Edizione: 2011 Pagine: 152 Collana: Saggi Tascabili Laterza [357] ISBN carta: 9788842096634 ISBN digitale: 9788858113547 Argomenti: Attualità politica ed economica, Economia e finanza
Oggi ci troviamo in presenza di una sorta di capitalismo al plurale, con un’impronta marcatamente finanziaria e transnazionale, e dai connotati ibridi ed eterogenei. Non sono più gli Stati Uniti e l’Europa, insieme al Giappone, a segnare le direttrici di marcia del mercato globale, ma anche, e con un passo sempre più spedito, la superpotenza cinese e nuovi paesi emergenti come l’India e il Brasile, affiancati dalla risorgente Russia, dalla Corea del Sud, dalla Turchia e dal Sudafrica. Si tratta ora di vedere se questo universo economico multipolare darà luogo a un processo di sviluppo sostenibile e socialmente responsabile e asseconderà un’evoluzione delle istituzioni politiche; o non finirà piuttosto per formare un arcipelago di nuove élites oligarchiche e di nuove derive nazionalistiche.
Valerio Castronovo, già ordinario di Storia contemporanea all’Università di Torino, è direttore della rivista di scienze e storia “Prometeo” e presidente dell’Istituto di studi storici “Gaetano Salvemini” di Torino. Collabora al “Sole 24 Ore”. Tra le sue più recenti pubblicazioni, Le ombre lunghe del ’900. Perché la Storia non è finita (Mondadori 2010) e Storia economica d’Italia dall’Ottocento ai giorni nostri (Einaudi 2013).
La Storia non ha mai seguito un percorso lineare e univoco. Eppure, dopo la dissoluzione
del «socialismo reale», di un ordinamento politico totalitario, rimasto in Unione
Sovietica arroccato sulla collettivizzazione dei mezzi di produzione e pietrificato
da un apparato burocratico ipertrofico, si era diffusa la convinzione che non solo
la democrazia ma anche il capitalismo – alla fine vincente grazie soprattutto a un
crescente flusso di innovazioni e alla forza d’urto espressa dall’economia americana
– avrebbe finito col procedere secondo una sola e unica direttrice di marcia, sotto
la bandiera a stelle e strisce. E dovunque, a ogni latitudine, si sarebbe fatto di
tutto per allinearsi il più possibile al modello di sviluppo americano, a quello che
era il perno e il motore dell’economia più ricca e dinamica del mondo.
È vero che l’Europa comunitaria seguitava a vantare un suo modello specifico, quello
dell’«economia sociale di mercato», in quanto contraddistinto da un intervento dei
poteri pubblici quale garante di una più equa distribuzione del reddito; e che fra
le due sponde dell’Atlantico era in corso da sempre una sorta di ‘coesistenza competitiva’
nell’agone economico internazionale. Ma l’Europa comunitaria appariva intorpidita
e, per di più, era alle prese col dilemma se aprire o meno, fin da subito, le sue
porte ad alcuni Paesi ex comunisti dell’Est. Si pensava perciò che non avrebbe potuto
gareggiare con l’America. Come, del resto, era avvenuto a suo tempo, nell’ultimo decennio
del secolo Ventesimo, nel caso del Giappone, che aveva dovuto alla fine cedere il
passo. Tant’è che s’era perso il ricordo di quando, tra gli anni Settanta e Ottanta,
grazie all’intreccio fra una tecnologia d’avanguardia e un’aggressiva politica commerciale,
sembrava che il Sol Levante dovesse arrivare a contendere agli Stati Uniti il primato
in cima al firmamento economico.
Quanto alla Cina – il grande «pianeta rosso» sopravvissuto al cataclisma del mondo
comunista – non solo a Washington ma in altre capitali dell’Occidente si riteneva
che il regime post-maoista sarebbe giunto prima o poi a ripudiare il suo codice genetico,
senza giungere peraltro a costituire un serio concorrente in campo economico, dato
che avrebbe dovuto provvedere innanzitutto ad assestarsi più saldamente al potere
e poi darsi da fare per migliorare la sorte della maggioranza dei suoi cittadini,
che versavano in condizioni di povertà. Per il resto, a grandi democrazie come l’India
e il Brasile, che avevano intrapreso la via dello sviluppo con un passo più svelto
rispetto al passato, non era il caso di prestare particolare attenzione, in quanto
avrebbero dovuto percorrere ancora molta strada, sempre che fossero riuscite a farlo,
prima di poter influire in qualche modo sugli equilibri geoeconomici mondiali.
