capitolo primo.
All’origine di dilemmi ineludibili
1. Al volgere del Novecento molte cose stavano cambiando, in Europa, nella vita economica
e sociale e nella sfera di quella pubblica. Ma non si pensava che sarebbe stata soprattutto
la sinistra a non essere più capace di orientarsi adeguatamente dinanzi alle trasformazioni
in corso. E invece aveva già cominciato ad arrancare, dando l’impressione di aver
smarrito una bussola che le servisse da guida per agire con discernimento alla luce
delle dinamiche e delle nuove sfide che s’erano delineate all’orizzonte.
Eppure, agli esordi del Ventunesimo secolo, la sinistra era saldamente insediata al
timone dei principali paesi europei, con il socialista Lionel Jospin in Francia, il
socialdemocratico Gerhard Schröder in Germania, il laburista Tony Blair in Gran Bretagna,
l’ex comunista Massimo D’Alema in Italia, il leader del Partito del lavoro Wim Kok
in Olanda. E altri esponenti della galassia socialista avrebbero continuato a occupare
la ribalta politica.
Ma soprattutto la sinistra era sicura di poter tracciare le «regole del gioco» con
cui gestire i mutamenti di scenario manifestatisi in seguito a una rivoluzione tecnologica
che stava imponendo nuovi modi di produrre e lavorare, a una globalizzazione dei mercati
su più versanti, alla formazione di un universo politico multipolare, non più segnato
da una preminenza incontrastata degli Stati Uniti, nonché a fenomeni di grande impatto
come il prolungamento dell’aspettativa di vita e il surriscaldamento climatico.
Questa sua certezza era dovuta a un’intima convinzione. Ossia che nessun’altra compagine
politica in Europa possedesse i suoi stessi requisiti e la sua stessa vocazione pedagogica,
per affrontare nel modo migliore le questioni di fondo emerse sul proscenio, con un’impostazione
coerente e lungimirante. Poiché non sarebbe stato più possibile limitarsi ad amministrare
l’esistente o ad apportarvi qualche ritocco, ma sarebbe stato necessario governare
i cambiamenti con una visione progressista costruendo il Nuovo in sintonia con determinati
contenuti valoriali. Altrimenti le istituzioni rappresentative avrebbero corso il
pericolo di venire insidiate da un’avanzata delle tecnocrazie, la speculazione finanziaria
avrebbe preso il sopravvento sull’economia reale e la globalizzazione si sarebbe risolta
in un processo di mercificazione anarchica anziché in un complesso di maggiori opportunità
di sviluppo e di benessere per tutti.
Stando così le cose, il compito della sinistra era perciò quello di elaborare una
cultura politica e di governo che avesse per riferimento nuovi programmi e orizzonti
e creare un insieme di condizioni e garanzie tali da incanalare le innovazioni di
ordine strutturale in funzione dell’interesse collettivo e dell’inclusione sociale.
Insomma, essa avrebbe dovuto agire allo stesso modo di quanto i partiti d’ispirazione
socialdemocratica avevano saputo fare con successo dal secondo dopoguerra in poi,
in base a un indirizzo riformista volto a rendere possibile sia una più ampia partecipazione
dei cittadini alla vita pubblica, sia una redistribuzione più equa dei frutti dello
sviluppo economico capitalistico. Un indirizzo, questo, che adesso, dopo l’eclisse
del «socialismo reale» e la scomparsa di una diversa alternativa sistemica, anche
la sinistra post-comunista aveva finito per abbracciare. Ma adottando naturalmente
alcune appropriate varianti rispetto al passato: così da corrispondere efficacemente
alle rilevanti novità su più fronti maturate negli ultimi tempi.
Occorreva quindi ridefinire il ruolo dello Stato senza cancellarne le prerogative,
declinare i principi della solidarietà senza cadere nell’assistenzialismo, far leva
sui vantaggi che potevano derivare da un sistema di mercato più competitivo ma non
al punto da soggiacere ai suoi intrinseci automatismi, agevolare tanto un prosieguo
della crescita nei paesi avanzati quanto il riscatto di quelli più poveri ed emarginati.
Sarebbero stati dunque, in prima linea, i partiti, i sindacati e i movimenti d’opinione
che si riconoscevano nei motivi ideali e politici della sinistra a dover dare una
risposta valida e confacente agli interrogativi sul futuro che erano comparsi all’alba
del nuovo secolo. Tanto più essi confidavano nella loro capacità di adempiere a questo
compito, in quanto avevano acquisito un ruolo preminente ai piani alti dei principali
paesi dell’Unione Europea. Perciò non erano più costretti a giocare di rimessa, come
negli anni Ottanta, cercando di pagare meno dazi possibile nei confronti delle tesi
ultraliberiste propagate dalla «Nuova destra» americana.
Adesso dovevano però prendere atto, innanzitutto, che non si potevano più esorcizzare
le conseguenze di una dilatazione della spesa pubblica. Nel 1990 quest’ultima era
giunta in Svezia a incidere con una quota del 60 per cento sul prodotto interno lordo;
in Italia e nei Paesi Bassi si aggirava intorno al 54 per cento; in Francia rappresentava
quasi la metà del Pil, in Germania era pari al 45 per cento; e continuava a espandersi.
Era quindi necessario intervenire per arrestare questa spirale, senza usare l’accetta
ma stabilendo quali fossero gli obiettivi irrinunciabili nella gestione della spesa
statale e quali le modalità meno onerose a livello sociale per ridimensionarne l’entità.
