Introduzione
Verso un «genocidio finanziario»: questo il titolo di un crudo reportage sulla crisi greca, firmato da Günter Tews, un avvocato austriaco che vive tra Vienna
e Atene1. A fianco, l’immagine di un uomo che si dà fuoco nel centro di Salonicco: ha un megafono
appeso alla spalla sinistra, una tanica di benzina nella mano destra mentre le fiamme
lo avvolgono dalle gambe al torace. Sotto, la descrizione del centro di Atene, con
le centinaia di vetrine vuote e i tipici cartelli gialli con la scritta Enoikiàzetai in rosso: Affittasi. «Un terzo delle 165mila imprese commerciali è fallito – precisa
Tews –, un terzo non è più in grado di pagare gli stipendi»2. «Nel 2004, solo sette anni fa – annota un altro testimone, commentando gli effetti
della cura mortale imposta alla Grecia dalla cosiddetta ‘troika’ formata dal Fondo
monetario internazionale, dalla Bce e dall’Unione Europea –, il mondo guardava con
ammirazione gli atleti sfidarsi tra i monumenti di Atene nella XXVIII edizione dei
Giochi Olimpici estivi. Oggi, molti ateniesi si affannano sui cassonetti della spazzatura,
contendendo ai profughi gli scarti dei più fortunati»3.
C’è, in questa immagine impietosa dell’Europa che strangola la Grecia fino a provocarne
la «morte sociale», in questa sorta di matricidio silenzioso, un connotato simbolico
devastante. È come se il lungo ciclo della civilizzazione (più di tre millenni) si
fosse riavvolto d’un colpo riportandoci là dov’era incominciato, e lasciando la vita
nuda. Esposta, com’era all’origine, prima che le mura della polis incominciassero a delimitare
lo spazio dell’incivilimento e della protezione. Le notizie sul numero crescente di
«neonati denutriti», provenienti non dal Biafra o dal Burkina Faso ma dal Peloponneso;
il racconto degli insegnanti delle elementari del Sesto distretto di Atene («Our pupils faint due to starvation. I nostri allievi svengono per la fame. Non hanno nemmeno i soldi per comprare il
cibo alla mensa scolastica»4); gli allarmi provenienti dagli ospedali, dove «sempre più spesso non si è in grado
di eseguire interventi chirurgici per la mancanza di materiali»5, parlano appunto di questo. Di una sorta di «grado zero» della civiltà, configuratosi
in quella che ne fu la culla. E generato non da un cataclisma naturale né da un evento
bellico, una guerra, un’invasione barbarica, un conflitto civile, ma dall’operare
implacabile quanto cieco di un meccanismo «fisiologico» di quella stessa civiltà.
Certo, l’involucro istituzionale che quel processo d’incivilimento era andato elaborando
e consolidando non si è dissolto. Le forme della democrazia occidentale, i suoi organi
rappresentativi, le sue Carte costituzionali, i suoi sistemi giuridici codificati
secondo i canoni della razionalizzazione weberiana, sono ancora tutti lì, ben visibili
al centro della scena. Istituzioni che deliberano, emanano normative e indirizzi,
emettono sanzioni, talvolta anche diktat. Ospitano e promuovono summit. Ma, dalle fessure che sempre più numerose iniziano a incrinare la superficie levigata
dell’ordine formale, sembrano occhieggiare – minacciosi – i riflessi di una sorta
di potere ctonio, impalpabile, invisibile, astratto e impersonale, ma tuttavia feroce.
Impersonalmente crudele, come l’immagine antica del Kràtos, incontrollabile e insaziabile,
refrattario ai tradizionali metodi di addomesticamento: l’argomentazione logica e
il sacrificio votivo.
Sono, potremmo dire, gli originari «demoni» quelli che – ci pare d’intuire – premono,
in fuggevoli incursioni, ai confini del nostro immaginario collettivo: le espressioni
mentali di una dimensione del comando ancora difficilmente riconfigurabile in termini
«umani», e rappresentata tradizionalmente nell’unica forma in cui il «numinoso» (il
«super-umano» o il «dis-umano» per natura) può essere immaginato: quella mitologica.
