Edizione: 2020 Pagine: 272 Collana: Anticorpi [71] ISBN carta: 9788858140710 ISBN digitale: 9788858142004 Argomenti: Attualità politica ed economica, Attualità culturale e di costume
Nel corso della storia si alternano stagioni caratterizzate da un sostanziale equilibrio a tornanti in cui si intrecciano fenomeni di ordine strutturale e particolari eventi politici che finiscono col generare un cambio radicale di paradigmi. Quest’ultima è la fase storica che stiamo vivendo.
L’emergenza Covid-19 ha rappresentato uno spartiacque epocale proprio mentre eravamo immersi in un’età di profondi mutamenti: l’affermazione della tecnoscienza nella sfera dell’economia e della società; l’avvento, nell’età del web e dei Big Data, di nuovi strumenti di potere e di gestione del consenso; l’emergenza ambientale. In questo scenario, denso di pesanti incognite, si stanno giocando diverse partite volte a ridefinire gli equilibri mondiali. Da un lato gli Stati Uniti e la Cina si stanno scontrando per stabilire chi avrà l’egemonia globale. Allo stesso tempo, una risorgente Russia e alcune potenze regionali (come l’India, il Giappone, l’Arabia Saudita, l’Iran e la Turchia) stanno assumendo un ruolo di rilievo e una autonomia fino a ora sconosciuta.
Intanto l’Unione Europea si trova in grande difficoltà. Il suo indebolimento non si deve solo a cause di ordine strutturale e agli effetti della globalizzazione, ma al fatto che s’è inceppato il processo d’integrazione nei versanti nevralgici della politica estera e della sicurezza, del welfare e delle innovazioni di sistema.
Un libro in cui un grande maestro della storia economica presenta un’analisi penetrante dello stato di salute del pianeta e dei rischi che ci troviamo ad affrontare.
Valerio Castronovo, già ordinario di Storia contemporanea all’Università di Torino, è direttore della rivista di scienze e storia “Prometeo” e presidente dell’Istituto di studi storici “Gaetano Salvemini” di Torino. Collabora al “Sole 24 Ore”. Tra le sue più recenti pubblicazioni, Le ombre lunghe del ’900. Perché la Storia non è finita (Mondadori 2010) e Storia economica d’Italia dall’Ottocento ai giorni nostri (Einaudi 2013).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.
I. Uno scenario dai tratti distintivi epocali
1. Nel corso della storia si alternano, a certe stagioni caratterizzate da un sostanziale
equilibrio fra permanenze e discontinuità, alcuni tornanti in cui la maturazione di
determinati fenomeni di ordine strutturale e il sopraggiungere di particolari eventi
politici, intrecciandosi o sovrapponendosi, finiscono col generare un cambio radicale
di paradigmi e di percorsi.
Questa è, per l’appunto, la fase che stiamo vivendo e che si differenzia nettamente
da altre transizioni avvenute in passato: tanto intensi risultano i mutamenti susseguitisi
di recente, con una rapidità mai prima d’ora così vertiginosa, per via di una serie
di procedimenti tecnologici, dall’intelligenza artificiale alla macchina algoritmica,
la cui portata e versatilità investono sia la sfera dell’economia e della società
che quella della politica e dell’etica pubblica.
È vero che il secolo scorso aveva conosciuto rilevanti conquiste scientifiche e applicazioni
tecnologiche. Ma la tecnoscienza non era mai giunta, come sta avvenendo adesso con
la quarta rivoluzione industriale e con l’impatto molteplice degli strumenti digitali,
ad assumere un ruolo chiave così determinante e pervasivo: anche per via delle sue
strette connessioni con un processo di globalizzazione delle economie e delle conoscenze
divenuto sempre più intenso e capillare dall’inizio del nuovo millennio.
In Occidente, dove pur avevano preso avvio i cambiamenti impostisi ai giorni nostri,
si è tardato a prendere piena consapevolezza, in tutti i loro risvolti, delle profonde
trasformazioni e prospettive di segno diverso che andava generando il binomio fra
gli sviluppi della tecnoscienza e quelli del mercato globale. Innanzitutto perché
l’opinione pubblica ha coltivato, per un lungo periodo, la gratificante convinzione
che le nuove tecnologie e il trend della globalizzazione avrebbero seguitato ad agire
a tutto vantaggio dei Paesi più avanzati.
Questa sorta di assunto categorico, dominante nel corso degli anni Novanta, si fondava
non solo su un teorema secondo cui l’estensione a ogni latitudine degli scambi e dei
rapporti finanziari avrebbe fornito sempre più carburante e dinamismo al sistema economico
del Primo Mondo. Si basava anche su una certezza politica largamente diffusa: ossia
che, dopo la caduta del Muro di Berlino e l’estinzione dell’Unione Sovietica, la democrazia
si sarebbe propagata prima o poi là dove non era riuscita ancora a spuntare o non
aveva mai attecchito, tanto più in quanto sospinta al successo dalla forza espansiva
degli Stati Uniti, assurti a superpotenza planetaria. Insieme ai valori della democrazia
liberale si sarebbero così affermati anche i principi dell’economia di mercato, che,
stimolando la concorrenza fra i produttori e incentivando le innovazioni, avrebbero
consentito ai consumatori, e quindi alla massa della popolazione, di godere dei vantaggi
della competizione in fatto di prezzi minori e di beni di migliore qualità.
A ben poco erano serviti i moniti di alcuni analisti, secondo i quali il corso sempre
più intenso della globalizzazione avrebbe generato gravi distorsioni qualora le transazioni
commerciali e finanziarie fossero state lasciate correre a briglia sciolta, senza
l’adozione di regole efficaci e simmetriche. Aveva così seguitato a far testo, sulla
scia del “Washington Consensus” e con un dollaro che assicurava agli Stati Uniti un
ruolo preminente nella governance dell’economia internazionale, un indirizzo imperniato
su un’ampia deregulation, destinato a sfociare in una sorta di fondamentalismo mercatista
dottrinario e incondizionato.
Tuttavia il commercio mondiale aveva registrato fra il 1990 e il 2006 tassi medi di
sviluppo elevati, fra il 6 e l’8 per cento l’anno; e, sull’onda di queste proiezioni,
non solo i principali Paesi dell’Occidente avevano tratto consistenti benefici. Anche
quelli rimasti fino ad allora alle soglie dello sviluppo o a metà strada nella rincorsa
alla modernizzazione avevano accelerato il passo. Inoltre una massa di gente in varie
regioni del pianeta, soggetta in passato a una miseria endemica, aveva migliorato
in qualche modo le proprie condizioni, dato che il numero di persone con un reddito
di un dollaro o due al giorno era sceso a 1,2 miliardi su una popolazione mondiale
di 5,8 miliardi.
Di fatto, rispetto all’allargamento dei rapporti di scambio e dei traffici transcontinentali
che aveva segnato man mano dal Cinquecento in poi la formazione di un’economia-mondo,
la globalizzazione in corso dall’ultimo tratto del ventesimo secolo stava tracciando
una svolta di carattere epocale.
Non solo quegli abitanti del pianeta relegati da tempo ai margini dello sviluppo avevano
cominciato a migliorare il proprio tenore di vita in termini di salute, istruzione
e benessere, come mai era avvenuto in passato (col risultato di mettere in moto, negli
ultimi decenni, un’esplosione demografica nelle contrade del Terzo e Quarto Mondo).
Erano comparsi anche nuovi prodotti e servizi, nuovi modelli di business più complessi
e abilitanti, sulla spinta delle tecnologie digitali e col passaggio a un’economia
della conoscenza, mentre una moltitudine di dati e informazioni aveva preso a circolare,
tramite Internet, in tempo reale dall’uno all’altro capo del mondo. Di qui una crescente
interconnessione e interdipendenza fra differenti aree geografiche, comunità e culture,
in forme e con cadenze del tutto inedite.
Perciò la globalizzazione s’era rivelata, lungo la strada, non solo più una sorta
di “manna” piovuta dal cielo unicamente sull’Occidente e funzionale, in primo luogo,
agli interessi degli Stati Uniti. Dopo il Giappone, artefice di una performance industriale
postfordista segnata dalla lean production, e dopo gli exploit delle cosiddette “tigri asiatiche” (Corea del Sud, Singapore,
Hong Kong e Taiwan), avevano spiccato il volo anche due pachidermi, come la Cina e
l’India, con una popolazione pari a quasi metà di quella mondiale, sospinti dalla
crescente espansione dei consumi nei Paesi più avanzati ma animati, nel contempo,
da una prorompente aspirazione a divenire, con le loro risorse, protagonisti del ventunesimo
secolo.
2. Si era così preso atto della necessità di una visione del mondo non più occidentalcentrica,
ancorata a un’ottica e a una logica euroatlantica. Senza tuttavia pensare che potesse
avvenire, prima o poi, un mutamento dell’ordine internazionale.
Ben pochi avevano infatti immaginato che il “Dragone rosso” sarebbe giunto a insidiare,
in un breve giro di tempo, la preminenza dell’Occidente. Se ciò è accaduto lo si deve
non solo all’eccezionale crescita della sua produttività ma anche al fatto che, ad
assecondare la sua formidabile ascesa economica, sono state le stesse potenze occidentali,
nell’intento di dar modo alla Cina postmaoista di consolidare la sua conversione al
“socialismo di mercato”, ritenendola il preludio di un nuovo assetto politico più
aperto e garante dei diritti civili. Quest’aspettativa ha portato gli Usa e l’Europa
a chiudere più d’un occhio sulle pur palesi antinomie di Pechino rispetto alle norme
della World Trade Organization (Wto). Di fatto, mentre il regime politico cinese è
rimasto pur sempre cristallizzato entro un assetto totalitario, Pechino ha potuto
ricorrere a una serie di espedienti (come la manipolazione della sua valuta per sostenere
le esportazioni, un sistema di prezzi a doppio binario e accentuate forme di dumping sociale) per innestare una marcia sempre più alta nell’escalation economica. È pur
vero che anche l’India, grazie non solo al boom del software elettronico ma a un robusto
dirigismo statale e a forti dazi protezionistici, s’è affrancata da uno stadio di
sottosviluppo e ha fatto ingresso a vele spiegate nel mercato globale. Ma è stata
la Cina, in quanto politicamente monolitica e dotata sia di tradizionali attitudini
mercantili sia di cospicue potenzialità materiali, a diventare il principale competitore
dell’Occidente.
La globalizzazione ha perciò smentito le previsioni iniziali di Washington e dei governi
occidentali su un ulteriore ampliamento della propria sfera d’influenza e di penetrazione
economica su scala planetaria. Cina e India hanno preso il largo, mentre l’America
e l’Europa sono state frattanto azzoppate da quella sorta di boomerang che è stata
la grande crisi esplosa nel 2008. L’assenza di norme adeguate che assicurassero una
reale governance multilaterale della globalizzazione e gli effetti patologici di una
straripante finanziarizzazione dell’economia hanno infatti agito da principali generatori
del devastante cortocircuito avvenuto nel cuore del sistema capitalistico. Al punto
da evocare i fantasmi del drammatico crollo nel 1929 di Wall Street e della Grande
depressione perpetuatasi negli anni Trenta.
Quanto sia stato dirompente l’impatto sulle società occidentali del sisma avvenuto
fra il 2007 e il 2008, al culmine di una stagione di convulse speculazioni finanziarie,
lo si seguita a constatare ai giorni nostri in forme e dimensioni sempre più evidenti.
Poiché s’è infranto non solo un insieme di certezze e garanzie di stabilità e sicurezza;
ma perché si sono moltiplicate, in seguito a una dilatazione delle disuguaglianze
sociali, le apprensioni e le angosce a tal punto che esse sono divenute una condizione
esistenziale intrinseca per una parte crescente delle classi popolari.
Questa cesura e inversione di tendenza apertasi in Occidente dagli inizi del nuovo
secolo, rispetto ai decenni postbellici, non sarebbe stata, peraltro, così marcata
qualora i principali governi avessero considerato per tempo e debitamente la duplice
faccia della medaglia di un fenomeno come la globalizzazione, in quanto foriera di
ulteriori opportunità di sviluppo e di progresso ma anche densa di sfide e insidie
cruciali. Va perciò rilevato quanto sia stato micidiale l’intreccio fra eccessi di
fiducia politici ed errori di valutazione economici che ha caratterizzato, innanzitutto,
la condotta della classe dirigente americana in un crinale come quello tra l’ultimo
tratto del Novecento e gli esordi del Duemila.
