato nell’articolazione
lungo l’asse ‘Destra/Sinistra’ il proprio naturale principio di organizzazione e che
ora, appunto, nella propria ‘implosione’, ne decreta e conferma la crisi.
Questo mi pare, nella sua sostanza, il messaggio più significativo che emerge dall’insieme
delle analisi più recenti, condotte alle loro estreme, ma logiche, conseguenze: l’identificazione
della malattia che ha finito per invalidare le tradizionali e contrapposte identità
politiche tipiche della contemporaneità come il sintomo più evidente del male oscuro
che corrode dall’interno quello che potremmo definire il ‘paradigma politico della
modernità’, intendendo con questa espressione l’immagine, la forma, il sistema di
mezzi e di fini che la politica si è data ed è venuta elaborando da quando, più di
tre secoli or sono, emancipatasi dalla concezione naturalistica e organicistica della
società, ha assunto il compito di elaborare un ordine sociale condiviso per via ‘umana’
(come ‘artificio’). O, detto in altri termini, l’idea del ‘politico’ come esercizio
di un potere pubblico regolato, in funzione di fini collettivamente definiti attraverso un ‘agire razionale
orientato a valori’ tra loro in conflitto. Ed è anche, per certi aspetti, la conclusione
cui giunge questa ricognizione condotta attraverso i meandri del significato e della
sorte della diade che con la politica del ‘moderno’ è nata, e che con essa oggi sembra
estinguersi. Conclusione contrastata, lo ripeto. E anche, in parte, inaspettata. Cui
avevo sperato di non dover giungere quando, alla fine degli anni Ottanta, il percorso
d’indagine era incominciato, non tanto, o comunque non solo, per la resistenza opposta
da un’identità personale che mal sopporta le cesure o l’impasse, ma per le implicazioni che tutto ciò ha, per la difficoltà ad accettare l’immagine
del vuoto che si apre nel momento in cui l’universo di senso organizzato intorno a
quel ‘paradigma politico’ si decompone, in presenza di sfide globali, e mortali, che
sembrano, all’opposto, non tollerare dilazioni e che invocherebbero, al contrario,
forme adeguate del ‘politico’ in grado di far transitare la vecchia storia al livello
imposto dalla nuova geografia.
È difficile dire quando nascerà un ‘nuovo paradigma politico’ capace – come fece il paradigma politico dei
moderni nei confronti di quello degli ‘antichi’ più di tre secoli or sono – di riempire
quel vuoto. E se esso nascerà. Attraverso quali protagonisti (soggetti sociali, culture, identità).
E quali forme assumerà. Certo è che esso non potrà non misurarsi con le nuove dimensioni
e le nuove qualità dello spazio succeduto a quello – tutto sommato rassicurante ma
‘esploso’ – della statualità nazionale. E anche con la nuova antropologia che in quella
spazialità dovrà radicarsi, rispetto alla quale l’‘uomo della tribù’ (per usare una
felice espressione di Ernesto Balducci) appare ‘antiquato’ e si fa avanti, ancora
incerta nel suo profilo, la figura dell’‘uomo planetario’.
Il che implica, inutile dirlo, una sorta di reconstructio ab imis dei fondamenti stessi del ‘politico’, un nuovo pactum e un nuovo ‘codice’ genetico che, come inevitabilmente avviene nella fase genetica
di ogni nuovo ‘paradigma’, non potrà che fondarsi su degli ‘universali’, su un limitato,
ma sostantivo, repertorio di valori capaci di tracciare l’orizzonte condiviso entro
cui gli inevitabili contrasti e conflitti che di per sé la politica presuppone possano
essere regolati consensualmente. E nello stesso tempo tali da segnare, con evidenza,
la separazione dal precedente paradigma, da dare il segno – per dirla con Thomas Kuhn
– della ‘rivoluzione scientifica’ (o comunque ‘concettuale’) compiuta. Potremmo chiamarli
‘meta-valori’, per sottolinearne il carattere di a priori rispetto al campo politico: la natura di principi costitutivi di esso più che di
oggetti del confronto al suo interno. E tentarne anche un provvisorio, ancora embrionale
e incerto repertorio sulla base delle frammentarie, ma anche significative, esperienze
di questi pochi anni di convivenza tra il non-più e il non-ancora. Sapendo che la
possibilità, per essi, di affermarsi come parti di una nuova dimensione del politico
passa attraverso la risoluzione di alcuni nodi, la scelta tra alternative di fondo,
che attualmente tagliano orizzontalmente gli schieramenti politici e le identità culturali.
La prima opzione, per molti versi preliminare, relativa alla questione dei ‘mezzi’
dell’azione politica – e anche quella che con maggior nettezza è destinata a influire
sul nesso di continuità con il paradigma politico dei moderni –, riguarda senza dubbio
l’alternativa tra violenza e nonviolenza. La disponibilità o meno a bandire – di fronte all’inedita fragilità del mondo umano
unificato dalla potenza tecnica e dall’universalità del rischio – l’impiego della
forza fisica come ‘mezzo specifico’ del potere politico (per usare la formula weberiana).
La seconda riguarda l’alternativa tra decisione e responsabilità, nei criteri di scelta dei ‘fini’: l’assunzione di un principio decisionistico nella
determinazione degli obiettivi collettivamente impegnativi (in nome dell’efficienza
immediata) o, al contrario, del ‘principio responsabilità’ – per dirla con Hans Jonas
– in nome della sicurezza a lungo termine («Agisci in modo tale che gli effetti della
tua azione siano compatibili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla
terra»16).
Una terza opzione si riferisce a quello che potremmo definire il ‘contesto’, chiamando
in causa il principio di esclusione o di inclusione: se si vorrà, cioè, continuare a far riferimento allo spazio segmentato e ‘confinato’
all’interno del quale la definizione del ‘noi’ (gli ‘inclusi’) e degli ‘altri’ (gli
‘esclusi’) stava alla base della schmittiana coppia ‘amico/nemico’; o se, al contrario,
si sceglierà la via dell’inclusione dell’intera umanità come soggetto unificato all’interno
di un’unica spazialità planetaria, reinventando su questa scala le nuove ‘categorie
del politico’. E, strettamente connessa a questa, come modalità del ‘rapporto con
l’Altro’, l’alternativa tra reciprocità e autoreferenzialità: tra logica del riconoscimento (della reconnaissance, direbbe Ricoeur) e della reciprocità da una parte, e logica dell’identità separata e dell’autoaffermazione del Sé dall’altra.
Infine, per ciò che riguarda l’antropologia, chiamiamola così – le forme elementari
della riproduzione e dello ‘stile di vita’, il rapporto tra uomo e natura (propria
e ambientale) –, l’alternativa tra logica dello sviluppo e cultura del limite, tra la metafisica influente – o la ‘superstizione tecnologica’ – della potenziale
inesauribilità delle risorse disponibili e dell’illimitata possibilità del loro sfruttamento
(oltre che della ‘naturale’ desiderabilità da parte dell’uomo della crescita quantitativa
dei beni a propria disposizione) e l’acquisita consapevolezza della finitezza (e finitudine)
del mondo, del suo carattere ‘limitato’, e dunque dell’impraticabilità dell’idea di
‘sviluppo’ che ha dominato, fino a ieri, la lunga parabola della ‘modernità industriale’.
Sono, quelle qui elencate, solo alcune delle possibili alternative relative ai ‘meta-valori’.
E l’elenco potrebbe essere allungato, sulla base delle evidenze (e delle emergenze)
che la quotidianità ci offre. Ma questa, appunto, è un’altra indagine. E un altro
possibile programma di ricerca (forse un altro libro), ancora incerto tra utopia e
praticabilità. Tra ciò che è lecito sperare e ciò che è possibile verificare. Non
saprei dire, infatti, non dico con certezza, ma con un grado accettabile di plausibilità,
se quegli accenni di alternativa – quei barlumi di alterità nella crisi dell’esistente
– possano condensarsi anche solo in un embrione di ‘nuova politica’ e dare il segno
di una svolta. Quello che però mi sento di sostenere fin da ora è che se questo non
avverrà, se la crisi del ‘politico’ che accompagna l’eclissi delle sue principali
identità storiche non troverà la propria risoluzione nell’emergere di un nuovo paradigma,
prima che la portata delle sfide superi il limite di non ritorno, il mondo che abbiamo
di fronte sarà assai peggiore di quello (non certo dolce) che abbiamo alle spalle.
Torino, agosto 2007
Le ragioni dei ‘dissolutori’. Ovvero cinque argomenti per dire no alla destra e alla
sinistra
Le argomentazioni con cui si sono negati ragione di esistere e senso alle categorie
contrapposte di ‘destra’ e di ‘sinistra’ sono molte, articolate, in via di progressiva
intensificazione. E – fino alla fine degli anni Ottanta del Novecento – provengono
prevalentemente, mi si passi l’espressione, ‘da destra’. Esse si concentrano soprattutto
nel periodo che va dalla metà degli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta, il
vero periodo cerniera nel profilo ideologico della modernità compiuta. Quello nel
quale continuità e fratture del Novecento si sono venute manifestando nella forma
più esplicita sfidandone tutte le identità. Ed è appunto su quel dibattito che val
la pena soffermarsi, per il suo ruolo di trait d’union con la discussione e le culture politiche attuali.
Tra gli argomenti dei ‘dissolutori’ dell’antitesi polare ‘Destra/Sinistra’ mi pare
che se ne possano individuare almeno cinque tipi fondamentali, tali cioè da sintetizzare,
ognuno, un complesso organico di motivazioni e di riflessioni o, se si preferisce,
di ‘giudizi di fatto’ e di ‘giudizi di valore’.
L’argomento storico o empirico
Rappresenta le ragioni di chi dichiara la distinzione ormai destituita di senso sulla
base della constatazione che sulla scena politica non figurano più movimenti, o forze
organizzate, o soggetti collettivi la cui identità sia definibile come genuinamente,
coerentemente e stabilmente appartenente all’uno o all’altro fronte categoriale.