Con essi dovremo, forse inaspettatamente, tornare a confrontarci ora, nell’ipermodernità
che viene: nel mondo interamente ricostruito e «fabbricato», apparentemente emancipato
da ogni residuo di wildness, e tuttavia riscopertosi d’improvviso fragile, vulnerabile. Esposto, appunto, nell’«era di Techne», alle minacce dei primordiali «demoni del potere» che avevano dominato l’«epoca
del Mythos».
In fondo, era stata l’«invenzione della città» la grande innovazione che aveva avviato
la complessa, ma vincente, pratica di addomesticamento del potere (il superamento
della sua natura belluina). Al riparo delle sue mura, nello «spazio protetto» da cui erano state tenute fuori, sia pure a fatica e provvisoriamente,
le forze del caos, era stato possibile incominciare a porre sotto controllo le potenze
distruttive con cui si era espressa fino ad allora la natura selvaggia del dominio.
E immaginare un modello di ordine a dimensione umana. Due ne erano stati gli ingredienti:
Nomos e Logos. La forza della Legge e la forza della Parola. La capacità di asservire la violenza
naturale a un’idea, quale che essa fosse, di relazionalità stabile. E la possibilità
di riconfigurare discorsivamente («narrativamente») il tempo, secondo una qualche
forma di «ricapitolazione del senso». I due miti fondativi, di Medusa e di Perseo,
da un lato, e delle Sirene e di Ulisse, dall’altro – di cui si occupa questo libro–,
raccontavano appunto questo passaggio dal «numinoso» (e dal «mostruoso») all’«umano»:
questa sorta di transustanziazione del carattere «demoniaco» del potere, da entità
selvaggia e incontrollata a strumento assoggettato a un qualche progetto «civile»,
che ha strutturato il paradigma del Politico nella lunga, lunghissima durata del nostro
processo di incivilimento.
Che accadrà ora, nel punto storico in cui la solidità dei «luoghi» sembra vacillare
e sciogliersi sotto la spinta travolgente dei «flussi»; e quelle linee di confine
che avevano delimitato lo spazio del Logos e la signoria del Nomos farsi incerte e
permeabili? Avevamo tutti (o quasi) provato uno straordinario senso di sollievo, e
di liberazione, al tempo del «crollo dei muri»: di quelli fisici (e politici), sotto
la spinta delle rivoluzioni incruente di fine Novecento; e di quelli economici (e
finanziari), per effetto di quella grande «rivoluzione spaziale» che è la globalizzazione.
Avremmo dovuto sospettare che in quell’improvviso abbassamento delle mura della città,
attraverso le brecce aperte nelle barriere che avevano circondato fino ad allora le
nostre «sfere vitali», qualcosa sarebbe filtrato «dall’esterno» a decostruire la nostra
domesticità faticosamente stabilizzata. E, simmetricamente, che qualcosa sarebbe fuoriuscito
(si sarebbe «liberato») di quanto tra quelle mura era stato posto sotto custodia,
a cominciare da quella potenza assoluta – quella potestas superiorem non recognoscens, per dirla con i classici – che si chiama appunto «sovranità». E che costituisce
l’alfa e l’omega della costruzione dell’ordine interno della civitas.