L’amministrazione democratica di Bill Clinton, dapprima, e poi quella repubblicana
di George W. Bush sono state accomunate infatti da un’ondata di ottimismo che le ha
portate a considerare dei semplici “incidenti di percorso” gli scivoloni dei mercati
finanziari avvenuti nel 1997-98 in vari Paesi asiatici e dell’America Latina e, successivamente,
lo scoppio della bolla dei titoli tecnologici e di quella dei subprime: come se fossero espressione (per dirla con l’allora governatore della Fed Alan Greenspan)
solo di “un’esuberanza irrazionale” temporanea. A sua volta, il mondo dell’alta finanza,
a cui facevano capo i fiumi di capitali che ogni giorno correvano da una piazza all’altra
in un giro sempre più vorticoso d’affari e di manovre azzardate, era andato riducendo
gli spazi della produzione di beni e servizi a vantaggio della produzione di denaro
per produrre altro denaro.
Di qui il crescente divario fra una produzione effettiva di ricchezza e la sua moltiplicazione
fantasmatica. Un fenomeno a cui anche gli ambienti finanziari europei non sono rimasti
estranei, concorrendo perciò a una catena di pesanti effetti domino. E che poi la
classe politica ha indugiato per troppi anni ad affrontare mediante adeguate misure
anticicliche.
3. Si è assistito, nel contempo, a una concentrazione a dismisura della ricchezza
nell’ambito di un capitalismo finanziario autoreferenziale e delocalizzato su scala
globale, che produce servizi e merci immateriali con un alto saggio di profitti. Ma
si è assistito anche a un altro fenomeno, nell’era di Internet, come l’ascesa dei
social network a Dna di un nuovo sistema di comunicazioni, che ha avviato un processo
di disintermediazione attraverso l’infosfera. Accanto alle reti digitali, che hanno
facilitato nel quadrante economico lo scambio e la propagazione istantanea di una
massa di dati e informazioni, ma pure di fake news, è andata crescendo nella vita
pubblica una proliferazione trasversale di ragguagli semplici e veloci, di congetture
accattivanti, di slogan virali.
Insieme alle trasformazioni a raggiera prodotte dagli ingranaggi di un’impetuosa globalizzazione,
anche l’influenza su milioni di individui, sui loro modi di sentire e di pensare,
di una narrazione multimediale rapsodica e volatile della realtà, prodotta dai blog
e dagli account twitter, ha concorso all’avvento di una “società liquida” – per dirla
con Zygmunt Bauman – dalle connotazioni sempre più fluide e mutevoli, come quella
dell’odierna epoca elettronica e digitale. Una società più aperta, densa di nuovi
stimoli e fermenti, ma anche più fragile e vulnerabile, in quanto esposta sia alle
suggestioni ingannevoli della “cyberdemocrazia” (di una partecipazione online dei
cittadini) sia agli strumenti di controllo dei Big Data (nuove fonti di potere e ricchezza)
da parte dei “signori” del web, grandi oligopoli in grado non solo di penetrare nei
meandri dell’attività commerciale per fare soldi, ma anche di inserirsi nella sfera
politica e nella stessa vita privata degli individui.
A qual punto sia giunto il raggio d’azione delle lobby apicali di Internet lo si evince
dal fatturato della “data economy”, stimato dalla Commissione europea in una cifra
pari (entro il 2020) a 730 miliardi di euro, con sette milioni e mezzo di addetti.
In questo contesto due sono i rischi che incombono sui cittadini. In primo luogo,
sono destinate a ridursi le possibilità di verifica e monitoraggio esercitati in passato
dall’opinione pubblica nei riguardi della classe politica e delle sue decisioni. Inoltre
troveranno sempre più udienza e terreno fertile, per via della subcultura dei social
media, sia l’ipnosi di una “personalizzazione della democrazia”, in quanto avulsa
da forme organizzate di mediazione e rappresentanza della società civile (all’insegna
dell’assunto per cui “uno vale uno”), portata a dare risposte suadenti e di facile
maneggio a problemi ancorché complessi e impegnativi, sia le attrattive dell’antipolitica,
di una visione negativa tout court della politica, in quanto considerata alla stregua di un costo e di uno spreco, o
di un’attività riservata unicamente ai benestanti.
Non secondariamente, c’è il rischio che l’intelligenza artificiale divenga una poderosa
macchina di persuasione e manipolazione occulta, a disposizione di chi giunga ad acquisire
e a gestire sul web informazioni d’ogni genere ma anche dati personali sugli utenti
di Internet, e sia perciò in grado di orientare e condizionare, da dietro le quinte,
cosa scegliere e cosa fare o di alimentare certe reazioni emotive come rabbia e paura.
Sono dunque evidenti quali gravi strappi questo network pervasivo produrrebbe nella
democrazia liberale e a danno dei diritti e della dignità individuale. Ma in Occidente
le istituzioni pubbliche hanno cominciato solo ora a porsi il problema di regolamentare
l’uso dei nuovi strumenti digitali di comunicazione, sempre più sofisticati e al tempo
stesso sempre più capaci di influenzare sia la psicologia e il comportamento delle
persone nella vita quotidiana, sia i loro orientamenti politici e il loro voto nelle
tornate elettorali.
II. Le criticità dell’Europa
1. Il crack che ha travolto nel 2008 Wall Street non è stato il parto solo di un’ingordigia
del big business americano spinta all’eccesso. Anche l’alta finanza europea ha fatto
la sua brava parte nell’ingrossare la spirale perversa dei derivati e di altri titoli
tossici. E l’establishment di Bruxelles, come quello di Washington, venne colto alla
sprovvista, psicologicamente disarmato, prima ancora che impreparato, ad affrontare
le ripercussioni di un così grave scossone. Dopo la fine della Guerra fredda nelle
cancellerie europee si era puntato, non dovendo più assolvere gli stessi onerosi impegni
d’un tempo contemplati dal Patto Atlantico, ad accrescere gli investimenti in servizi
pubblici e infrastrutture. Inoltre l’unione monetaria e l’ampliamento del mercato
avevano indotto i governi dell’Eurozona a pensare che ciò avrebbe finito col produrre,
quasi per partenogenesi, anche l’unità politica.
Talmente salda e largamente condivisa dall’opinione pubblica era la convinzione della
classe politica sull’avvento di una forte federazione sovranazionale e sulla solidità
economica dell’Unione Europea che questa certezza venne sancita nel Trattato di Lisbona
del 2007, in cui veniva affermata l’intenzione di fare, entro il 2020, della Ue, nel
suo complesso, da Ovest a Est, l’area più dinamica e florida del mondo, anche in quanto
fondata su robuste istituzioni comunitarie.
D’altra parte c’era allora più di un motivo per ritenere che questa prospettiva così
avvincente non fosse un miraggio, ma un traguardo a portata di mano. Negli ultimi
anni erano cresciute dovunque in Europa le liberalizzazioni e le privatizzazioni,
e gli Stati s’erano perciò tolti di dosso i vecchi fardelli burocratici e centralistici;
era aumentato il volume degli investimenti; le nuove tecnologie stavano ampliando
la sfera delle cognizioni ed elevando i livelli della produttività. Era scomparsa
dall’orizzonte anche la minaccia rappresentata in passato da un sorpasso dell’Unione
Sovietica nella ricerca scientifica e nella gara spaziale, e nei principali laboratori
europei era in corso un nuovo grande balzo nelle partite chiave verso il futuro.
Inoltre, dal 2004 l’Unione Europea aveva aggregato stabilmente sotto le sue insegne
gran parte dei Paesi dell’ex blocco comunista. E, sebbene Bruxelles seguitasse a soccorrerli
tramite appositi fondi strutturali, si riteneva che presto essi sarebbero stati in
condizione di migliorare le proprie economie e di costituire perciò altrettanti mercati
per un ulteriore sviluppo delle esportazioni e di investimenti diretti, mentre fornivano
intanto ai Paesi dell’Ovest forza lavoro a costi minori per certe lavorazioni agricole
e l’espletamento di alcune mansioni nel comparto dei servizi.
Quanto alla linea di condotta sul versante politico, si stava realizzando una tendenziale
convergenza tra le principali forze di governo della Ue, la sinistra riformista e
l’ala liberaldemocratica di centro. Era la cosiddetta “Terza Via”, tenuta a battesimo
nel 1997 dal New Labour del premier britannico Tony Blair, che si basava sull’idea
che lo Stato avrebbe dovuto circoscrivere l’ambito dei suoi interventi nella sfera
economica e contribuire invece, con adeguati incentivi nel campo della formazione,
ad addestrare e temprare le persone ai cambiamenti, in modo da renderle capaci di
camminare con le proprie gambe e, quindi, di progettare il proprio itinerario e la
propria collocazione nella società. Perciò si dava notevole importanza alle motivazioni
individuali, allo spirito di iniziativa e alla capacità di aggiornare le proprie cognizioni.
Poteva quindi ben valere l’assunto “più mercato e meno Stato”, teorizzato da Milton
Friedman e dalla scuola di Chicago, purché non si dessero le ali a un liberismo senza
regole e avulso da determinate finalità d’interesse collettivo. La “Terza Via” aveva
infatti per obiettivo l’avvento di un sistema economico più efficiente e flessibile,
in linea con le nuove sfide del mercato globale, imperniato su un equilibrio fra competizione
e cooperazione internazionale, fra i principi della libera iniziativa e forme più
selettive di redistribuzione e protezione sociale.
Senonché, dopo il crollo di Wall Street – che era stato provocato da una vera e propria
follia speculativa e aveva dimostrato in modo lampante quanto fosse erronea la proposizione
secondo cui il mercato era sempre in grado di autoregolarsi generando sviluppo e prosperità
–, ci si era trovati a fare i conti con due evenienze cruciali: da un lato, l’assenza
di un sistema di norme che non lasciasse troppa corda alla Cina e ad altri Paesi emergenti
di agire fuori dalle regole della Wto; e, dall’altro, l’impossibilità di ricorrere,
in forme omogenee e consensuali, a terapie espansive di tipo keynesiano per garantire
esigenze essenziali come la domanda aggregata, l’occupazione e la sicurezza sociale.
Era stata comunque l’Europa a trovarsi in serie difficoltà, a differenza degli Stati
Uniti. Nel giro di due anni il governo federale americano aveva infatti contribuito
a ricapitalizzare, con un’apposita batteria di prestiti, le banche più traballanti
e ad aiutare un settore come quello automobilistico – uno dei principali bacini dell’occupazione
operaia – a rimettersi gradualmente in sesto. Inoltre Barack Obama aveva varato un
piano di investimenti pubblici da 800 miliardi di dollari e, se il deficit era balzato
al 12 per cento del Pil, dal 2010 gli Usa erano tuttavia usciti dalle spire della
“grande recessione” e, grazie a una ripresa in forze, i conti erano man mano tornati
sotto controllo.
Nel Vecchio Continente, invece, la dottrina ordoliberista tedesca, che aveva continuato
a improntare la politica economica dell’Eurozona, non contemplava adeguati margini
di flessibilità nei conti pubblici per far fronte a eventuali shock esterni di vasta
portata; né consentiva alla Banca centrale europea alcun genere di intervento quale
prestatore di ultima istanza, poiché il suo compito doveva essere unicamente di garantire
la stabilità dei prezzi: come stava scritto nel suo statuto. A tal fine la Bundesbank
s’era avvalsa, durante la gestazione del Trattato di Maastricht, sia della sua spiccata
autonomia, rispetto al potere politico, sia della sua posizione preminente fra le
banche centrali europee, per dettare le condizioni e le regole del gioco in ordine
al varo dell’euro, in modo che la moneta unica fosse altrettanto stabile quanto lo
era stato il marco. E ciò, indipendentemente dalla tesi divulgata dai governanti di
Bonn, per giustificare quanto venne allora deciso dalla Bundesbank, che essa avrebbe
così esorcizzato lo spettro di una deriva iperinflattiva come quella che aveva travolto
a suo tempo la Repubblica di Weimar e aperto la strada all’avvento del regime nazista.
Di fatto l’indirizzo prevalso da allora in sede europea, di cui il ministro tedesco
delle Finanze Wolfgang Schäuble era il massimo alfiere, aveva comportato la rinuncia,
dopo la sterzata recessiva manifestatasi dal 2009, a una politica anticiclica di investimenti
pubblici nel medio periodo. Col risultato, perciò, di deprimere ancor più i Paesi
in difficoltà e di prolungare, per il resto, i tempi necessari per riavviare i motori
della crescita.