La tesi non è certo priva di basi fattuali. Anzi. La sua forza sta proprio nel potersi
presentare come espressione della rivolta dei fatti contro l’estenuazione delle idee.
Nel suo accreditarsi l’energia pulsionale della vita contro l’ossificata astrattezza
delle ideologie. All’inizio degli anni Ottanta, riflettendo sulla crisi del giscardismo,
il fondatore della nouvelle droite, Alain de Benoist, parlò di una «droite introuvable». Naturalmente intendeva la ‘vecchia
destra’1; e lavorava per inventarne una ‘nuova’. Quando nel 1984, sul versante opposto, un
giornalista di «Libération», Laurent Joffrin, tentò un primo bilancio del mitterrandismo,
scoprì che la sinistra non aveva «resistito alla prova del potere»; che laddove avrebbe
dovuto «rompere con il capitalismo», aveva invece «rotto con il socialismo»; e che
la sua cultura e la sua politica avevano subìto un disastroso «invecchiamento». La gauche en voie de disparition2 intitolerà la propria inchiesta, aggiungendo realisticamente come sottotitolo Comment changer sans trahir?. Guy Hocquenghem – anch’egli ex ‘Libé’ ed ex ‘Mai 68’ – andrà oltre. In una durissima
e amarissima Lettre ouverte à ceux qui sont passés du col Mao au Rotary, attestò già in tempi ‘non sospetti’ – quando il fenomeno non era ancora sotto gli
occhi di tutti – l’avvenuta omologazione di tutti i valori nel breve percorso verso
il potere di una generazione di pentiti: «Destra e sinistra – scriveva –, tutti sono
per la bomba [si discuteva allora della politica nucleare francese]. Tutti sono neo-liberali
[...] L’idea che sta crescendo, è semplicemente quella del rinnegamento»3. E aggiungeva, rivolto ai suoi ex compagni, «direttori di giornali e convertiti del
nucleare, capitalisti recenti e strateghi della dissuasione»: «Il vostro potere insolente
si è stabilito sotto la sinistra, ma non è né di destra né di sinistra, è il potere
di una generazione, quella che è partita da Mao-Mai per arrivare al Rotary e alle
Rolls [...]. Né destra né sinistra – concludeva – ma il peggio di entrambi»4.
Né si tratta di casi, come si suol dire, isolati. Di episodi contingenti che non segnano
una tendenza. La crescente uniformazione dei linguaggi politici, parallela al processo
di uniformazione dei soggetti sociali in un immenso, amorfo ceto medio; la convergenza
della maggior parte dei partiti verso il centro, in competizione per la conquista
di un elettorato pacificato e relativamente agiato; la dissoluzione dei grandi progetti
di trasformazione, ma anche di restaurazione; i primi segni del livellamento della
classe politica e della sua trasformazione in ceto pressoché omogeneo al suo interno;
soprattutto l’approdo di quasi tutto il cosmo politico a quell’unico, generico, condiviso
progetto che è la ‘modernizzazione’ e, infine, a coronamento del lungo processo di
crisi, l’implosione dell’universo sovietico, la fine del ‘socialismo reale’ e la caduta
del muro di Berlino: tutto ciò – pressoché concentrato, occorre sottolinearlo, in
un solo decennio – ha indubbiamente contribuito ad appannare i confini tra campi contrapposti
fino a renderli invisibili e a cancellare le identità politiche forti, quali lo schema
assiale e polare ‘Destra/Sinistra’ rappresentava. Forse in America Latina – si diceva
– o nel Terzo Mondo, o comunque là dove l’indigenza attribuisce ancora un senso alle
cose, e uno spessore di verità, sarà legittimo parlare dell’esistenza di una ‘sinistra’,
e dello scontro con una destra ‘vera’. Ma qui, nella vecchia, estenuata Europa? Nell’Europa
della complessità sociale, della dissoluzione dei soggetti forti – della classe operaia
in primo luogo –, dei movimenti postindustriali e postmaterialistici; qui, nell’universo
del superfluo e del consumo, dove ‘niente è più vero’ perché tutto, in fondo, si può
comprare e vendere, questo delle contrapposizioni sostantive, delle identità capaci
di durata e non negoziabili, non finisce per diventare un linguaggio imperdonabilmente
rétro? (e si sa, nella nomenclatura della postmodernità essere rétro è forse più letale di quanto fosse essere ‘di destra’ ieri). Dove sta la sinistra
europea? Dove, e su cosa, definisce la propria linea di scontro con la destra? Nella
decostruzione del welfare solo più morbida di quella della destra ultraliberista, comunque incapace di realizzare
i propri sbandierati progetti senza scatenare conflitti che non sa né può governare?
Nella difesa di un equilibrio comunque deciso altrove? Nella tutela di diritti individuali
da tempo patrimonio anche della ‘destra’ liberale? O, come sarebbe accaduto tra poco,
nella rinominazione del termine terrifico ‘guerra’ nell’espressione – ritenuta più
politicamente corretta – ‘intrusione umanitaria’?
In uno ‘storico’ congresso del Partito comunista italiano – l’ultimo della formazione
politica che portava quel nome che aveva segnato il Novecento –, lo stesso segretario
Achille Occhetto, che pur aveva usato ben 46 volte la parola ‘sinistra’ nelle 133
pagine della sua relazione introduttiva, non era riuscito neppure una volta a definirla.
E quando il presidente della Lega delle cooperative si era chiesto «Chi è a ‘destra’
e chi a ‘sinistra’ oggi nel Pci? Perché continuiamo a chiamare ‘sinistra’ i riformisti
in Urss e ‘destra’ i riformisti nel Pci?»5, non aveva trovato risposta. Fin da allora più che di inadeguatezza dei nomi alle
‘cose’, è sulla scomparsa delle cose stesse che ci si tornava a interrogare.
«Il tempo dei tipi polari e irriducibili sembra finalmente tramontato», rispondeva,
‘provenendo da destra’ e sulle orme di Benoist, un altro protagonista di quel dibattito
in Italia, Marco Tarchi, che alla costituzione di una nuova identità trasgressiva
«al di là della destra e della sinistra» aveva affidato il proprio progetto politico.
«L’analista che intendesse avventurarsi nel processo di sviluppo sociale armato di
essenze o tipi ideali delineati in termini di categorie inflessibili di ‘destra’ e
di ‘sinistra’ – osservava – rischierebbe, in breve, di smarrirsi fra destre ‘moderne’
e regressive, consensuali e autoritarie, stataliste e comunitarie, e sinistre in bilico
tra postmodernità e arcaismo pre-industriale, logica della mediazione e decisionismo,
suggestioni etiche e tentazioni di autonomia del politico»6. Come dire: troppo poco o troppo. Omologazione e complessità congiurano nel destituire
di valore normativo e descrittivo tanto la categoria di ‘destra’ quanto quella di
‘sinistra’.
D’altra parte, aggiungeva ancora Tarchi, non sarebbe questa la prima volta che le
categorie ‘essenzialiste’ di destra e sinistra fanno bancarotta al primo confronto
con la Storia e che i confini, così netti sul piano categoriale, cedono nei fatti
lasciando il passo a una fitta rete di percorsi trasgressivi dall’un territorio all’altro
(più intensi, per la verità, dalla sinistra verso la destra che non viceversa). Sarebbe
già avvenuto per lo meno due volte in forma storicamente significativa, in corrispondenza
(in entrambi i casi) con fasi di trasformazione rivoluzionaria dei rapporti sociali
e produttivi e di accelerazione temporale intensa. Una prima volta con «quella ribellione
al mondo delle ‘vecchie cose’ che Sorel e il Cercle Proudhon hanno inaugurato nell’ultimo scorcio del secolo precedente»7. Una seconda volta negli anni Trenta, quando l’articolata area ‘non conformista’
descritta da Zeev Sternhell in Né destra né sinistra8 iniziò la propria travagliata transumanza dalla sinistra attraverso i territori infetti
del fascismo e del social-nazionalismo, alla ricerca di un’improbabile terza via:
«capi della Cgt finiti ministri di Pétain come René Belin; anarcosindacalisti tentati
dal fascismo e approdati al regionalismo come Lagardelle; leaders socialisti come
Henri De Man divenuti pilastri della collaborazione con la Germania»9, per non parlare del comunista Doriot finito all’estrema destra col suo social-nazionale
Parti populaire français, o dei ‘neo-socialisti’ Déat, Marquet, Montagnon, approdati
anch’essi all’«attivismo di Vichy».
Dunque, poiché i grandi movimenti politici, così come storicamente si danno, non riescono
(più?) a essere omogenei e coerenti con le rispettive etichette tradizionali – con
i rispettivi idealtipi ideologici – e poiché l’attraversamento dei confini appare
la regola più che l’eccezione, la contrapposizione tra destra e sinistra viene liquidata,
perciò stesso, come extrastorica se non, addirittura, come antistorica. Destinata
a naufragare nel più vasto gorgo della cosiddetta ‘crisi delle ideologie’ (cioè, in
senso tecnico, delle «filosofie di parte indisponibili a patteggiare»10).
Questo nella forma più esplicita e lineare. Quella che riprende, in chiave aggiornata,
la vecchia ostilità del ‘pensiero concreto’ contro l’astrattezza razionalistica, posta
da Karl Mannheim a fondamento del conservatorismo11. E che sembra riproporre, per certi aspetti, la tradizionale polemica della destra
contro l’‘intellettualismo’ della sinistra. Ma vi sono varianti di questo stesso argomento
indubbiamente più complesse – o comunque meno legate all’aspetto storico-empirico,
più orientate al lato concettuale del problema. E anche, almeno per alcuni aspetti,
tra loro contraddittorie.