Del resto, il fatto che non soffiasse più con tanta irruenza il vento del neo-conservatorismo,
come ai tempi dell’America reaganiana e dell’Inghilterra thatcheriana, non esimeva
la sinistra dall’esigenza di misurarsi con una realtà in via di rapida trasformazione
su percorsi per lo più inediti. In seguito ai cambiamenti del paradigma tecnologico
s’erano infatti aperte larghe brecce nelle vecchie roccaforti del lavoro dipendente;
mentre la crescita di quello autonomo di fascia più alta non era tale da bilanciare
la perdita di posti di lavoro nelle fabbriche. Inoltre, mentre non s’era ancora presa
debita consapevolezza del passaggio (innescato negli Stati Uniti) da un capitalismo
di proprietari-imprenditori a quello di finanzieri-manager, si stentava ancora a cogliere
tutte le implicazioni della liberalizzazione dei mercati e quindi di una competizione
sempre più serrata fra i produttori, che, se da un lato avrebbe generato adeguati
benefici per i consumatori in materia di prezzi e di qualità, dall’altro imponeva
lo smantellamento di monopoli pubblici nei servizi, la messa al bando di certe franchigie
corporative nel settore agricolo e una revisione di determinate prassi socialprotezioniste
invalse a livello nazionale. D’altronde, dopo che le porte dei singoli paesi dell’Ue
non erano più chiuse a doppia mandata o quasi come in passato ma stavano infine aprendosi
in un mercato globale, le imprese non potevano più scaricare sui prezzi parte dei
ragguardevoli contributi sociali a cui erano soggette, o le conseguenze dei ritardi
nella riorganizzazione del mercato del lavoro per riqualificare le maestranze in un
contesto strutturalmente mutevole.
In uno scenario segnato da queste e altre novità di fondo, la sinistra avrebbe dovuto
quindi stabilire quali elementi del proprio patrimonio identitario e quali strumenti
della sua tradizionale strategia fossero dei punti fermi e intangibili e quali invece
fossero ormai caduchi e si dovessero pertanto modificare.
Una riforma del welfare era diventata inderogabile anche a causa dell’invecchiamento
della popolazione, che aveva reso più costosi la sanità e il sistema previdenziale.
Mentre la revisione dell’interventismo economico pubblico era imposta dalle norme
fissate nel febbraio 1992 dal trattato di Maastricht e dalle successive prescrizioni
varate da Bruxelles. Peraltro non erano solo questi gli unici nodi da sciogliere.
C’era quello, non meno spinoso, che riguardava l’atteggiamento da assumere di fronte
agli sviluppi della globalizzazione che evocavano, da un lato, la minaccia di una
finanziarizzazione dell’economia trainata dai principali trust d’Oltreatlantico; e,
dall’altro, il pericolo di una concorrenza insostenibile dei paesi emergenti per via
dell’inferiorità abissale dei loro costi del lavoro rispetto a quelli europei e del
dumping fiscale.
Per giunta, bisognava tener conto di un’ulteriore circostanza: ossia del fatto che
la partita decisiva per procedere sulla via dell’integrazione europea si giocava soprattutto
su una stabilizzazione ed estensione dell’Eurozona. Il raggiungimento di un traguardo
come la moneta unica – considerato un requisito fondamentale per l’unificazione politica
della Comunità europea su basi federali – non solo prescriveva l’allineamento dei
conti pubblici ai parametri stabiliti col trattato di Maastricht, ma comportava anche
l’obbligo, per i paesi membri di Eurolandia e per quelli che vi sarebbero entrati,
di uniformare il più possibile sia il quadro normativo sia l’assetto istituzionale
delle loro economie sulla scorta di precise direttive finalizzate a un’omogeneizzazione
del sistema fiscale e di quello bancario.
Era però evidente come, di fronte alla necessità di staccarsi da certi ormeggi rassicuranti
del passato, nonché dai tabù ideologici degli ex partiti comunisti confluiti in maggioranza
nell’Internazionale socialista, la sinistra riformista avrebbe incontrato una barriera
di ostacoli e resistenze, in quanto si sarebbero rifatti vivi i retaggi di un radicalismo
utopico e massimalista mai del tutto dissoltosi fra i propri militanti. D’altronde
i partiti socialisti avevano avuto la meglio, nelle ultime tornate elettorali, anche
perché sospinti da un’ondata istintiva di rigetto della loro base nei confronti di
una sterzata rispetto alla rotta sino ad allora battuta. Perciò s’erano poi trovati,
una volta investiti di responsabilità dirette di governo in quasi tutti i paesi della
Comunità europea (salvo che in Spagna e in Irlanda), a dover porre mano a una revisione
sia dei meccanismi dello «Stato sociale» sia di alcune misure di matrice keynesiana.
E quindi dinanzi al rischio di perdere parte dei consensi del proprio «zoccolo duro».
Senonché, dato che i problemi sul tappeto erano ormai ineludibili, spettava ai loro
dirigenti, tornati a occupare la «stanza dei bottoni» o riconfermati alla tolda di
comando, da soli o alleati con varie forze di centro-sinistra, il compito di intraprendere
quello che per tanto tempo avevano considerato un compito ingrato: ossia, da un lato,
sfrondare molti rami dello Stato proprietario, ormai secchi; e, dall’altro, ridisegnare
le strutture del welfare se volevano preservarne le fondamenta rispetto alle logiche
e alle geometrie d’un tempo.
Dopo i «gloriosi trent’anni» susseguitisi dal secondo dopoguerra, l’era delle «aspettative
crescenti» era finita o pressoché agli sgoccioli. Un lungo ciclo storico di espansione
quasi ininterrotta era giunto all’epilogo, e di questo i leader della sinistra erano
certamente consapevoli; ma ora si trattava di valutare tutte le implicazioni di questa
svolta e di saper agire di conseguenza. D’altra parte, se non badavano a dar corso
per tempo a determinate riforme strutturali, per quanto scabrose o impopolari fossero,
avrebbero finito per cedere il campo alla destra, col risultato che sarebbero state
assai più amare le medicine da ingoiare e più a fondo avrebbero inciso, nel corpo
dello «Stato sociale», le operazioni di chirurgia finanziaria.
Si trattava perciò di passare da una protezione sociale generalista a forme di tutela
commisurate alle diverse condizioni dei beneficiari; di elevare l’età pensionabile
per le categorie non soggette ad attività usuranti, in modo da contenere una spesa
previdenziale altrimenti esorbitante rispetto alle tendenze demografiche; di adottare,
in caso di mobilità di quanti erano occupati, nuove politiche attive della formazione
e del lavoro. D’altro canto i partiti di sinistra avrebbero corso il rischio, qualora
fossero rimasti ostaggio delle loro fazioni interne arroccate su vecchie posizioni,
di perdere il contatto sia con una massa di giovani per i quali il posto fisso era
già da tempo un’astrazione, e che erano perciò esclusi dal sistema vigente delle garanzie
sociali, sia con una miriade di nuove figure del mondo del lavoro, fuori dal perimetro
d’azione dei sindacati, operanti nell’area delle professioni, dei mestieri e delle
microattività autonome.
