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Valerio Castronovo, già ordinario di Storia contemporanea all’Università di Torino, è direttore della rivista di scienze e storia “Prometeo” e presidente dell’Istituto di studi storici “Gaetano Salvemini” di Torino. Collabora al “Sole 24 Ore”. Tra le sue più recenti pubblicazioni, Le ombre lunghe del ’900. Perché la Storia non è finita (Mondadori 2010) e Storia economica d’Italia dall’Ottocento ai giorni nostri (Einaudi 2013).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
È passato un secolo e mezzo da quando Marx sostenne che il capitalismo si sarebbe dissolto, in quanto minato dalla lotta fra borghesia e proletariato e vittima predestinata delle sue intime contraddizioni. E non solo le sue predizioni non si sono avverate. Ma, invece che al crollo del capitalismo, si è assistito alla disfatta del suo antagonista storico, il comunismo. In verità, tanti altri pensatori, dopo il filosofo di Treviri, hanno dato per scontato che il capitalismo non sarebbe sopravvissuto ai conflitti di classe o all’impatto con le trasformazioni da esso stesso generate.
Schumpeter, che nella «violenza innovativa» identificava la ragion d’essere del capitalismo, riteneva che il sistema capitalistico sarebbe stato condannato fatalmente all’estinzione, e alla transizione verso il socialismo, qualora i grandi gruppi d’interesse e l’intervento dello Stato avessero preso il sopravvento sull’iniziativa e sull’impresa individuale. Che era appunto quanto stava avvenendo nel mezzo degli anni Trenta, all’indomani della «grande crisi», allorché egli attendeva alla stesura di un’opera come Business Cycles, con cui si proponeva di dimostrare che non già un processo rivoluzionario avrebbe atterrato il capitalismo, bensì l’esaurimento della sua forza d’urto iniziale, quella impressa dal dinamismo e dalla carica competitiva di una pluralità di soggetti economici.
Sennonché proprio il gigantismo industriale e l’economia programmata, che Schumpeter considerava forieri di altrettanti pericoli mortali per il sistema come la spersonalizzazione e la burocratizzazione, concorsero non solo a tenere in vita il capitalismo, che allora sembrava ridotto alle corde, ma a porre le premesse di nuovi equilibri strutturali e di un più intenso ciclo espansivo. Su un punto fondamentale, tuttavia, egli aveva perfettamente ragione: sul fatto che il capitalismo sarebbe votato al declino se venisse a mancare la capacità del sistema d’impresa di produrre ricchezza e sviluppo.
In effetti, la vocazione creativa, lo stimolo all’innovazione, è stata la leva fondamentale del capitalismo sin dal suo sorgere ed è tuttora il suo tratto distintivo.
C’è voluta peraltro una lunga gestazione perché quel che Max Weber definiva lo «spirito» del capitalismo venisse in luce e poi una fase di incubazione non meno complessa perché si affermasse pienamente. Risale infatti a cinque secoli fa la formazione di quel primo embrione di un’economia di mercato su scala mondiale, in virtù del quale cominciarono ad acquisire maggiore consistenza e più rapide cadenze il movimento delle merci e delle monete, la circolazione dei prodotti e l’accumulazione del danaro.
Molto si è discusso sulla paternità e la data di nascita del capitalismo. Weber attribuiva la genesi dello «spirito d’impresa» all’etica protestante, in particolare a quella espressa dalla componente più radicale della Riforma, che considerava il successo ottenuto con il proprio lavoro, da quanti davano prova di impegno e operosità, come il segno della predilezione divina e dunque della salvezza eterna. Sarebbero così venuti meno quei freni morali nei confronti del profitto imposti dai precetti della Chiesa che condannava alla stregua di un peccato mortale l’arte di far danaro attraverso il tesoreggiamento, il prestito a interesse, o un uso della proprietà a solo scopo di lucro. E dalla teoria della predestinazione avrebbe ricevuto consacrazione anche quel senso vigoroso dell’iniziativa e della responsabilità personale, quello «spirito acquisitivo» destinato a forgiare la condotta di vita e i valori ideologici della borghesia.
Di tutt’altro parere era Werner Sombart. Egli scorgeva nella sottile casistica del tomismo e della tarda Scolastica argomentazioni tali da fornire una giustificazione del guadagno fine a se stesso. Giacché san Tommaso, pur ribadendo che le pratiche mercantili non erano di per sé «né buone né naturali», aveva tuttavia affermato che la questione essenziale stava nel «giusto prezzo» dello scambio. E alcuni suoi discepoli non solo avevano riconosciuto che si sarebbero dovuti conteggiare anche i rischi derivanti dalle fluttuazioni di mercato, ma erano poi giunti ad ammettere, sia pur con cautela, la liceità del prestito in danaro quale corrispettivo di un «lucro cessante».
In realtà, l’ethos capitalistico non scaturì dal verbo di Calvino o dalle predicazioni di sant’Antonino, quantunque si possano ravvisare nel suo codice genetico, nella formazione di un atteggiamento educato all’iniziativa e alla responsabilità individuale, e perciò consono al perseguimento razionale del profitto, attributi e impulsi provenienti tanto dall’evangelismo protestante quanto dalla tradizione cattolica, nonché da altre esperienze religiose come l’ebraismo.
A dar forma e sostanza al capitalismo fu piuttosto un intreccio di esigenze concrete, di calcoli politici e di motivi ideali variamente convergenti, pur lungo un tracciato non univoco né omogeneo, che indussero gli europei sia a uscir fuori dal guscio di un’economia stagnante, sia a liberarsi dalle ragnatele del tradizionalismo in un’epoca ancora sottomessa ai dogmi della Chiesa ma pervasa dai fermenti della cultura rinascimentale, da un’ansia di nuove conoscenze e di avventura.
Quell’autentica ossessione sempre più intollerabile che era divenuta nel corso del Quattrocento la penuria d’oro e di argento, e la convinzione che in altre contrade ancora inesplorate esistessero grandi quantità di metalli preziosi, giocarono una parte importante nella genesi del capitalismo. Tanto più che alle necessità finanziarie di monarchie e principati s’univa anche il loro interesse a stabilire un contatto diretto con i paesi dell’Estremo Oriente, produttori di spezie e di sete, senza dover sottostare al monopolio esercitato da Venezia lungo le rotte per il Levante, né a quella sorta di «spada di Damocle» sui commerci fra l’Europa e l’Asia rappresentata dall’Impero ottomano.