L’argomento della ‘spoliticizzazione’ della società contemporanea: l’estinzione del
conflitto
La prima di queste varianti la si potrebbe definire ‘schmittiana’, per la crucialità
attribuita alla categoria dicotomica ‘amico/nemico’, assunta sulle orme di Carl Schmitt
come ‘essenza del politico’12. Destra e sinistra – sembrano sostenere i fautori di questa tesi – sono categorie
strettamente, intrinsecamente politiche. Come tali, conservano un senso e una dimensione operativa esclusivamente se poste,
per così dire, in ‘situazione politica’, il che, in questo contesto concettuale, significa
‘situazione polemica’; solo se collocate entro un ambito in cui l’antitesi ‘amico/nemico’
continua a essere costitutiva di una condizione di conflitto. Venuta meno l’esistenza
di identità antagonistiche, caduta l’antitesi non mediabile, ‘neutralizzata’ la sfera
dell’agire collettivo, si darebbe luogo a una situazione di ‘spoliticizzazione’ entro
la quale l’antica ‘topografia politica’ fondata sulla classificazione assiale ‘Destra/Sinistra’
risulterebbe destituita di significato. L’impossibilità di distinguere che sta alla base dell’obsolescenza fattuale dell’antitesi ‘Destra/Sinistra’ rinvierebbe,
in sostanza, a una più profonda impossibilità di confliggere, la quale caratterizzerebbe ormai strutturalmente una società ‘statalizzata’ in cui
tutte le funzioni proprie del ‘politico’ sono rifluite lasciando spazio unicamente
a funzioni amministrative, non dissimile dall’immagine fornita dal celebre saggio
di Francis Fukuyama La fine della storia13. La cessazione della disputa sui ‘fini’ (che connotava weberianamente ‘la politica
come lotta’) sostituita ormai solo dalla competizione per l’accaparramento dei ‘mezzi’
in un mondo in cui tutti, indifferentemente, sembrano riproporsi la mera gestione
dell’esistente; la burocratizzazione crescente di ogni aspetto della vita collettiva,
con la conseguente riduzione dello spazio della ‘decisione’ rispetto a quello della
‘funzione’; il prevalere della mediazione parlamentare sul conflitto sociale entro
sistemi politici compiutamente parlamentarizzati: sono tutti fenomeni che lasciano
intravvedere il compimento di quell’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni14 che Schmitt pone come punto d’approdo del lungo processo di sviluppo culturale europeo
volto ad ampliare lo spazio entro cui cessa la contesa. L’epoca in cui Stato e politica
divorziano, e mentre la seconda si estingue come forma regolata di conflitto (‘esplode’ priva ormai di contesto e di misura), il primo si trasforma
in entità amministrativa neutrale, in mero strumento, ‘macchina di governo’ o ‘azienda
burocratica’.
È per certi aspetti – e paradossalmente, per via dell’assoluta distanza ideologica
dalla visione schmittiana – la posizione di quelle correnti della sociologia e politologia
d’origine funzionalista, o comunque fortemente influenzate dalla categoria dell’integrazione
sociale che del funzionalismo è l’essenza, le quali, sulle orme di Daniel Bell, hanno
teorizzato una crescente tecnicizzazione dello spazio politico con un progressivo
trasferimento di funzioni e di deleghe decisionali a uno strato di funzionari ‘neutrali’
legittimati dalle competenze, attribuendo a ciò – all’opposto dell’‘ortodossia’ schmittiana
– un valore indiscutibilmente positivo, vedendovi un effetto virtuoso della modernizzazione. In un tale contesto, in cui
al conflitto sui fini si sostituisce la semplice valutazione tecnica su alternative
di fatto, la connotazione delle identità politiche in termini di ‘valori’ appare per
molti versi come una deviazione ‘patologica’ e l’antitesi conflittuale come un anacronismo:
«Una significativa polarità nell’ambito del consenso americano – scriveva, già all’inizio
degli anni Sessanta, Bell – ha sempre fatto parte della ricerca americana di un’auto-definizione
e di un’identità di sé: Jefferson contro Hamilton, Repubblicanesimo contro Federalismo,
Ruralismo contro Capitalismo, la frontiera dell’Ovest contro l’industria dell’Est.
Per quanto significative possano essere state tali polarità nel passato, sembra esserci
rimasto poco significato nella polarizzazione oggi»15. E concludeva considerando la «politica del rancore» maccartista come il prodotto
deviato e deviante delle transitorie frustrazioni delle nuove classi medie, pericoloso
nella sua tendenza a convertire «issues in ideologie» e a «investirle di connotati morali a elevata carica emotiva», ma destinato
a essere riassorbito nella più generale, e vincente, deriva politica americana, consistente
in un pragmatico scambio politico più che in una serie di sfide mortali («a pragmatic
give-and-take rather than a series of wars-to-the-death»)16.
Non stupisce che questa interpretazione, nel clima di pragmatica secolarizzazione
– o forse meglio: ‘dissacrazione’ – della politica seguita al fallimento del ‘compromesso
storico’, sia stata aggiornata alla situazione italiana di fine secolo (ricontestualizzata
nel più generale processo di ‘americanizzazione’ in corso) e radicalizzata fino a
fare dei concetti di ‘destra’ e ‘sinistra’ entità, nella migliore delle ipotesi, debolissime,
destituite di ogni contenuto identificante o assiologico e dotate, tutt’al più, di
un vago significato descrittivo, pallido residuo del passato. È, in sostanza, la teoria
della ‘fine delle ideologie’. Ma è anche la posizione di chi, già al tempo della grande
‘revisione’ craxiana, aveva salutato le primissime ‘aperture’ di alcune componenti
dell’estrema destra alla ‘sinistra’ e la simmetrica politica ‘dell’attenzione’ da
parte di alcuni settori di questa, come una svolta per molti aspetti epocale17, capace di far evolvere positivamente «verso la dimensione conciliante e pacifica
della politica»18, grazie appunto al superamento della «concezione assiale di destra e sinistra». E
che poi, in forma ben più ampia e operativa, leggerà la cosiddetta ‘svolta di Fiuggi’
e la conversione del partito neofascista italiano in Alleanza nazionale come un segno
di ‘normalizzazione’ del nostro universo politico, facendovi seguire operazioni di
forte impatto istituzionale come la Bicamerale, in cui, appunto, lo scambio politico
come forma totalizzante e assorbente dell’agire razionale potesse dissolvere nella
dimensione uniformante del mercato politico le antiche identità non negoziabili.
Né si può tralasciare la posizione, di per sé assai più nobile, di chi volesse declinare
questo stesso ‘argomento’ attraverso la cifra del superamento, auspicato e auspicabile,
di quella forma specifica di organizzazione mentale dell’universo che va sotto il
nome di ‘pensiero antinomico’. L’espressione è stata coniata da Jean Starobinski,
a proposito di tutt’altra questione: l’origine della contrapposizione ottocentesca,
nel campo dell’analisi scientifica del linguaggio, tra ariano e semita. Ma l’intera
argomentazione si presta bene anche al nostro discorso. Si potrebbe infatti considerare
l’attuale debolezza della contrapposizione ‘Destra/Sinistra’ come il risvolto di un
più generale affievolirsi di quella «logica verbale delle antinomie»19 (di cui la coppia ‘amico/nemico’ costituisce un archetipo tra i più forti) che a
lungo ha strutturato il campo della politica. Una tale logica, che obbliga a «ricorrere
a coppie di concetti antinomici» e che deve tanta parte del suo successo al «fascino
delle simmetrie», s’imporrebbe – secondo Starobinski – in situazioni di patologia
sociale, di sospensione della comunicazione e della trasparenza, quando «prevalgono
le condanne preconcette, l’insufficienza della documentazione e il desiderio di fare
impressione»20. Così che il suo superamento, nel quadro di un «metodo linguistico differenziale»
capace di comprendere che le differenze non sono antitesi, segnerebbe il passaggio
da situazioni emotivamente conflittuali a situazioni razionalmente comunicative, dal
«regno della fantasia» – per usare ancora un’espressione di Starobinski – al «regno
della scienza», in cui la politica, privata della sua drammaticità, può accontentarsi
di confronti più che di conflitti e praticare la complementarità anziché l’esclusione.
Comunque, quale ne sia stato il segno (rimpianto o apprezzamento), e quale ne sia
stato l’apparato concettuale (spoliticizzazione dello Stato, scambio politico o superamento
del pensiero antinomico), la sostanza unificante di tutte queste posizioni sembrerebbe
consistere nella loro tendenza a rafforzare l’argomento ‘empirico’ aggiungendovi un
elemento di necessità storica nel teorizzare non solo l’obsolescenza fattuale dell’antitesi
‘Destra/Sinistra’, ma anche la sua inevitabilità attuale, dati la direzione e l’esito
delle dinamiche storico-sociali connesse alla più recente ‘modernizzazione’.
L’argomento ‘catastrofico’ o della politicizzazione totale: la radicalizzazione del
conflitto
Esattamente all’opposto di quello che si è definito l’‘argomento schmittiano’ si colloca
la posizione di chi teorizzò allora l’insufficienza delle categorie ‘normali’ di destra
e sinistra a causa della loro incapacità di contenere e rappresentare un conflitto
che si sarebbe fatto tanto radicale e assoluto da ‘sfondare’, per così dire, il fondamento
‘normativo’ della concettualizzazione e della topografia politica tradizionale. Non
l’estinzione del conflitto, dunque, ma la sua radicalizzazione starebbe qui all’origine
della dissoluzione delle identità politiche consolidate. Non la stabilizzazione assoluta
dell’universo collettivo, e la sua ricomposizione in un ordine pressoché automatico,
quanto piuttosto la delegittimazione assoluta di ogni esistente nel quadro di un ‘disordine’
senza precedenti, e quindi senza ‘norme’ né ‘nomi’ – la dimensione ‘catastrofica’,
appunto, assunta dall’antagonismo politico nell’età contemporanea –, farebbe saltare
l’equilibrio lineare-assiale della polarità ‘Destra/Sinistra’.