In America si era pertanto convinti che occorresse tutt’al più perfezionare i congegni
del proprio sistema economico per rafforzarne la preminenza a livello internazionale
e accrescere ancor più le distanze dagli altri Paesi. Ma, adesso che non era più indispensabile
destinare cifre considerevoli agli armamenti, si pensava anche che fosse possibile
devolvere una quota maggiore delle risorse di cui si disponeva alle spese sociali.
E così, nel corso della presidenza di Bill Clinton, si era puntato non solo su un
progetto di riforma, l’Health Security Act, che prevedeva l’assistenza sanitaria per tutti, ossia per i quaranta milioni di
americani che non avevano alcuna copertura del genere. S’era provveduto pure a concentrare
una parte più consistente di investimenti pubblici su una serie di misure che contribuissero
a incrementare le possibilità di accesso a un lavoro più qualificato e ad agevolare
la diffusione di nuove conoscenze. Il workfare, la formazione di un capitale umano dotato di più ampie competenze e attitudini personali,
e quindi in grado di riequilibrare l’elevata flessibilità del mercato del lavoro determinata
dalle nuove tecnologie, avrebbe dovuto divenire il nerbo della politica sociale nell’era
della new economy.
Di qui il lancio nel 1997 di un piano di «alfabetizzazione informatica», fra gli investimenti
prioritari del governo federale, con l’assunzione di centomila nuovi insegnanti e
il collegamento di ogni aula alle reti telematiche, per educare i giovani all’uso
dei nuovi strumenti di scrittura e di comunicazione. Clinton era infatti convinto
che, qualora non ci si fosse impegnati per rendere familiari le più recenti innovazioni
high tech, la rivoluzione determinata dal digitale avrebbe prodotto crescenti disparità sociali
all’interno del Paese. Congedandosi dalla Casa Bianca, aveva potuto vantare il fatto
che oltre il 40 per cento dei ventidue milioni di nuovi posti di lavoro creati negli
ultimi sette-otto anni riguardava attività specializzate; e che più del 60 per cento
di quanti li occupavano percepiva retribuzioni al di sopra della media.
Allorché George W. Bush nel gennaio 2001 prese il posto di Clinton, i repubblicani
non vollero essere da meno dei democratici nell’orientare l’economia e la società
americana verso nuovi traguardi. Beninteso a modo loro; e, dato che passavano da sempre
per apparentati ai principali gruppi d’interesse, avevano pensato a qualcosa di nuovo
rispetto ai propri paradigmi abituali. Non già, naturalmente, a un capovolgimento
della loro tradizionale linea politica, come sarebbe avvenuto nel caso di un progetto
per una redistribuzione del reddito attraverso le leve del fisco o per un incremento
della spesa pubblica a favore dei ceti più modesti. Ritenevano piuttosto che, ad attenuare
le diseguaglianze sociali, potessero servire determinati strumenti da attivare nell’ambito
del mercato finanziario. In tal modo non sarebbero venuti meno ai princìpi di una
destra moderata e neoliberista.
Un «capitalismo ben temperato», all’insegna di un «conservatorismo compassionevole»:
così era stato definito l’obiettivo che l’establishment repubblicano, in sintonia con gli intellettuali neocon, intendeva conseguire. Ossia, una sorta di ‘capitalismo soft’, che fosse più sensibile ai problemi della gente comune e corrispondesse a certe
aspettative dell’«uomo della strada».
In pratica, il progetto concepito dallo staff presidenziale avrebbe dovuto dar vita
a una nuova stagione del capitalismo americano altrettanto prospera che benefica per
la collettività. Una sorta, insomma, di New Deal, ma non più – come ai tempi di Roosevelt – per trarre l’America dal baratro di una
drammatica recessione, bensì per renderla più robusta e coesa socialmente in virtù
dell’iniziativa individuale e non per l’azione del potere statuale. Ciò avrebbe dimostrato
la capacità dell’America, in quanto «umile ma forte» – come affermava Bush –, di reinventarsi
e di continuare a crescere.
Sappiamo come questo suo assioma sia stato spazzato via dal vortice di una crisi economica
devastante. Oltretutto, la peggiore che si ricordi dopo quella del 1929 e comunque
tale da colpire duramente il cuore e le nervature del sistema americano.
Eppure, ai suoi esordi, quello messo a punto dal think tank del Partito repubblicano non sembrava, di per sé, un teorema ideologico, una formula
altrettanto suggestiva che astratta. Né c’erano i prodromi di un cataclisma alle porte.