Sta di fatto che, sebbene quella aperta da Cristoforo Colombo attraverso l’Atlantico non fosse una via diversa per le Indie come si sperava, la scoperta di un nuovo continente emerso dall’ignoto si risolse per gli europei in un ottimo affare. In America essi rinvennero non solo grandi quantità d’argento, ma trovarono anche terre abbondanti e fertili, bestiame e materie prime, e tante braccia (a cui si sarebbero poi aggiunte quelle degli schiavi razziati dall’Africa) da impiegare a loro piacimento nelle miniere e nelle piantagioni. Né fu questa l’unica manna caduta dal cielo. Il trapianto di alcune specie vegetali importate dal Nuovo Mondo (come il mais e la patata) si rivelò nel corso del tempo essenziale per l’alimentazione delle classi più umili e per l’aumento della popolazione prima decimata da periodiche carestie.
Fu questa sequenza di eventi – dai grandi viaggi di scoperta alla diffusione di nuove e più intense forme di scambio e di produzione, che vennero combinandosi con alcuni potenziali fattori di sviluppo sedimentatisi nei secoli precedenti – a tenere a battesimo il capitalismo. E fu lo spostamento del baricentro dei traffici dal Mediterraneo all’Atlantico, all’Oceano Indiano (anche se a tappe più graduali di quanto comunemente si ritenga), a creare quel particolare contesto sociale che rese possibile la fioritura di un’economia di mercato. Un contesto non più segnato dal predominio pressoché assoluto dell’aristocrazia fondiaria ma dall’affermazione di nuovi protagonisti: mercanti, armatori, banchieri, imprenditori.
Furono paesi come l’Inghilterra e l’Olanda, dove esistevano condizioni politiche e istituzionali più favorevoli, e città come quelle fiamminghe e anseatiche, cresciute in un regime di autogoverno o in procinto di conquistarlo, a fornire l’humus necessario per l’acclimatazione di quell’esile pianta che era ancora il capitalismo, e a raccogliere i frutti più copiosi della scoperta del Nuovo Mondo e dell’itinerario per le Indie, alternativo a quello tradizionale, aperto da Vasco de Gama con la circumnavigazione dell’Africa.
Proprio per la mancanza di questi requisiti, che avrebbero fatto della Gran Bretagna e dei Paesi Bassi la culla del capitalismo, la Spagna, che pur aveva dischiuso la via per l’America, accusò da allora un declino irreversibile. La parabola che la portò a diventare nel corso del Cinquecento la maggior potenza della Terra e a sprofondare poi altrettanto rapidamente in una crisi inesorabile, riflette in maniera emblematica quanto abbiano contato, per l’avanzata del capitalismo e per il successo dei paesi che ne furono i precursori, lo spirito d’iniziativa individuale e l’esistenza di determinate componenti civili e culturali, assai più del dominio su un gran numero di terre e di sudditi.
«La Castiglia ha fatto la Spagna e la Castiglia l’ha distrutta», scriverà Ortega y Gasset. Se da un lato la supremazia della Spagna nel sedicesimo secolo fu dovuta per tanti versi al vigore e al bisogno di rivalsa della gente di una regione arida e scabra, soggetta a un pugno di latifondisti, dall’altro fu infatti il bagaglio di pregiudizi che i castigliani si portarono dietro dalle loro lande desolate, nella colonizzazione del Nuovo Mondo, una delle principali cause dell’eclisse subìta dalla Spagna nel corso del Seicento. Giacché l’arroganza e la sete di potere degli hidalgos, l’ambizione di una borghesia povera e frustrata al possesso di un titolo nobiliare, e il fanatismo religioso e razziale che covava sia negli uni che negli altri, finirono per contagiare di questi stessi morbi il resto della società spagnola e agirono da altrettanti ostacoli a un’efficiente gestione dei territori acquisiti dalla Corona.
L’illusione di poter vivere indefinitamente di rendita, grazie alla spoliazione delle antiche civiltà precolombiane e allo sfruttamento rapace e indiscriminato degli indigeni, non solo infiacchì la tempra dei conquistadores, ma spinse a un livello esorbitante le spese della monarchia e distolse dal commercio e dai mestieri (dagli «esercizi», come osservava Guicciardini) gran parte del ceto medio, attratto dai facili guadagni che si potevano ottenere dall’acquisto di titoli del debito pubblico. Fu così che l’economia spagnola venne presto travolta da un’inflazione irreparabile provocata tanto dalla valanga di metalli preziosi rovesciatasi dalle miniere americane, quanto da un continuo drenaggio di risorse dovuto alla necessità di rifornirsi all’estero a prezzi sempre più elevati dei servizi e dei manufatti di cui essa era carente, quanto ancora dai cospicui impegni finanziari richiesti dalla difesa di un immenso Impero esposto da ogni parte ai colpi e alle mire delle potenze rivali.
Quel che invece mancò al piccolo Portogallo fu una popolazione sufficiente sia per presidiare a dovere tutti i suoi dominî, sia per sfruttare sino in fondo le posizioni commerciali acquisite in Oriente, a scapito degli intermediari arabi, e le vaste regioni di cui s’era impadronito in Brasile e altrove. Per giunta, allo stesso modo che per gli spagnoli, la conquista di nuove terre non indusse la classe dominante portoghese a sperimentare modelli di organizzazione economica diversi da quelli feudali. Anzi, il suo principale obiettivo fu di riprodurre tali e quali (e semmai in termini ancor più rigidi) nelle colonie d’oltreoceano le vetuste forme di produzione e i rapporti di lavoro servili del sistema signorile.
Una lacerante crisi economica, e col tempo anche d’identità (tanto più drammatica per la Spagna quanto pressoché assoluta era stata sino a pochi decenni addietro la sua egemonia), concorse così, fin dal Seicento, ad approfondire il divario tra la penisola iberica e il resto dell’Europa.
Una sorte altrettanto amara toccò all’Italia. Eppure essa era a quel tempo all’avanguardia nelle attività mercantili e nelle tecniche finanziarie.
Nell’ambito delle economie su cui s’irraggiavano i traffici della penisola, c’era innanzitutto Costantinopoli, che era per gli italiani qualcosa di simile a ciò che sarà Shanghai per gli europei nell’Ottocento: le monete d’oro italiane facevano aggio su quelle bizantine, i mercati del grano erano sotto il loro controllo, e così pure le entrate pubbliche. D’altra parte, l’acclimatazione del baco da seta in Italia aveva messo fine al monopolio della seta che un tempo aveva fatto la fortuna di Bisanzio. Nel Levante e nell’Africa del nord, non c’era porto siriano o egiziano, o sbocco sul mare dei principali traffici carovanieri, dove i mercanti italiani, sfruttando anche vecchie franchigie, non avessero messo le mani sul cotone filato e i drappi serici, sul riso e le spezie. Altrettanto rilevante era l’influenza che essi esercitavano nei paesi al centro e al nord dell’Europa. Giacché una manciata di città grandi e piccole, grazie alla posizione strategica della penisola, erano riuscite a turno o contemporaneamente a costruirsi con abilità e pazienza cospicue fonti di guadagno tanto con il commercio di transito e le operazioni di intermediazione finanziaria quanto con l’esportazione di alcuni manufatti di gran qualità.