È l’argomento proposto per la prima volta da Massimo Cacciari nel 1981 – in un momento
in cui lo sguardo era ancora fissato sull’apparentemente non mediabile conflittualità
degli anni Settanta più che sulla vocazione mercantile degli anni Ottanta –, in un
convegno sul Concetto di sinistra, con un intervento dal titolo vagamente minaccioso, Sinisteritas: «La rappresentazione assiale del sistema politico – disse allora Cacciari – [una
rappresentazione, cioè, in cui «ogni posizione ha un proprio tòpos ben definito, è soggetta a un Nomos inflessibile»], è fisiologicamente inadatta a render conto delle situazioni critiche, del prodursi di discontinuità nei processi, di descrivere situazioni intrinsecamente
instabili»21. Essa è adeguata a situazioni di normalità (meglio, si direbbe, a situazioni rappresentabili
secondo il modello di politica ‘parlamentare’, con i due poli ordinati rispetto al
centro e su di esso gravitanti), in cui il rispetto dei ‘limiti’ e la possibilità
di mediazione permangono tali. Ma è destinata a perdere di significato quando si manifestano
situazioni di conflitto inedite, posizioni non conciliabili. Quando la ‘forma’ dell’antagonismo
muta nella qualità, e non trova ‘norme’ capaci di ‘ordinarla’ rispetto ad alcun centro
stabile:
Laddove il dio Termine di erasmiana memoria stia ancora ben confitto sul terreno a
indicare i confini (e la sua auctoritas venga riconosciuta) – scriveva Cacciari –, laddove ogni soggetto si dia nella forma
di un chiaro assoggettamento a tòpoi definiti, questa rappresentazione sembra brillantemente tenere. Ma quando si accende
una situazione critica? Quando mutamenti repentini abbrevino di colpo le distanze, diano luogo a cortocircuiti
tra tòpos e tòpos, ne confondano la natura? [...Allora] il determinismo assiale deve cedere il posto
a paradigmi che permettano chiare descrizioni dei meccanismi corto-circuitanti, delle
repentine rotture tra posizione e posizione: paradigmi che permettano la rappresentazione
di quell’antagonismo catastrofico che appare la regola del rapporto sociale contemporaneo22.
La diagnosi è qui, come si vede, esattamente opposta a quella dell’argomento precedente:
la crisi del paradigma fondato sulla contrapposizione tra destra e sinistra non è
la conseguenza dell’avvenuta neutralizzazione e razionalizzazione della sfera politica,
ma costituisce, al contrario, il prodotto più significativo del fallimento di tale
ipotesi. È il sintomo più evidente dell’impossibilità di procedere a una razionalizzazione
stabile dello spazio politico secondo i criteri ‘normativi’ della logica parlamentare
(della logica, appunto, delle spoliticizzazioni e delle neutralizzazioni). Sintomo
che dimostrerebbe l’infondatezza e la fragilità delle «varie futurologie tecnocratiche»
basate sulla «fede progressiva sul venir meno, sul deperimento dei caratteri specificamente
‘catastrofici’ dell’antagonismo a favore di una comune cultura scientifico-tecnologica»23: «si può affermare – concludeva allora Cacciari – che la crisi del determinismo assiale
è spia di una aporia più generale delle teorie del Politico in quanto razionalizzazione
progressiva del conflitto in vista della sua riduzione a ‘gioco’ o semplice ‘mercato
concorrenziale’»24.
L’argomento ‘spaziale’: dalla dimensione assiale-lineare alla dimensione sferica dello
spazio politico
Se Cacciari aveva criticato la dimensione lineare-assiale della politica riconducendola
a un concetto di ‘ordine’ insufficiente a contenere le nuove forme di antagonismo,
Marcello Veneziani – esponente di una destra che si vuole acculturata, il quale è
stato, d’altra parte, in varie occasioni riconosciuto interlocutore di Cacciari –
andava oltre. Affermava l’insufficienza della stessa concezione – bidimensionale,
appiattita sulla superficie – dello spazio politico ad essa sottesa e proponeva di
coniugare alla forma orizzontale della politica imposta dalla sinistra fin dal suo nascere (concezione sostanzialmente
egualitaria e democratica, fondata sulla collocazione di tutti i soggetti entro lo
stesso piano gerarchico, sulla stessa superficie), la forma verticale propria della destra (abituata appunto a considerare i rapporti tra gli uomini come
rapporti di superiorità/inferiorità più che di contiguità), ottenendo così, come risultante,
uno spazio politico sferico. Un nuovo e diverso scenario entro il quale organizzare i soggetti politici non più
entro la visione assiale sinistra-centro-destra, che stabiliva la massima distanza
tra i poli e li condannava a un inevitabile e stabile antagonismo, ma «in una visione
circolare in cui la sinistra e la destra siano complessivamente equidistanti sia dal
centro che reciprocamente»25. Questo nuovo spazio politico, reso per così dire ‘curvo’, sottratto alla piattezza
della superficie e restituito alla plasticità del volume, avrebbe il vantaggio – secondo
i suoi teorici – non solo di rendere relative e in qualche modo interscambiabili le
posizioni di destra e sinistra che prima erano condannate alla fissità (su di un cerchio,
contrariamente a quanto avviene su una retta, il punto che sta alla destra di un altro
finisce, prolungando il percorso dell’osservazione, per trovarsi alla sua sinistra
e viceversa), ma anche di permettere e dar conto di quegli avvicinamenti tra gli estremi,
e di quelle forme intermedie non identificabili col centro, che altrimenti in uno
spazio ‘piano’ – o ‘piatto’ – e in una dimensione assiale non sarebbero concepibili
(sulla superficie di una sfera due punti possono uscire da una posizione polarizzata
e ravvicinarsi fino anche a coincidere pur rimanendo egualmente distanti dal centro):
Da quando furono utilizzati in senso politico i termini di destra e sinistra – annotava
infatti Veneziani – la visione assiale della politica e le sue nette polarizzazioni
sono state mandate in frantumi in molte occasioni storiche: dal bonapartismo al risorgimento,
dal nazionalismo al fascismo, dalla rivoluzione conservatrice al peronismo [...] Se
si volessero, anzi, individuare i tratti di una ideologia italiana – aggiungeva –,
essi dovrebbero ricercarsi proprio nel tentativo di conciliazione degli opposti, ora
tramite una linea teorica fondata su spiritualismo e populismo, socialismo e patriottismo,
ora tramite la prassi politica costellata da connubi, trasformismi, dittature sincretiche,
democrazie consociative, e così via26.
La profezia si autoadempie. In uno spazio prodotto mediante la commistione di criteri ‘di destra’ e ‘di sinistra’, quella coincidentia oppositorum che dai sostenitori dell’‘argomento empirico’ era stata descritta in termini semplicemente
fenomenici, come ‘trasgressioni’ documentabili storicamente, diviene ‘norma’; l’intreccio
tra identità di sinistra e di destra assume carattere di ‘naturalità’ e, in un certo
senso, di ‘necessità’. Riflette, per così dire, lo statuto spaziale del cosmo politico
assunto. La dissoluzione dell’antitesi non è più solo un dato di fatto, e neppure
un portato inevitabile del tempo attuale (una connotazione ‘storica’), ma un carattere
essenziale e assoluto: destra e sinistra sono apparse come identità stabili e contrapposte
solo in conseguenza di un’illusione ottica, che ha occultato la loro reale ‘interscambiabilità’
e tendenziale coincidenza.
L’argomento ‘temporale’: accelerazione del tempo e crisi dell’identità
Accanto allo spazio, l’altra dimensione fondamentale: il tempo. Quanto la temporalità
sia coinvolta con le forme dell’autorappresentazione umana è risaputo. Ad essa, nella
sua forma di durata, è connessa in particolare la complessa questione dell’identità, individuale e collettiva.
Da essa dipende la definizione delle appartenenze. Due questioni strettamente legate
nella sostanza all’antitesi ‘Destra/Sinistra’. La quale inevitabilmente finisce per
essere coinvolta con le più recenti ‘avventure della temporalità’ per dipendere in
buona misura dalle modificazioni quantitative e qualitative che essa sta subendo,
in particolare da quel fenomeno via via più evidente che è la sua accelerazione.
Il primo ad aver colto nell’accelerazione temporale il tratto caratteristico della
più recente contemporaneità e della metamorfosi di alcuni caratteri propri del ‘moderno’
è forse Ernst Jünger, il quale già nel 1960, in apertura del suo Weltstaat, scriveva: «Un movimento si opera ormai da tempo, nella forma di un accelerando [in italiano nel testo], secondo un’accelerazione crescente. Tale è il principio
da cui occorre partire quando si parla dello stato di cose presente»27. Ma è senza dubbio Reinhart Koselleck quello che ha affrontato con maggiore sistematicità
l’argomento, facendo della morfologia del tempo e delle sue trasformazioni il tema
centrale nella definizione della modernità e nella descrizione delle sue aporie. E
proprio Koselleck, in un saggio dedicato specificamente al tema Accelerazione e secolarizzazione28, ha sottolineato il carattere autodissolutivo della temporalità moderna, la quale
per un verso ha mondanizzato l’antica idea di redenzione vivendola come processo da
realizzarsi nel tempo e per mezzo del tempo (facendone il fine della storia anziché concepirla come la fine di essa), per l’altro verso l’ha resa impossibile erodendo la stessa dimensione
processuale del tempo, negandolo come ‘tempo storico’ attraverso una continua e crescente
accelerazione che, annientando gli intervalli temporali, accorciando fino alla dimensione
dell’istante processi un tempo secolari, sembra ricordare gli antichi presagi apocalittici
sull’‘accorciamento del tempo’ prima della fine del mondo, riproposti però in forma
nuova: come effetto non più di un restringimento dell’estensione temporale, ma di
una sempre più vertiginosa corsa dell’umanità dentro la struttura del tempo29. Una dimensione qualitativamente nuova del tempo, questa, che impedisce di percepirne
la struttura differenziata, di mantenere separati i momenti costitutivi (passato,
presente e futuro), di accumulare esperienze e di formulare aspettative. In sostanza,
di agire nel tempo secondo un progetto consapevole.