La sovranità non si è estinta, con l’estenuazione dei vecchi contenitori che ne avevano
delimitato il campo (e neppure, bisogna ammetterlo, infiacchita o addolcita), ma si
è, per così dire, dis-locata. Ha mutato localizzazione e scala, rendendo senza dubbio
difficile rispondere alla domanda «dove abita oggi il Sovrano?», ma facendoci comunque sapere che esso non dorme, né tantomeno si è
estinto; e che, se si deve prendere sul serio l’affermazione di Carl Schmitt secondo
cui «Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione», esso incombe, quotidianamente,
sulle nostre vite. Le influenza e le determina anche se in una forma anomala, impersonale
e astratta, lavorando dall’alto e dall’esterno sui loro presupposti materiali, regolando a proprio arbitrio la nostra ricchezza
o miseria, decretando il nostro effimero successo o il nostro definitivo fallimento
(individuale e collettivo): dichiarando e provocando, appunto, l’«eccezionalità della
situazione» ad ogni apertura di telegiornale, a ogni chiusura di borsa, ad ogni «valutazione»
del rating. E se è diventata impresa ardua (forse impossibile) stabilire dove si decida l’«eccezione», o chi (persona fisica o giuridica) prenda la decisione, è tuttavia certo che l’operatività
di essa, la discrezionalità che quel «potere» assume nello «stato d’eccezione» fattosi
permanente, la sua ricaduta inappellabile sull’ordine delle cose e sulla condizione
delle vite, è totale (e letale).
La pratica inedita di questa sovranità unbounded, svincolata da determinazioni di luogo e di persona, rompe con le più recenti concezioni
immanentistiche della politica, per accogliere un altro suggerimento schmittiano:
con il pensiero democratico otto e novecentesco («la tesi democratica dell’identità
del governante con il governato, la dottrina organica dello Stato e la sua identità
di Stato e sovranità, la dottrina dello Stato di diritto e la sua identità di sovranità
e ordinamento giuridico, infine la dottrina di Kelsen dell’identità dello Stato con
l’ordinamento giuridico»6). E insieme si emancipa dalla tradizionale «teologia politica» fondata sulla trascendenza
di un potere decisionistico e insieme personalistico, incarnato nel corpo di un Sovrano
visibile e identificabile, di cui conserva solo la prerogativa «miracolistica» consistente
nell’essere legibus solutus. Se un precedente può essere trovato, esso sembra piuttosto affondare nelle ombre
di un tempo «pre-storico» o, forse meglio, «pre-olimpico», prima che Zeus affermasse
la propria signoria asservendo le coorti di Cronos e prima che il verbo «dominare»
perdesse la propria radice teriomorfa (la stessa che nella Grecia pre-classica l’associava
alla più celebre e temuta delle Gorgoni), per l’irriducibilità di questa inedita forma
di Sovranità al mondo addomesticato della polis: per questo suo abitare in uno spazio
altro (in un iperuranio) diverso e separato da quello in cui si svolge la vita degli
uomini; per questa sua invisibilità, e tuttavia onnipresenza, con l’intrusività distruttiva
propria del «numinoso»; per questa sua prerogativa di rendere «nuda» la vita («sacrificabile»,
«disponibile» nelle sue radici), con l’impassibilità dei fenomeni naturali, l’implacabilità
degli algoritmi matematici, l’insindacabilità delle disposizioni teocratiche. E anche
per l’irrappresentabilità discorsiva (la non narrabilità) del suo essere e del suo
operare: per la difficoltà a ricondurre a «racconto storico» (dotato di senso) la
sua vicenda.
In questo scenario per troppi aspetti inedito, il libro prova ad avventurarsi con
intento sperimentale, lavorando ai margini, agli estremi delle categorie, in una sorta
di «gioco ermeneutico» con la simbolica pre-classica del potere, con i suoi «demoni»,
appunto, miti, metafore, allegorie, e col racconto primigenio di come essi furono
«ricondotti a noi». Un gioco, lo ripeto, nient’altro che un gioco: una serie di esercizi
d’interpretazione sul materiale simbolico, che come tale si permette di esplorare
tutte le direzioni, i possibili significati sepolti, i paradossi, i doppi sensi e
i sensi vietati, le alcinesche seduzioni e i bruschi risvegli alla realtà, senza pretendere
di formulare un’interpretazione organica capace di rispondere alla domanda «a che
punto è la notte?». Ma nella consapevolezza che molto di quel materiale mnestico che
costituisce il corpo dell’iceberg della cosiddetta «civiltà occidentale» torna ad
acquistare una propria incandescenza. O, per usare un termine più sobrio, una sua
problematicità attiva.