Per stabilire in che cosa avrebbe dovuto consistere l’essenza, il nocciolo duro, di
un «capitalismo ben temperato», era bastato infatti tener conto di quanto era dato
cogliere e registrare da una realtà sotto gli occhi di tutti. Ossia, che la popolazione
stava crescendo notevolmente, in quanto sospinta anche dall’afflusso negli Usa di
tanti immigrati latinoamericani, e che, di conseguenza, s’era infittita la domanda
di nuove case nei grandi centri urbani e nelle aree limitrofe più affollate. Si trattava
perciò di fare in modo che anche le famiglie meno abbienti e quelle formate dalle
leve più giovani potessero accedere al possesso di un’abitazione, mediante attraenti
condizioni contrattuali praticate dalle banche, tali da facilitare il conseguimento
di quest’agognato obiettivo da parte del maggior numero di persone possibile. Insomma,
non c’era da andare tanto lontano, da chiamare a consulto economisti e politologi,
per stabilire quale fosse la soluzione migliore per imprimere un marchio che rendesse
popolare e avvincente un modello di capitalismo come quello vagheggiato dai repubblicani
una volta tornati al potere.
In verità, già durante la presidenza di Clinton era affiorata un’idea del genere,
tant’è che si era cominciato a elaborare un programma denominato «per la casa accessibile»,
con riferimento in particolare a quei settori della middle class che ne erano ancora sprovvisti. Ma la «bolla» dei titoli tecnologici aveva poi messo
in difficoltà i democratici, che avevano enfatizzato i mirabili effetti di Internet
e gli esordi di una nuova «società dell’informazione». Ad ogni modo, era stato il
nuovo inquilino della Casa Bianca a fare dell’accessibilità a una casa in proprio
il suo cavallo di battaglia durante la campagna per le elezioni legislative di mid-term.
Da conservatore pragmatico qual era, Bush aveva colto perfettamente la duplice valenza
di una politica intesa a favorire gli aspiranti alla proprietà individuale dell’abitazione
in cui risiedevano o di un alloggio di nuova costruzione. Da un lato, si sarebbe potuta
rivitalizzare, attraverso l’espansione dell’edilizia residenziale con i suoi molteplici
effetti positivi per l’industria e l’occupazione, l’economia americana (non ancora
riavutasi del tutto dalla recessione manifestatasi dopo l’attentato terroristico del
settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York). Dall’altro, rendendo molto più accessibile
il credito necessario all’acquisizione di una casa, la gente avrebbe smesso di rimpiangere
il clima d’euforia che si respirava ai tempi della presidenza di Clinton, coincisi
con la fase culminante della floridezza economica e dell’egemonia politica degli Stati
Uniti su scala planetaria dopo il crollo nel 1991 dell’Unione Sovietica. Così l’era
dell’«impero americano» avrebbe avuto un significato concreto, non più soltanto politico
e psicologico, per centinaia di migliaia di cittadini che aspiravano al possesso di
un bene immobile come la casa, quale patrimonio duraturo e solida garanzia per il
proprio avvenire.
Quella che Bush intendeva realizzare era, a suo modo, una riedizione dell’American Dream, in funzione di un nuovo primato nel medagliere degli Stati Uniti ma anche, non secondariamente,
di un abile calcolo politico. Proponendosi di esaudire le speranze di quegli strati
sociali medio-bassi che da sempre costituivano il serbatoio dei suffragi del Partito
democratico, e offrendo loro la possibilità di acquisire la proprietà di un’abitazione,
il leader repubblicano puntava a riconvertirne gli orientamenti. Nel contempo avrebbe
dato una prova persuasiva di quel «conservatorismo compassionevole» di cui il suo
partito si proclamava fautore e garante.
In pratica, dopo l’avvento ai tempi lontani di Lyndon Johnson di una affluent society, ossia di una società caratterizzata dall’espansione dei consumi privati e da un
generale miglioramento del tenore di vita, gli americani avrebbero assistito alla
nascita di una home-owners society, una società contrassegnata dalla diffusione di un titolo di proprietà come quello
di una casa, ambìto da tante famiglie. Del resto, non foss’altro che per ragioni di
opportunità politica, era necessario venire incontro alle aspettative dei ceti meno
abbienti dopo che la riduzione delle imposte sui capital gains e l’esenzione dalle tasse di successione, stabilite nel 2003, avevano avvantaggiato
quelli più facoltosi.
S’era così coltivato un nuovo sogno americano, questa volta con tanto di sigillo repubblicano,
che avrebbe consacrato, per l’appunto, i postulati di un «capitalismo ben temperato»,
tale da avere a cuore la causa degli strati sociali più deboli. È vero che anche i
democratici si erano affrettati a condividere un progetto come quello della «casa
per i poveri», per non perdere terreno nei propri collegi elettorali a favore dei
loro rivali. Ma erano i repubblicani ad avere nelle mani il timone del governo e la
possibilità di tradurre in pratica quanto avevano in mente senza dover ricorrere alle
casse dello Stato.