Ora, è evidente che nell’ambito di una tale ‘struttura del tempo’ le categorie concettuali
di ‘destra’ e ‘sinistra’ sono destinate a subire per lo meno una duplice sfida. Una
prima sfida in quanto ‘identità’ come tali. All’origine dell’identità, di ogni identità,
vi è sempre, infatti, una certa quantità di tempo esperito, un’accumulazione temporale.
Il che implica la possibilità di estrapolare, tra le infinite discontinuità delle
storie individuali e collettive, tratti di durata, frammenti di tempo continuo e omogeneo cui si può affermare di ‘appartenere’. La
costruzione dell’identità individuale e collettiva è in primo luogo possibilità di
far gravitare sul presente un passato (in forma di esperienza) e un futuro (in forma
di aspettativa) con cui ci si possa sentire congruenti, in un certo senso ‘consustanziali’.
Essa avviene per accumulazione dentro il tempo, attraverso un processo. Per questo vive finché il tempo individuale si lascia accumulare in strutture di
senso collettive, ma è destinata a indebolirsi e morire quando il tempo accelera a
tal punto da dissolversi prima di poter essere in qualche forma accumulato. Quando,
per usare un’espressione di Philippe Ariès, «vediamo, sotto i nostri occhi, intere
masse di quella che ancora ieri credevamo la nostra storia di oggi staccarsi e affondare
nell’oceano delle differenze»30. Trasformarsi, sotto l’incalzare di un tempo vertiginosamente istantaneo, in un passato
che è ormai radicalmente altro da noi. Allora alle figure della coerenza e dell’appartenenza
tenderanno a sostituirsi, come ‘valori’, quelle che sono state di recente indicate
come le forme più proprie della modernità compiuta: l’occasionalismo – lo ‘stile-Talleyrand’ –, tematizzato da Mario Perniola come «stile post-ideologico»
per eccellenza, «intollerabile sfida alla concezione ideologica della politica, intesa
come affermazione di idee, di contenuti, di programmi mediante la testimonianza e
la coerenza individuale»31; l’opportunismo, proposto da Paolo Virno come forma ambivalente dello spaesamento nell’uomo post-tayloristico
(«Opportunista è colui che fronteggia un flusso di possibilità interscambiabili, tenendosi
disponibile alla più prossima e poi deviando repentinamente dall’una all’altra»32); lo ‘scollamento ironico’ di cui parla Domenico Starnone («l’io si percepisce sempre
meno come un potenziale narrativo ordinato dall’esistenza cronologicamente, in nessi
di causa-effetto; mira sempre più all’intreccio, all’arrangiamento di sé»33, assume la propria natura ‘combinatoria’ accettando di essere qui e altrove, di praticare
un continuo ‘doppio gioco’).
Ma una seconda sfida – per certi aspetti più radicale e definitiva – le categorie
di destra e sinistra la subiscono in quanto identità ‘particolari’, coinvolte in forma
specifica e fondante con la temporalità e le sue dinamiche; identità, si potrebbe
dire, addirittura consustanziali alla struttura diversificata del tempo. Non è difficile
infatti cogliere nella destra e nella sinistra rispettivamente quello ‘spazio dell’esperienza’
e quell’‘orizzonte dell’aspettativa’ che Koselleck assume come le forme fondamentali
– le «due espressioni polari», scrive testualmente34 – con cui vengono esperiti passato e futuro nella temporalità storica. «L’esperienza
– scrive – è un passato presente, i cui eventi sono conglobati e possono essere ricordati
[...] Nella propria esperienza è sempre contenuta e conservata anche un’esperienza
altrui, mediata da generazioni o istituzioni»35; e ancora: «La caratteristica peculiare dell’esperienza è che ha elaborato accadimenti
passati, li può rievocare, è satura di realtà, congloba nel proprio comportamento
possibilità realizzate o mancate»36. L’esperienza è cioè conservazione. Primato del passato presentificato sul futuro. L’aspettativa, al contrario, «è futuro presentificato, tende a ciò che non è ancora, al non esperito,
a ciò che si può solo arguire e scoprire»37. È la struttura formale sottesa all’idea di progresso. Segna il prevalere della speranza
sul ricordo. Sanziona l’apertura della storia al mutamento e al movimento. È significativo
che esperienza e aspettativa si siano andate separando e allontanando progressivamente
fino a contrapporsi, dentro quella modalità specifica del tempo che è la ‘modernità’
(«l’età moderna – rileva Koselleck – può essere concepita come un tempo nuovo solo
in quanto le aspettative si sono progressivamente allontanate da tutte le esperienze
fatte finora»38). Proprio nell’epoca, cioè, in cui anche destra e sinistra sono andate polarizzandosi.
Nell’epoca, anzi, in cui il campo del politico è costituito in specifico modo dall’antitesi
tra destra e sinistra. Ma così come la temporalità moderna fondata sulla polarizzazione tra passato e futuro non sembra riuscire a sopravvivere
oltre una data soglia di accelerazione del tempo, quando, appunto, l’aspettativa non
‘ha tempo’ di consolidarsi in progetto e finisce per trasformarsi in esperienza senza
neppur essere stata esperita, allo stesso modo la politicità moderna fondata sulla polarizzazione tra destra e sinistra sembra inevitabilmente votata
alla dissoluzione, comunque a una strutturale incapacità di consistere nella separazione.
In un mondo in cui passato e futuro cessano di costituire i momenti separati di una
temporalità processuale per annientarsi nella presenzialità dell’istante, come possono
continuare a sussistere in quanto identità stabili e separate le tradizionali strutture
d’appartenenza identificate dalla destra e dalla sinistra? Come possono darsi, cioè,
identità collettive costituitesi e percepibili solo in un tempo in cui la durata sia
ancora concepibile e possa sussistere una qualche forma sia pur estenuata e ristretta
(‘minima’, potremmo dire) di ‘tradizione’, nel senso tecnico del termine: di comunicazione
entro la catena delle generazioni e la varietà effimera delle esperienze?
Su queste oggettive aporie della modernità, e in particolare della ‘modernità compiuta’,
hanno lavorato sia le correnti del neo-misticismo, che intendono contrapporre al nichilismo
contemporaneo la consistenza ontologica di un essere ‘totale’, estraneo alle false
distinzioni e divisioni del ‘moderno’ (a cominciare proprio da quella tra destra e
sinistra) e sottratto al falso movimento del tempo (penso ad autori come Severino
in primo luogo, ma anche per certi aspetti a Del Noce), sia i teorici del disincanto,
che intendono convivere col nichilismo ‘sdrammatizzando’ le contrapposizioni proprie
del ‘pensiero forte’ e praticando un’ubiquità curiosa che, libera da ricordi e speranze,
si accontenti di esperire il presente come unica forma possibile della temporalità.
Due ‘varianti’ che proclamano entrambi il ‘né destra né sinistra’, l’una in nome di
un ‘altrove assoluto’, l’altra di un ‘qui e ora’ altrettanto totale, ma proprio per
questo meno definito politicamente, meno identificabile con una concezione forte della
società e del suo ordine. E infatti mentre la seconda non trova articolazioni precise
sul piano della teoria politica, limitandosi a un generico occasionalismo, alla prima
– quella che si potrebbe definire ‘ontologico-sociale’ – finiscono per richiamarsi
in qualche modo quelle posizioni esplicitamente politiche che si collocano nell’area
del tradizionalismo (cattolico o pagano) con contenuti apertamente autoritari. Sia
pure con un netto décalage qualitativo rispetto all’elaborazione filosofica cui si è accennato sopra, esse condividono,
tutte, l’argomento della ‘falsità’ dell’antitesi ‘Destra/Sinistra’ nel quadro di una
critica radicale e totale della modernità e di una concezione organicistica e tradizionalistica
della società.
Un esempio di quest’ultimo tipo di approccio è dato dalla posizione di chi definisce
la coppia categoriale ‘Destra/Sinistra’ falsa in assoluto, in quanto costruzione artificiale e intellettualistica, in contrasto evidente con
la natura ‘organica’ della società, la quale non tollera fratture esplicite né contrapposizioni
stabili. Lungi dal descrivere ‘oggettivamente’ il paesaggio sociale in quanto tale,
l’idea di un cosmo politico diviso in una ‘destra’ e in una ‘sinistra’ rappresenterebbe
nient’altro che il punto di vista di una delle due parti in causa, quella ‘deviante’
e in errore: la sinistra, del cui ‘spirito di scissione’ costituirebbe il riflesso
e il prodotto. Visione ideologica per eccellenza, essa verrebbe meno con il venir
meno, finalmente, delle ideologie. Ideologia di sinistra ‘per definizione’ – si potrebbe
dire –, sarebbe destinata all’estinzione nel quadro della più generale ‘crisi delle
ideologie’. Un esempio per certi versi ‘di scuola’ di questa lettura è costituito
da un vecchio contributo di Jean Madiran, un autore non certo notissimo appartenente
alla galassia periferica dell’estrema destra di confine tra neofascismo e tradizionalismo,
che proprio all’inizio della disputa sulla crisi delle identità assialmente polarizzate
è intervenuto con un modesto ma significativo libretto intitolato appunto La destra e la sinistra e che ha per lo meno il merito di aver espresso nel modo più puro questa argomentazione,
contribuendo a spiegare il così diffuso successo a destra di ogni critica alla distinzione
in questione:
La distinzione tra una destra e una sinistra è sempre iniziativa della sinistra, presa dalla sinistra a profitto della sinistra, per rovesciare il potere o per impadronirsene.