A sua volta la transizione post-fordista stava determinando una sostanziale modifica
delle politiche di sviluppo praticate in passato, rivolte soprattutto a un’espansione
quantitativa della produzione imperniata in funzione delle cadenze precipue dei grandi
stabilimenti industriali e, come tale, caratterizzata da un’organizzazione di tipo
verticale, per lo più rigida e non flessibile. Adesso l’economia reale era divenuta
più mobile e ubiqua, risultante da tendenze continuamente mutevoli e da scelte operative
individualizzanti.
Nel frattempo l’avvento, a partire dal gennaio 2002, della moneta unica aveva imposto
ai paesi aderenti all’Eurozona vincoli imprescindibili nell’impostazione dei loro
bilanci, in materia di deficit e di indebitamento. Ciò che era risultato ben chiaro
al momento della sottoscrizione nel 1992 del trattato di Maastricht, ma che per un
certo periodo non tutti i partner avevano preso alla lettera. Perciò la sinistra,
se non voleva restare spiazzata, rispetto a una destra liberal-moderata in genere
più osservante, doveva relegare d’un canto anche su questo versante la cassetta di
certi suoi «arnesi del mestiere» ormai inservibili.
2. Ma esisteva la possibilità per la sinistra di esprimere una linea di condotta univoca?
O di svolgere comunque un’azione politica convergente per il conseguimento di alcuni
obiettivi prioritari? Era questo l’interrogativo di fronte al quale essa si trovava.
Al di là di una formale unitarietà di cartello sul piano politico, esistevano, nell’ambito
della sinistra europea, due differenti modi di intendere e di professare la «missione»
che la ispirava: quello che aveva quale principale punto di riferimento il New Labour
inglese e quello che s’identificava per lo più con il socialismo di marca francese.
Il modello patrocinato da Tony Blair era senz’altro innovativo rispetto alla tradizione
socialdemocratica, in quanto ambiva non solo a ridisegnare i tratti originari del
welfare, ma a costruire una strategia che connotava diversamente i diritti di cittadinanza
politica e sociale nel quadro di una realtà che stava cambiando per tanti aspetti.
A spingere il leader laburista sulla strada di una revisione che trascendeva i parametri
classici della socialdemocrazia era stato, nel mezzo degli anni Novanta, l’intento
di rilanciare un partito altrimenti spossato ideologicamente e reduce da una sconfitta
elettorale dopo l’altra, che l’aveva relegato per diciott’anni nel limbo di una sterile
opposizione. E il suo sforzo era stato ampiamente premiato dall’elettorato inglese
nell’estate del 1997 con un’ondata di suffragi di gran lunga superiore a ogni aspettativa.
Sulla scia di questo clamoroso exploit, dopo tante amarezze e frustrazioni, aveva
preso le mosse un programma di governo tale da prefigurare una nuova prospettiva politica:
quella che sarebbe stata poi definita la «terza via».
Essa era in pratica l’espressione di un filone del riformismo sociale inglese (ispirato
dai postulati del fabianesimo) che attribuiva particolare importanza ai valori della
cooperazione e della solidarietà, ai legami e ai doveri reciproci dei membri appartenenti
a una stessa comunità. Per il resto, era stata importante, quanto alla definizione
della linea d’azione del Labour Party, l’influenza esercitata su Tony Blair (dopo
esser stato eletto nel 1983 alla Camera dei Comuni) da John Smith, l’erede di Neil
Kinnock alla guida del Labour e prematuramente scomparso quando pareva destinato a
insediarsi a Downing Street. Da lui Blair aveva appreso come fosse essenziale prendere
infine le distanze dalla vecchia dirigenza laburista, in quanto a corto di idee e
logorata dai ripetuti rovesci elettorali subiti nei confronti dei conservatori. Un
passo dopo l’altro, egli era così giunto a ridurre il peso altrimenti esorbitante
dei rappresentanti sindacali (come avveniva ai tempi in cui dettavano legge i minatori
di Arthur Scargill), e poi a cancellare dallo statuto del partito ogni riferimento
alla proprietà collettiva e, quindi, alla nazionalizzazione dei mezzi di produzione.
Grazie a questa svolta il New Labour aveva acquisito larghi consensi fra il ceto medio
senza perdere il contatto con la sua base elettorale tradizionale: ciò che gli aveva
consentito di riportare un notevole successo nel 1997 sui conservatori rimasti «orfani»
della Thatcher.
È vero che non tutti all’interno del partito erano convinti che l’adozione di riforme
strutturali sostenuta dal premier britannico potesse risolversi a vantaggio dell’equità
sociale; c’era, anzi, chi riteneva che Blair perseguisse in forme più morbide la politica
economica thatcheriana, a cui egli aveva riconosciuto, del resto, il merito di aver
agevolato il risanamento dei conti pubblici. Per giunta, c’era nello stile e nel linguaggio
volutamente informale del leader laburista, così attento a dare di sé un’immagine
accattivante, e nel suo presenzialismo attraverso i canali dei mass media, più di
un motivo che induceva parecchi osservatori a giudicare eccessivamente disinvolto
il suo atteggiamento e ad attribuire certe sue enunciazioni, più che a un autentico
disegno politico, a finalità contingenti di carattere tattico, se non al suo personale
talento di abile comunicatore.
Tuttavia il credito che Blair era riuscito a conquistarsi non si basava sulla sua
duttilità e sulle sue indubbie capacità di suggestione. Le operazioni di privatizzazione
da lui intraprese, dopo quelle attuate dai Tories, avevano agito da stimolo al sistema
economico; le nuove aliquote dell’imposta sul reddito avevano alleviato anche le condizioni
dei percettori di redditi più bassi e ridato ossigeno alla domanda; e per quanto riguardava
le spese sociali una quota maggiore di prima era stata destinata all’istruzione e
alla formazione, affinché quanti avevano perso il loro posto di lavoro potessero trovarne
un altro e ai più giovani venissero assicurate nuove opportunità di occupazione derivabili
da un contesto economico più aperto e dinamico.