A tal fine s’erano assicurati la cooperazione di una delle massime istituzioni americane,
la Federal Reserve Bank, giacché una generosa politica monetaria avrebbe potuto assecondare
l’espansione del credito a favore di quanti intendevano acquistare un alloggio.
D’altro canto, a capo della Fed, da quindici anni, c’era un abile nocchiero come Alan
Greenspan, che contava dalla sua, oltre a una vasta esperienza, una reputazione indiscussa.
Non solo aveva saputo calibrare all’occorrenza, senza brusche oscillazioni, tanto
il freno quanto l’acceleratore, per scongiurare nel primo caso pericolosi surriscaldamenti
inflazionistici e per evitare nel secondo il rischio di scivolate recessive. Era riuscito
anche a riassorbire gli effetti di un trauma come quello dell’11 settembre 2001, e
non importava più di tanto che l’avesse fatto ricorrendo a cospicue iniezioni di liquidità.
Del resto, non c’era simposio internazionale in cui non si cantassero le lodi del
governatore della Fed e della sua maestria nel pilotare la politica monetaria, nonché
della sua personalissima dottrina in materia di ingegneria finanziaria.
L’amara favola della «casa per tutti»
Sappiamo come andarono a finire le cose. Ma va detto che fino ad allora erano stati
ben pochi – al punto da contarsi sì e no sulle dita di una mano – quelli che avevano
sollevato qualche obiezione nei riguardi dei precetti di Greenspan, tanto essi apparivano
infallibili o comunque meritevoli della massima considerazione. D’altronde, la Fed
possedeva facoltà e prerogative di così vasta portata da orientare e regolare, insieme
al sistema finanziario statunitense, la politica economica americana e da influenzare,
in pratica, quella del mondo intero.
Non aveva perciò suscitato pressoché alcun motivo di preoccupazione il fatto che milioni
di famiglie, inseguendo il miraggio seducente di entrare in possesso di una casa,
s’indebitassero contraendo prestiti, anche a lunga scadenza, con i mutui subprime, cosiddetti perché concessi a persone con bassi redditi o di dubbia capacità economica
ma garantiti in gran parte da due agenzie semipubbliche come Fannie Mae e Freddie
Mac. D’altro canto questo genere di mutui, pur gravati da una relativa ipoteca, sembravano
una manna piovuta dal cielo, in quanto contemplavano tassi estremamente modici per
un certo numero d’anni; e non c’era banca che non fosse disposta a concederli. Essi
venivano perciò ritenuti dall’opinione comune strumenti e simboli di una «finanza
democratica» per eccellenza. Si pensava, infatti, che i saggi d’interesse si sarebbero
mantenuti altrettanto bassi anche in futuro, oltre i primi due o tre anni stabiliti
di norma, mentre le quotazioni degli immobili sarebbero nel frattempo lievitate a
tutto vantaggio degli acquirenti.
A loro volta, le banche emittenti avevano provveduto a cartolarizzare i propri crediti,
a trasformarli in obbligazioni commerciali, smembrandoli in tanti pezzetti e reimpacchettandoli
in prodotti finanziari tra i più eterogenei che, concepiti talora in base a calcoli
matematici sempre più complessi, erano stati posti in vendita con la promessa al pubblico
di ottimi rendimenti. Trasferendo in tal modo il rischio creditizio (dovuto alla mancanza
di un obbligo preliminare di accertamento dell’effettiva solvibilità del mutuatario)
sull’intero mercato dei capitali, e spalmandolo in mille rivoli, esse si sentivano
tranquille ritenendosi del tutto al sicuro. Quanto alle società di rating, alle quali spettava il compito di monitorare gli eventuali rischi dei mutui subprime, erano sicure che non esistesse alcun pericolo, dato che s’era allungata la catena
delle intermediazioni tra creditori e debitori.
Ma non si doveva soltanto ai subprime il fatto che il mercato finanziario avesse preso il volo: a Wall Street circolava
già una gran massa di altri titoli derivati, concepiti da un plotone di banchieri
e manager fautori di una «finanza innovativa». Del resto, a dar loro una mano nell’inondare
la City di questi loro prodotti era l’esistenza di una liquidità ampia e disponibile,
dovuta a due circostanze. Al fatto che il governo avesse tagliato le tasse su consiglio
della Fed, secondo la quale in tal modo si sarebbe evitato di rimborsare il debito
pubblico troppo rapidamente; e al fatto che erano stati resi sempre più permissivi
i criteri per la concessione del credito.