2. Ci si chiede tuttora se non si poteva trovare in pratica il modo di mediare fra
l’“ossessione” della Germania per il pareggio del bilancio, condivisa da vari Paesi
del Nord Europa (in nome di una filosofia neoliberista, fondata sulla restrizione
delle prerogative dirigistiche esercitate in passato dallo Stato), e l’“assillo” di
quelli del Sud Europa (tendenti a considerare la spesa pubblica in disavanzo una leva
fondamentale sia per uno stimolo all’economia che per la coesione sociale). D’altronde
era evidente l’asimmetria che caratterizzava, fin dai suoi esordi, l’architettura
economica della Ue a causa della disparità originaria – in fatto di risorse materiali,
strutture produttive e assetti finanziari – fra le sue diverse componenti.
Proprio per questo motivo, al momento di stendere nel 1992 il Trattato di Maastricht,
si era pensato di costruire un’Eurozona basata su un’unica politica monetaria ma operante
sulla scorta di politiche fiscali e di bilancio nazionali che avrebbero dovuto man
mano convergere, in virtù di determinati meccanismi vincolanti introdotti successivamente
col Patto di stabilità e crescita. Ma un percorso così complesso avrebbe dovuto venir
assecondato da un principio come quello della sussidiarietà e da adeguate misure di
sostegno con effetti redistributivi. Ci si era invece scontrati con un pregiudizio
diffuso in Germania: ossia la convinzione che i debiti dei Paesi economicamente più
deboli e dissestati, come quelli dell’area mediterranea, fossero dovuti soprattutto
alla loro condotta da cicale imprevidenti. Del resto, il termine Schuld significa in tedesco tanto debito quanto colpa. E ciò aveva contribuito alla decisione
di Berlino, nonché di vari governi nordici, di respingere l’ipotesi di una mutualizzazione
dei debiti sovrani attraverso la creazione di obbligazioni del debito pubblico, da
emettersi a cura di un’apposita agenzia dell’Unione Europea, la cui solvibilità venisse
garantita dai Paesi dell’Eurozona.
Sebbene l’emissione di eurobond fosse una soluzione sostenuta, fra gli altri, dal
presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, non era stato dunque possibile superare lo sbarramento
oppostovi dalla Germania e da altre nazioni del Nord Europa. D’altronde esse si richiamavano
alle norme del Trattato di Lisbona che non contemplava l’adozione di una politica
finanziaria comune. Ragion per cui, a detta di Berlino, si sarebbe dovuto agire entro
questa cornice, senza alcuna eccezione di sorta.
Alla lunga, c’era voluto l’intervento nel luglio 2012 del governatore della Bce Mario
Draghi che avrebbe “fatto di tutto” per salvaguardare l’esistenza dell’euro, per superare
le obiezioni della Bundesbank e sorreggere i Paesi più indebitati, altrimenti sul
punto di essere travolti da un’impennata insostenibile dei tassi d’interesse. L’annuncio
che l’Eurotower avrebbe adottato una politica monetaria espansiva era valso, nel pieno
della recessione, a rimettere in circolazione una massa di titoli pubblici rimasti
incollocati sui mercati; successivamente, l’attuazione dal marzo 2015 di un programma
mensile di acquisti da parte della Bce aveva agito da “supporto strategico” a un’economia
europea altrimenti languente, con l’immissione di adeguate dosi di liquidità per sospingere
gli investimenti e la produzione fuori dal cortocircuito fra ristagno e deflazione.
Ma se questo pacchetto di misure non convenzionali quanto inedite concorse, evitando
un approfondimento del gap fra i Paesi più “virtuosi” e quelli con i conti pubblici
più squilibrati, a scongiurare il pericolo di una disgregazione delle istituzioni
comunitarie, non s’era giunti poi a Bruxelles a orientarsi verso una politica di bilancio
comune nell’area dell’euro che agisse nello stesso senso della politica monetaria,
in quanto sarebbe stato necessario a tal fine un consenso unanime di tutti gli Stati
membri dell’Eurozona.
Inoltre, in mancanza di un consistente piano di investimenti pubblici, ma anche di
certe riforme strutturali a livello nazionale, non vennero rimarginate le profonde
ferite provocate sul piano sociale dalla grande crisi del 2008. Pressoché dovunque
in Europa, a una crescita del numero dei disoccupati nell’industria manifatturiera
e nell’indotto e a un impoverimento di ampie fasce del ceto medio per il calo dei
loro redditi e risparmi, s’erano aggiunte una restrizione delle prestazioni nel campo
della sanità e dell’assistenza pubblica, e una caduta più o meno accentuata dei consumi,
nonché una rarefazione delle opportunità di lavoro per i giovani.
Si trattava quindi di malanni tali da provocare una vasta ondata di ansia e pessimismo.
Insieme ai militanti della sinistra e ai movimenti d’opinione d’ispirazione progressista,
una larga parte di cittadini ed elettori di altre colorazioni politiche si chiedeva
se lo “Stato sociale”, costruito con tanta fatica nel dopoguerra, sarebbe riuscito
a sopravvivere in un’epoca caratterizzata da un lavoro sempre più fluido e incerto
e da un costante invecchiamento della popolazione.
Il punto nodale stava nel fatto che una riorganizzazione del welfare risultava comunque
un’operazione particolarmente laboriosa e complessa, in quanto si trattava di passare
da una protezione generalista a forme di assistenza commisurate alle condizioni economiche
dei beneficiari; di elevare l’età pensionabile per le categorie non soggette ad attività
usuranti in modo da contenere una spesa previdenziale altrimenti esorbitante rispetto
alle tendenze demografiche; e di rivedere tutta la partita degli ammortizzatori sociali
e dei sussidi di disoccupazione in base a nuove politiche attive del lavoro (come
quelle, per esempio, sperimentate nei Paesi scandinavi, tramite dei test periodici
di “occupabilità” che consentivano ai lavoratori di accertare lo stato delle loro
competenze per passare o meno all’esercizio di nuove mansioni).
Insomma, per corrispondere alla domanda di lavoro e di protezione sociale, si sarebbero
dovuti adottare nuovi congegni per favorire una mobilità occupazionale e nuove forme
appropriate di solidarietà. Tuttavia, in presenza di profili di rischio molto diversi,
o di forti differenziazioni culturali e professionali fra le varie fasce di lavoratori,
va riconosciuto come fosse un compito arduo costruire un sistema articolato di provvedimenti
che coprissero le esigenze di quanti avevano perso l’occupazione o la cercavano per
la prima volta.
III. Il peso di determinati rapporti di forza
1. Fin dalle prime avvisaglie della recessione si erano manifestati numerosi segnali
premonitori di un inasprimento delle tensioni politiche all’interno dell’Unione Europea.
Da un lato, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble, ancorché Angela Merkel
cercasse di moderare i toni dei suoi interventi, tornò a sentenziare, con riferimento
ai partner più indebitati, che essi erano responsabili dei guai capitati loro addosso
a causa di una gestione accomodante o insipiente dei propri conti pubblici: di conseguenza,
non potevano aspettarsi che altri si dovessero adoprare per levar loro le castagne
dal fuoco. Dall’altro, i governi dei Paesi più indebitati e alle prese, da tempo,
con vari problemi strutturali chiedevano un alleggerimento dei vincoli del Fiscal
Compact per un’impostazione più duttile della legge di bilancio. Tanto più in quanto
i loro affanni s’erano aggravati a causa delle pesanti ripercussioni della grande
crisi del 2008.
Sta di fatto che, mentre alcuni Paesi dell’area mediterranea correvano il rischio
di affondare, Berlino aveva frattanto condotto due operazioni vantaggiose quanto disinvolte
per restar fuori dal pieno della bufera finanziaria. La prima era stata l’adozione,
confidando nella condiscendenza di Bruxelles verso il principale partner dell’Eurozona,
di varie misure governative a sostegno di oltre 400 piccole casse di risparmio, per
lo più cooperative e municipali, nonché di alcune grosse casse regionali controllate
dalle autorità pubbliche dei Länder, che costituivano in complesso oltre un terzo
del mondo bancario tedesco ed erano al centro di un vasto intreccio di rapporti politico-economici
a livello locale (fra partiti, amministrazioni regionali e imprese). Si trattava dunque
di istituzioni bancarie, la cui natura era pubblica o semipubblica, e non già privata,
e quindi tale da escludere, a rigore, interventi di salvataggio a carico dello Stato.
La seconda operazione altrettanto rilevante era consistita nel fatto che una porzione
cospicua dei 230 miliardi stanziati dal governo Merkel per salvare le banche tedesche
fra il 2008 e il 2013 venne coperta da una forma indiretta di garanzia comune dell’Eurozona
come il Fondo salva-Stati, e quindi grazie all’apporto di tutti i contribuenti a questo
meccanismo europeo di stabilità. La Germania aveva così evitato che il nerbo del proprio
sistema bancario (a cominciare dalla Deutsche Bank), esposto nel 2010-2011 per 315
miliardi di euro, subisse un capitombolo rovinoso.
Quanto avesse contato nel contempo anche il potere contrattuale di Parigi, non solo
in virtù del suo tandem con Berlino, ma per la presenza al timone della Banca centrale
europea dell’ex governatore della Banque de France Jean-Claude Trichet, l’aveva dimostrato
il fatto che alcune banche francesi, arricchitesi in precedenza (come quelle tedesche)
con ardite operazioni speculative in Grecia, s’erano affrettate a liberarsi (cedendoli
alla Bce, grazie alle coperture finanziarie del Fondo salva-Stati) di gran parte dei
titoli pubblici ellenici, dopo che il loro valore era andato calando vistosamente
dal 2008, e avevano potuto così limitare le proprie perdite sui crediti accordati
ad Atene.
Insomma, tanto la Francia che la Germania non avevano esitato ad aggrapparsi a più
d’un appiglio generoso per cercare di trarsi d’impaccio, mentre l’Italia era invece
rimasta (come è noto) con il cerino acceso fra le dita, benché il suo sistema bancario
fosse esposto per non più di 20 miliardi e pochi fossero i “titoli tossici”, a differenza
dei prodotti derivati in pancia alle banche tedesche.
2. D’altronde, quanto valessero certi rapporti di forza esistenti nel firmamento politico
europeo, era risultato evidente dall’accordo di Deauville dell’ottobre 2010 fra la
Merkel e Sarkozy, in base al quale avevano stabilito che un Paese dell’euro potesse
fallire e che in tal caso dovessero pagarne le conseguenze, per evitare un contagio
della crisi, lo Stato caduto in default e quanti indistintamente ne detenevano i titoli
pubblici. Come era avvenuto, appunto, per la Grecia, sottoposta perciò a una cura
dall’alto (per opera della Bce, del Fondo monetario internazionale e della Commissione
di Bruxelles) drastica e impietosa, costatale lacrime e sangue. Da allora l’Eurozona
era così passata dalla condivisione alla nazionalizzazione dei rischi, in quanto venne
esclusa la possibilità di una difesa collegiale attraverso l’emissione di eurobond.
Inoltre, se la Germania era tornata, dal 2011, a funzionare come la “locomotiva d’Europa”,
continuando nel contempo a soccorrere le regioni dell’ex Ddr (grazie anche al contributo
dei fondi strutturali europei per le aree più deboli, come erano considerate quelle
tedesche orientali), lo doveva al fatto che le proprie esportazioni avevano preso
man mano a superare il tetto massimo stabilito dalle regole comunitarie, senza che
questi surplus avessero dato luogo all’apertura di una procedura d’infrazione da parte
di Bruxelles. Berlino aveva insomma badato ai propri interessi; ma è anche vero che
nessun Paese s’era speso più di tanto a favore della causa europeista, in quanto un
pacchetto di adeguati provvedimenti per rilanciarla avrebbe comportato un aumento
del budget comunitario a carico di ciascuno dei partner, in proporzione al peso specifico
della propria economia. Si spiega quindi come la Germania avrebbe dovuto tirar fuori
più quattrini di ogni altro partner.