Quelli che instaurano o rilanciano il gioco ‘Destra/Sinistra’ si collocano essi stessi
a sinistra, delimitano una destra per combatterla e per escluderla. Solo in un secondo
momento la destra così designata e presa di mira serra i ranghi, a contatto di gomito
di solito non sufficientemente in fretta né con sufficiente forza, si organizza, si
difende, contrattacca, qualche volta vince, ma non è mai che difesa e contrattacco.
Vale a dire rappresaglia. L’iniziativa di distinguere destra e sinistra – conclude – è immediatamente iniziativa della sinistra39.
Non a caso – sostiene questa posizione – la distinzione tra destra e sinistra sarebbe
nata con la modernità, con l’epoca in cui è storicamente venuta meno l’immagine della
società come ‘organismo’, come corpo organico in cui le singole parti sono tra loro
inevitabilmente legate da un rapporto di interdipendenza e di subordinazione al tutto
che ne impedisce qualsiasi istanza autonoma; l’epoca che segnerebbe l’inizio del distacco
della politica da una visione autentica – cioè tradizionale – della società, fondata sull’idea di un ordine naturalistico, definito una volta
per tutte e ‘tramandato’ lungo la catena delle generazioni, che non permetteva né
innovazione né tanto meno scissione.
Essa non sarebbe altro che una forma della crisi, come tale ‘inautentica’ ed effimera.
Destra e sinistra – aveva d’altra parte scritto Julius Evola, il massimo esponente
del tradizionalismo politico contemporaneo, in un breve articolo intitolato proprio
Essere di destra – sono designazioni che si riferiscono a una società politica già in crisi. Nei regimi
tradizionali esse erano inesistenti, almeno se prese nei loro significati attuali
[...] Le cose sono cambiate dopo la comparsa dei movimenti sovvertitori di tempi più
recenti, e si sa in origine la Destra e la Sinistra si sono definite in base al luogo
occupato rispettivamente nel Parlamento dagli opposti partiti40.
Forma specifica della ‘sovversione moderna’, la distinzione tra destra e sinistra
partecipa qui della tradizionale critica mossa dall’estrema destra all’idea stessa
di ‘partito’ (identificato con ‘fazione’) e al parlamentarismo, regime, per l’appunto,
dei partiti e della ‘chiacchiera’, forma per eccellenza dell’inautenticità di una
classe discutidora e individualista (la borghesia), incline alle fazioni e dimentica della totalità,
in nome dell’opposto ideale di ‘unità nella gerarchia’ proprio di ogni tradizionalismo
politico.
In sintesi...
Dunque, per lo meno cinque argomenti ‘mobilitati’ a destituire di senso la consueta
topografia politica. Ma riconducibili a due sostanziali poli tematici:
– l’uno fondato sull’idea tutto sommato ancora storicistica di una dissolvente ‘crisi
d’identità’ delle tradizionali ‘famiglie politiche’ in conseguenza di una serie di
processi storici di differente natura ma riconducibili, tutti, a una profonda trasformazione
delle forme e dell’essenza del ‘politico’ nell’epoca della modernità compiuta, o,
se si preferisce, in una fase in cui, radicalizzandosi ed estremizzandosi, i caratteri
fondamentali della modernità s’inverano e insieme si dissolvono;
– l’altro fondato sull’idea organicistica e, per certi aspetti, totalizzante di una
rivelazione del carattere in ultima istanza unitario e ‘non scomponibile’ dell’ordine
sociale, e quindi della falsità strutturale della scissione ‘Destra/Sinistra’, del
suo carattere ‘ideologico’ (cioè non autentico ab origine) ed effimero.
Due ordini di argomentazioni concettualmente molto diversi tra loro (anche se spesso
intrecciati e sovrapposti), implicanti l’uno intricate questioni di metodo, l’altro
fondamentali contrapposizioni di contenuto.
Considerazioni sul metodo. La natura concettuale dell’antitesi ‘Destra/Sinistra’
Rispondere al primo tipo di argomentazione – quello che, con differenti fondamenti,
tende a dichiarare esaurita l’antitesi perché non più corrispondente al comportamento
concreto dei soggetti politici ‘qui e ora’ – significa affrontare un nodo metodologico
preliminare in quest’ordine del discorso: ha senso, ed è possibile, identificare ed
esaurire rispettivamente la sinistra e la destra con le forze storiche che, di volta
in volta, si ‘autopercepiscono’ come di sinistra o di destra, o che comunque dichiarano
di essere portatrici di programmi di sinistra o di destra? La qualifica di sinistra
o di destra deve essere dedotta da un soggetto storico concreto, il quale esprime
nel suo comportamento e nella sua ‘essenza’ un tale ‘segno politico’? O non si tratta,
al contrario, di qualifiche che, per loro natura, ‘trascendono’ i soggetti, e la cui
utilità consiste proprio nel permettere ex post di qualificarli e ‘collocarli’ nello spazio politico?
Se si assumesse il primo tipo di risposta, la conclusione non potrebbe essere che
una: destra e sinistra risulterebbero categorie prive di significato non solo nell’immediato
presente, ma ‘in assoluto’ e ‘da sempre’. È infatti fin troppo evidente che non esiste
alcuna continuità organizzativa e, per molti versi, neppure ideologica tra le diverse
forze che di volta in volta, nel corso della storia degli ultimi due secoli, si sono
collocate alla destra o alla sinistra dello schieramento politico. L’eterogeneità,
più che la continuità, regna nell’uno come nell’altro campo, così come il ‘movimento’
dei soggetti lungo il continuum ‘Destra/Sinistra’, e non la loro stabilità, appare la regola più che l’eccezione:
uomini e partiti, formazioni e movimenti si sono trasferiti da una parte all’altra
dello spazio politico, sanzionando mille volte la morte di una qualche sinistra (più
raramente delle varie destre) e lasciando altrettante volte lo spazio aperto per una
nuova nascita. Non solo nel tempo, d’altra parte, ma anche nello spazio non esiste
continuità alcuna nelle identità. Si definiscono e vengono definite rispettivamente
di sinistra o di destra, nel mondo, una quantità di forze politiche e di partiti tra
loro tanto diversi da apparire per certi aspetti qualificabili come ‘nemici’: quali
rapporti non solo organizzativi e istituzionali, ma anche solo ‘ideali’ possono concepirsi,
ad esempio, tra la sinistra tedesca di Neues Forum e la sinistra americana del Pcusa?
O tra la destra sionista del Likud e la destra neonazista dei Republikaner? O, ancora,
tra la destra americana dei cosiddetti neo-cons e la destra teocratica iraniana? In
realtà, se dovessimo considerare destra e sinistra come la diretta e immediata espressione
politica dei soggetti che le incarnano, l’argomento ‘dissolutivo’ che si è definito
‘empirico’ sarebbe talmente autoevidente che non richiederebbe neppure di essere discusso.
Destra e sinistra come categorie ‘spaziali’
Il fatto è che quello di ‘sinistra’ e di ‘destra’ non è un concetto ‘sostantivo’,
per così dire ‘ontologico’. Non riguarda cioè l’essenza naturale, l’identità di un
individuo, di un movimento o di un partito, non ne identifica una qualità intrinseca.
Non si è ‘di sinistra’ o ‘di destra’ nello stesso senso per cui si dice che si è ‘comunisti’,
‘liberali’ o ‘cattolici’. Destra e sinistra non sono cioè caratteri assoluti del soggetto, qualifiche che ci si porta dietro, o dentro, in ogni circostanza e in ogni contesto
politico come attributo personale. Esse sono ‘luoghi’ dello spazio politico1. O, meglio, delle ‘posizioni’ nello spazio politico. Definiscono delle ‘collocazioni rispettive’ (uno ‘stare in’ un punto
rispetto a chi sta in un altro punto del medesimo spazio). In quanto tali, rappresentano,
come sottolinea René Rémond, delle «posizioni relative, in un sistema che le enuncia
simultaneamente e le include simmetricamente»2 (il che facilita le illusioni ottiche). Presuppongono una duplicità e una relazionalità:
si è di sinistra solo in rapporto a qualcun altro che si ponga alla nostra destra. Si diventa di destra solo in rapporto a un terzo che si venisse a porre alla nostra sinistra. Per questo esiste una ‘destra della sinistra’ o, viceversa, una ‘sinistra della
destra’. Per questo nessuna ‘famiglia dello spirito’ è, per sua natura e per sempre,
cioè ‘in assoluto’, collocata a sinistra o a destra, ma vi è di volta in volta ‘posta’ dalla configurazione della totalità dei soggetti
nello spazio politico. Nessuna, ad eccezione – come ha opportunamente notato Rémond
– dell’estrema destra, la quale «è nata d’emblée in quel punto estremo dello spazio politico nel momento stesso in cui il campo politico
incominciava a organizzarsi; da allora nessuna altra tendenza l’ha mai superata sulla
destra: essa è stata talvolta raggiunta da altre ideologie, ma nessuna fino a oggi
è giunta a scalzarla dalla sua posizione estrema»3. Per questo, soprattutto, si può mutare di connotazione (da sinistra a destra, in
genere, dato il senso della storia finora) anche rimanendo fermi. Anche senza mutare, cioè, i propri contenuti, per il solo fatto che lo spazio alla
propria sinistra viene via via occupato da altri soggetti politici o ‘si amplia’ includendo
nuovi protagonisti politici (si pensi agli effetti dell’estensione del suffragio sul
panorama delle forze politiche in campo).