Comunque fosse, l’eccezionale espansione del mercato finanziario veniva considerata
un segno tangibile della vitalità e versatilità del capitalismo americano, della sua
congenita capacità di creare nuove opportunità. I fondi d’investimento venivano infatti
alimentati per lo più da una miriade di piccoli risparmiatori, per integrare a tempo
debito le loro pensioni; e l’azionariato popolare era divenuto perciò non solo una
delle colonne portanti dell’intero sistema finanziario ma anche un tratto fondamentale
dell’American Way of Life. Dunque, tanto meglio se adesso i subprime davano modo a tanti americani di acquistare una casa a condizioni particolarmente
vantaggiose.
Fu così che, quando alcune banche cominciarono, nel febbraio 2007, a dichiarare di
essere in difficoltà con i mutui subprime, non ci si fece gran caso. Né ci si preoccupò più di tanto allorché risultò che Fannie
e Freddie erano giunte a garantire molti più mutui di quanti ne potessero avallare.
D’altronde, la Fed seguitò a starsene alla finestra non ravvisando alcun motivo per
allarmarsi, anche quando in giugno il pericolo di un crollo dei subprime e di altri mutui sulla casa iniziò a essere avvertito sul mercato del credito. I
tassi d’interesse, che già avevano cominciato a salire, sospinti da una serie di rincari
delle materie prime, stavano ormai schizzando sempre più in alto. Tanta gente, nel
frattempo indebitatasi con i mutui subprime, si trovò sulle spine, non essendo più in grado di far fronte alle rate mensili che
in alcuni casi erano persino raddoppiate. Molti avevano smesso di pagarle e le loro
case, il cui valore era già sceso sotto il livello del capitale da rimborsare, erano
state sequestrate.
Ma se questo scivolone subìto dal mercato dei subprime si rivelò fatale, fu perché banche e assicurazioni avevano frattanto accumulato enormi
attività fuori bilancio, non solo in prodotti finanziari contenenti migliaia di mutui
cartolarizzati, ma anche in una congerie di titoli d’ogni specie, alcuni dei quali
creati in base a formule talmente astruse da essere quasi indecifrabili. Le insolvenze
sui mutui immobiliari, sebbene non fossero in numero esorbitante, finirono per cadere
come un mozzicone di sigaretta non spento su un deposito di benzina: ossia, su una
massa di debiti a breve termine in cui s’erano ingolfate le banche in seguito a una
loro crescente leva finanziaria. Di conseguenza, l’‘incendio’ scoppiato a Wall Street
investì un’enorme piramide di carta, di titoli derivati, gran parte dei quali immessi
sul mercato con un valore più elevato del loro effettivo contenuto. Né bastò a scongiurare
il crollo delle Borse l’intervento della Fed, che nella terza settimana di gennaio
del 2008 tagliò di ben 75 punti base i tassi (la riduzione più consistente da ventitré
anni a quella parte), per poi ribassare ulteriormente, una settimana dopo, di altri
50 punti il costo del denaro.
Da allora, come è noto, la tempesta innescata dalla nuvolaglia dei mutui subprime si sarebbe sempre più ingrossata sino a trasformarsi in un vero e proprio cataclisma
finanziario. Andò così dissolvendosi, dopo l’innesco della debtonation dei subprime, una gran massa di denaro capitalizzato in hedge funds, bond e vari altri titoli che andavano per la maggiore.
Con la frantumazione dell’artificiosa impalcatura messa su dai maghi della finanza
si dileguò anche il miraggio fatto balenare dagli araldi della destra repubblicana.
Ed emerse uno spettacolo desolante, quello di una moltitudine di sfrattati, di migliaia
e migliaia di famiglie affogate dai debiti, da un giorno all’altro senza più un tetto
sopra la testa. Come se si fosse abbattuto sulle case in cui s’erano appena installate
uno di quei tornado che periodicamente colpiscono alcune regioni degli Stati Uniti
sradicando e distruggendo tutto ciò che incontrano sul loro percorso.
Un crack che ha sconvolto tutti i mercati
Dal grembo di un «capitalismo ben temperato», la cui gestazione era stata affidata
alle cure della Fed, era dunque scaturito una sorta di «turbocapitalismo», un megameccanismo
creato da una cerchia di grandi banchieri con l’obiettivo di accumulare una sempre
maggior quantità di denaro, senza la produzione di merci, e che, spinto all’eccesso,
aveva provocato alla fine il ciclone abbattutosi su Wall Street. D’altra parte, questo
congegno finalizzato alla massimizzazione dei profitti, essendosi diffuso per via
delle molteplici ramificazioni e interrelazioni del mercato americano, aveva contagiato
altre banche e società finanziarie nel resto del mondo. Perciò il crollo della City
aveva avuto un effetto domino sulle principali piazze, con ripercussioni altrettanto
micidiali per la finanza e l’intera economia su scala internazionale.