Capitolo primo. Il volto di Medusa. Ovvero il potere e lo sguardo
Hans Kelsen, in un testo del 1926, a un certo punto lascia cadere un’espressione inattesa
per chi lo conosce soprattutto per il suo razionalismo giuridico rigorosissimo. Quasi
gettando per un attimo lo sguardo oltre il confine ben presidiato del suo normativismo
assoluto, nella zona tellurica dei nudi fatti, introduce un’espressione orrifica:
«il volto di Gorgone del Potere».
Vorrei prendere lo spunto da questa particolarmente brutale metafora del potere, perché
ci introduce immediatamente in medias res. Val la pena di rileggere per intero la frase di Kelsen, il quale sta parlando specificamente
della differenza tra approccio giusnaturalistico e positivismo giuridico e, nell’ambito
di questo, della particolarità della sua «dottrina pura del diritto». Scrive appunto
Kelsen: «La questione che occupa il diritto naturale è l’eterno problema di che cosa
si celi dietro il diritto positivo. Ma chi cerca una risposta trova, temo, non la
verità assoluta d’una metafisica o l’assoluta giustizia di un diritto naturale. Chi
solleva il velo e non chiude gli occhi incrocerà lo sguardo fisso della testa di Gorgone
del Potere»1.
La frase è diventata celebre. Ma pochi si sono posti a fondo la domanda: perché la
Gorgone? Perché, tra le tante possibili, proprio questa metafora mitologica, per rappresentare
la dimensione demoniaca che caratterizza il potere allo «stato naturale»? Il potere
«nudo», senza veli, il «volto demoniaco del potere», per dirla con Gerard Ritter?
Certo, è possibile che con essa Kelsen intendesse riferirsi, genericamente, al carattere
selvaggio, belluino, del potere ridotto alla dimensione della pura forza, spogliato
dell’involucro «civile» del consenso e della legge. Che il richiamo alla Gorgone implicasse
un semplice riferimento al «mostruoso». Ma in realtà il simbolismo della Gorgone va
molto al di là di questo livello superficiale. È più complesso. Per certi aspetti
più inquietante, se interpretato più che come metafora come «allegoria» del potere.
Il simbolismo della Gorgone
Come è noto Medusa, il cui nome stesso rinvia al potere riferendosi a «colei che domina», o alla «sovrana»2, è una combinazione di umano e di bestiale tra i più terrifici. Come è stato scritto,
«tra i miti che costellano e sanciscono la legittimità della mitologia classica a
costituirsi quale fondo ed archetipo iniziatico della cultura occidentale, quello
di Medusa è, sicuramente, il più numinoso»3. Le Gorgoni venivano solitamente rappresentate con ali d’oro, mani con artigli di
bronzo, volto leonino con zanne da cinghiale, gli attributi simbolici di tutte le
metafore zoomorfiche del potere, chioma anguicrinita, orecchie allargate (anche questa
tradizionale prerogativa regia). Ma soprattutto era nello sguardo il loro potere mortale.
Jean-Pierre Vernant, che ha dedicato alla Gorgone uno splendido saggio intitolato
La morte negli occhi4, scrive, appunto, che «Medusa è tutta mostruosa, ma concentra negli occhi la sua
arma fondamentale»5. «Fissare Medusa – precisa – è perdersi nel suo occhio, trasformarsi in pietra dura
e opaca. Per il gioco dell’incantesimo, colui che guarda è strappato a se stesso,
privato del proprio sguardo, investito e invaso dalla figura che lo fronteggia»6. Non tanto, dunque, o non solo, il timore del male fisico, della violenza primitiva
e punitiva, della morte, ma la perdita di se stesso, della propria «capacità di guardare»
(di avere uno sguardo proprio), e di «appartenersi»: questo è l’effetto terrifico
dello «sguardo» del Potere. In questa uscita di sé dal proprio controllo, in questa
caduta in balìa dell’altro, anzi, in questa identificazione (dissoluzione, scioglimento)
nell’altro, sta la natura della «pietrificazione». Della trasformazione cioè in materia
inerte, de-soggettivata, estranea ed estraniata.