Un esempio per così dire ‘di scuola’ di questo processo di trasformazione della sinistra
in destra pur nel mantenimento dei medesimi contenuti ideologici è rappresentato dalla
vicenda della sinistra (o meglio delle successive sinistre) ottocentesca nel suo successivo
sviluppo dal movimento liberale a quello democratico a quello socialista. Il liberalismo,
infatti, nasce sul finire del XVIII secolo come forza esplicitamente ‘rivoluzionaria’:
nella sua contrapposizione radicale all’ancien régime in nome dell’eguaglianza giuridica e di un’uniforme libertà di traffico rappresenta
senza dubbio l’estrema sinistra in quel contesto (cioè in quello specifico spazio politico per il resto monopolizzato dalle rappresentanze
del privilegio). Ma pur rimanendo relativamente uguali a se stessi (pur mantenendo
fermi, in qualche misura, i propri connotati ideologici), i liberali si sono trovati
ben presto spinti al centro dall’emergere del movimento democratico e dei radicali, i quali rivendicavano, appunto,
l’estensione del suffragio, cioè l’ampliamento di quella cittadinanza politica che
i liberali avevano interpretato in forma restrittiva e che avevano conquistato pienamente
solo per una limitata élite. Una collocazione a sinistra, questa, a sua volta provvisoria,
dal momento che anche i democratici si trovarono ben presto spinti, a loro volta,
al centro (con i liberali alla destra), dall’emergere del socialismo, che rivendicava
giustizia non solo giuridica ma sociale ed eguaglianza non solo politica ma anche
economica. È – come si vede – l’irruzione di nuovi soggetti sulla scena politica a
ricollocare lungo l’asse ‘Destra/Sinistra’ individui, movimenti, partiti, correnti
ideologiche.
Destra e sinistra non sono dunque qualità di determinati soggetti o di determinate
istituzioni politiche. Non sono attribuzioni stabili, pertinenti all’ideologia o alla
pratica politica. Il fatto di essere stati una volta di sinistra (di essersi collocati
‘a sinistra’) non significa che lo si sarà in permanenza. Si può diventare ‘di destra’
non per una ‘conversione’, ma proprio in forza del proprio sostanziale ‘continuismo’.
È il caso di François Guizot, principale esponente dell’opposizione antiborbonica
su posizioni liberal-democratiche e fautore della ‘rivoluzione’ del 1831 (dunque su
posizioni che si potrebbero definire, nel contesto, di ‘sinistra radicale’), il quale
nel breve arco di vita della monarchia orléanista vide mutare la propria collocazione
per finire, nel 1848, a essere identificato come ‘capo del partito conservatore’ (dunque,
naturaliter, ‘di destra’) per il suo testardo rifiuto di ampliare il suffragio e per questo divenuto
principale bersaglio dei nuovi rivoluzionari. È il caso, d’altronde, della parte maggioritaria
della socialdemocrazia tedesca, passata, nel convulso approdo alla repubblica di Weimar,
dall’opposizione al Kaiser alla sanguinosa repressione del movimento spartachista. E gli esempi si potrebbero
moltiplicare perché, come si è visto, destra e sinistra sono, appunto, denominazioni
dello spazio politico. «Metafore spaziali», le definirà l’antropologo culturale Jean
Antoine Laponce4, esattamente come ‘alto’ e ‘basso’, ‘prima’ e ‘dopo’, ‘vicino’ e ‘lontano’, «indispensabili
per organizzare i nostri pensieri e le nostre credenze» e radicati all’incrocio tra
biologia e cultura5. Metafore, tuttavia, di uno spazio particolare.
Innanzitutto uno spazio ‘pluralistico’: uno spazio in cui si presuppone che esista
‘statutariamente’ una pluralità di soggetti. Un unico soggetto che monopolizzasse
tutto lo spazio politico cancellerebbe effettivamente non solo la distinzione tra
destra e sinistra, ma ogni distinzione di luogo; renderebbe l’intero spazio omogeneo
e quindi indistinguibili le posizioni al suo interno. Se tutto lo spazio politico
è occupato da un unico soggetto, in modo ‘totalitario’, questo non può essere definito
né di destra né di sinistra (e questo dell’occupazione totalitaria dell’intero spazio
politico è in effetti, a ben guardare, il sogno più o meno segreto di molti propugnatori
del ni droite ni gauche di più o meno prossima provenienza ‘tradizionalista’).
È poi uno spazio strutturato sulla dimensione della superficie, secondo cioè l’immaginario
spaziale del pensiero ‘democratico’ moderno. In uno spazio sferico, o comunque circolare
e non lineare, infatti – in uno spazio ‘non newtoniano’ –, lo si è visto, la distinzione
‘Destra/Sinistra’ è concettualmente impensabile (ognuno è sempre, contemporaneamente,
alla destra e alla sinistra di ogni altro). Se però concepiamo uno spazio piano, costituito
da una superficie, delimitato (nel senso che ne sono di volta in volta visibili i
confini e che è di volta in volta chiaro chi vi si colloca all’interno) – uno spazio
‘euclideo’, insomma –, abitato da più di un soggetto, allora destra e sinistra assumono
compiutamente la propria caratteristica di denominazione dei luoghi in cui questi soggetti si collocano.
In uno spazio così concepito, ha perfettamente senso dire che la tale forza politica
occupa un luogo collocato a destra rispetto alla talaltra posta in un luogo collocato a sinistra. Lo stesso fenomeno della ricollocazione delle ‘vecchie sinistre’ su posizioni via
via definibili di centro e di destra, cui si è fatto cenno più sopra (quel fenomeno
che ha fatto affermare che le destre di oggi altro non sono che le sinistre di ieri,
‘sinistre invecchiate’6), potrebbe essere concettualizzato proprio come l’effetto di un progressivo allargamento
dello spazio politico, della dilatazione dei confini di esso fino a includere (nel
concetto di cittadinanza politica) sempre nuovi soggetti e sempre nuove prerogative.
Intesa in questo senso, come parte di una topografia politica –e non come espressione di un’improbabile ontologia politica –, come criterio di organizzazione dello spazio e non come qualità intrinseca dei
soggetti, la coppia categoriale ‘Destra/Sinistra’ sembra resistere alla sfida dell’‘argomento
empirico’ così come resiste alla sfida della variabilità storica. L’inquietudine e
l’instabilità dei soggetti, la loro incapacità di consistere stabilmente in un unico
luogo dello spazio politico e la tendenza, nel corso del tempo, a mutare di collocazione
non sembrano privare di senso o di valore la denominazione dei luoghi stessi. Il movimento
dei soggetti, di per sé, non trasforma la qualificazione dei territori politici da
cui esso parte e verso cui esso muove7. Così come la crescente mobilità umana dalle campagne alle città, o dalle valli alle
pianure, non cancella la distinzione fisica e concettuale tra centro e periferia o
tra alto e basso, allo stesso modo le transumanze intellettuali dall’uno all’altro
capo del panorama politico, e le trasgressioni dei confini politici, non sono di per
sé tali da incidere sulla struttura di quello spazio e da cancellarne i criteri di
orientamento. Essa forse potrà perdere parte della propria operatività pratica, in
un tempo in cui il movimento si esaspera, rendendo per molti aspetti vorticoso il
nomadismo politico. Ma ciò ha a che fare con l’uso che di tale distinzione si può
fare, non con la sua natura, e tanto meno con la sua legittimità. Con un aspetto cioè
estrinseco e non intrinseco alla sua dimensione concettuale.
Usi descrittivi, prescrittivi e valutativi dei termini destra e sinistra
Il che, tuttavia, ci porta a una seconda difficoltà inerente alla questione della
validità della distinzione tra destra e sinistra nell’ambito del discorso politico:
l’esistenza di una pluralità di usi di essa non sempre distinti tra loro con precisione.
Una sostanziale incertezza sul livello epistemologico entro cui ci si muove quando
se ne propone l’impiego e il conseguente rischio di sovrapposizione tra ambiti epistemologici
diversi e talvolta incompatibili.
Anna Elisabetta Galeotti, in una serie di interessanti «riflessioni analitiche [sull’]opposizione
destra-sinistra»8, ha indicato per lo meno tre diversi «contesti d’uso» dell’antinomia in questione,
costituiti rispettivamente da tre differenti ordini di linguaggio: un primo contesto
costituito dal linguaggio ordinario (in cui i due termini «fanno parte del senso comune dei cittadini, degli uomini politici,
dei partiti, della stampa»9); un secondo contesto definibile come quello dottrinario-ideologico, «cioè il luogo di formazione, produzione, revisione delle ideologie, nel senso debole
del termine in quanto rappresentazione della realtà implicante un appello pratico»10; infine un terzo contesto, costituito dal linguaggio scientifico e rappresentato
dall’analisi storica, sociologica e politologica, in cui «lo statuto logico della dicotomia s’identifica propriamente con il tipo-ideale
weberiano»11.
Nel primo contesto d’uso, i termini ‘destra’ e ‘sinistra’ partecipano dei caratteri
propri di ogni ‘gioco linguistico’: la mobilità e l’indeterminatezza, il riferimento
a una «famiglia di significati imparentati tra loro, ma anche mai identificati», sempre
affini ma mai precisi, allusivi e aperti. In questo ambito, la legittimità è garantita
dall’effettività, il fondamento dall’uso: «finché i parlanti sapranno usare i due
termini e sapranno capirli, porre la domanda sulla loro utilità sarà fuori luogo»12. Nel secondo contesto – quello ideologico – la forma descrittiva («all’indicativo») cela in realtà il carattere sostanzialmente prescrittivo («all’imperativo») dei termini ‘destra’ e ‘sinistra’, i quali assumono così carattere
di veri e propri ‘valori’ entrando a far parte della sfera del ‘dover essere’. In
questo caso, criterio di validità dell’uso è la sua efficacia: la capacità dei contrapposti
modelli normativi di ottenere adesione e di orientare comportamenti. Nel terzo contesto,
infine – quello dei linguaggi ‘scientifici’ –, il carattere idealtipico della dicotomia
la colloca per sua natura entro una dimensione extrastorica (prescinde dalla variabilità dei fatti storici
per selezionarne i fattori essenziali comuni), separata tanto dagli usi linguistici
comuni quanto dalla variabilità dei conflitti ideologici, unica condizione di operatività
scientifica ai fini della comparazione e della spiegazione di fenomeni complessi.