Ma come mai non era stato possibile prevedere e quindi arrestare sul nascere una deriva
del sistema finanziario così tumultuosa e travolgente? In sostanza, ci si è chiesti
se si sarebbe potuto evitare che certe scosse iniziali avvenute sul mercato dei subprime agissero da detonatore della crisi; oppure se il crack dei derivati era destinato,
per forza di cose, a esplodere sino alle sue estreme conseguenze.
Innanzitutto, risulta evidente come fosse tanto ambizioso quanto azzardato il tentativo
della classe politica (a cominciare dai repubblicani) di estendere il numero di proprietari
di case attraverso un credito elargito spensieratamente o comunque senza le dovute
cautele, per accattivarsi il favore degli elettori a basso reddito. Ma se era poi
esplosa una crisi così devastante ciò era avvenuto soprattutto a causa delle acrobazie
di un sistema bancario non solo opaco ma totalmente scollato dall’economia reale,
un sistema che, con i soldi altrui, s’era avventurato allo sbaraglio in una ridda
di operazioni sempre più rischiose che proprio per questo promettevano nel breve periodo
profitti e bonus superlativi.
Inoltre, è vero che all’espansione frenetica del mercato mobiliare americano aveva
fatto da incubatrice la liberalizzazione a tutti gli effetti dei prodotti finanziari
avvenuta durante la presidenza di Ronald Reagan e l’ultimo tratto del mandato di Bill
Clinton. Ma questa misura era stata assunta nel contesto più generale di una politica
economica volta dapprima a superare una fase di stagflazione prolungatasi per quasi
tutti gli anni Settanta, e poi a promuovere la finanziarizzazione delle imprese e
delle attività di ricerca nel nuovo settore dell’informatica. Era stata piuttosto
la mitizzazione in chiave politico-ideologica (sulla scia del verbo di Milton Friedman)
della «mano invisibile» del mercato a diffondere e accreditare l’idea – sostenuta
da una folta schiera di opinion maker, ma anche di numerosi politici di entrambi gli
schieramenti – che il «free market» sarebbe stato tanto più in grado di creare ricchezza quanto più padrone di agire
da sé, tutt’al più con qualche regola dettata dai poteri pubblici.
Fatto sta che era andata manifestandosi un’ondata di operazioni speculative di trading talmente disinvolte da costituire sovente delle vere e proprie scorribande in lungo
e in largo da parte delle maggiori banche e società finanziarie. I loro titolari,
che pur passavano in precedenza come operatori per lo più prudenti, s’erano dati a
costruire dei castelli finanziari sofisticati e con un alto grado di rischio. E ciò
non solo senza alcun riguardo per la tutela dei risparmiatori, ma anche senza alcuna
preoccupazione per l’entità degli indebitamenti, con l’occhio attento unicamente a
quanto fosse possibile guadagnare di più e rapidamente.
D’altro canto, Greenspan aveva seguitato a giurare sulla specchiata onestà e correttezza
dei principali banchieri della City, dato che le loro attività finanziarie risultavano
perfettamente legali, anche se congegnate espressamente in forme e termini tali da
non cadere sotto le lenti delle autorità di sorveglianza. Inoltre, aveva chiuso gli
occhi sull’eccessiva avidità degli esponenti e dei top manager delle banche d’affari,
giunti ad accaparrarsi sino alla metà, quando non oltre, dei ricavi. Per lui valeva
comunque il principio che le banche, nel loro stesso interesse, agissero in modo razionale
e non avventato.
Del resto, del medesimo avviso non era soltanto la Fed. Anche se in quel miglio quadrato
di New York attorno a Wall Street si concentrava fisicamente la massima parte dei
patrimoni miliardari quotati in Borsa, su altre piazze le cose non andavano tanto
diversamente. Quasi dappertutto dominava un clima di grande euforia, i corsi dei vari
titoli venivano aggiornati ogni istante grazie alle tecnologie elettroniche che collegavano
i mercati finanziari del mondo intero, circolava una gran dovizia di denaro, e le
banche – abbondando nella leva finanziaria come nella concessione di crediti – conducevano
la danza, sicure che avrebbero seguitato a essere premiate con la creazione di un
sempre maggior valore per gli azionisti quanto più si fossero spinte in operazioni
ardite o comunque fuori dell’ordinario.