Quanto alla Francia, aveva continuato a procedere, all’indomani della grande crisi,
sullo stesso duplice binario del passato: da un lato, con le ambizioni di protagonismo
politico del presidente Nicolas Sarkozy e, dall’altro, in base a una linea di condotta,
sul versante della governance economica dell’Eurozona, sostanzialmente analoga a quella
della cancelliera tedesca, e quindi attenta a salvaguardare innanzitutto gli interessi
nazionali, in cima ai quali erano preminenti da sempre quelli dell’alta finanza.
In questo contesto, e con la Gran Bretagna assillata dal problema di porre rimedio
ai grossi guai in cui s’erano cacciate alcune banche inglesi indebitatesi fino al
collo in seguito a una serie di azzardate speculazioni (tanto da dover ricorrere persino
all’espediente di stampar moneta per rilanciare, con una svalutazione competitiva
della sterlina, le proprie esportazioni), la Commissione europea aveva stentato nel
mettere a punto un programma di misure a medio-lungo termine con investimenti nelle
innovazioni, nelle infrastrutture e nell’efficienza energetica. Aveva cercato, piuttosto,
di limitare i danni per quanto possibile, senza attuare consistenti interventi di
stimolo all’economia come quelli decisi invece dagli Stati Uniti (pari al 12 per cento
del Pil rispetto all’1,5 per cento della Ue). Oltretutto, a Bruxelles si era continuato
a litigare per parecchio tempo sulla ripartizione di un fondo per le infrastrutture
del valore di non più di cinque miliardi di euro.
IV. Il ripiegamento della sinistra
1. I partiti progressisti e il movimento operaio erano rimasti a corto di idee e di
proposte per affrontare lo scossone provocato dalla grande crisi. Perciò ben poca
voce in capitolo ebbero in merito alle modalità e alle soluzioni per uscire dall’emergenza.
Eppure erano a capo di vari governi (non solo nei Paesi scandinavi) o partecipavano
a coalizioni di maggioranza con partiti di centro (come in Germania e in Italia),
e contavano comunque in sede politica, per la loro consistenza, anche quando erano
all’opposizione (come in Francia e in Spagna).
Ma i partiti socialdemocratici e laburisti erano portati a riproporre certe formule
di matrice keynesiana, non più utilizzabili a livello sovranazionale, nell’ambito
di una compagine europea di oltre una ventina di Paesi, per riattivare i congegni
della produzione e dell’occupazione. A non contare il fatto che alcuni loro esponenti
avevano rispolverato vecchie ricette, come nazionalizzazioni e patrimoniali, inservibili
per produrre e redistribuire ricchezza.
Fra la classe operaia e nei militanti della sinistra s’era così diffusa la sensazione
che i loro dirigenti sindacali e di partito fossero comunque ridotti a giocare di
rimessa. In effetti, quanto era avvenuto negli ultimi anni, con la deregulation neoliberista
e la terziarizzazione postfordista dei contenuti del lavoro, aveva, da un lato, incrinato
le fondamenta del mondo di fabbrica novecentesco e, dall’altro, assecondato l’espansione
di un capitalismo finanziario autoreferenziale.
Ma se i partiti riformisti vennero perdendo terreno fra il proprio elettorato, lo
dovevano innanzitutto a un’emorragia di consensi determinata dal fatto che s’era andato
assottigliando il loro filo diretto con gli strati popolari e le periferie. È vero
che, avendo patrocinato talune petizioni laiche e progressiste, tipiche di una società
affluente, riguardanti il riconoscimento di determinati diritti civili e libertà individuali,
essi avevano accresciuto i loro consensi fra il ceto medio. Ma, nel momento in cui
erano divenute sempre più stringenti le grandi questioni collettive (dai problemi
del lavoro e dell’occupazione alle modalità d’impiego delle nuove tecnologie nelle
aziende, dall’adozione di appropriate garanzie sociali a favore di quanti s’arrabattavano
nelle file del precariato alle misure più idonee per scongiurare un aggravamento delle
diseguaglianze intragenerazionali e un abbassamento delle prestazioni della sanità
pubblica), era scontato che certe pur sacrosante battaglie condotte dalla sinistra
a difesa dell’autonomia e della dignità della persona finissero per passare in second’ordine
agli occhi di una parte consistente degli strati popolari. Come s’era cominciato a
rilevare fin dalle elezioni europee del 2009, quando i partiti socialisti erano stati
umiliati dai rovesci subìti a Parigi, Berlino, all’Aia e Dublino.
2. Tanti e complessi erano divenuti i nodi da sciogliere, dinanzi ai quali la sinistra,
anche quella che non aveva perso la capacità d’ascolto delle istanze provenienti dal
basso, continuava ad arrancare per l’insufficienza di un’adeguata risposta politica.
Il rilancio degli investimenti implicava un allentamento della pressione fiscale sulle
imprese, mentre il risanamento dei disavanzi pubblici comportava una revisione della
spesa corrente. Inoltre la trasferibilità delle innovazioni tecnologiche nella “produzione
4.0” implicava la disponibilità di quanti si trovassero sull’orlo della disoccupazione
a rimettersi in gioco attraverso corsi d’aggiornamento e un apporto concreto a tal
fine delle organizzazioni sindacali. E intanto occorreva assicurare ai giovani, altrimenti
destinati a scivolare nel precariato e nell’emarginazione, una formazione all’altezza
dei mutamenti in corso e soluzioni combinate con politiche attive del lavoro.
Per giunta, se si voleva conservare in vita quel poderoso strumento di legittimazione
della democrazia e di coesione sociale che era il welfare e che assorbiva in Europa
tra il 25 e il 30 per cento del Pil, era necessario, dati i vincoli di bilancio, individuare
nuovi sistemi di gestione correlati all’intreccio fra tendenze demografiche e cambiamenti
del mercato del lavoro. Inoltre bisognava attuare determinati interventi selettivi
calibrati in proporzione ai bisogni dei beneficiari e al genere di prestazioni sanitarie.
I margini di reddito addizionali da distribuire erano infatti andati riducendosi e
non si potevano praticare delle politiche puramente assistenziali se non in deficit spending o con il ricorso a impopolari aumenti delle tasse.
Fra gli esponenti della sinistra più in vista, dopo l’uscita di scena di Gerhard Schröder
e di Tony Blair, il francese Dominique Strauss-Kahn, docente di macroeconomia all’Institut
d’études politiques di Parigi e più volte ministro in dicasteri economici nei governi
a guida socialista, aveva sollecitato da tempo un ripensamento dei principi tradizionali
del socialismo alla luce sia della quarta rivoluzione industriale sia dell’ingresso
in campo delle nuove potenze emergenti. In pratica, il rinnovamento che egli auspicava,
nell’ambito dei partiti di matrice socialista, si basava su tre punti da adottare
quali obiettivi fondamentali da perseguire: l’adozione di incentivi legati alla creazione
di posti di lavoro stabilizzati, una regolazione flessibile delle politiche fiscali
e una riforma del welfare per consentire, assicurando un accesso generalizzato all’istruzione
universitaria, il superamento delle diseguaglianze sociali di opportunità risalenti
alla nascita.
Strauss-Kahn era perciò fautore di un rafforzamento delle istituzioni europee all’insegna
di una visione più aperta e solidale; e, in virtù di questa sua posizione, era stato
designato nel luglio 2007, con l’appoggio di Jean-Claude Juncker e di Romano Prodi,
alla direzione del Fondo monetario internazionale, dove si proponeva di mettere in
discussione il catechismo neoliberista dominante ai vertici del Fondo. Ma proprio
nel mezzo di questa sua battaglia, uno scandalo a sfondo sessuale, di cui era stato
ingiustamente accusato nel maggio 2011, lo aveva costretto a dimettersi, e, benché
poi assolto dalle imputazioni a suo carico, aveva finito col rinunciare a presentarsi
alle elezioni presidenziali francesi del maggio 2012.
V. Alle prese con una triplice svolta
1. Se i partiti progressisti si erano trovati spiazzati, di fronte al problema di
elaborare un modello alternativo di sviluppo efficace e sostenibile, non è che il
resto della classe politica europea avesse dalla sua idee e terapie convincenti per
affrontare le gravi perturbazioni che, all’indomani dello shock del 2008, avevano
investito le strutture economiche e gli assetti sociali. Inoltre il combinato disposto
fra gli effetti della globalizzazione e la quarta rivoluzione industriale, nonché
le variabili gerarchie politiche dello scenario internazionale, imponevano di misurarsi
con le sfide e le incognite di un universo ibrido e multipolare.
Occorreva perciò sperimentare nuovi percorsi e individuare nuove soluzioni, accertando
di volta in volta la loro congruenza e validità, all’insegna di prospettive praticabili
e di regole condivisibili da più attori politici e sociali. Erano infatti scomparse,
dal quadrante della storia, non solo alcune concezioni ideologiche che ambivano a
guidare l’umanità verso la “terra promessa”, e si era trattato, senz’altro, di una
svolta liberatoria. Anche altre mappe, che pur non avevano alimentato miraggi escatologici,
erano ormai ingiallite o potevano servire solo in parte.
Nel frattempo era cresciuta la forza di pressione dei Paesi che sino a qualche tempo
prima facevano parte del Terzo Mondo, con in testa la Cina. Alla fine del 2015 Pechino
aveva cominciato a fare i passi più opportuni per non restare fuori dall’area di libero
scambio concepita da Washington col progetto di un trattato commerciale trans-pacifico.
Naturalmente, sapeva che avrebbe dovuto attendere l’esito delle elezioni presidenziali
americane. Esistevano comunque le premesse per un’entrata, prima o poi, della Cina
nel partenariato fra le due sponde del Pacifico. Erano stati infatti confermati, nell’ultimo
incontro alla Casa Bianca fra i presidenti Xi Jinping e Barack Obama, alcuni accordi
economici fra i due Paesi. Inoltre la Cina si proponeva, con il lancio dell’iniziativa
denominata “Nuova Via della seta”, di intensificare, liberalizzandoli man mano, i
rapporti commerciali col resto dell’Asia a ogni latitudine, e di fare lo stesso tanto
col Medio Oriente che con l’Europa. È vero che fra Pechino e alcuni Paesi contigui
erano risorti dei contenziosi di carattere territoriale, ma ciò non aveva impedito
che le relazioni d’affari continuassero a svilupparsi con reciproci vantaggi. D’altra
parte, l’obiettivo fissato dal nuovo Piano quinquennale (con cui il Politburo puntava
a raddoppiare nel 2020 il Pil pro capite, rispetto al livello del 2010, e a realizzare
una “società moderatamente prospera”) comportava il progressivo allineamento del gigante
asiatico alle regole e agli standard del commercio internazionale, se Pechino voleva
contare su una crescita degli investimenti stranieri e sull’attuazione di importanti
progetti di cooperazione industriale.
In ogni caso, non si poteva pensare che la Cina restasse alla finestra di fronte all’avvento,
intorno alle sue porte di casa, di un’area di libero scambio a cui partecipavano,
insieme agli Stati Uniti e al Giappone, altri dieci Paesi e che avrebbe annoverato
in complesso il 40 per cento del Pil mondiale. Tanto più in quanto Pechino aveva cominciato,
al volgere del primo decennio del nuovo secolo, la scalata verso settori ad alta tecnologia,
e ciò anche per impulso di alcuni grandi gruppi privati. È vero che il governo aveva
continuato a manipolare la propria valuta per tenere artificiosamente basso il cambio
dello yuan con l’euro e il dollaro; e a praticare tanto il dumping sociale come quello ambientale.
Tuttavia appariva chiaro come Washington – pur denunciando con ben più vigore sia
il cambio fasullo della moneta cinese (con cui Pechino ampliava la rete dei propri
traffici) sia le ricorrenti violazioni al suo interno dei diritti civili – puntasse
a una “coesistenza competitiva”, evitando uno scontro frontale con l’ex Impero Celeste
in un’area come il Pacifico, divenuta sempre più importante sotto il profilo strategico
ma che proprio per questo era un terreno minato. D’altronde la Cina, con le sue crescenti
riserve di dollari, aveva seguitato a prestar soldi all’America, in quanto un deficit
deflagrante della bilancia dei pagamenti statunitense avrebbe finito col provocare
un’inflazione devastante a livello mondiale e l’interscambio commerciale tra i due
Paesi sarebbe calato vistosamente, a scapito soprattutto delle esportazioni di Pechino.