È, in sostanza, quello del potere in questa accezione primordiale e nuda, un effetto
che acceca ed espropria di sé. Che accecando annette e occupa, come un invasore farebbe
di un territorio. Due caratteristiche – aggiunge Vernant – connotano in forma tipica
la potenza distruttiva di Medusa: la frontalità dello sguardo e il carattere di maschera del volto. La frontalità perché col mostro non si può entrare in rapporto che di fronte, faccia a faccia, mettendo sempre in campo, come nel caso dello specchio, «l’ineludibile
reciprocità del vedere e dell’essere visto», dell’esposizione inevitabile del proprio
sguardo allo sguardo (devastante) dell’altro. È questo l’effetto intrinseco del gorgòneion: l’esperienza di chi si trova ad essere guardato con la stessa fissità del proprio
sguardo atterrito dal volto vivente di un’alterità radicale, assoluta, totalmente
estranea ma nello stesso tempo intrinsecamente connaturata a noi, tanto da renderci
materia inerte, lo stesso nulla che sta dietro il volto di chi ci guarda.
In questo senso Medusa, per Vernant, è una Maschera: «La faccia di Medusa è una maschera
– scrive –; ma non è che la si porti su di sé per mimare una divinità: questa figura
produce l’effetto di maschera semplicemente guardandoti negli occhi. Come se questa
maschera non avesse lasciato il tuo volto, non si fosse staccata da te che per fissarsi
di fronte a te, come la tua ombra o il tuo riflesso, senza che tu possa staccartene.
È il tuo sguardo che è preso nella maschera e che ti cattura», rappresentando «nel
suo ghigno, l’orrore terrificante di un’alterità radicale, nella quale tu finisci
per identificarti, diventando pietra»7.
Mascheramento e pietrificazione
Può apparire strano, ma questi due attributi del gorgòneion (la capacità di produrre la perdita di sé e il carattere di maschera) sono esattamente
i due aspetti che Elias Canetti attribuisce al «comando» nel suo celebre Massa e potere8. Nel riflettere sulla natura e sull’origine dell’«ordine» nel suo significato specifico
di «comando», di forma comunicativa del Potere, non di suo (eventuale) risultato,
nell’interrogarsi sul meccanismo essenziale dell’obbedienza all’ordine (e dunque sull’efficacia
del Potere), Canetti ne individua il connotato originario in quello che egli chiama
il «comando di fuga»: «La più antica forma efficace di ordine – scrive – è la fuga dettata all’animale da chi è più forte di lui, da una creatura estranea a lui»9. La più estranea: il predatore, colui che lo vuole «divorare». E che prima dei denti
ha posto sul corpo della preda il proprio sguardo: «La fuga – prosegue Canetti – è solo apparentemente spontanea: il pericolo ha sempre
un volto, nessun animale fuggirebbe se non sospettasse la presenza di quel volto. L’ordine di fuga è forte e diretto quanto lo sguardo»10.
«Il più antico ordine – è sempre Canetti – impartito già in epoca estremamente remota,
se si tratta di uomini, è una sentenza di morte, la quale costringe la vittima a fuggire.
Sarà bene pensarci quando si parla dell’ordine tra gli uomini. La sentenza di morte
e la sua terribile spietatezza traspaiono attraverso ogni ordine»11. Per questa ragione, poiché l’ordine, per sua natura, rinvia pur sempre, anche alla
lontana, a una minaccia, e perché non permette scostamenti soggettivi, autonomie decisionali,
«l’azione compiuta in seguito a un ordine è diversa da tutte le altre: la si sente
come qualcosa di estraneo, il suo ricordo sfiora appena»12. E come si sente estranea la propria azione (come qualcosa che non ci appartiene,
compiuta da un corpo che non è più in nostro possesso), così si sente estranea l’entità
che sta all’origine del comando: «qualcosa di estraneo – continua Canetti – che deve
essere anche considerato qualcosa di più forte», da cui si è «agiti», e a cui si obbedisce «perché non si potrebbe lottare con speranza
di successo»13.