Le guerre per l’egemonia fra le maggiori potenze, che gli italiani non avevano avuto la forza di schivare, pur producendo devastazioni ed epidemie, non annientarono la preminenza economica della penisola. Ancora a metà del Cinquecento la superiorità delle manifatture fiorentine e veneziane era indiscussa; e continuavano a rendere bene le iniziative impiantate da uomini d’affari italiani a Lisbona, Siviglia e Anversa. Tant’è che i banchieri genovesi non temevano il confronto con i più quotati gestori di danaro di quel tempo come i Fugger e i Welser.
Furono le successive bancarotte di Spagna, Francia e Portogallo, nel terzo quarto del secolo sedicesimo, a infliggere un duro colpo ai finanzieri italiani (e così pure a quelli fiamminghi e tedeschi). Ma la retrocessione della penisola fu dovuta soprattutto alla sua permanente divisione in tanti staterelli, proprio quando altrove stavano imponendosi le grandi monarchie nazionali. Solo Venezia e Genova riusciranno in qualche modo a reggere, non così il resto della penisola sempre più prostrato sotto il peso della dominazione straniera o del malgoverno. È vero che nemmeno allora si esaurì la vitalità della società italiana. Giacché in passato non era stata solo la potenza del denaro ma anche quella della cultura a segnare il suo primato. Ed è un fatto che, pur nella fase del crepuscolo, banchieri e mercanti continuarono a battere un buon numero di piazze europee, mentre non tutta l’agricoltura, in specie quella padana, subì un processo di rifeudalizzazione. Sicché l’Italia non si ridusse a un paese esangue e intorpidito, quasi insignificante.
Ma i grandi giochi si svolgevano ormai all’esterno dello Stivale. Altri paesi l’avevano rimpiazzato alla testa dell’economia europea. E il loro primato sarebbe coinciso, sino a far tutt’uno, con gli sviluppi sempre più impetuosi del capitalismo.
A trarre i maggiori benefici dall’espansione dei traffici furono gli olandesi e gli inglesi. I primi, in quanto divennero, grazie anche all’impiego di navi più grandi e meno costose di quelle dei loro concorrenti, i principali intermediari nel commercio fra l’Europa e l’Asia, dopo aver detenuto, al tempo del dominio di Madrid sui Paesi Bassi, il monopolio della distribuzione delle mercanzie coloniali spagnole. I secondi, in quanto riuscirono a soppiantare – dapprima con la guerra da corsa e il contrabbando, poi con la conquista di intere regioni e di alcuni nodi strategici – l’originaria egemonia degli spagnoli sulle terre del Nuovo Mondo e lungo le rotte dell’Atlantico.
Calati in Asia al seguito della Compagnia delle Indie Orientali, o in ordine sparso, sotto la bandiera della nuova Repubblica delle Province Unite, gli olandesi misero in atto ogni espediente per allungare le mani sulle ricchezze delle isole disseminate tra Giava e le Molucche, e per sottrarre ai portoghesi (spalleggiati dagli spagnoli dopo l’unione nel 1580 delle due corone) le basi più importanti del commercio delle spezie. Ma essi furono abbastanza saggi da non pensare di poterla fare da padroni. D’altra parte, era necessario venire a patti non solamente con grandi imperi come la Cina e il Giappone, ma anche con una costellazione di clan e di notabili astuti e sensibili (indù o musulmani che fossero) alle ragioni del profitto tanto quanto lo erano i più devoti seguaci di Calvino.
Quanto agli inglesi, seppur giunsero soltanto un secolo dopo gli spagnoli a creare (in contesa con i francesi) dei propri insediamenti in America, essi riuscirono tuttavia assai presto a spezzare il monopolio di Madrid sui traffici con il Nuovo Mondo ricorrendo soprattutto all’arma della pirateria lungo le coste del Mar dei Caraibi. Assaltando con le loro veloci flottiglie gli imponenti galeoni spagnoli e prendendo d’assalto fortezze ritenute inespugnabili, gli squadroni di corsari si resero sovente padroni sia dei Mari del Sud che delle sponde dell’America centro-meridionale. E le loro imprese avvantaggiarono non solo gli inglesi ma anche gli olandesi, in lotta con i portoghesi per il controllo del florido commercio dello zucchero.
La capacità degli inglesi e degli olandesi, ma anche dei danesi e della Lega anseatica, di organizzarsi in modo tale da porre le basi di un incipiente mercato di massa, fu la chiave di volta del successo economico su cui i paesi dell’Europa del Nord costruirono da allora le loro fortune. Giacché l’importazione di nuovi prodotti e il commercio d’intermediazione di materiali e generi di prima necessità, a cui essi attendevano, andò a coprire una domanda in forte espansione dovuta al progressivo incremento della popolazione urbana. E la quantità di beni così immessa nei circuiti commerciali fu tanto ragguardevole e differenziata da dar luogo a un’autentica «rivoluzione dei consumi».
Si venne formando in tal modo un mercato più consistente e composito rispetto a quello incentrato in passato sull’offerta per lo più di prodotti pregiati o destinati a ristrette clientele. Dai cereali alle patate, dal sale al pesce essiccato, dallo zucchero al cacao, dal caffè al tè, dalla birra ai distillati, dal legname alle materie tintorie, dai minerali ai metalli, queste e altre merci trasportate e negoziate su circuiti sempre più ampi, concorsero, da un lato, a soddisfare il crescente fabbisogno di risorse del Vecchio Continente e, dall’altro, modificarono i consumi alimentari abituali degli europei. A loro volta le prime trasmigrazioni transoceaniche e l’impianto di numerose comunità nei territori di conquista contribuirono a scaricare parte delle tensioni sociali dovute al divario tra risorse e popolazione, e a ridurre così le cause più gravi di perturbazione e insicurezza interna.