Pure in Europa la deregolamentazione dei prodotti finanziari era stata condivisa,
in sede politica, da destra come da sinistra. Ed era perciò in circolazione da tempo
una miriade di titoli derivati dei più diversi tipi, sotto gli occhi distratti dei
governi, e perciò senza che le competenti autorità di controllo avvertissero la necessità
di imporre adeguati limiti di salvaguardia di fronte a una mole ingente di debiti
bancari venutisi in tal modo a creare. A non contare poi una massa ugualmente debordante
di crediti e di mutui ipotecari: tant’è che in Inghilterra, Irlanda e Spagna erano
comparsi fin dal 2007 i prodromi di una bolla immobiliare più o meno analoga a quella
americana. Su questo gran mare d’affarismo d’alto bordo o di piccolo cabotaggio, si
era così abbattuto uno ‘tsunami finanziario’, sia pure meno violento di quello scatenatosi
su Wall Street nel settembre 2008, considerate le dimensioni relativamente più circoscritte
delle piazze del Vecchio Continente. Ma i fattori patologici della crisi erano più
o meno gli stessi.
Alcuni commentatori hanno attribuito le cause di questa perversa spirale a una tara
intrinseca al sistema capitalistico, ossia alle sue congenite pulsioni speculative,
accentuatesi oltremodo negli ultimi tempi per via dei nuovi e più svariati congegni
inventati e messi in opera dalla tecnofinanza.
Di certo, è innegabile che l’impiego del denaro per far denaro sia una costante del
capitalismo fin dalla sua comparsa sulla scena, come pure il fatto che abbia provocato,
a cominciare da certe ‘bolle’ settecentesche, più di un uragano finanziario. Non per
questo, la speculazione è mai giunta a un punto tale da surclassare l’attività rappresentata
dalla produzione di beni e dai frutti del lavoro.
Senonché, sarebbe proprio questo ciò che sta avvenendo secondo quanti ritengono che
il turbocapitalismo – o il «finanzcapitalismo», come lo si voglia chiamare – si debba
in sostanza a una crescente mercificazione della moneta attraverso l’emissione di
una massa di titoli finanziari di gran lunga sovrabbondante ed estesa su scala planetaria
rispetto alla produzione reale, quella di merci e di servizi. E che, quindi, sia in
corso una finanziarizzazione tendenziale e inesorabile dell’economia, dovuta anche
alla preminenza assunta, sulla scia di politiche neoliberiste, da una sorta di ‘pensiero
unico’, di fondamentalismo mercatista, tale da divinizzare il mercato quale entità
autoreferenziale, al di là di ogni principio etico e finalità pubblica.
Questa tesi si fonda senz’altro su alcuni dati di fatto indiscutibili, a cominciare
dalla crescente disparità fra redditi di lavoro e redditi di capitale, e quindi fra
i percettori di salari e quelli di profitti e di rendite. Una forbice, questa, che
ai tempi di Clinton i democratici intendevano restringere col superamento del digital divide per assicurare in tal modo maggiori possibilità d’occupazione qualificata e quindi
maggior potere contrattuale alla classe lavoratrice. E che i repubblicani pensavano
invece di compensare riducendo le diseguaglianze sociali attraverso l’accesso, da
parte delle categorie meno abbienti, alla proprietà di una casa, reso possibile da
prodighi incentivi creditizi.
Ad ogni modo, il turbocapitalismo non è stato tanto il parto di un processo univoco
e ineluttabile quale sarebbe venuto configurandosi nei Paesi avanzati sotto la spinta
dell’ideologia e della prassi neoliberiste. Alcuni fattori che hanno determinato il
sopravvento del turbocapitalismo (per esempio bassi tassi d’interesse, un credito
facile, una spesa pubblica finanziata in deficit) sono ingredienti che appartengono
tradizionalmente alle politiche economiche di matrice progressista e interventista.
È bensì vero che negli ultimi decenni governi conservatori e ultraliberisti (come
quelli di Reagan e dei due Bush negli Stati Uniti e della Thatcher e di Major in Gran
Bretagna) hanno finito per fare ricorso, in un modo o in un altro, a leve più o meno
analoghe, tanto da aver aumentato la spesa pubblica e sopperito al suo aumento con
una forte crescita del debito statale.