All’elaborazione del programma del New Labour aveva contribuito in modo rilevante
l’apporto teorico di alcune «teste d’uovo», in particolare del sociologo Anthony Giddens,
chiamato poi a dirigere quella London School of Economics che in passato figurava
come il santuario per eccellenza del keynesismo. Per Giddens, che prima di approdare
a uno dei principali templi della cultura europea era stato docente a Cambridge e
al King’s College di Londra, il socialismo vecchio stile aveva fatto il suo tempo.
Di qui la necessità di rivedere i criteri informatori dello «Stato sociale», concepiti
originariamente in funzione di una redistribuzione generale del reddito, per orientarli
verso la redistribuzione del lavoro tra vecchie e nuove generazioni nell’ambito di
una realtà poliedrica e multiforme. E ciò comportava, per forza di cose, l’adattamento
a situazioni economiche non più sostanzialmente stabili, e perciò prevedibili, come
in passato. Ma la mobilità, la ricerca di altre prospettive, anche esistenziali, poteva
costituire – a detta di Giddens – un «atto liberatorio»: poiché equivaleva all’affrancamento
dall’umiliazione dell’assistenza pubblica e a «una nuova etica di vita», più coinvolgente
e comunque necessaria in una società in cui andavano dissolvendosi vecchie abitudini
e tradizioni, legami familiari e forme di solidarietà d’un tempo, e in cui anche il
lavoro stava diventando qualcosa di indefinito, di più discontinuo, al confronto di
prima, poiché il sistema economico non offriva più certezze tali da assicurarlo a
tutti e per sempre.
A differenza di Tony Blair, Lionel Jospin riteneva che si sarebbe dovuto cercare di
mantenere in vita un modello di sviluppo imperniato sul welfare, quale lo si era costruito
dal secondo dopoguerra, e sulle prerogative dello Stato, anche se non al punto di
lasciare tutto come prima. Già funzionario del Quai d’Orsay, formatosi in un’area
tradizionalmente di marca gollista come l’Ena (École nationale d’administration) e
l’Institut d’études politiques, egli contava al suo attivo, oltre a una solida preparazione
amministrativa, una lunga esperienza universitaria quale titolare di una cattedra
di Economia, allorché, dopo aver diretto il suo partito fra il 1981 e il 1988, s’era
trovato poi a raccogliere l’eredità di François Mitterrand. La vittoria elettorale
del giugno 1997, pressoché contemporanea a quella di Blair, che aveva portato Jospin
alla guida del governo, non era stata altrettanto strepitosa. E l’esecutivo da lui
formato aveva dovuto perciò imbarcare anche il Partito comunista, rimasto tale di
nome anche se non di fatto dopo l’uscita dai suoi ranghi della fazione di estrema
sinistra.
Fin dai suoi esordi Jospin aveva dato comunque l’impressione di voler andare diritto
per la sua strada, in base ai propri convincimenti che solo in parte erano condivisi
dagli alleati di governo. È vero che le misure con cui aveva fissato in 35 ore la
durata legale dell’orario settimanale di lavoro e previsto per legge l’assunzione
di 350.000 giovani nel settore no-profit, grazie ai finanziamenti statali, non potevano che essere condivise dai comunisti.
Ma in compenso aveva concesso alle aziende varie agevolazioni in termini tali da trasformare
i provvedimenti varati dal governo in un contributo alla flessibilità del mercato
del lavoro. E se con una mano aveva appesantito il prelievo fiscale sui profitti d’impresa,
con l’altra s’era impegnato a dar corso, sia pure in modo graduale, a ulteriori operazioni
di privatizzazione in nome dall’ammodernamento delle infrastrutture, ad appianare
il deficit di bilancio per rendere possibile un ribasso dei tassi d’interesse, nonché
a sostenere con appositi interventi un rilancio della domanda e dei consumi.
A misura che erano venuti maturando i frutti di questa politica di governo tanto accorta
quanto efficace, l’astro di Jospin aveva cominciato a salire nel firmamento del socialismo
europeo prendendo il posto occupato sino a qualche anno prima da Mitterrand. D’altronde,
fra gli eredi del vecchio leader socialista francese, di cui peraltro non sempre aveva
condiviso l’operato, Jospin era quello che più gli si avvicinava quanto a intuizioni
e capacità politiche, anche se non per carisma personale.
A ogni modo, ciò che aveva contribuito alla sua consacrazione nell’Olimpo socialista
era stato l’impegno con cui, in sede governativa, era giunto ad affrontare il nodo
della rifondazione socialdemocratica, condividendo la necessità per il socialismo
europeo di elaborare linee direttrici meno stantie, più aperte al nuovo. Sia per i
suoi dati anagrafici sia per la sua formazione intellettuale Jospin non apparteneva
infatti alla vecchia scuola socialista; e, anche per temperamento, rifuggiva tanto
dal massimalismo quanto dal populismo tribunizio. Del resto, era avvezzo a misurare
ogni passo con estrema ponderazione e da uomo propenso al dialogo. Tuttavia, era altrettanto
tenace nel sostenere i principi in cui credeva.
Per Jospin il welfare ereditato dal passato doveva considerarsi una conquista irrinunciabile
e la socialdemocrazia non aveva comunque esaurito i suoi compiti, dato che erano comparsi
altri fattori di diseguaglianza al di là di quelli dovuti alla disparità di condizioni
economiche personali e a un diverso grado d’istruzione. Su questo versante il suo
e altri partiti progressisti dovevano perciò impegnarsi a fondo, al fine di corrispondere
alle nuove esigenze e ai nuovi fermenti sociali determinati da una realtà assai più
complessa e disarticolata rispetto al passato. Jospin invocava infatti quello che
definiva un «droit d’inventaire», ossia l’urgenza di analizzare criticamente le scelte
compiute sino a quel momento e di capire cosa andava fatto per non rischiare un declino.