L’interscambio fra le aree più dinamiche dell’Europa occidentale e le altre parti del mondo, in termini sempre più vantaggiosi per le metropoli, produsse rilevanti trasformazioni. All’espansione dei traffici s’accompagnò l’ampliamento dell’economia monetaria (ma anche di una nuova risorsa come le informazioni a mezzo stampa); la ricerca di nuovi lidi s’intrecciò con lo sviluppo dei trasporti, la maggior disponibilità di materie prime importate a basso costo dalle colonie con la nascita di nuove manifatture. Dai principali empori le merci strariparono verso i borghi e i villaggi più sperduti, raggiungendo per mille rivoli il mondo contadino, che in passato s’era accontentato essenzialmente di ciò che produceva con le proprie mani. E la progressiva commercializzazione della proprietà rurale, prima immobilizzata dal fedecommesso e dal maggiorasco, ruppe antichi lignaggi familiari e modificò vecchi equilibri.
Insieme alle merci, si fecero strada le monete. Il prestito a termine di danaro creò un mercato finanziario. Fecero il loro esordio a Londra e ad Amsterdam le prime Borse per la trattazione dei valori mobiliari e comparvero nuove banche pubbliche e società di assicurazioni, e grandi docks per l’immagazzinamento delle merci anch’esse negoziate sempre più spesso mediante il trasferimento di titoli rappresentativi. Con l’incremento delle operazioni sui cambi, sui titoli del debito pubblico,sui corsi delle principali piazze d’affari, il gioco si stava facendo sempre più difficile e rischioso. Ma intanto il mercato – per dirla con Braudel – «collaborava alla grande storia», ponendo le basi di un’«economia-mondo».
Un’economia caratterizzata tanto da una continua estensione degli spazi e delle forme d’attività, quanto dalla progressiva polarizzazione a livello mondiale delle risorse e delle opportunità di sviluppo fra centro e periferia.
Di certo il passaggio dal feudalesimo al capitalismo non fu affatto uniforme né lineare. E non lo fu neppure l’itinerario della borghesia. C’era chi usava il danaro accumulato per acquistare un’investitura o una carica pubblica. E capitava che mercanti e finanzieri, venuti in possesso di grosse tenute, si limitassero ad amministrarle secondo i vecchi princìpi feudali. Ma sovente succedeva anche che si adoprassero a modificare i metodi di gestione sovvertendo le antiche consuetudini e soppiantando le norme del regime signorile. E, se alcuni esponenti di compagnie commerciali o di potenti corporazioni miravano a integrarsi nella classe dominante, acquistando un titolo nobiliare o sposando le loro figlie ai cadetti di famiglie aristocratiche, era tuttavia frequente anche il caso opposto: che cercassero, sia pur a piccoli passi, di giungere a una redistribuzione del potere, di formare nuove élites, mettendo in discussione l’ordine e le gerarchie del passato.
In ogni caso, là dove fu più intensa, l’espansione dei commerci e degli affari si tradusse non solo in un aumento della ricchezza nazionale ma in una crescita dei proventi e dello status sociale della borghesia, tale a sua volta da generare ulteriori iniziative e nuove energie.
Osservava Sombart riferendosi ai primi pionieri del capitalismo: «Il borghese è un fenomeno essenzialmente psicologico, un individuo di natura spirituale del tutto particolare». Giacché nella sua figura si fondevano «il mercante, l’imprenditore capitalista e l’eroe»: l’impulso al guadagno, la capacità realizzatrice, lo spirito d’avventura e il desiderio di affermazione.
A questo ritratto uscito nel 1913 (l’ultimo anno di un’epoca ancora legata per tanti aspetti alle profezie ottimistiche della cultura positivista) dalla penna dell’economista e sociologo tedesco, la critica storica ha contrapposto, nel corso del tempo, un’immagine più sobria e realistica della nascente borghesia capitalista, dei suoi animal spirits. Anche perché essa non fu l’unica a occuparsi attivamente di speculazioni commerciali e finanziarie, di imprese coloniali, di investimenti industriali. Le funzioni militari e l’amministrazione delle proprie terre, il conforto di un’esistenza di opulento benessere e di privilegi, il monopolio delle più alte cariche di corte e del clero, non impedirono infatti ad alcuni membri dell’aristocrazia di impiegare parte dei loro quattrini in altre iniziative. Così avvenne in Inghilterra, nei paesi baltici, in taluni principati tedeschi, nella stessa Francia dove pure le restrizioni giuridiche erano più forti.
Tuttavia Sombart aveva ragione nel rilevare che la borghesia commerciale e imprenditoriale si differenziava da quella parte della nobiltà pur dedita agli affari per un diverso sistema di valori e di abitudini mentali, ma anche di motivazioni e di aspettative sociali, tale da divenire col tempo sempre più incompatibile con i codici rituali dell’aristocrazia. Era questo il caso degli orientamenti pratici e culturali che informavano la condotta della borghesia olandese, tanto morigerata nei costumi, quanto avvezza a pianificare la propria vita con la stessa cura posta nel programmare le proprie spese. Un atteggiamento più o meno analogo si può rinvenire nella gentry inglese, in quella minuta classe di proprietari di campagna più attivi e in rapporto con il mercato, che era già divenuta il nerbo della società britannica all’epoca dei Tudor. Ciò non vuol dire che anch’essi, come del resto asseriva lo stesso Sombart, non fossero esposti alle seduzioni del rentier o al rilassamento prodotto man mano dalla sazietà della ricchezza. Ma è pur vero che parecchi esponenti della borghesia conserveranno certe connotazioni originarie anche al culmine del successo, quando giungeranno talora ad acquisire un grosso lotto di terra o un titolo altisonante per sé e i propri figli.
Altrove, in Francia, nelle signorie tedesche e nell’Impero asburgico, le ricchezze patrimoniali, una rendita vitalizia, un buon ufficio pubblico con i relativi appannaggi, facevano ancora premio sugli stimoli dell’accumulazione capitalistica. E la borghesia di toga prevaleva di gran lunga su quella degli affari.
Ma anche in questa parte d’Europa i ceti borghesi, che peroravano una maggior libertà d’iniziativa ed erano interessati a un uso pratico del sapere, ebbero modo quantomeno di trarre nuova linfa dal movimento di idee che, in virtù dell’opera di Cartesio e di Bacone, elesse a suo vessillo il primato del pensiero e della scienza. Ponendo le basi di un sistema concettuale fondato sul metodo induttivo, sull’esperienza e sull’osservazione diretta, la scienza razionalista corrispondeva alle aspirazioni della parte più dinamica della borghesia che, sebbene preoccupata di preservare alcuni cardini fondamentali del sentimento religioso e dell’assetto sociale esistente, guardava tuttavia al futuro ed era aperta a nuove forme di conoscenza della realtà.