In pratica, i due sistemi erano divenuti così interdipendenti da costituire (secondo
molti osservatori) una sorta di “Chinamerica”, tale da preludere a un prossimo “impero
condominiale”. A ogni modo, Washington e Pechino avevano in comune l’interesse che
non s’inasprissero i dissidi fra New Delhi e Islamabad; che i talebani non avessero
il sopravvento in Afghanistan; che il Giappone e la Corea del Sud non reagissero alla
ripresa degli esperimenti nucleari della Corea del Nord rafforzando i loro dispositivi
militari, come chiedeva una nuova destra ultranazionalista tanto a Tokyo che a Seul;
e che non s’estendesse in Asia l’influenza del fondamentalismo islamico. Senonché
la Cina prestava il fianco a gravi accuse per la repressione delle nazionalità “non
Han”, in particolare per l’opera di forzata “rieducazione” degli uiguri musulmani
che popolavano lo Xinjiang (la regione più estesa della Cina che era anche il suo
principale bacino di carbone, gas naturale e petrolio).
2. Unitamente al mutamento degli equilibri geopolitici in atto nello scacchiere mondiale,
l’altro fenomeno di portata epocale col quale l’Europa doveva fare i conti riguardava
il cambiamento del paradigma tecnologico. Ben si sapeva da tempo come le potenzialità
intrinseche dell’informatica e le sue proiezioni avrebbero determinato un salto di
qualità nell’intero sistema economico (come era accaduto in passato per il motore
a scoppio e l’elettricità), al punto da dischiudere le porte a una nuova era, caratterizzata
da una sequenza di trasformazioni strutturali all’insegna di un’ibridazione fra economia,
tecnologia ed ecologia.
Ma non si era giunti a elaborare, in sede comunitaria, un piano complessivo di investimenti
pubblici per uno sviluppo dell’hi-tech, che agevolasse, innanzitutto, con appropriati
incentivi, la diffusione, tra le imprese, delle nuove applicazioni dell’informatica
e della cibernetica. D’altronde, affinché un programma del genere segnasse una svolta
nella governance del sistema produttivo, lo si sarebbe dovuto accompagnare con efficaci
provvedimenti per rendere meno pesante l’impatto, tra le maestranze, dei radicali
mutamenti nei modi di lavorare che la transizione postfordista implicava. La quarta
rivoluzione industriale, consistendo nell’impiego di congegni più flessibili e automatizzati,
che riduceva il numero delle tute blu e dei colletti bianchi, comportava infatti una
riformulazione delle relazioni industriali e adeguate politiche attive del lavoro.
Nel corso del 2016 tutti questi nodi emersero in pieno sul versante sociale. Sino
all’anno prima la “produzione 4.0”, in quanto caratterizzata da un uso sistematico
di impianti robotizzati e di elaboratori e trasmettitori di dati per la programmazione
e il controllo di ogni segmento dell’attività manifatturiera, aveva infatti compiuto
scarsi progressi in Europa, tranne in Germania e in qualche altro Paese nordico all’avanguardia
tanto nel campo dell’istruzione tecnica e dell’ingegneria gestionale che in quello
delle politiche del lavoro di retraining e formazione permanente.
Se si voleva governare la transizione dal sistema di fabbrica, di ascendenza fordista,
verso una crescente terziarizzazione delle prestazioni di lavoro, riducendo il più
possibile le sacche di espulsione e disoccupazione della forza lavoro, era essenziale
investire di più nell’istruzione e nella progettazione per agevolare l’acquisizione
di nuovi saperi e di nuovi servizi informatici e intelligenti. Occorreva, insomma,
diffondere la digitalizzazione e l’impiego di procedimenti tecnologici più sofisticati
sia per migliorare i livelli di produttività sia per non creare nelle aziende una
crescente polarizzazione fra gli addetti alle diverse mansioni.
Senza un piano organico di investimenti innovativi per un salto di qualità nel mercato
e nell’organizzazione del lavoro, concepito di concerto con le parti sociali, l’Europa
rischiava di restare irrimediabilmente indietro rispetto agli Stati Uniti e alla Cina,
ma pure al Giappone, dove le risorse investite nella robotica e nell’intelligenza
artificiale avevano assunto notevoli dimensioni.
Dall’altra parte dell’Atlantico operavano grandi players industriali “glocali”, al di là di quelli attivi nel settore delle applicazioni militari,
e delle majors commerciali nella Rete (come Google, Apple, Amazon, Microsoft, Facebook), con bilanci
più consistenti di quelli di alcuni Stati nazionali. Quanto alla Cina, aveva compiuto
notevoli progressi nel campo delle tecnologie d’avanguardia, per iniziativa di grossi
complessi privati (come Alibaba, Huawei, Zte, Baidu, Tencent), divenuti altrettanti
giganti del web. Inoltre, a Pechino non ci si era dovuti preoccupare di smaltire un
ingente fardello di macchinari pre-Internet ormai obsoleti e si poteva far conto su
un enorme mercato interno, in cui piazzare una massa di prodotti standardizzati in
base alle nuove tecnologie digitali. Negli ultimi dieci anni il Dragone era giunto
così a raddoppiare il valore complessivo dei beni prodotti.
Al confronto dell’uno e dell’altro dei due colossi mondiali, la Ue doveva perciò,
se non voleva perdere altro terreno in fatto di competitività, includere nel budget
comunitario assai più investimenti sia in innovazioni di sistema sia nella formazione
del capitale umano. Ma occorreva anche che grandi e medie imprese perseguissero prospettive
reddituali non limitate al giro di un trimestre o di un semestre, per creare valore
aggiunto unicamente a vantaggio degli azionisti, ma che adottassero politiche aziendali
che coinvolgessero, in termini reciprocamente convenienti, una schiera di stakeholders. Inoltre sarebbe stato indispensabile che anche compagnie di assicurazioni, fondi
pensioni e casse di previdenza fornissero parte della linfa finanziaria necessaria
per far fronte alle conseguenze della digitalizzazione che, se da un lato tagliava
i costi della sanità e di altri servizi d’interesse collettivo, dall’altro comportava
la predisposizione di adeguati ammortizzatori sociali e strumenti complementari per
l’impiego dei lavoratori in esubero. Per di più, si aveva a che fare con un sistema
bancario intasato dai crediti deteriorati per via dei contraccolpi della grande crisi,
che aveva ridotto il credito all’economia reale.
In questo contesto s’erano manifestati, pressoché dovunque in Europa, crescenti fenomeni
di malessere e scontento sociale, dovuti alla recessione, che colpiva i ceti più vulnerabili,
e all’assottigliarsi delle classi medie. Di qui uno strisciante moto di rancore e
insofferenza verso le élite politiche, e la ricerca di nuovi gruppi e partiti che
recepissero certe pressanti richieste di protezione sociale, commiste talora a istanze
eversive.
VI. Una questione sempre più divisiva
1. Che si fosse di fronte a un’emergenza umanitaria era già evidente da tempo. Ma
tra il 2016 e il 2017 l’arrivo in Europa di una massiccia immigrazione divenne un
fenomeno cruciale sempre più incisivo con cui misurarsi. A questo proposito la Ue
si trovò a pagare, innanzitutto, la mancanza di una propria politica estera valida
e omogenea, in quanto aveva seguitato, da un lato, a ricalcare sostanzialmente le
linee direttrici di Washington e, dall’altro, a concentrarsi soprattutto su obiettivi
economici. Non s’era comunque preoccupata, per tempo, di scongiurare l’estensione
di una catena di feroci conflitti intestini in Siria e in Iraq, nello Yemen e nel
Corno d’Africa, che aveva determinato, di conseguenza, l’afflusso di un crescente
numero di profughi.
A motivazioni sostanzialmente analoghe si doveva il suo disimpegno in Libia dopo la
caduta nel 2011 del regime di Gheddafi. I governi europei, e in primo luogo quelli
francese e inglese, che pur erano intervenuti militarmente a Tripoli a sostegno degli
insorti contro il rais, non avevano poi agito in modo da porre le basi di una normalizzazione
politica successiva alla fine di una trentennale dittatura. La Tripolitania e la Cirenaica
così non solo erano cadute in balia di numerose bande armate in lotta fra loro per
il potere; erano anche divenute le basi per i traffici di loschi mercanti di esseri
umani, dediti al lucroso trasbordo su fragili carrette del mare, alla volta delle
sponde antistanti del Mediterraneo, di tanti disperati in fuga dall’estrema miseria
dell’Africa subsahariana e dalle spietate scorrerie dei gruppi terroristici islamici.
In ogni caso, il dramma di gran parte del Continente Nero aveva a che fare con una
lunga sequenza di peccati che diversi Paesi europei avevano commesso, a causa sia
della loro condiscendenza o di una loro palese complicità (per particolari interessi
economici) nei rapporti con i regimi autoritari e corrotti a capo di numerosi ex possedimenti
coloniali. Ma, al di là della depredazione di cui erano oggetto vari territori africani
dietro formali trattati di cooperazione, c’era di mezzo anche la latitanza politica
dell’Unione Europea nell’affrontare questioni di sicurezza e di ordine pubblico, ancorché
a ridosso delle sue frontiere, destinate prima o poi a imporsi.
Da vari anni si sarebbe dovuto rivedere perciò il Regolamento di Dublino, il quale
prevedeva che il primo Paese d’arrivo dei profughi dovesse provvedere per motivi umanitari
ad assisterli in attesa che quanti di loro avessero ottenuto un permesso di soggiorno
venissero poi ripartiti, secondo determinate quote, fra i vari partner della Ue. Questo
sistema non riusciva in pratica a fornire in molti casi una protezione equa ed efficace
a tutela dei diritti legali e della dignità delle persone soccorse, ed era inoltre
oggetto di estenuanti contenziosi fra i vari Stati coinvolti nelle richieste d’asilo,
in quanto ciascuno di loro intendeva farsene il minor carico possibile.
A rendere la situazione esplosiva furono comunque anche altre circostanze: dal fatto
che all’esodo dalle sponde del Maghreb e dal Corno d’Africa venne aggiungendosi quello
dalle zone più derelitte dell’Est e del Sud dell’Asia, al largo impatto sui media
delle reazioni istintive della gente, alla polarizzazione sul tema dell’immigrazione
del dibattito politico sotto la spinta di movimenti sovranisti e xenofobi. La grande
migrazione dagli anfratti del Terzo e Quarto Mondo si era così trasformata in una
questione chiave, sempre più stressante e controversa.
D’altronde erano in via di consunzione due modelli di integrazione degli immigrati
che per molti anni avevano fatto testo: quello francese e quello inglese. Nel primo
caso, si trattava di un paradigma, all’insegna della cittadinanza politica e della
laicità repubblicana, su cui lo Stato francese aveva contato da sempre per incorporare
e assimilare gli immigrati nell’ambito della propria comunità nazionale. Nel secondo
caso, si trattava di un modello improntato al multiculturalismo che, in auge nel Commonwealth,
era stato adottato in Gran Bretagna, in quanto essa aveva assunto man mano le connotazioni
di una società composta da genti provenienti da diverse contrade del suo ex impero.
Entrambi questi “idealtipi” stavano mostrando ormai la corda. In Francia numerosi
immigrati di seconda o terza generazione, sebbene naturalizzati ed educati nelle scuole
francesi, erano comunque pervasi, per le loro matrici islamiche, da motivi religiosi
e ideologici di profonda alterità. E anche quando non erano alle prese con la disoccupazione
e l’emarginazione sociale, andavano manifestando, soprattutto in alcuni grandi centri
urbani, crescenti segnali di un’insofferenza radicale, che, potenzialmente eversiva
o meno che fosse, aveva concorso ad alimentare l’allarmismo dell’estrema destra.
Quanto al modello multiculturalista inglese, aveva finito per generare, in vari nuclei
di immigrati musulmani, la prospettiva di un “Islamistan” locale, libero di autogestirsi,
al di fuori dell’ordinamento giuridico britannico, in base ad alcuni precetti religiosi
fondamentalisti, tanto da creare in pratica una sorta di sistema normativo dualistico
e da mettere a repentaglio l’uniformità delle leggi dello Stato. Il blocco totale
dell’immigrazione era divenuto così uno dei principali tasti su cui avevano battuto
il movimento dell’ultradestra di Nigel Farage e gli esponenti del partito conservatore
più intransigenti per sostenere l’uscita del Regno Unito dal Trattato di Schengen
e dall’Unione Europea.