3. Tra l’una e l’altra delle due diverse declinazioni della sinistra riformista impersonate
da Blair e da Jospin, non esisteva comunque un divario tale da escludere la possibilità
di una loro confluenza in funzione di determinati denominatori comuni. Anche perché
analoga era la preminenza che sia il leader laburista inglese che quello socialista
francese attribuivano alla politica, quale volontà e capacità d’azione.
D’altronde, a imporre ai partiti di matrice socialista la necessità di mettere a punto
un indirizzo unitario fu lo smacco subìto dalla sinistra alle elezioni europee del
giugno 1999 per il Parlamento europeo. Contrariamente alle previsioni, lo schieramento
di centro-destra, ancorché estremamente eterogeneo – comprendeva infatti conservatori,
gollisti, cattolico-popolari e liberali –, aveva avuto decisamente la meglio. S’era
venuta così determinando una discrasia fra l’Assemblea di Strasburgo e pressoché l’intero
arco dei governi nazionali, retti in tredici paesi su quindici da forze di sinistra
o da coalizioni di centro-sinistra. Le loro decisioni in sede nazionale sarebbero
state perciò esposte non solo alle reazioni dei mercati, sensibili a qualsiasi pur
lieve scostamento dal «sentiero virtuoso» della stabilità finanziaria, ma anche condizionate
dalle valutazioni espresse da un consesso legislativo europeo in cui era preminente
la voce dei rappresentanti delle forze moderate e della destra.
All’indomani di questa asimmetria politica, lo «stato maggiore» della socialdemocrazia
tedesca s’era fatto avanti per vedere come fosse possibile mediare e ricucire quelli
che sino ad allora erano rimasti i differenti orientamenti in auge nel quadro della
sinistra europea. Sebbene il Partito socialdemocratico (Spd) non avesse più la stessa
consistenza e autorevolezza dell’epoca di Willy Brandt e di Helmut Schmidt, la sua
voce contava pur sempre nel Gotha socialista. Se non altro per essere il partito che
aveva saputo tradurre in risultati tangibili i principi dell’«economia sociale di
mercato», tenuta a battesimo a suo tempo dal cristiano-democratico Gustav Erhard,
ma il cui baricentro i socialdemocratici tedeschi avevano poi spostato in senso più
comunitario, così da coinvolgere più attori sociali.
La concertazione fra i rappresentanti degli interessi organizzati, la cogestione degli
esponenti sindacali nella definizione delle strategie aziendali nell’ambito delle
grandi imprese e certe forme più avanzate del welfare avevano visto infatti la luce
sotto la spinta della Spd. E grazie anche a questi sviluppi nella sfera dell’amministrazione
e nel sistema delle relazioni industriali, come pure in quello della previdenza e
della sicurezza sociale, la Germania era divenuta una delle principali fucine di quel
«modello renano» giunto a tallonare da vicino il «modello svedese» ritenuto fino ad
allora ineguagliabile.
È vero che la Spd era rimasta emarginata per lungo tempo (a datare dal 1982) da responsabilità
dirette di governo; e che Gerhard Schröder non era un leader della statura dei suoi
predecessori. E ciò anche perché il suo noviziato politico era avvenuto al di fuori
delle organizzazioni del Partito socialdemocratico e della sinistra tradizionale,
avendo egli esordito tra le file dei «sessantottini» e continuato ad annoverare fra
i suoi sodali e interlocutori (anche dopo essersi staccato dai movimenti di contestazione
extraparlamentare) alcuni vecchi compagni di barricate, fra cui il futuro leader dei
Verdi Joschka Fisher. Tanto che Schröder veniva considerato una sorta di «eterno secondo»
nel suo partito rispetto a un’eminenza grigia come Oskar Lafontaine. Tuttavia egli
poteva vantare dalla sua, oltre a eccellenti capacità comunicative, un approccio pragmatico
nell’analisi dei problemi politico-sociali e una disponibilità alla mediazione tale
da renderlo ben accetto all’opinione pubblica e da rassicurare i ceti medi e gli ambienti
imprenditoriali, senza per questo alienarsi l’appoggio dei sindacati.
Erano state proprio queste sue doti personali, dopo che Schröder aveva rotto i ponti
con la sinistra di Lafontaine e s’era presentato come l’alfiere di un «Nuovo Centro»,
ad aprirgli la strada che lo aveva portato nelle elezioni del settembre 1998 ad avere
la meglio, del tutto inaspettatamente, sul cancelliere Helmut Kohl, che pure era stato
il protagonista della riunificazione tedesca dopo la caduta del Muro di Berlino.
Quanto alla sua posizione nell’ambito del socialismo europeo, il cancelliere tedesco
conveniva con Jospin sulla necessità di non lasciare le briglie sciolte al mercato,
perché non garantiva di per sé una crescita durevole dell’economia né lo sviluppo
di un sistema socialmente equo. Di conseguenza, pur considerando la libertà d’iniziativa
un requisito fondamentale, non si sarebbe dovuto rinunciare a un’azione regolatrice
dello Stato e, quindi, anche a determinati ammortizzatori sociali, per «non far colare
a picco i lavoratori». A suo avviso, c’erano tuttavia altre leve di cui servirsi per
tutelare la classe operaia dalle congiunture avverse e dall’arbitrarietà del mercato:
ad esempio, validi programmi di riqualificazione professionale, una flessibilità contrattata
del salario collegandolo allo stato di salute dell’azienda, e una politica sindacale
più attenta ai livelli della produttività.
In pratica, fermi restando i capisaldi del welfare, lo «Stato sociale» avrebbe dovuto
coprire soprattutto le situazioni a rischio; per il resto occorreva risanare i bilanci
e ridurre il deficit pubblico, per non mettere a repentaglio la protezione dei ceti
più deboli e assicurare il benessere delle future generazioni: in modo che gli uni
e gli altri potessero «vivere senza paura».