Alla revisione di princìpi normativi fino ad allora passivamente accettati va attribuito l’affrancamento, in questo stesso periodo, del potere politico dalla precettistica pubblica tradizionale, formatasi a suo tempo all’insegna dei canoni della Chiesa, che, quantunque tenuta in sempre minor conto, non era stata accantonata del tutto. Avendo per obiettivo il rafforzamento dell’assolutismo, i sovrani e i loro consiglieri giunsero alla conclusione che avrebbero dovuto lasciar da parte certi scrupoli religiosi e avvalersi degli strumenti offerti dal capitalismo commerciale e finanziario sia per l’arricchimento dello Stato (considerato alla stregua di un patrimonio personale del sovrano), sia per l’accumulazione di crescenti quantità di danaro da utilizzare come «nerbo della guerra», per il potenziamento delle proprie armate, o come antidoto alla carestia, per l’accaparramento di derrate alimentari in caso di necessità. L’incremento delle riserve d’oro e d’argento, e dunque una bilancia commerciale attiva, divenne così un obiettivo fondamentale delle monarchie nazionali.
Il mercantilismo non segnò l’avvento di una vera e propria scienza dell’economia politica. Esso diede luogo piuttosto a una somma di misure particolari per il conseguimento di un afflusso netto di metalli preziosi e di un adeguato volume di circolazione monetaria. È quanto si pensò di realizzare in Francia, all’epoca di Colbert, attraverso vari provvedimenti volti soprattutto a incrementare le esportazioni delle proprie manifatture e a impedire l’importazione di merci straniere; e che in Inghilterra si perseguì altrettanto tenacemente sia con una sequenza di rigidi divieti all’estensione dei terreni a pascolo e all’importazione di cereali, sia con un indirizzo fortemente protezionista (inaugurato ai tempi di Cromwell) in favore dei cantieri e dei trasporti marittimi nazionali. Ma furono le Compagnie di commercio privilegiate (fondate agli inizi del Seicento e destinate in alcuni casi a fare da avamposti nell’espansione coloniale) a costituire l’espressione più tangibile del mercantilismo, in quanto fu loro attribuito il monopolio commerciale di un determinato prodotto o l’esclusiva dei rapporti di scambio fra la madrepatria e alcuni paesi.
Se la ragion d’essere del mercantilismo stava dunque nella politica di potenza professata dalle monarchie assolute (tant’è che la «bilancia del commercio» era considerata il presupposto di quella del «potere»), è pur vero nondimeno che esso contribuì a suo modo a stimolare l’attività economica. Parte della moneta si tramutò in risparmio, in investimenti, in scorte contro le calamità. E gli incentivi adottati per lo sviluppo delle risorse interne e della produzione manifatturiera segnarono un mutamento di prospettiva rispetto ai vecchi ordinamenti.
Sia pur attraverso differenti percorsi, lo sviluppo dell’attività mercantile e delle transazioni finanziarie aveva prodotto un cambiamento di scenario e mobilitato nuove forze. Fu necessario tuttavia che si spezzasse l’involucro che immobilizzava il mondo rurale entro le maglie di una scarsa produttività (causa precipua della pesante fase di depressione protrattasi per quasi tutto il diciassettesimo secolo), perché l’economia capitalistica potesse accelerare i suoi passi.
Quel che si delineò nelle campagne, dai primi decenni del Settecento, fu il prologo di un’autentica «rivoluzione agronomica». Essa consistette nella semina, sui terreni adibiti in precedenza a coltivazioni cerealicole, di alcune piante (come la rapa, l’erba medica, il trifoglio) in grado sia di rigenerare il terreno (e quindi di accrescerne la resa), sia di incrementare la produzione di foraggi. L’utilizzazione in tal modo di quella parte del terreno che ogni tre anni rimaneva a riposo (a maggese), intrapresa dapprima nei polders dei Paesi Bassi e in alcune contee inglesi, e propagatasi poi in altri paesi sia pur in modo non omogeneo, innescò un processo di sviluppo destinato a produrre effetti benefici sempre più rilevanti in tutti i settori della vita economica.
Era infatti indispensabile, innanzitutto, incrementare in modo considerevole e permanente lo stock dei beni di sussistenza, per segnare un reale spartiacque con le epoche antecedenti. Giacché fino ad allora il tenore di vita dipendeva dalla consistenza numerica della popolazione, per cui quando essa aumentava il reddito pro capite diminuiva automaticamente e viceversa. D’altronde, bastava spesso una breve guerra o un’epidemia pur circoscritta per annullare di colpo e per un pezzo i progressi faticosamente conseguiti da intere generazioni.
Nelle zone dove i nuovi procedimenti ebbero più ampia diffusione, grazie anche agli sviluppi della colonìa terziaria e dell’affittanza, venne determinandosi una sorta di circolo virtuoso. Elevando la produttività del suolo e quindi i redditi di proprietari fondiari e fittavoli, riducendo l’impiego di manodopera e accrescendo la richiesta di aratri in ferro e altri attrezzi, le innovazioni adottate nella conduzione della terra resero disponibile una parte dei maggiori proventi così accumulati per impieghi in altri settori, spinsero schiere crescenti di lavoratori in soprannumero rispetto al fabbisogno a offrirsi come salariati nell’edilizia e nelle manifatture, e aumentarono in pari tempo la domanda globale di prodotti e di servizi. Inoltre i progressi acquisiti nell’agricoltura, assicurando una maggior offerta di generi di prima necessità a costi inferiori che in passato, e consentendo così anche alle classi popolari di migliorare la loro dieta alimentare, resero possibile un abbassamento del tasso di mortalità e un aumento del saggio di natalità. E tutto ciò determinò una sensibile crescita della popolazione che, traducendosi in un incremento dei consumi, agì a sua volta da incentivo all’espansione della produzione industriale.
Naturalmente, questa complessa concatenazione di trasformazioni economiche non avvenne tutto d’un tratto né lungo tracciati uniformi. Anche in Inghilterra, dove l’introduzione di nuovi metodi di rotazione e l’accorpamento dei «campi aperti» a strisce discontinue in tenute più compatte e omogenee si susseguirono con maggior intensità, ci volle un secolo, e talora più, perché se ne raccogliessero tutti i risultati. Fatto sta che alla fine del Settecento si calcolava che in generale la produttività agricola fosse aumentata di circa il 20 per cento per le derrate alimentari e forse di una quota maggiore per altri generi. Nel frattempo, la domanda di aratri più robusti, in grado di incidere a fondo il terreno, e di più solidi carriaggi, aveva contribuito ad accrescere la produzione di materiali in ferro.