La Germania, che fino ad allora aveva accolto la maggior parte di profughi e immigrati,
e ospitava oltre tre milioni di residenti turchi, non aveva elaborato un proprio modello
d’integrazione. Ma ciò che era avvenuto durante i rituali festeggiamenti di fine anno
del 2015 in alcune città tedesche, quando numerose donne erano state sottoposte a
soprusi o violentate, da parte di rifugiati siriani e nordafricani, aveva indotto
la cancelliera tedesca a un ripensamento, in sintonia con il suo tradizionale pragmatismo,
destinato tuttavia a rivelarsi presto contraddittorio sotto il profilo etico e politico.
In sostanza, la Merkel s’era affrettata a stipulare nel marzo 2016 (di concerto, peraltro,
col presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk), un’intesa con Recep
Tayyip Erdoan, allora primo ministro turco, affinché il governo di Ankara ammassasse in propri
centri d’internamento i migranti provenienti dalla Siria e da altre “zone calde” del
Medio Oriente, in cambio dell’impegno di Bruxelles a corrispondere alla Turchia una
somma di sei miliardi (metà dei quali subito e il resto entro il 2019), oltre alla
promessa di una ripresa dei negoziati sull’ammissione del Paese della Mezzaluna nella
Ue. Pur di bloccare i flussi migratori verso la Germania la Merkel aveva così sorvolato
sul fatto di aver stipulato un patto con un personaggio politico caratterizzato sia
da forti tendenze autoritarie sia da un indirizzo oppressivo nei riguardi delle minoranze,
oltretutto inaffidabile per la sua natura subdola di doppio o triplogiochista. A Berlino
ci si era così tolti un peso ingombrante di dosso e il governo tedesco aveva potuto
seguitare ad aprire le porte (allo stesso modo di quanto facevano i Paesi scandinavi)
a determinati nuclei di migranti in possesso di particolari competenze professionali
(dagli ingegneri ai medici, agli insegnanti) che potevano servire al proprio fabbisogno.
Inoltre la Germania aveva fornito un alibi a Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e
Slovacchia per sbarrare l’ingresso nei loro territori a profughi e migranti, procedendo
in taluni casi a cingere di cemento e filo spinato le proprie frontiere blindandole
anche con reparti militari. Queste drastiche misure avevano sollevato in Occidente
un coro di denunce e indignazioni. Ma la radicale preclusione dei governi del Gruppo
di Visegrád nei confronti degli immigrati si spiegava anche con una gelosa difesa
delle proprie peculiarità identitarie da “contaminazioni” esterne, dovuta alle complesse
vicissitudini sia politiche che territoriali di cui i Paesi dell’Est erano stati oggetto
nel periodo fra le due guerre e durante quello successivo sotto le insegne dell’Unione
Sovietica.
Dal 2017 era sorta così in materia di politiche migratorie una netta linea divisoria
nel cuore dell’Europa. Ma l’idea che si potesse bloccare l’immigrazione con più barriere
ai confini tra gli Stati era un’illusione, in quanto nessuna di esse era del tutto
inespugnabile e, comunque, dopo i nuovi muri alzati nei Balcani, i flussi migratori
s’erano spostati sempre più verso l’area mediterranea.
2. Sul versante meridionale del Vecchio Continente il fenomeno migratorio non aveva
assunto per parecchio tempo vaste dimensioni. In un Paese come l’Italia, al centro
del Mediterraneo, erano man mano giunti a stabilirsi consistenti nuclei di immigrati
provenienti dall’Albania e dai Balcani. È vero che non erano mancati, in numerosi
casi, episodi di incomprensione e di ripulsa: senza tuttavia conseguenze tali da dar
luogo a forme di perentoria incompatibilità e intolleranza. Del resto, quanti provenivano
dalla Polonia, dalla Romania e da altre contrade dell’Est, incluse dopo il 2004 nell’ambito
della Ue, avevano per lo più colmato il vuoto di forza lavoro apertosi in certe attività
più faticose nelle campagne e nell’edilizia, e altrettanto era avvenuto per i servizi
di assistenza alle persone.
L’approdo nella Penisola di immigrati dal Nord Africa e dal Medio Oriente, in gran
parte di fede musulmana, aveva suscitato piuttosto una netta divergenza di posizioni
fra i partiti di sinistra (secondo i quali era possibile una civile convivenza, anche
perché assecondata dagli ambienti della Chiesa) e i partiti di destra (secondo i quali
forti motivi di alterità rendevano invece assai improbabile un processo d’integrazione).
Ma la questione migratoria cominciò ad assumere dal 2014, con 170 mila sbarchi sulle
coste italiane, crescente rilevanza tanto politica che sociale. Per poi esplodere
nel 2016, a causa non solo di un ulteriore aumento degli sbarchi, ma anche perché,
ad arroventare un clima già esacerbato, fu la disputa accesasi intorno al referendum
sulla riforma costituzionale. La Lega Nord e il Movimento 5 Stelle fecero dell’avversione
all’introduzione dello “jus soli” (di cui avrebbero beneficiato, per acquisire la
cittadinanza, 800 mila minorenni figli di genitori residenti nella Penisola da almeno
cinque anni, o che avevano frequentato le scuole in Italia), proposta dal Partito
democratico, uno dei loro principali cavalli di battaglia contro il governo presieduto
da Matteo Renzi.
Il problema dell’immigrazione divenne così un nervo politico scoperto, in quanto il
crescente arrivo sia di profughi da zone di guerra e di persecuzioni etniche che di
migranti da aree estremamente indigenti venne raffigurato da sovranisti e populisti
alla stregua di un duplice pericolo per la comunità: da un lato, perché avrebbe ampliato
via via il numero degli stranieri senza mezzi propri di cui doversi far carico; dall’altro,
perché essi avrebbero potuto acquisire l’accesso ad alcuni servizi in materia sanitaria
e in altri campi dell’assistenza pubblica, a scapito delle famiglie italiane.
Il fenomeno migratorio fu perciò percepito da molti come una minaccia incombente sia
di una forte invadenza, tale da comportare una concorrenza sui luoghi di lavoro e
da determinare una riduzione dei salari, sia di grave insicurezza per la società,
in quanto sarebbe aumentata la microdelinquenza.
Eppure, se gestita in modo appropriato, l’immigrazione poteva rappresentare un antidoto
al persistente calo della natalità (in corso dal 1975) e all’aumento di longevità
della popolazione che, sommandosi insieme, avevano causato una contrazione tendenziale
del numero di persone in età lavorativa e quindi un minor grado di capacità produttiva
del Paese. Del resto, in tutte le società occidentali avanzate, caratterizzate da
un basso livello di fertilità, si era provveduto ad avvalersi dell’immigrazione per
mantenere in equilibrio il mercato del lavoro e il sistema pensionistico.
Senonché, in Italia, quel che aveva concorso a rendere politicamente scottante la
questione era stata l’incapacità di governare i flussi migratori a causa sia della
mancanza in passato di una politica lungimirante della destra e di un sostanziale
atteggiamento passivo della sinistra in proposito, sia della persistenza di strutture
d’accoglienza per lo più insufficienti e di fortuna, nonché di procedure burocratiche
pletoriche in merito al riconoscimento del diritto d’asilo dei profughi politici o
alle decisioni di rimpatrio dei migranti clandestini.
Di fatto, dopo la chiusura pressoché totale della rotta balcanico-danubiana, erano
divenute 217 mila le persone sbarcate sulle nostre coste. E, malgrado i ripetuti appelli
del commissario agli Affari interni della Ue Cecilia Malmström, a Bruxelles non s’era
giunti a mettere a punto una soluzione largamente condivisa, a livello comunitario,
su una redistribuzione equa e senza remore dei migranti fra i vari partner dell’Unione,
né a una revisione degli Accordi di Dublino del 1990. Avevano perciò avuto buon gioco,
fra gli italiani, i 5 Stelle e il Carroccio nell’accusare l’Unione Europea di voler
fare dell’Italia la principale “discarica” dell’immigrazione dal Sud del mondo e nell’invocare,
trovando riscontro nelle apprensioni e nel senso d’insicurezza soprattutto dei ceti
popolari, una serie di perentorie misure restrittive nei confronti, indistintamente,
di ogni genere di migranti.
Sta di fatto che il sistema d’accoglienza dei migranti era giunto, a detta dei prefetti,
sull’orlo del collasso: tanto da portarli a temere che la situazione dell’ordine pubblico
in alcune città potesse sfuggire di mano. In questo frangente non era rimasto al governo
presieduto da Paolo Gentiloni che correre ai ripari affidando al ministro dell’Interno
Marco Minniti il compito di bloccare il flusso illegale di migranti monopolizzato
da brutali cosche di trafficanti che spadroneggiavano tra l’entroterra e i porti libici.
Il memorandum d’intesa, da lui firmato nel febbraio 2017 col governo di Tripoli, intendeva
pertanto limitare al massimo il numero degli sbarchi dei migranti e stroncare il lucroso
traffico di uomini esercitato da varie bande criminali. E ciò mediante l’assegnazione
alla guardia costiera libica di una flottiglia di motovedette e una sovvenzione alle
autorità locali di 150 milioni perché esercitassero un’opera volta alla prevenzione
o al respingimento dei flussi migratori provenienti da altri territori. Sembrava che
in tal modo, e con l’istituzione sia di alcuni “corridoi umanitari” gestiti dall’Onu
sia di appositi piani per il rimpatrio concordati con i Paesi d’origine, l’Italia
avesse inaugurato un’efficace politica di programmazione. Ma le cose sarebbero poi
andate ben diversamente da quanto ci si aspettava.
VII. La Brexit e i rischi di una rottura traumatica
1. Da quando, nel referendum del giugno 2016, poco più della metà degli inglesi avevano
optato per la Brexit, la Ue era scivolata in un ginepraio diplomatico sempre più intricato
sulla questione delle modalità concrete d’uscita del Regno Unito dalla Comunità europea.
Quello fra Londra e Bruxelles non era mai stato un vero e proprio matrimonio, e nemmeno
un fidanzamento destinato col tempo, per la maturazione di reciproci sentimenti affettivi,
a sfociare in uno sposalizio. Ma ben pochi avrebbero immaginato un divorzio così repentino
e sostanzialmente immotivato della Gran Bretagna. Poiché fu, innanzitutto, il risultato
di un’incauta risoluzione assunta dal premier conservatore David Cameron, per regolare
i conti con una corrente di destra del suo partito, di indire una consultazione referendaria
sulla permanenza del suo Paese nell’Unione Europea: sebbene il bilancio dei rapporti
fra Londra e Bruxelles non comportasse affatto un passo del genere. Tra il 1973 e
il 2016, il Pil del Regno Unito era cresciuto del 103 per cento rispetto al 99 della
Germania e al 74 della Francia. Non solo. Avendo voluto restar fuori dall’Eurozona,
Londra contava pur sempre sulla propria amata sterlina e la City era la seconda piazza
finanziaria del mondo. Inoltre la Gran Bretagna godeva largamente dei benefici del
mercato unico e Cameron era riuscito a portare, dopo le elezioni europee del 2014,
il lussemburghese Jean-Claude Juncker a capo della Commissione di Bruxelles, a dispetto
di Angela Merkel, orientata inizialmente a favore di un diverso candidato (ma che
aveva poi ottenuto, in compenso, quattro commissari di sua fiducia con a fianco altrettanti
direttori generali).
Tuttavia il leader dei tories, sicuro che i suoi connazionali si sarebbero pronunciati
per il mantenimento in vita della scelta di campo compiuta nel 1973 da un altro premier
conservatore, aveva ritenuto che in tal modo avrebbe rafforzato la propria leadership.
Era così caduto in un madornale errore di valutazione, con una mossa azzardata come
quella di indire un referendum.
In ogni caso, quali che fossero i motivi che avevano indotto una maggioranza sia pur
esigua dei sudditi di Sua Maestà britannica a sciogliere gli ormeggi dall’Europa continentale
– da un amore mai nato a un reviviscente nazionalismo insulare, dall’insofferenza
verso la nomenclatura di Bruxelles considerata soffocante al taglio del “cordone ombelicale”
con Calais, giudicata una sorta di “by-pass” di migranti –, sta di fatto che il risultato
del referendum aveva posto in palese contrasto il principio della sovranità popolare
con quello della sovranità del Parlamento su cui si reggeva da sempre, per prassi
consuetudinaria, l’architettura politica britannica. Inoltre le cose s’erano ulteriormente
complicate dall’autunno del 2017, dopo che i tories erano stati costretti, avendo
perso in giugno la maggioranza a Westminster, ad allearsi con il piccolo partito nordirlandese
ultraconservatore. Da allora i negoziati fra il governo di Theresa May e la Commissione
presieduta da Juncker avevano proceduto a rilento, dato che la Ue era sprofondata
in un coacervo labirintico di riserve ed eccezioni sollevate dalla controparte, senza
che la propria delegazione riuscisse a districarsene.