Schröder, peraltro, in linea di principio condivideva con Blair l’esigenza di una
«modernizzazione» della socialdemocrazia, di una revisione del vecchio «marchio di
fabbrica», in modo da coniugare – come diceva – «il dinamismo economico e la giustizia
sociale», e favorire «la libera espansione della creatività e dell’innovazione». Era
perciò dell’avviso che fosse necessario rendere più flessibili i meccanismi dell’economia,
per assecondare lo sviluppo di nuove risorse e di nuovi settori. Inoltre, al pari
del leader laburista, riteneva che l’eguaglianza sociale non consistesse in un livellamento
dei redditi dall’alto verso il basso, bensì nel predisporre un insieme di incentivi
e di garanzie tali da consentire a ciascuno uguali chances, uguali opportunità di affermarsi e quindi un accesso sempre più ampio al sapere
e al lavoro.
Non che queste ricette prescritte da Schröder si distinguessero per particolare originalità;
tuttavia, la sua prospettiva del «Neue Mitte» aveva il pregio della concretezza e
della praticabilità. Del resto, sulla necessità di una riforma fiscale, come quella
che il cancelliere tedesco era in procinto di varare, nell’ambito di un piano che
contemplava un alleggerimento delle imposte sui redditi d’impresa, avrebbero finito
per convenire anche Jospin e Laurent Fabius dando luogo in Francia a una prima tranche
di sgravi sui contributi sociali delle aziende.
Era stato perciò Schröder a promuovere un’assise fra i diversi leader della famiglia
socialista – che si sarebbe svolta il 27 maggio 2000 nel castello di Charlottenburg,
alle porte di Berlino – per verificare la possibilità di una linea d’azione comune,
dopo un incontro della sinistra riformista tenutosi a Firenze nel novembre 1999. Non
che in quell’occasione fosse spuntata l’alba di una nuova «rivoluzione silenziosa»
dopo quella che cinquant’anni prima, sulla scia del keynesismo, aveva segnato gli
esordi di un progetto di governo a tinta socialdemocratica. Tuttavia, a Charlottenburg
si erano poste quantomeno le premesse per una riflessione da sviluppare collegialmente,
al di là della «terza via» (considerata da alcuni come una variante neo-liberale)
o dell’«étatisme» temperato alla francese (ritenuto da altri una sorta di «copia carbone»
dell’interventismo dirigistico di vecchio stampo socialista).
È vero che il documento, sottoscritto dai quattordici leader progressisti convenuti
nel castello tedesco ma non da Tony Blair (assente dalla riunione, ufficialmente per
motivi familiari), consistette di fatto in una semplice dichiarazione d’intenti. Ma
vennero allora indicate per la prima volta alcune linee d’azione volte a conciliare
le nuove proiezioni dello sviluppo capitalistico e l’interesse collettivo, la quadratura
dei conti pubblici e i diritti di cittadinanza sociale. La leva principale per raggiungere
questi obiettivi avrebbe dovuto consistere in un sostanziale abbassamento dei costi
d’accesso all’universo delle nuove conoscenze e delle più recenti tecnologie, in modo
da promuovere la diffusione delle innovazioni nel tessuto produttivo e nei processi
lavorativi e, al tempo stesso, fornire ad ognuno la possibilità di acquisire valide
cognizioni e di utilizzare i mezzi informatici, quali strumenti essenziali del sapere
e del lavoro, per realizzare o migliorare il proprio percorso nell’attività pratica.
capitolo secondo.
Tra il dire e il fare
1. Quanto s’era convenuto durante i lavori a Charlottenburg rappresentava un buon
punto di partenza in via generale. Ma si trattava di stabilire quali soluzioni concrete
adottare nell’azione di governo. Era così rispuntata, in pratica, una differenza di
opinioni sul modo di sintonizzare l’apertura alle innovazioni tecnologiche e alle
competizioni nel mercato globale con le prerogative di ordine sociale e le finalità
delle istituzioni pubbliche.
Per Jospin e per la sinistra italiana e spagnola occorreva non solo ridurre le diseguaglianze
sociali derivanti da condizioni di censo e dal grado d’istruzione, ma anche contrastare
quelle dovute alla disparità di vantaggi che le persone traevano dai servizi pubblici
in tema di sicurezza individuale, di accessibilità all’edilizia popolare, di assistenza
sanitaria, di tutela dell’infanzia e degli anziani. Proprio in questo genere d’interventi,
a salvaguardia di quanti avrebbero potuto risultare esclusi in parte o in toto da
simili benefici, andava tradotta, a giudizio del leader socialista francese, una riforma
dello «Stato sociale»; e ciò comportava un approccio diverso rispetto a quello tradizionale
incentrato sulla redistribuzione del reddito. Mentre l’imposta progressiva e il sistema
previdenziale erano dei «mezzi per ottenere una maggiore eguaglianza dopo l’evento»,
era adesso necessario – secondo Jospin – «agire prima dell’evento per prevenire l’accumulo
di diseguaglianze». Non per questo, tuttavia, si poteva pensare che lo Stato dovesse
provvedere a tutto e a tutti: stava al governo «mediare fra le classi sociali», fra
quanti, «originariamente soddisfatti» del loro status, non intendevano essere penalizzati
dal «costo di una maggiore eguaglianza», e coloro che, non trovandosi nelle stesse
condizioni, consideravano l’«incoraggiamento all’eguaglianza» un intervento pubblico
fondamentale.
Insieme all’«eguaglianza delle opportunità», l’altro tasto su cui Jospin batteva era
quello di una «modernità controllata». Ciò significava che, se le innovazioni e la
flessibilità dei fattori produttivi facevano del capitalismo una forza dinamica, la
sua direzione di marcia andava comunque regolata in modo da evitare non solo distorsioni
e sbandamenti tali da pregiudicare l’interesse collettivo, ma da agevolare senza traumi
e squilibri sociali l’adeguamento del sistema economico alla nuova realtà determinata
dalla rivoluzione informatica e dalla globalizzazione.
Insomma, se Jospin riconosceva la necessità di ridare forza e smalto a una socialdemocrazia
«dalle ali un po’ spiegazzate», nell’importanza che egli attribuiva comunque al «volontarismo
del potere pubblico» c’era uno stretto legame con i retaggi di un «étatisme» che,
al di là di un marchio d’impronta socialista, era stato declinato, sebbene a suo modo,
anche dalla destra gollista e costituiva un tratto distintivo della storia politica
francese.