Si spiega perciò la fortuna che andò riscuotendo una nuova dottrina economica, come quella espressa dalla scuola fisiocratica, nell’accreditare la tesi che l’agricoltura fosse l’unico settore in grado di fornire un prodotto netto.
Sulla scia di alcuni economisti inglesi del secolo precedente come Child e Petty, il finanziere irlandese Richard Cantillon sostenne (in un’opera uscita postuma nel 1755) che il valore intrinseco di qualsiasi bene andava proporzionato alla terra e al lavoro che entravano nella sua produzione. Ma fu soprattutto François Quesnay (con il suo Tableau économique comparso tre anni dopo) a far valere l’idea che solo l’agricoltura creasse un’eccedenza e occorresse quindi liberalizzare il commercio dei prodotti del suolo e incoraggiare lo sviluppo di imprese fondiarie di grandi dimensioni. Era quanto sarebbe stato necessario attuare in particolar modo nella Francia di quel tempo, poiché innumerevoli ostacoli intralciavano l’evoluzione dell’economia agraria e i ceti rurali continuavano a vivere all’ombra del castello del signore («nulle terre sans seigneur, nul seigneur sans titre, nul paysan sans seigneur», recitava un antico detto). Allo stesso modo degli illuministi che invocavano, in nome dei princìpi della ragione e della tolleranza, l’esigenza di riformare il sistema politico ereditato dall’assolutismo, così i fisiocratici (fra cui figuravano anche Turgot e Du Pont de Nemours) intendevano orientare l’azione dei governanti nella sfera economica sulla base delle «leggi naturali». Il loro appello concorse in tal modo ad alimentare la battaglia ingaggiata dai philosophes contro i privilegi di casta e i vincoli dell’Ancien Régime.
Più agevole fu il progressivo smantellamento delle restrizioni che impacciavano e frantumavano la produzione manifatturiera. Le corporazioni d’arti e mestieri, titolari di particolari prerogative tanto nella determinazione del volume e della qualità della produzione quanto nella regolamentazione dei procedimenti di fabbricazione, rappresentavano ancora l’asse portante di un complesso di lavorazioni condotte per lo più su scala ridotta. Ma nel frattempo le misure adottate dalle autorità all’insegna della politica mercantilista avevano accresciuto l’attività e le dimensioni di miniere e fonderie, di officine e arsenali statali adibiti agli armamenti e alla marina militare, in cui una parte rilevante aveva assunto il capitale fisso, l’immobilizzazione di consistenti risorse finanziarie in fabbricati e attrezzature. I provvedimenti contro la piaga del pauperismo avevano dato luogo, a loro volta, alla creazione di vari stabilimenti pubblici di una certa dimensione (come concerie, filande, opifici tessili), per lo più gestiti da singoli appaltatori, in cui venivano impiegati poveri e orfani sulla base di un rapporto di lavoro coatto.
La principale novità stava tuttavia nella diffusione di un sistema di produzione decentrato nelle campagne e non più soggetto al controllo delle compagnie artigiane. A impiantarlo era stata una schiera di mercanti-imprenditori, interessati soprattutto allo smercio di articoli d’abbigliamento, che, forniti del capitale necessario per l’acquisto delle materie prime, avevano via via aggirato il monopolio esercitato dalle corporazioni nei centri urbani, al fine di poter utilizzare un gran numero di braccia a basso costo, quali si potevano trovare tra i contadini e i loro familiari nelle «stagioni morte» dell’agricoltura, nelle soste periodiche del lavoro nei campi. Distribuendo nei villaggi la lana o il cotone da trattare, a singoli lavoranti a domicilio, essi provvedevano poi a ritirare da costoro (pagati con un compenso a tariffa) quanto veniva così prodotto per collocarlo sul mercato.
La netta differenziazione di ruoli, emersa da questo nuovo genere di organizzazione, fra chi coordinava la produzione e la smerciava e chi la eseguiva materialmente, concorse alla progressiva riduzione delle forme di lavoro indipendenti o semindipendenti. Spesso il mercante-imprenditore forniva infatti, oltre alla materia prima, anche gli strumenti necessari per lavorarla. E divenne sempre più frequente il ricorso da parte di singoli artigiani, che avevano bisogno di un circuito più ampio per approvvigionarsi dei materiali necessari e per vendere i loro prodotti, all’aiuto di un mercante all’ingrosso in grado di accordare prestiti e anticipazioni in danaro, o di reperire le piazze migliori.
Attraverso questi e altri itinerari vennero così ponendosi le premesse sia per l’incremento di una produzione di tipo estensivo, sia per la subordinazione diretta della forza lavoro al capitale.
Ma il passo decisivo, quello che avrebbe portato allo sviluppo di un sistema di produzione destinato a trasformare da cima a fondo l’intero assetto economico, venne compiuto allorché si giunse a meccanizzare parte degli impianti e a concentrarli in appositi opifici insieme a crescenti nuclei di manodopera salariata. Fu quanto accadde dalla seconda metà del Settecento, a cominciare dalla Gran Bretagna, con la diffusione delle prime macchine per la filatura e la tessitura del cotone.
L’improvvisa fioritura in quel periodo di un grappolo di innovazioni tecniche tali da rendere possibile l’accentramento di lavoratori precedentemente dispersi in esercizi artigianali o a domicilio, e il passaggio alla produzione su vasta scala, non fu dovuta tanto ai risultati del progresso scientifico. Fu piuttosto la ricerca di particolari soluzioni pratiche, che consentissero di ridurre i costi mediante un aumento della produttività, a sollecitare il perfezionamento di congegni già in uso o la sperimentazione di nuovi attrezzi (come era avvenuto, del resto, un secolo prima quando gli studi di astronomia, di meccanica e di magnetismo s’erano sviluppati in coincidenza con l’utilità che ne potevano trarre la navigazione, l’estrazione dei minerali, la produzione di orologi, o la lavorazione dei metalli).
D’altra parte, fu sufficiente inizialmente, per la relativa semplicità dei primi macchinari, l’inventiva e il talento di gente del mestiere, come avvenne per la «spoletta volante» di Kay o la spenning-jenny di Hargreaves. Tant’è che per la diffusione di questi e altri prototipi di macchinari bastarono i fondi racimolati da fabbricanti e appaltatori tra parenti e conoscenti; mentre, per i successivi sviluppi, fu sufficiente l’autofinanziamento reso possibile dalla progressiva riduzione dei costi della manodopera.