È, in qualche modo, l’equivalente funzionale, pur con minore intensità, della pietrificazione:
«È noto che gli uomini che agiscono in seguito a comando sono capaci delle azioni
più orribili. Quando l’autorità che li comandava viene abbattuta e li si costringe
a guardare da vicino ciò che hanno fatto, essi non si riconoscono: ‘Io non ho fatto questo’, dicono, e non è affatto vero che siano sempre consapevoli
di mentire»14.
Se, d’altra parte, l’ordine di fuga determina il movimento, coatto, l’altro ingrediente del Potere, la maschera, implica l’immobilità. L’inibizione della «metamorfosi spontanea e incontrollata». L’irrigidimento nello
spazio e nel tempo. La maschera è il vero volto che il Potere mostra. È il volto del potere, esattamente come il volto inguardabile
di Medusa. Nessun potere – ci dice Canetti – è mai «nudo»: nuda dev’essere, al contrario,
la vita che esso sottomette a sé. Nuda perché «smascherata». Esposta. Disponibile.
Il Potere, al contrario, si presenta «mascherato», e dunque minaccioso: «La maschera
minaccia con il segreto che si accumula dietro di lei. Poiché non è possibile leggere
su di lei il mutare dell’animo come su un volto, si sospetta e si teme dietro di lei
l’ignoto [...] ‘Io sono proprio ciò che vedi’, dice la maschera, ‘e dietro ciò che
temi’». Essa affascina, e al tempo stesso pone una distanza: «È ciò che non si trasforma,
immutabile e durevole: è ciò che resta immobile nel gioco sempre mutevole delle metamorfosi»15.
Chi l’indossa, ne è contaminato e contagiato. Simulando perennemente, il potere che
si maschera sospetterà, perennemente, la simulazione degli altri. Sarà ossessionato
paranoicamente dall’ansia dello smascheramento (dal timore che la propria simulazione
sia smascherata, e dal sospetto della simulazione altrui che dev’essere, sempre, «smascherata»).
La paranoia, la patologia più affine al Potere, presenta due caratteristiche simmetriche
e congiunte: «l’una – scrive Canetti – è definita dissimulazione dagli psichiatri»,
e non è altro che la simulazione di ciò che non si è con un livello di dettaglio allucinante;
«l’altro è un incessante smascheramento di nemici. I nemici sono ovunque, sotto le
vesti più pacifiche e inoffensive, e il paranoico, che ha il dono di penetrare i pensieri,
sa benissimo cosa si nasconde dietro quelle parvenze. Egli strappa la maschera dal
volto dei nemici, e si scopre che in fondo il nemico è sempre uno e il medesimo. Il
paranoico è interamente schiavo dell’antimutamento, più di ogni altro uomo, e in ciò
mostra di essere – conclude Canetti – un potente più irrigidito»16.
La distruttività di Kràtos
Dietro l’allegoria della Gorgone, dunque, sta la constatazione di una connotazione
originaria patologica del potere nella sua forma elementare. Di una sua intrinseca minacciosità, pericolosità
– diciamolo pure – mostruosità. Il suo collocarsi sul confine del disumano; e la sua tendenziale vocazione a provocare
la disumanizzazione di chi vi entra in relazione, sia esso chi lo esercita o chi lo
subisce; il titolare o il destinatario di esso. Non per nulla Primo Levi usa quasi
la medesima espressione di Kelsen, «chi ha visto la Gorgone»17, per designare la figura del «mussulmano» ad Auschwitz18, di chi, come annota Giorgio Agamben, «ha ‘toccato il fondo’, è diventato non-uomo»,
gli «uomini-mummia» di Carpi, i «cadaveri ambulanti» di Amery19, testimoni «impossibili» di come il potere assoluto, totale, estremo sui corpi abbia
spento le anime, prove non più viventi dell’incomunicabile (pietrificata e pietrificante)
verità di «quanto ad Auschwitz è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo»20. Medusa, esattamente come il sottofondo ctonio del potere – lo dice bene Agamben
– è l’inguardabilità di ciò che non si può fare a meno di vedere, là dove il potere
si esprime nella sua forma «pura».