Del resto, pure nelle tesi propugnate da Blair era evidente più di una connessione
con certe tradizioni culturali e politiche tipicamente britanniche: ad esempio l’assunto
che, al di là dell’azione dello Stato, fossero determinanti le capacità di ognuno
di progettare il proprio itinerario e la propria collocazione nella società, in base
all’iniziativa e all’autonomia personali. E ciò, in quanto costituivano altrettanti
requisiti essenziali per la dignità dell’individuo e l’adempimento dei suoi doveri
di cittadino verso la propria comunità.
Inoltre, se un trait-d’union fra la sinistra continentale e quella d’Oltremanica era l’«eguaglianza delle possibilità»,
si trattava di venire a capo, in concreto, di due questioni fondamentali: da un lato,
come realizzare un equilibrio cooperativo fra Stato e mercato (ossia un dosaggio ben
congegnato fra il «volontarismo del potere pubblico» e la «realtà economica della
competizione»); dall’altro, come attuare una politica di governo capace di coniugare
gli interessi dei ceti medi con quelli delle classi popolari.
2. «Le idee e le passioni degli anni Trenta e Sessanta non possono essere quelle che
ci guideranno negli anni Novanta». Era stato questo il Leitmotiv con cui Bill Clinton, a capo di un gruppo di esponenti democratici del Sud, era uscito
vincente dalle primarie del suo partito per la candidatura alla Casa Bianca. Per il
Democratic Leadership Council, il movimento che l’avrebbe in seguito portato al successo
nelle elezioni presidenziali del novembre 1992, si trattava di cambiare registro rispetto
ai programmi ereditati dal New Deal rooseveltiano e dalla «Great Society» di Johnson.
Non che si dovessero abbandonare i principi ispiratori del riformismo sociale, ma
andavano riviste e modificate le sue applicazioni pratiche. E questo non soltanto
perché il welfare, nel frattempo, aveva finito per ricoprirsi, in alcuni casi, di
incrostazioni stataliste; in altri, per dar luogo a un coacervo di abusi e distorsioni
sotto la pressione di gruppi e clientele particolari; in altri, ancora, per incoraggiare
l’irresponsabilità dei beneficiati. Per il Partito democratico americano ciò che imponeva
un ripensamento dello «Stato sociale» era la necessità di impostare diversamente dal
passato la politica della spesa pubblica, pur garantendo la copertura di determinate
esigenze primarie e di assistenza agli strati più disagiati. In pratica si trattava,
da un lato, di passare da una rete di sicurezza sociale «universalista» a un modello
di «gestione dell’incertezza»: ossia di adottare politiche attive di formazione professionale
e promozione di nuove opportunità di lavoro; e, dall’altro lato, di riorganizzare
l’intero sistema del welfare secondo criteri di maggior efficienza e sana amministrazione,
da parte del governo federale, in modo da porre rimedio a quelle anomalie e a quegli
sprechi che, in mancanza di adeguati controlli, avevano finito per accumularsi nel
corso del tempo: sia che riguardassero il finanziamento delle cure mediche e ospedaliere,
l’erogazione gratuita di farmaci, gli aiuti alle famiglie con più figli a carico,
oppure l’erogazione di sussidi di disoccupazione, di assegni di sostentamento per
le ragazze-madri, o la distribuzione di buoni alimentari alle persone più bisognose.
La sinistra europea, che aveva espresso il suo compiacimento per il passaggio di consegne
dall’amministrazione repubblicana di George Bush a quella dell’ex governatore dell’Arkansas
(la cui formazione non era peraltro quella di un «liberal» ma piuttosto quella di
un «radical» sessantottino), era rimasta poi interdetta di fronte alle prime misure
adottate da Clinton, che sembravano più appariscenti che dovute a una precisa strategia.
D’altronde, anche alcuni autorevoli esponenti democratici americani (come Mario Cuomo,
Jesse Jackson e Cristopher Reeve) avevano manifestato questo stesso dubbio.
Ma nella successiva tornata elettorale Clinton – sebbene numerosi opinion makers lo considerassero un politico eclettico, al punto di essere disposto a negoziare
col leader dei repubblicani ultraliberisti al Congresso Newt Gingrich – era stato
confermato, sia pur di stretta misura, alla Casa Bianca, in virtù del fatto che gran
parte della middle class lo riteneva comunque un custode affidabile della tradizione riformista del Partito
democratico. Da quel momento s’erano rialzate in Europa le quotazioni politiche di
Clinton, soprattutto tra le file dei laburisti inglesi e dei socialdemocratici tedeschi.
In effetti, durante il suo secondo mandato il presidente americano aveva dimostrato
di avere le ali per «volare alto», grazie ai brillanti risultati man mano conseguiti
sul versante economico. Erano stati creati quasi dieci milioni di posti di lavoro,
il Pil aveva continuato a crescere su buoni livelli, l’inflazione s’era abbassata
a poco più del 2 per cento, il deficit di bilancio era andato riducendosi per più
della metà, le esportazioni avevano ripreso a tirare e la discesa dei tassi d’interesse
aveva favorito un aumento degli investimenti e delle attività produttive con benefici
effetti per l’occupazione.
L’indirizzo di politica sociale patrocinato da Clinton era apparso tale da avvalorare
quello adottato da Blair, in quanto volto a privilegiare il workfare rispetto al welfare:
ossia, a concentrare una quota più consistente delle risorse disponibili su una serie
di misure volte a incrementare le possibilità di accesso al lavoro, ad agevolare i
corsi di riqualificazione professionale, anziché in provvedimenti-tampone di carattere
eminentemente assistenziale. E questo con lo scopo sia di prevenire fenomeni di marginalità
sociale, sia di accrescere il patrimonio di conoscenze e attitudini del «capitale
umano»: tanto più in considerazione dei rilevanti mutamenti innescati dalle nuove
tecnologie della robotica e dell’informatica nel sistema produttivo e nel mercato
del lavoro.