Solo al principio dell’Ottocento, quando si trattò di rinnovare non più la manifattura tessile ma comparti caratterizzati da processi di lavorazione più complessi (dalla siderurgia alla chimica, alla grossa meccanica), fu necessario l’apporto di capitali più consistenti. E divennero allo stesso tempo preziosi i risultati della ricerca scientifica e delle sue applicazioni nel ciclo produttivo. Fu allora che s’impose la macchina a vapore («l’acqua che bolle») di James Watt, destinata a diventare il simbolo per antonomasia di una nuova epoca segnata dalle cadenze del macchinismo.
Ci volle dunque mezzo secolo perché i progressi tecnologici (indotti via via dalla crescita della domanda e quindi dal passaggio a produzioni su più ampia scala) aprissero la strada alla graduale integrazione o sostituzione delle macchine alle braccia dell’uomo, delle fonti d’energia minerarie a quelle biologiche, della fabbrica organizzata alla manifattura a domicilio. E un altro po’ di tempo perché prendesse sempre più forma e spessore un sistema industriale caratterizzato dalla combinazione di tre elementi fondamentali: l’impiego intensivo di macchine utensili rivolto alla produzione di beni per il mercato, l’uso di una quota crescente di capitale fisso superiore a quella destinata alla remunerazione della manodopera, la concentrazione in appositi stabilimenti dei mezzi di produzione e della forza lavoro sotto la direzione di singoli imprenditori.
L’avvento di questa nuova forma d’impresa che tendeva a coordinare in modo unitario e con continuità i diversi fattori della produzione, segnò una cesura radicale rispetto al passato. Sino a quell’epoca gli incrementi di produttività, quando pur si manifestavano, erano talmente lenti da escludere la possibilità di un’effettivo sviluppo economico e un generale miglioramento del tenore di vita. E l’espansione degli scambi, sebbene avesse spezzato una situazione cronica di sostanziale immobilismo, aveva avuto tuttavia un’incidenza relativamente limitata, se è vero che il tasso annuo di crescita del reddito tra Sei e Settecento non era giunto mai a superare in media l’indice dello 0,5 per cento. In altri termini, fu necessario oltrepassare questa barriera rimasta per secoli invalicabile per porre le premesse di un sistema economico assolutamente diverso da tutti gli altri che l’avevano preceduto.
La «rivoluzione industriale» non fu un parto indolore. Sia perché decimò le fila dell’artigianato, sia perché provocò la dissoluzione di antiche forme comunitarie di protezione e solidarietà sociale.
Ma l’Inghilterra, che per prima la portò a compimento fra il 1780 e il 1830, conobbe un’espansione della produzione e del reddito assolutamente senza paragone rispetto a quella di tutte le precedenti fasi della sua storia e senza confronto con il resto dell’Europa. Fu questo l’esordio di un processo di sviluppo che, propagatosi successivamente ad altri paesi, non si sarebbe più arrestato.
Il profitto e non più la rendita, l’impiego del capitale a scopi produttivi e non più il tesoreggiamento, diventarono i cardini della vita economica. Ma perché ciò avvenisse furono pur sempre essenziali le scelte soggettive individuali, le opzioni e i comportamenti di quanti elessero nuovi criteri di azione e preferenza sociale. Sia che il meccanismo propulsivo dello sviluppo consistesse nella destinazione del risparmio all’investimento (nel «sacrificio dell’attesa» come sosterranno gli economisti classici), sia che dipendesse invece dalla formazione di plusvalore (dalla parte del lavoro non retribuita, come avrebbe affermato Marx), la differenza rispetto al passato stava in un sistema che non si basava più sui «frutti oziosi» del possesso, ma sulle relazioni dello scambio e della produzione, sulla creazione di nuove risorse e la loro libera circolazione.
Sebbene non vi sia stata una stretta connessione fra calvinismo e capitalismo come quella teorizzata da Max Weber, non si può negare l’influsso che, sia pur in varia misura, determinati princìpi etici, o talune circostanze legate a motivi di carattere religioso, esercitarono nell’affermazione di particolari attitudini imprenditoriali e di certi orientamenti culturali impregnati di utilitarismo sociale. In Inghilterra il fatto che quanti non appartenevano alla confessione anglicana fossero esclusi dagli uffici pubblici può spiegare l’impegno con cui essi cercarono una rivalsa e una gratificazione personale nelle opportunità di successo offerte dalla gestione degli affari e dall’esercizio delle libere professioni.
Ai primordi dell’industrializzazione, parecchi furono i puritani, i battisti, i quaccheri, gli indipendenti che diedero luogo a robuste dinastie nell’industria come nelle banche e nei commerci; e non pochi di loro erano discendenti da famiglie di ugonotti fuggiti tra Cinque e Seicento dalla Francia, o quelli trasferitisi in Inghilterra (dopo l’unione del 1707) dalla Scozia presbiteriana ancora umiliata da legami feudali e da una povertà endemica. D’altra parte, le università scozzesi di Glasgow e di Edimburgo si distinguevano da Oxford e Cambridge, arroccate nelle loro tradizioni accademiche e nel loro esclusivismo patrizio, per l’interesse portato alla sperimentazione pratica e per una maggior aderenza al credo utilitarista. La stessa cosa si potrebbe dire per le scuole scozzesi più aperte a nuovi indirizzi pedagogici e alle discipline scientifiche che non le corrispondenti scuole di campagna inglesi. Perciò non è un caso che dalle scuole e dai cenacoli scozzesi provenissero alcuni geniali inventori di macchine come Thomas Newcomen e James Watt.
Sarebbe tuttavia fuorviante generalizzare il binomio fra dissenso e industria, fra Bibbia e libromastro. Cenacoli come la Lunar Society di Birmingham (che annoverò tra i suoi membri scienziati e industriali) o come la Literary and Philosophical Society di Manchester e altre accademie private, rese illustri dall’insegnamento di Priestley o di Dulton e da leve di ambiziosi capitani d’industria come Wilkinson e Benjamin Gott, ebbero un ruolo importante nell’instaurazione di stretti rapporti fra il mondo della scienza e quello della produzione.
A mettere comunque d’accordo il profitto e la fede (calvinista o anglicana che fosse) fu un’opera come la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith comparsa nel 1776. Individuando la sorgente della ricchezza nel lavoro, e sostenendo che entrambe le parti di un rapporto di scambio possono trarne beneficio, il filosofo scozzese non solo diede un vigoroso colpo di piccone al vecchio edificio corporativo e oligarchico dello Stato mercantilista. Asserendo che ogni soggetto, perseguendo il proprio interesse particolare, finisce col realizzare l’interesse collettivo, egli rese compatibili ricchezza e morale, il profitto individuale con il bene comune.