Intanto s’era prodotta una fenditura nell’Unione Europea tanto più grave perché la
Gran Bretagna non solo era una componente di assoluto rilievo per i delicati equilibri
interni alla Ue ma aveva anche un ruolo importante nello scacchiere internazionale.
Dato che era a capo del Commonwealth, contava un seggio permanente nel Consiglio di
sicurezza dell’Onu e possedeva un proprio arsenale nucleare, oltre a una grande flotta
navale.
È vero che nelle principali cancellerie europee si riteneva che gli inglesi ci avrebbero
ripensato, perché i “separatisti” erano risultati in forte minoranza in Scozia e a
Edimburgo erano decisi a restar dentro la Ue, anche a costo di disgregare il delicato
assetto politico del Regno Unito che risaliva agli inizi del Settecento. Ma era ben
difficile che un nuovo governo sarebbe stato in grado, anche volendolo, di rimettere
in discussione il verdetto espresso democraticamente da una maggioranza seppure risicata
di cittadini. In pratica, la Manica era tornata ad allargarsi, dopo sessant’anni,
dall’altra sponda del Vecchio Continente. E le questioni pendenti fra Londra e Bruxelles
erano particolarmente spinose. Non solo c’erano in ballo determinati motivi politici
di principio ma anche cospicue ragioni d’interesse economico, a cominciare dal settore
energetico, dove andavano soppesati gli effetti che un taglio netto della Gran Bretagna
dal mercato integrato europeo avrebbe determinato.
2. Qualora non si fosse trovato il modo di accordarsi, uno strappo di Londra dall’Unione
Europea, a partire dal 1° novembre 2019, sarebbe stato tanto più doloroso che denso
di pesanti conseguenze sotto ogni profilo. Innanzitutto per lo stesso Regno Unito,
in quanto dipendeva dalle importazioni dal Continente per gran parte del suo fabbisogno
di manufatti e beni alimentari. Ma un no deal avrebbe determinato anche non poche conseguenze per l’Oltremanica, con la flessione
almeno dell’11 per cento delle sue esportazioni.
Il nodo del confine doganale fra l’Irlanda del Nord e l’Eire era stato la prima causa
dello stallo in cui s’erano arenati i negoziati fra Londra e Bruxelles. Poiché nell’accordo
di pace del 1998, che aveva posto fine all’azione terroristica dell’Ira, s’era convenuto
che ogni sette anni si sarebbe accertato se esistevano le condizioni per indire un
referendum sulla riunificazione delle due Irlande, intanto non più divise fra loro
da demarcazioni di carattere commerciale. Sta di fatto che ci si era continuati a
misurare su questo punto, nelle trattative fra Londra e Bruxelles, senza trovare una
possibile quadratura del cerchio.
Eppure, secondo la Banca d’Inghilterra, un eventuale no deal brusco e perentorio (senza un periodo di transizione da tutte le norme e regole susseguitesi
dall’ingresso nel 1973 di Londra nella Comunità europea) sarebbe risultato un’autentica
jattura. Il Regno Unito avrebbe potuto perdere nel corso di un anno sino a cinque
punti di Pil (come al tempo della grande crisi) e accusare una nuova grave recessione.
Inoltre la City avrebbe subìto un declassamento, la sterlina si sarebbe indebolita
e ne avrebbero risentito pure i servizi pubblici, per non parlare dei guai di allevatori
e agricoltori che esportavano in Europa il 60 per cento di quanto producevano. Per
di più importanti case automobilistiche europee e giapponesi avrebbero trasferito
altrove le fabbriche che avevano installato in Gran Bretagna.
In ogni caso, mentre Londra si sarebbe trovata a pagare un conto particolarmente salato,
pure le Ue non sarebbe rimasta immune da pesanti contraccolpi. Perciò tutti gli analisti
davano per certo che, alla fin fine, gli Stati Uniti e la Cina avrebbero avuto tutto
da guadagnare da uno scontro frontale fra Londra e Bruxelles. Ma neppure questa prognosi
era valsa a spianare la strada verso il traguardo di una “Brexit ordinata”, senza
conseguenze laceranti e imprevedibili.
VIII. La minaccia permanente del jihadismo
Dopo che Abu Bakr al-Baghdadi si era autoproclamato nel luglio 2014 califfo nella
moschea di Mosul, con l’obiettivo di fare di alcuni territori fra l’Iraq e la Siria,
popolati da comunità di fede sunnita, il primo embrione dello Stato islamico dell’Isis,
l’offensiva dei suoi militanti si era estesa al cuore dell’Europa, in base a una strategia
sistematica quanto implacabile. D’altronde i governi europei si erano illusi, dopo
la scomparsa dalla scena di Osama bin Laden – ucciso nel 2012 da un reparto speciale
americano che l’aveva scovato in un suo rifugio ai confini col Pakistan –, che la
piovra del terrorismo islamista fosse stata eliminata del tutto o quasi. In realtà,
essa continuava ad agire in diverse parti del Sud-Est asiatico ed era sopravvissuta
in alcuni anfratti dei Balcani. A ogni modo, dopo il fallimento del piano americano
di spartizione politica dell’Iraq (fra il Sud sciita lasciato all’influenza di Teheran,
il Centro sunnita presidiato da un governo sostenuto dal ricostituito esercito di
Baghdad, e il Nord quale embrione di uno Stato curdo), l’Isis aveva non solo finito
per estendere e consolidare la sua presenza in un’area strategica del Medio Oriente
ma aveva diffuso lo stesso assunto categorico delle fazioni fondamentaliste più radicali:
ossia che l’Occidente andasse combattuto, da cima a fondo entro le sue stesse mura,
quale alfiere dello Stato di diritto, delle libertà individuali e della parità fra
uomini e donne.
Eppure si erano chiusi gli occhi su questa minaccia. Più che il cruento assalto compiuto
nel gennaio 2015 a Parigi da un manipolo di militanti jihadisti contro la redazione
della rivista satirica “Charlie Hebdo” e la sede di uno spaccio alimentare ebraico,
c’era voluta infatti, per scuotere l’Europa, la strage avvenuta nel novembre successivo
nella capitale francese, per mano di un commando dell’Isis. Poiché s’era trattato
di una sequenza di attentati micidiali condotti pressoché all’unisono in più punti
della città, presa di mira in quanto la Francia costituiva, agli occhi dei seguaci
di al-Baghdadi, una nazione-simbolo dell’Europa laica e progressista, dipinta quindi
come un’entità “depravata e corrotta” per eccellenza.
Dopo di allora era divenuta sempre più intensa la catena di sanguinosi attentati per
opera non solo di militanti inviati di volta in volta in missione, ma anche di singoli
“lupi solitari” dispersi nelle retrovie e pronti ad agire, se mobilitati o di propria
iniziativa. L’Isis poteva contare sia sulle suggestioni fideistiche, in nome di una
mistica della “purezza assoluta” che contrassegnava i suoi aderenti (tanto da comportare
il sacrificio della propria vita), sia su larghi mezzi finanziari provenienti dalle
vendite clandestine di petrolio dai territori conquistati in Medio Oriente, nonché
su una rete di connivenze in varie contrade del Golfo Persico fra i sunniti salafiti
discriminati dalle comunità di fede sciita. Divennero così altrettanti bersagli degli
strateghi della jihad globale numerose città: da Berlino a Bruxelles, da Manchester
a Londra, da Barcellona a Parigi, ancora una volta. Ma l’attentato più spaventoso
fu quello compiuto a Nizza, il 14 luglio 2016 (nel giorno dell’anniversario della
Rivoluzione francese del 1789), quando un camion lanciato all’impazzata da un seguace
dell’Isis di origini tunisine aveva falciato la folla sulla Promenade des Anglais,
provocando 84 morti e almeno 200 feriti, di cui una cinquantina molto gravi.
2. Si era continuato, peraltro, a discutere se avesse ragione o meno il politologo
americano Samuel Huntington, che aveva segnalato, in un famoso libro, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, pubblicato nel 1997, il pericolo che, dopo la fine della Guerra fredda, potesse
manifestarsi un nuovo genere di contrapposizione frontale. Non più per motivi ideologici
e politici, bensì per motivi culturali, dovuti alle tendenze fondamentaliste insite
in alcune grandi religioni. In particolare, egli aveva rilevato come nell’universo
islamico, ossia in un quinto dell’umanità, fosse andata crescendo l’influenza fra
le masse dell’integralismo religioso, in quanto considerato baluardo e vindice di
una propria specifica identità, e fossero quindi emerse fazioni oltranziste animate
da motivi e propositi messianici.
Huntington, peraltro, non asseriva che uno “scontro di civiltà” fra Oriente e Occidente
fosse prima o poi inevitabile, ma riteneva che lo si dovesse includere nel novero
delle prospettive da prendere in considerazione e da non scartare a priori.
A differenza della versione corrente che era stata data a questa sua tesi e che aveva
attirato su di lui severe critiche, lo studioso di Harvard non aveva perciò esortato
l’Occidente a prepararsi a un conflitto con il mondo islamico. S’era premurato invece
di mettere in guardia gli ambienti politici sul rischio che nelle diverse principali
“entità” culturali e religiose prendessero il sopravvento certi assunti marcatamente
fondamentalisti e che occorresse pertanto adottare adeguati antidoti al fine di prevenirli.
Si trattava, in pratica, per un Occidente laicizzato, avvezzo a considerare la religione
come un’espressione personale di fede interiore e di determinati principi etici, e
che perciò non capiva come potesse ancora insorgere un conflitto a tutto campo per
differenziazioni di matrice religiosa, della necessità di prendere coscienza che esisteva
pur sempre un simile pericolo.
Huntington non aveva, dunque, affermato che l’Islam avesse per suo precipuo corollario
un dominio dogmatico sulle coscienze dei fedeli e la propensione a tradurre le proprie
credenze in chiave ideologica e in forme aggressive, anche in quanto il mondo musulmano
non era un monolite al suo interno, diviso com’era fra diverse confessioni. Ma che
esisteva il rischio che emergessero alcune fazioni dogmatiche e intransigenti, caratterizzate
dall’apologia di un’alterità radicale: come poi era avvenuto con l’irruzione sulla
scena soprattutto di Al Qaeda.
Sta di fatto che intanto si era rivelata troppo semplicistica una spiegazione per
lo più di tipo sociologico, secondo la quale la spirale del terrorismo innescata dall’Isis
fosse andata diffondendosi in Europa, in quanto alimentata dal rancore di una massa
di immigrati musulmani di seconda generazione disoccupati ed emarginati nelle periferie
più degradate. Sia perché gli autori di alcune sanguinose incursioni avevano un lavoro
regolare e possedevano un’ottima istruzione, sia perché quanti agivano in nome dell’Isis
o di Al Qaeda lo facevano in base a un’apposita tattica da guerriglia concepita in
modo da colpire dovunque e chiunque, già sperimentata con successo dai gruppi estremisti
islamici in Cecenia e durante le guerre civili nell’ex Jugoslavia.
Quel che animava i militanti della jihad e alcuni elementi radicalizzati pronti ad
agire in Europa era quindi una carica pregiudiziale di fanatismo e di avversione a
ogni genere di convivenza. Lo stava, d’altronde, a dimostrare in modo drammatico la
brutale persecuzione, quando non la cancellazione, per mano delle sette islamiche
più violente e integraliste, delle comunità cristiane autoctone presenti in Medio
Oriente e in alcune regioni dell’Africa.