Di tutto ciò era in buona misura consapevole la concezione del mondo classico. Quella
radice per così dire «infera» del potere (di ogni potere), quel sostrato tellurico
feroce, pericoloso, selvaggio di esso, era parte integrante del «paradigma politico
degli antichi». Visibile fin dal lessico. Il greco ne possiede due espressioni linguistiche:
una più debole, e generica, o se preferite più ‘nobile’, arché, che rinvia semplicemente al fatto del «primeggiare», dell’essere il primo della
fila, di «guidare», nonché all’atto del comandare, svolgere il ruolo del «principio»
(in questo caso principio-guida, funzione che ordinando – dando ordini – ordina, produce
ordine); e l’altra, invece, forte, kràtos, radice di tante forme di potere e di governo21.
Questa seconda accezione lessicale del Potere, il Kràtos – ci dice Emile Benveniste nel suo celebre Vocabolario delle istituzioni indoeuropee22 –, contiene nella sua stessa radice originaria, primordiale, il riferimento all’idea
di una forza brutale, alla durezza, alla crudeltà, e anche al combattimento, al prevalere
violentemente sugli altri. In contesto linguistico omerico, specifica Benveniste,
«il Kratos è la facoltà di averla vinta in una prova di forza [...] Indica la superiorità
di un uomo, sia che affermi la sua forza su quelli della sua parte o sui nemici»23, superiorità che dal campo di battaglia si trasferisce anche all’assemblea, dove
il kràtos è, appunto, «il potere che esercita il re o il capo»24.
L’aggettivo da esso derivato, kraterós, non ha (Benveniste lo sottolinea) sempre e solo un connotato elogiativo, non indica
solo una qualità da eroe (audace, forte, potente, atto al comando, ecc.), ma più spesso
una valenza negativa: Ecuba, moglie di Priamo, definisce kraterós Achille dopo che questi ha ucciso suo figlio Ettore e ne ha straziato il cadavere,
e qui – nota Benveniste – l’espressione «non è certo un omaggio al suo valore»25 ma allude piuttosto alla brutalità («eroe brutale»), alla ferocia, all’eccesso nell’uso
della forza, in qualche modo «disumano». Kraterós, d’altra parte, è un attributo di Ares, il dio mortifero, collegato ad altri epiteti
che in genere lo qualificano: «omicida», «funesto ai mortali», «distruttore». Spesso
l’aggettivo è collegato ad animali (il leone che divora i figli della preda), o a
malattie e a ferite. D’altronde l’altro aggettivo greco con la stessa radice, kratù, significa «duro», inteso come proprietà fisica, ed è l’equivalente semantico del
gotico hardus (tedesco hart, inglese hard) come appunto duro è ciò che colpisce, che lascia il segno, che richiama l’idea di
rudezza, di «durezza di cuore», di «indurimento» del corpo e dell’anima (il «cratere»
è il segno concavo lasciato sul terreno da un urto violento, o la coppa prodotta dalla
percussione violenta su una lamina metallica).
D’altra parte nella Teogonia esiodea, Kràtos, inteso qui come nome proprio, come personificazione, è figura tutt’altroche
rassicurante. È indicato come figlio del titano Pallante e della dea fluviale Stige,
un’oceanina che aveva aiutato Zeus nella battaglia contro i titani e che per compenso
aveva ottenuto che i figli Bia e Krato fossero reclutati dal signore degli dei come
valletti. Ora, il nome di Stige, la genitrice di Krato, non era foriero di particolare
simpatia: aveva dato il proprio nome al fiume infernale che girava nove volte attorno
all’Ade, e godeva del discutibile privilegio per cui nel suo nome gli dei pronunciavano
i loro giuramenti (lo spergiuro costava loro 100 anni di decadenza dalla divinità).
Stige era anche il nome di una fonte in Arcadia, «la cui acqua gelida era velenosa
e corrosiva», e il termine greco styx (latino stigem) significava propriamente «ribrezzo», «orrore», «abominio», «odio», mentre il verbo
stygèo significava sputare, «specialmente in segno di avversione».