«Il tipo ideale – conclude la Galeotti – non è né una descrizione della realtà, né
un’ipotesi interpretativa, ma piuttosto il terreno per orientare le ipotesi. Questo
fatto implica che non può essere falsificato empiricamente ma piuttosto si può rivelare
più o meno fecondo nell’orientare ipotesi (queste sì falsificabili)»13.
Ora, è accaduto spesso che si sia impiegato il venir meno delle categorie di destra
e sinistra entro un determinato contesto d’uso per proclamarne l’estinzione in altri
e incongruenti contesti. Così avviene quando sulla base della constatazione empirica
che nel linguaggio comune ‘destra’ e ‘sinistra’ hanno mutato di applicazione e di
significato, o che non hanno mai avuto un significato univoco (cosa, come si è visto,
inevitabile e scontata), si conclude che esse non possiedono alcuna validità scientifica
(esempio di falsificazione di un idealtipo sulla base di osservazioni empiriche).
Così avviene, soprattutto, quando dalla constatazione di un allentato valore ideologico
dei termini (di una loro diminuita vis prescrittiva) si pretende di derivare la messa fuori causa delle categorie in questione
tanto sul piano del linguaggio comune (che invece continua nonostante tutto a usarle)
quanto su quello dell’analisi scientifica.
Il fenomeno è ancor più evidente se si tiene conto della tripartizione bobbiana relativa
ai modelli classificatori. Ogni tipologia, afferma infatti Bobbio14 – e quella tra destra e sinistra è indubbiamente una tipologia –, può essere impiegata
in tre usi diversi: un ‘uso sistematico’ o descrittivo, un uso ‘assiologico’ o prescrittivo
e un uso ‘storico’. Nel primo caso la classificazione è impiegata al solo scopo di
«dare ordine ai dati raccolti»15 o – nello specifico – di offrire «una rappresentazione sintetica di due parti in
conflitto»16; nel secondo caso la stessa tipologia è impiegata per stabilire fra i tipi o le classi
ordinate sistematicamente un certo ordine di preferenza, che ha lo scopo di suscitare
negli altri un atteggiamento di approvazione o di disapprovazione, e quindi di orientare
una scelta; nel terzo caso, infine, la classificazione serve non solo per ordinare
concettualmente i diversi tipi o classi e per compararli ‘sincronicamente’, ma anche
per organizzarli nel corso del tempo, diacronicamente, secondo un ordine di sviluppo
storico.
Anche in questo caso è assai facile sovrapporre un ordine di discorso a un altro,
oppure assolutizzarne uno per farlo valere anche nei confronti degli altri. Così il
venir meno del connotato assiologico della distinzione tra destra e sinistra prodotto dall’appannarsi della forza d’attrazione
ideologica dei rispettivi campi è stato più volte impiegato per sostenerne l’obsolescenza
anche dal punto di vista sistematico. L’indebolirsi del potere prescrittivo della distinzione è stato sovrapposto al suo valore descrittivo (è il caso dell’argomento qui denominato ‘empirico’), o addirittura allo stesso uso
storico (si pensi all’argomento qui definito ‘schmittiano’ o, a maggior ragione, a quello
‘temporale’, i quali dall’affermazione dell’inefficacia ‘qui e ora’ dell’antitesi
deducono una sorta di invalidità assoluta, estesa a ogni tempo). L’‘arte della separazione’,
così preziosa per il pensiero liberale, sembra non avere cittadinanza in questo campo.
L’unico argomento che sembra sfuggire a questa sorta di ‘cortocircuito’ tra ordini
differenti di discorso e tra diversi usi della classificazione è quello cosiddetto
‘spaziale’, oltre, naturalmente, a quello tradizionalista. Ma in entrambi questi casi
si esce dalla confutazione per così dire ‘per linee interne’ dell’antitesi ‘Destra/Sinistra’
– si esce cioè da quello che si è definito il polo tematico ‘storicista’ – e si rientra
nell’altro ordine di argomentazione: quello fondato sulla falsità strutturale della
scissione ‘Destra/Sinistra’ e sulla contrapposizione allo statuto concettuale che
la fonda (considerato ‘di sinistra’) di un nuovo statuto, radicalmente altro. Così
l’argomento ‘spaziale’ rifiuta la concezione ‘superficiale’ e ‘piana’ dello spazio
politico (considerata troppo compromessa con l’‘orizzontalità’ della visione democratica)
in nome di una concezione ‘volumetrica’ e ‘sferica’ di esso, più vicina alla visione
‘verticale’ propria dell’ordine tradizionale. Così ancora il rifiuto evoliano della
scomponibilità del cosmo politico in campi contrapposti, e la sua proclamazione del
carattere fittizio di ogni immagine dualistica, risponde al principio organicistico
che vede nell’unità il carattere essenziale del ‘politico’. Ma qui, ancorché confutata,
l’antitesi ‘Destra/Sinistra’ appare piuttosto confermata come una sorta di ‘metafisica
influente’ dell’intero discorso: è la stessa natura organicamente ‘di destra’ – di
destra ‘originaria’, quella tradizionalista – dell’approccio che porta a condannare
come ‘di sinistra’ (modernizzante, atomistica, democratica) l’immagine del ‘politico’
che sottende la possibilità di concepirlo come ordinato assialmente intorno a un’antitesi.
Destra e sinistra come ‘categorie cardinali’ della modernità politica
Come che sia – che vengano usate in chiave descrittiva, assiologica o storica, che
il contesto sia il linguaggio comune, l’ideologia o la scienza –, è certo comunque
che ‘destra’ e ‘sinistra’ non possono essere trattate come semplici ‘predicati’ delle
forze politiche concretamente operanti sul piano storico. Non sono cioè le categorie
a essere connotate dai soggetti concreti ma, all’inverso, sono i soggetti a venire
qualificati e ‘denominati’ dalle ‘proprietà’ dello spazio politico che di volta in
volta occupano o in cui finiscono per collocarsi. Si profila allora, in contrapposizione
all’approccio che ‘soggettivizza’ la coppia antitetica fino a farne dipendere la sorte
dalle mobili vicende dei soggetti che dovrebbero ‘incarnarne’ i termini, una seconda
alternativa: la necessità di trattare le costellazioni concettuali relative rispettivamente
ai poli contrapposti della ‘destra’ e della ‘sinistra’ esattamente come «strutture
preesistenti alla frammentazione dei soggetti» – l’espressione è di René Rémond17 –, trascendenti, entro certi limiti, i soggetti stessi e le loro esperienze concrete,
e come tali suscettibili di dare ordine al discorso politico sottraendolo all’occasionalità
dell’istante per istante. ‘Concetti politici’, dunque, nel senso attribuito a questa
espressione da Reinhart Koselleck nella sua Begriffsgeschichte, capaci di esprimere e organizzare contesti storici assai più ampi di quelli identificati
nel breve volgere dell’esistenza di singole forze politiche, di singoli soggetti individuali
o collettivi. Categorie, dunque, trans-storiche (tali cioè da sopravvivere e attraversare
molteplici esperienze nel tempo e nello spazio), ma non meta-storiche (non del tutto
indipendenti dal contenuto dell’esperienza storica, soprattutto se intesa nella dimensione
della durata). Destra e sinistra non sarebbero, cioè, ‘idee platoniche’, astratte
categorie dello spirito eternamente valide al di fuori di ogni tempo e di ogni spazio,
tali da fondare un’inedita ‘metafisica politica’. Sarebbero piuttosto la sintesi concettuale
di esperienze storiche di medio e lungo periodo; prodotti ‘culturali’ nel senso più
proprio del termine, in quanto sintesi sedimentata di esperienze e di valori politici,
capaci di organizzare il discorso e di orientare analisi e pratica politica entro
un ciclo storico ampio ma delimitato (nel caso specifico l’ambito storico di operatività
del concetto è, lato sensu, la modernità).
Le categorie e i concetti – in particolare quelli politici – hanno archi temporali
di vita più lunghi rispetto agli individui e ai soggetti che li hanno inaugurati e
inverati. Essi continuano a orientare e ordinare l’esperienza anche dopo la scomparsa
di questi, poiché esprimono strutture culturali, forme dell’agire, valori che abitano certo il tempo storico, ma un tempo storico di ampio raggio, per certi
aspetti indifferente alle vicende quotidiane e per questo capace di dar loro ‘senso’
e ‘valore’. Tali sono, appunto, i concetti di ‘sinistra’ e di ‘destra’. Essi esprimono
una forma del discorso politico (una condizione della sua razionalità) propria della modernità – o, se si preferisce, costituiscono la toponomastica tipica del ‘paradigma politico
dei moderni’18 –, giacché appartiene alla modernità la concezione spaziale e orizzontale della politica
(l’organizzazione delle differenti posizioni politiche entro uno spazio, un’arena,
all’interno della quale i soggetti sono disposti sull’asse orizzontale delle opinioni
anziché su quello verticale delle gerarchie), che sta al di sotto di tale concettualizzazione
‘topologica’. E appartiene alla modernità la serie di dicotomie (espressione sul terreno
dei concetti di conflitti storici determinati) intorno alle quali la distinzione si
articola. Destra e sinistra sarebbero, in altri termini, la sintesi, sul piano delle
categorie, delle molteplici vicende storiche di un ciclo iniziatosi all’incirca quattro secoli or sono (con la rottura della concezione organicista
e naturalista della politica e con la sua umanizzazione e razionalizzazione), di cui
si discute, oggi, il supposto esaurimento. La loro ‘crisi’ avrebbe dunque senso solo
entro una teoria della crisi della modernità o, il che non è molto lontano, entro
una teoria della crisi di quella razionalità politica costitutiva, appunto, del paradigma
politico dei moderni.
Questa la natura dell’antitesi. Ma quali i contenuti di queste categorie cardinali della razionalità politica? Di quali elementi sono composte, e da quale ‘paesaggio
ideologico’ è connotato lo spazio politico qualificato, di volta in volta, come ‘a
...