IX. Un incipiente strappo fra Usa e Ue
1. “Not my President”. Con questo slogan migliaia e migliaia di giovani avevano seguitato
a sfilare lungo le vie di numerose città, dall’East alla West Coast, per rendere esplicito
il proprio dissenso nei riguardi di Donald Trump, insediatosi dal gennaio 2017 alla
Casa Bianca. Tra di loro non tutti avevano votato due mesi prima per Hillary Clinton,
la candidata del Partito democratico, in quanto molti s’erano espressi a favore di
Bernie Sanders, l’outsider di orientamenti socialisti che inaspettatamente era giunto
negli ultimi mesi a conquistare larga popolarità. Ma quel che li aveva indotti a scendere
per strada era un moto irruente quanto spontaneo di insofferenza per quel tycoon che, fattosi largo nel Partito repubblicano non senza scontrarsi con la “vecchia
guardia” rappresentata dalla dinastia dei Bush, era riuscito a imporsi nelle elezioni
presidenziali malgrado tanti aspetti opachi e controversi sia delle sue fortune personali
che del suo anomalo itinerario politico. Cinque anni prima parecchi di quei dimostranti
mobilitatisi contro Trump erano stati alla testa delle manifestazioni di protesta
svoltesi a New York, sotto lo slogan “Occupy Wall Street”, per denunciare il sopravvento
del finanzcapitalismo e l’aggravamento delle diseguaglianze sociali. Ma s’era trattato
di un’agitazione che aveva avuto per teatro quasi esclusivamente la City e che, promossa
per lo più da un’eterogenea galassia di gruppi e attivisti della sinistra radicale,
non era valsa a incidere sull’opinione pubblica.
Bisognava risalire ai tempi della contestazione studentesca e giovanile, avvenuta
tra gli anni Sessanta e Settanta, a sostegno dei diritti civili e contro la guerra
del Vietnam, per imbattersi in un’ondata così massiccia ed eclatante di veementi reazioni
polemiche e di dolenti recriminazioni come quella emersa alla ribalta contro l’ascesa
al Campidoglio del miliardario neopresidente repubblicano, a causa di certe sue inquietanti
tendenze illiberali e discriminatorie.
È vero che cinquant’anni prima, a innescare il moto propagatosi da Berkeley a tanti
altri atenei, era stata una sorta di “controcultura” della nuova generazione di figli
della classe media nei riguardi del conformismo “borghese” delle élite e delle convenzioni
tradizionali in materia di modelli di comportamento e di vincoli alla libertà sessuale,
nonché una vigorosa avversione alla “sporca guerra” condotta dal Pentagono in Indocina,
spintasi sino all’ostruzionismo alla leva militare (in nome del pacifismo e dell’antimperialismo).
Ma adesso erano rilevabili certe analogie fra quella rivolta esplosa nei campus delle
università e la grande fiammata di vibranti proteste diffusasi negli Stati Uniti all’indomani
della vittoria elettorale di Trump.
Erano infatti ricomparsi in scena, sia pur sotto altre sembianze rispetto al passato,
tanto il rifiuto perentorio di un conservatorismo con tendenze autoritarie e di uno
strisciante razzismo, quanto la ripulsa di un’ideologia sociale improntata dalla logica
del denaro e del successo individuale a ogni costo. Di conseguenza erano tornati in
auge, rivendicati da folle di giovani e di donne bianchi e di colore, determinati
principi fondamentali come l’egualitarismo, la parità di genere, il pluralismo delle
idee. Non solo. Erano stati riportati in campo taluni postulati, contro il pericolo
di un’omogeneizzazione livellatrice della società e di una manipolazione dall’alto
dei bisogni degli individui, espressi da Herbert Marcuse in un’opera come L’uomo a una dimensione (1964) che aveva influenzato largamente il movimento studentesco americano ed era
divenuto anche una sorta di Bibbia per una parte consistente del mondo giovanile in
Europa ai tempi convulsi e barricaderi del Sessantotto, insieme, peraltro, al Libretto rosso di Mao, meno popolare negli Stati Uniti.
Era naturalmente troppo presto per dire se la vampata di apprensione e di sconforto,
propagatasi da New York alla California, e sfociata talora in violenti scontri di
piazza con la polizia, avrebbe continuato ad avere una pregnanza politica e lasciato
un segno tangibile. Anche perché Trump aveva assunto, all’indomani della sua vittoria,
toni più morbidi e concilianti rispetto a quelli drastici e talora tracotanti da lui
usati durante la campagna elettorale: così da indurlo a rivolgersi ai democratici,
al Congresso, con un appello alla concordia e all’unità nazionale (come, del resto,
avrebbe fatto abilmente, all’occorrenza, in altre circostanze).
Sta di fatto che il suo avvento alla Casa Bianca aveva intanto prodotto effetti politici
ed economici dirimenti a livello internazionale. A cominciare dai rapporti degli Stati
Uniti con l’Europa e dalla geografia politica interna all’Unione Europea.
2. Non è che prima dell’ascesa di Trump alla Casa Bianca la Ue e gli Usa filassero
perfettamente d’amore e d’accordo. Già durante il secondo mandato presidenziale di
Obama s’erano manifestati alcuni segnali, se non proprio di freddezza da parte di
Washington nei riguardi di Bruxelles, di un suo decrescente interesse al rafforzamento
dei tradizionali legami di larga cooperazione.
S’erano infatti sospesi quasi del tutto i negoziati per la stipulazione della Transatlantic
Trade and Investment Partnership. Per contro si era assistito, ai primi di ottobre
del 2015, alla stipulazione dell’accordo di libero scambio transpacifico fra gli Stati
Uniti, cinque paesi asiatici (fra cui il Giappone), l’Australia e la Nuova Zelanda,
più il Canada, il Messico, il Perù e il Cile. Si trattava di una partnership commerciale
fra dodici Paesi che riguardava un’area pari al 40 per cento del Pil mondiale, e che
probabilmente si sarebbe aperta presto all’adesione della Corea del Sud e forse anche,
in un prossimo futuro, a quella della Cina, stando all’auspicio espresso da Barack
Obama.
Su quest’altra sponda dell’Atlantico “Zio Sam” aveva smesso negli ultimi anni di costituire
un modello esemplare anche per quanto concerneva una guarigione economica dell’Europa.
È vero che la ricapitalizzazione delle banche americane più malandate grazie all’intervento
del governo federale, e un programma di cospicui aiuti pubblici a soccorso di alcune
grandi imprese – a cominciare dai tre colossi americani dell’auto, la General Motors
e la Chrysler, entrambe sull’orlo del fallimento, e la Ford, che rischiava la stessa
sorte – avevano contribuito a superare progressivamente i traumi della grande crisi
del 2008. Ma l’Unione Europea, che non aveva le stesse prerogative politiche di uno
Stato federale, non se l’era potuto permettere, e le regole vigenti erano comunque
incompatibili con una politica dirigista.
Oltretutto, i regolamenti adottati negli Usa contro certe scorrerie speculative non
avevano impedito la ricostituzione di una catena di stretti rapporti fra lobby economiche
e ambienti politici. Lo stava a dimostrare, se non altro, la scalata alla Casa Bianca
di Trump, sospinta o assecondata da una cerchia di personaggi altolocati del mondo
degli affari, a cui il nuovo capo della Casa Bianca doveva, del resto, la realizzazione
del suo consistente patrimonio personale e quello della sua famiglia.
È vero che l’influenza di una ancorché potente oligarchia finanziaria non sarebbe
stata sufficiente a battere l’opposizione del Partito democratico e a portare uno
dei suoi esponenti sino al Campidoglio, a dispetto anche di gran parte degli organi
d’informazione più autorevoli e di grande tiratura.
Ma Donald era stato altrettanto avveduto quanto spregiudicato nell’azionare la sirena
del nazionalismo, sia per presentarsi come l’uomo politico che avrebbe liberato gli
Stati Uniti da certi lacci multilaterali che ne avrebbero imbrigliato la crescita,
sia per acquisire la forza d’urto elettorale costituita da quella parte della middle class più duramente colpita dalla grande crisi.
Non a caso, infatti, le contee dove avevano vinto i repubblicani erano quelle che
avevano subìto in maggior misura una riduzione dei livelli di reddito, di produttività
e di istruzione, rispetto a quelle in cui Hillary Clinton aveva ottenuto la maggioranza
dei voti. Agli elettori delle regioni retrocesse (rispetto al 1990) a poco più del
35 per cento della produzione nazionale, Trump aveva fatto balenare la prospettiva
di affrancarli dagli anfratti della disoccupazione e dalla minaccia di un ulteriore
impoverimento, grazie alle leve del protezionismo e del “buy American” per il rilancio
dell’industria manifatturiera e la salvaguardia delle principali roccaforti operaie
e rurali dalla concorrenza straniera. A ogni modo, se il leader repubblicano aveva
potuto vantare fin da subito alcuni successi della sua politica, lo doveva al fatto
che s’era trovato a ereditare un’economia americana già in buona salute grazie alle
cure apprestatele dal suo predecessore alla Casa Bianca.
X. Le matrici del sovranismo
1. La vittoria nelle elezioni presidenziali di un tycoon che aveva rimesso in circolazione i dettami individualistici dei neo-con e raccolto
nel contempo le istanze di quella fascia della popolazione rappresentata soprattutto
dalle tute blu delle principali aree industriali scivolate sull’orlo della povertà,
ribaltò l’immagine politica progressista degli Stati Uniti invalsa durante le presidenze
di Bill Clinton e di Barack Obama. D’altronde Trump coltivava, alla stregua di un’autentica
ossessione, l’idea di eliminare le tracce di tutto ciò che aveva fatto Obama, essendosi
spinto a contestare persino la cittadinanza americana del suo predecessore.
In Europa il decalogo del neoinquilino della Casa Bianca non era divenuto immediatamente
un codice di riferimento per la nuova destra sovranista e populista né essa giunse,
per qualche tempo, ad avere maggior visibilità ai piani alti dell’amministrazione
repubblicana. Ci avrebbe poi pensato Steve Bannon, l’ex stratega di Trump, ad accreditare
a Washington la destra italiana e quella di altri Paesi europei aderenti a The Movement,
il movimento populista mondiale da lui fondato.
Ad aprire nel Vecchio Continente larghi varchi al proselitismo dei movimenti che avevano
abbracciato la causa del sovranismo erano stati inizialmente, più che gli squarci
provocati dalla recessione e dalle nuove tecnologie nel tessuto dell’occupazione operaia,
gli effetti dell’indebolimento del ceto medio e le sue angosce su una propria regressione
sociale.
In Germania e in Francia gran parte delle maestranze operaie avevano conservato il
loro posto di lavoro, nonostante le ripercussioni della grande crisi, col sostegno
dei sindacati e avvalendosi di varie forme di protezione sociale; quanto alla Gran
Bretagna e ai Paesi scandinavi, era già avvenuta, a partire dagli anni Novanta, una
destrutturazione tanto del settore minerario che di quello siderurgico. E se la quarta
rivoluzione industriale aveva man mano reso più instabili le prospettive del mercato
del lavoro, l’esistenza di un robusto sistema di welfare era valso ad attutire o a
graduare l’urto della metamorfosi in corso nell’ambito delle fabbriche.
In complesso, a risentire di più della crisi, tanto in termini economici che a livello
psicologico, erano state sia quella parte del ceto medio (dai piccoli imprenditori
agli artigiani, dai negozianti agli esercenti di libere professioni) che aveva subìto
un calo dei propri redditi, sia quella fascia di quadri impiegatizi che s’erano trovati
a non poter far più conto su occupazioni stabili o su progetti pianificabili per il
futuro dei propri figli.
Alcuni aspetti della temperie sociale europea avevano comunque una certa affinità
con quanto stava avvenendo dall’altra parte dell’Atlantico. Se negli Stati Uniti era
cresciuto tra molta gente l’ostracismo nei confronti di ulteriori correnti migratorie
provenienti soprattutto dall’America Latina (tanto che una delle promesse su cui Trump
aveva fatto leva era che avrebbe completato il muro al confine col Messico, avviato
da Clinton, al punto da farne una barriera insuperabile), nel Vecchio Continente aveva
cominciato ad attecchire un’analoga idiosincrasia nei riguardi dell’immigrazione.
Sempre più evidente era divenuto infatti il consenso ottenuto dai politici che intendevano
imporre un blocco totale ai flussi migratori per terra o per mare, tenere lontani
dai propri porti le navi di soccorso delle Ong, e restringere anche il novero dei
cosiddetti “corridoi umanitari” attivati tramite specifici accordi fra determinate
missioni civili o religiose e alcuni governi africani.
È vero che la politica migratoria di Trump non escludeva la possibilità di aprire
le porte di casa a determinati nuclei di immigrati qualificati, in possesso di particolari
requisiti professionali. Come, del resto, stava avvenendo nei Paesi del Nord Europa,
dove negli ultimi tempi si badava ad accogliere entro le proprie mura alcune schiere
selezionate di lavoratori extracomunitari.