«Saranno le innovazioni high tech – affermava Clinton – a recuperare gli emarginati e a ridurre le sperequazioni».
Era convinto che, se non si fosse diffusa l’introduzione del digitale, si sarebbero
manifestate nuove disparità all’interno delle società più avanzate, fra la classe
colta e gli «analfabeti elettronici», e si sarebbe aggravato il gap fra paesi ricchi e paesi poveri. Un forte impegno a sperimentare il nuovo, nella
consapevolezza che i tempi nuovi richiedessero «modi nuovi di affrontare le cose»,
per evitare di restare indietro e scongiurare stridenti asimmetrie sociali, era perciò
il messaggio e insieme il monito che, secondo il leader della Casa Bianca, avrebbe
dovuto essere raccolto e fatto proprio anche in Europa dalle forze politiche d’ispirazione
progressista.
3. Se in Gran Bretagna queste indicazioni di Clinton avevano riscosso larga udienza
nel New Labour, lo stesso non era accaduto – o era accaduto solo in parte – nel resto
dei partiti d’estrazione socialista. Nel tentativo di stabilire un equilibrio fra
dinamiche del mercato ed equità sociale, essi avevano continuato per lo più a navigare
a vista, senza tracciare una rotta ben definita o affrancarsi da valutazioni eminentemente
tattiche. Appagata dal graduale risanamento delle finanze pubbliche e dall’allineamento
delle diverse monete a un unico regime di cambi, avvenuto con la creazione dell’euro,
la sinistra non aveva profuso un impegno analogo nella ricerca delle soluzioni più
confacenti per accrescere le capacità competitive dell’economia nazionale attraverso
innovazioni strutturali e per incrementare le file di una forza lavoro più qualificata.
Inoltre era opinione largamente diffusa fra i partiti socialisti continentali che
il welfare, così come veniva praticato in Europa, assicurasse un maggiore grado di
coesione sociale. Ed era senz’altro vero, giacché nel 1999 i cittadini americani privi
di un servizio medico gratuito ed efficiente erano rimasti più di quaranta milioni,
la stessa cifra di nove anni prima, dato che Clinton non era riuscito a spuntarla
nei confronti dell’opposizione del Partito repubblicano.
Quanto alla distribuzione del reddito, il 5 per cento più ricco della popolazione
risultava percettore del 20 per cento del reddito nazionale: ossia di qualcosa come
sei punti in più rispetto agli anni Ottanta. E ciò a scapito non solo della classe
operaia ma anche della middle class, che, se continuava a cavarsela, lo doveva al fatto che i membri delle famiglie appartenenti
a questo ceto erano in media meno numerosi. Inoltre la spesa per il welfare non superava
negli Usa il 5 per cento del Pil, mentre nell’Unione Europea era pari in media al
27 per cento.
Stando ai dati dell’Oece, tuttavia, la popolazione classificata nel 1999 come «povera»
in Germania e in Francia era superiore rispettivamente di quattro e cinque punti rispetto
a quella riscontrata negli Stati Uniti. A sua volta la disoccupazione in Europa, pari
al 10 per cento in media della forza lavoro, risultava più che doppia rispetto a quella
registrata sull’altra sponda dell’Atlantico.
Negli Stati Uniti, intanto, era in atto un vasto piano di «alfabetizzazione informatica»
che nel giro di due anni vide l’ingresso nella scuola di centomila nuovi insegnanti
e il collegamento in ogni aula alle reti telematiche. Si trattava peraltro di un primo
passo: l’obiettivo che s’intendeva perseguire era non già formare una schiera di specialisti,
bensì dare la possibilità a ogni giovane di andare all’Università, senza essere bloccato
da un pesante fardello di tasse d’iscrizione, e a ogni americano adulto di continuare
a istruirsi in centri di apprendimento vita natural durante per consentirgli di partecipare
in maniera adeguata e con profitto al nuovo trend dell’economia.
Insomma, rispetto all’America di Reagan, quella di Clinton, benché non fosse certamente
giunta a risolvere tutti i suoi problemi, appariva comunque a numerosi osservatori
tale da dover indurre la sinistra riformista europea ad apprendere dagli Stati Uniti
più di un insegnamento. Anche perché tra gli obiettivi iscritti nell’agenda elettorale
del Partito democratico figurava quello di impegnare parte del surplus del bilancio
federale per rafforzare il sistema pensionistico pubblico ed estendere la copertura
sanitaria: senza ricorrere alla leva fiscale, mantenendo quindi le imposte sul reddito
al di sotto del 10 per cento per la maggior parte dei cittadini. Sempre in tema di
politica sociale, le nuove disposizioni adottate con l’Affirmative Action avevano garantito una maggiore tutela delle varie comunità etniche e assicurato pari
opportunità a minoranze in precedenza discriminate, contribuendo così, se non a eliminare
del tutto, quantomeno a ridurre le sacche di xenofobia e di intolleranza.
D’altra parte l’amministrazione democratica aveva dato vita a un nuovo «American dream»,
a una sorta di «capitalismo popolare». Perché quarantacinque milioni di famiglie possedevano
quote di fondi comuni d’investimento e sessanta milioni di cittadini risultavano proprietari
di azioni. Nel frattempo gli Stati Uniti avevano aperto le porte a un’ingente massa
di immigrati dal Cono Sud e da diversi paesi del Terzo Mondo, attratti dalla possibilità
di una loro integrazione nella società americana.
Per il resto, Washington aveva mostrato negli ultimi tempi di voler agire non badando
unicamente ai propri interessi nazionali, ma tenendo conto delle valutazioni degli
alleati europei. Di concerto con loro s’era perciò impegnata a porre fine ai miraggi
egemonici del dittatore serbo Slobodan Miloševi nella ex Jugoslavia, in nome di un
principio come quello dell’«ingerenza umanitaria» introdotto da Clinton e condiviso
pure dalla sinistra del Vecchio Continente. Anche per questo s’era stabilito più di
un motivo di convergenza e vicinanza ideale fra il progressismo «liberal» americano
e la socialdemocrazia europea.