Quello di Adam Smith non era un modello astratto, bensì il risultato di un’indagine sulle motivazioni dell’agire umano, alla ricerca di un ordine e di una legge «naturale», e perciò di quelle regole di comportamento e di quelle norme politiche che, basate sul principio della «convenienza», valessero ad accrescere la prosperità di uno Stato. A suo giudizio, la condotta degli uomini è determinata da un insieme di impulsi: l’egoismo, la ricerca di approvazione, il desiderio di libertà, il senso della proprietà, l’abitudine al lavoro, la tendenza allo scambio. Ogni uomo è il giudice migliore del proprio interesse e pertanto dev’essere lasciato libero di soddisfarlo secondo le sue inclinazioni, tanto più che in tal modo, spinto da un istinto naturale, egli non realizza solo il proprio tornaconto personale, ma concorre anche all’utile e al progresso della società, in quanto guidato da una «mano invisibile» a raggiungere un fine che va al di là dei suoi propositi. Per «mano invisibile» Smith intendeva l’influenza della domanda e dell’offerta sui prezzi (e, di conseguenza, sulle decisioni di ogni operatore), per cui soltanto un regime di libera concorrenza può assicurare l’equilibrio del mercato e le migliori soluzioni possibili per tutti.
Egli giunse così ad affermare che il dispiegarsi dei contrastanti interessi dei singoli, lungi dal generare il caos e l’anarchia, si risolve in una equilibrata e provvidenziale armonia: purché nessuna forza esterna e nessuna coercizione turbino il corso delle cose e, quindi, la spontanea composizione degli opposti egoismi. L’originalità dell’opera di Adam Smith consistette, tuttavia, non soltanto nell’assunzione del libero gioco delle forze economiche a cardine fondamentale dell’ordine sociale. Il suo trattato valse anche a confutare il paradigma della scuola fisiocratica che vedeva nella rendita della terra l’unica forma di sovrappiù.
Il lavoro di per se stesso venne riconosciuto come la sorgente precipua della ricchezza, di «quel fondo di beni – osservava Smith – da cui ogni nazione trae tutte le cose necessarie e comode della vita, che annualmente essa consuma». Si spiega perciò l’importanza che egli attribuiva alla divisione del lavoro in quanto necessaria per realizzare nel modo più proficuo la cooperazione tra gli individui e, di conseguenza, il continuo aumento della produttività. Sicché la ragion d’essere del profitto stava nella remunerazione del capitale impiegato a tal fine (che Smith considerava come lavoro accumulato e investito); e la determinazione del salario reale dipendeva dal contributo offerto al processo produttivo dall’allocazione ottimale del fattore lavoro e dai meccanismi di riequilibrio operanti nei mercati.
Da questi postulati egli traeva infine una concezione della struttura sociale ridisegnata sulla base dell’efficienza produttiva. Giacché poneva nelle «classi fondamentali» gli imprenditori, i proprietari e i lavoratori salariati; mentre accomunava in una categoria da lui definita col termine di «lavoratori improduttivi» i funzionari dello Stato, i professionisti e i militari: non perché essi fossero inutili, ma perché di per sé non accrescevano le risorse materiali ma le consumavano. Ragion per cui la ricchezza di una nazione dipendeva essenzialmente dalla quota dei «lavoratori produttivi» sul totale della popolazione e dai progressi della divisione del lavoro.
La teoria smithiana del valore dei beni, come quella della capacità autoregolativa del mercato, è stata oggetto di infinite controversie. Tanto che proprio sulla critica ai princìpi del laissez-faire si vennero sviluppando tanto l’analisi marxista, in radicale alternativa al sistema capitalistico, quanto le concezioni riformiste di diversa estrazione miranti ad attenuare, in nome di ideali di solidarietà e socialità, gli squilibri e gli effetti più dirompenti dell’individualismo competitivo.
In ogni caso, il notevole ascendente esercitato dall’opera di Smith stava nella correlazione fra libertà economica e libertà politica. E ciò spiega l’intima aderenza delle sue tesi alle prospettive dell’Inghilterra di quel tempo. Dalla pacifica «rivoluzione» del 1689 che aveva cancellato gli ultimi residui dell’assolutismo, le prerogative del Parlamento erano andate rafforzandosi e il regime costituzionale era propizio tanto allo sviluppo delle libertà personali e della tolleranza religiosa (di cui s’era fatto assertore John Locke), quanto a un’ordinata evoluzione civile fondata sulla separazione dei poteri, sulla certezza del diritto, sull’inviolabilità della proprietà privata, sulla conciliazione fra interessi individuali e utilità sociale (sulla base di quell’empirismo che Hume riteneva essenziale sia quale metodo precipuo di conoscenza, sia quale regola fondamentale di convivenza).
Anche i fattori istituzionali e culturali ebbero dunque un’incidenza rilevante nella genesi della rivoluzione industriale. Se pur all’eccezionale crescita dell’economia inglese contribuirono alcune vantaggiose condizioni del tutto peculiari tanto di carattere strutturale che congiunturale, è innegabile che il suo primato si dovette anche ai più ampi spazi di libertà personale e di autonomia della società civile consentiti dal sistema politico. Non si spiegherebbe altrimenti come mai la Francia, che pur contava maggiori risorse e sopravanzava l’Inghilterra quanto a conoscenze scientifiche, non sia riuscita a tenere lo stesso passo e proprio in questo periodo abbia visto anzi crescere il suo divario economico rispetto alla Gran Bretagna.
In realtà, se la maggioranza degli imprenditori inglesi si rivelò più aperta e dinamica, ciò dipese dal fatto che essi erano da un lato più liberi di agire e, dall’altro, più interessati alla costruzione delle proprie fortune personali che all’acquisizione di prebende e rendite pubbliche. In Francia, per quanto fosse cresciuto il ruolo del ceto commerciale (in particolare nei centri marittimi) e di quello manifatturiero (attivo soprattutto nel nord-est del paese), la ricchezza rimaneva pur sempre concentrata nelle mani della nobiltà e alla borghesia degli affari continuava ad essere precluso di regola l’accesso al potere politico. Questa condizione di inferiorità era tanto più pregiudizievole per gli interessi economici e lo status sociale di imprenditori e mercanti quanto più l’aristocrazia tendeva non solo a far valere le sue prerogative ma anche a scaricare sui ceti produttivi il maggior peso degli on...