Suoi figli, oltre a Krato e a Bia (la Forza), erano Nike (la Vittoria) e Zelo (lo
Zelo, appunto), fratelli, dunque, di Krato, il quale figura, con Bia, nel Prometeo incatenato come giannizzero che esegue l’ordine del Capo, Zeus, di inchiodare alla celebre rupe
nel Caucaso il Titano caduto in disgrazia per aver donato il fuoco agli uomini. Una
figura quantomeno non simpatica.
Altri mostri: Leviathan...
E infatti i greci se ne tenevano il più possibile alla larga, anche quando ne riconoscevano
un’inevitabile utilità. Socrate teorizzava la necessità, per il saggio e il giusto,
di non lasciarsi coinvolgere direttamente nelle lotte di potere (o per il potere):
«È necessario che chi combatte veramente a favore di ciò che è giusto – si legge nell’Apologia –, se intende salvare la vita anche per breve tempo, conduca una vita privata e non
pubblica». E preferiva, di conseguenza, trasferire la facoltà di produrre una vita
ordinata nella Polis dalla sovranità degli uomini alla maestà della Legge «al cui
potere (solo) il cittadino deve sottomettersi». Non per nulla Socrate rappresenta
l’esempio supremo di chi si sottomette spontaneamente alla legge senza bisogno della
minaccia dell’uso della forza (anzi, che rifiutandosi di sfuggire alla condanna a
morte, vanifica l’uso «esterno» della forza).
Platone, per altro verso, era disposto ad affidare quell’entità pericolosissima che
è il potere solo alle mani (relativamente fidate) del filosofo-re, tanto lo temeva.
Ed Epicuro sentenziava che se si intende perseguire la felicità «bisogna liberarsi
una volta per tutte del carcere delle occupazioni quotidiane e del potere politico». Su su fino ad Agostino, che nel De Civitate Dei riconosce l’origine «omicida», anzi peggio: «fratricida», della Civitas (la prima città è fondata dalla stirpe di Caino): la «civitas terrena», opposta alla
città celeste, l’una fondata «sull’amore di sé, portato fino al disprezzo di Dio»,
l’altra «sull’amore di Dio, portato fino al disprezzo di sé». La città terrena, in
cui si mescolavano, sin quasi a divenire indistinguibili, civitas homini e civitas diaboli.
Tutti, comunque, concludevano affermando, in vari modi e misure, la necessità di un
controllo dell’«etica» sul «potere politico», o quantomeno di un bilanciamento e di
un ricercato equilibrio tra kràtos ed èthos. Di una connotazione più o meno forte del primo da parte del secondo (si pensi al
passo ciceroniano su Alessandro e il Pirata, ripreso poi da Agostino: Remota iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?)26.
È invece ciò che i moderni non possono accettare. La Modernità in politica, si può
dire, nasce esattamente dalla rottura di questo rapporto con la Morale. Dallo sganciamento
dell’ambito del Politico dal campo di controllo e di interferenza delle altre sfere;
e dall’assunzione della dimensione tecnica (dell’adeguatezza dei mezzi ai fini) come
unico criterio di giudizio sull’azione politica. Nasce, dunque, con l’affermazione
di quella che è stata chiamata l’«autonomia della politica» (o «del Politico»): autonomia,
appunto, del discorso del Potere dall’ordinamento morale corrente. Emancipazione della
sfera del potere dalla sfera della Morale.
Machiavelli è questo: riflessione sulle tecniche di conquista e mantenimento del Potere
(quale esso è) senza vincoli esterni. Iusta propria principia. D’ora in poi l’esercizio del Kràtos si svincola dal rapporto con l’Ethos, e diventa
questione di calcolo. Ma è soprattutto in Hobbes che il potere rivendica, anche nominalmente
(e questa volta positivamente), il proprio rapporto genetico con la dimensione del
«mostruoso», senza ammettere limiti. Il Leviatano proviene dritto dritto dal Libro di Giobbe, il testo seminale sulla questi...