Se poi i mercati finanziari hanno assunto dimensioni straripanti e alcune grandi banche
hanno agito scientemente – o perso la bussola – nella ricerca a ogni costo di proventi
sempre più lucrosi, ciò è avvenuto a causa della latitanza o della passività delle
istituzioni pubbliche. In pratica, è mancato il ricorso a codici normativi, o comunque
a efficaci antidoti, che impedissero sia eccessivi o incongruenti indebitamenti bancari,
sia una moltiplicazione di prodotti finanziari tanto artificiosi quanto altamente
rischiosi e dunque tali da costituire delle vere e proprie trappole per gli acquirenti.
Si è continuato così a lasciare totale briglia sciolta ai pifferai magici della grande
finanza, senza muovere un dito, anche quando sia l’inflazione di titoli lanciati a
getto continuo sul mercato mobiliare sia la lievitazione a dismisura delle loro quotazioni
non risultavano avere alcun riferimento con il trend dell’economia reale. Di conseguenza,
la banche d’affari hanno seguitato ad agire a loro assoluta discrezione dirottando
una gran massa di liquidità verso spregiudicate operazioni di natura eminentemente
speculativa. Quanto alla bolla immobiliare, i bacilli della crisi erano spuntati fin
da quando si era cominciato a sentire puzzo di bruciato a proposito dei subprime. Perciò l’epidemia che hanno poi provocato poteva venire quantomeno circoscritta
per limitarne i danni, qualora ci si fosse mossi per tempo.
Senonché, come ha ammesso in un saggio autobiografico dal titolo L’era della turbolenza, apparso nel 2007, dopo il suo congedo dalla Fed, Greenspan non aveva dato molta
importanza all’incipiente contagiosità dei subprime. La considerava semplicemente «della schiuma di tante piccole bolle locali»; quanto
ai prodotti finanziari derivati, li riteneva strumenti utili a «favorire l’efficienza
dei meccanismi di scambio»; mentre i credit default swaps servivano, a suo avviso, a trasferire «il rischio di credito da coloro che non vogliono
correrlo a quelli che sono pronti ad accettarlo e ne sono capaci».
Queste sue convinzioni, condivise peraltro dal Tesoro, spiegano l’eccessiva condiscendenza
della Fed nei confronti della rigurgitante emissione di derivati da parte delle banche:
quando sarebbe bastata una sua vigorosa moral suasion per contenere le loro strategie altrettanto aggressive che spericolate. A sua volta,
il Tesoro, in virtù delle sue prerogative, avrebbe potuto frenare l’eccessiva liquidità
ed effervescenza del settore finanziario. Fu così che, alla lunga, le ‘scosse sismiche’
finirono col travolgere innanzitutto le banche e i risparmiatori, per poi propagarsi
a raggiera.
La sindrome del declino di un’iperpotenza
Analizzando le conseguenze del disastro innescato dai raid speculativi a ruota libera
delle principali banche d’affari e dall’imprevidenza della Fed e delle società di
rating, Richard Posner ha sostenuto, in un saggio intitolato La crisi della democrazia capitalista, che il risultato di questa calamità è stato doppiamente grave per i suoi effetti
micidiali sia sul versante economico che su quello politico. E ciò a causa tanto di
una ‘sacralizzazione’ del mercato, che ha provocato o comunque assecondato una degenerazione
del capitalismo autoregolato di marca anglosassone sfociata nell’anarchia di un sistema
bancocentrico e nella profusione a macchia d’olio di strumenti finanziari per lo più
scarsamente trasparenti agli stessi operatori, quanto della totale inettitudine dei
poteri pubblici nella regolamentazione e nella sorveglianza dell’attività creditizia.
D’altra parte, che il sistema nel suo complesso sia precipitato in una crisi profonda
starebbero a dimostrarlo, a suo avviso, le difficoltà di un regime democratico, ancorché
robusto come quello americano, di venire a capo della recessione attraverso un’efficace
exit strategy e affrontando alla radice il nodo delle diseguaglianze economiche e sociali. Di qui
la sua diagnosi pessimistica sul futuro del binomio fra capitalismo e democrazia,
quale era andato configurandosi in Occidente nel corso degli ultimi sessant’anni.
Ma si può parlare, a proposito del collasso finanziario avvenuto nell’autunno del
2008 e dei suoi effetti ancorché dirompenti, di una crisi tale da rendere improbabile
una ripresa in forze del sistema economico statunitense e da mettere a repentaglio
gli stessi cardini della democrazia americana? E ritenere altresì che i medesimi pericoli
corrano i Paesi occidentali?
A questa tesi ha certamente contribuito il fatto che l’esplosione della crisi, lasciando
un segno profondo nella società e nell’opinione pubblica americana, ha portato molti
osservatori a chiedersi se stiamo assistendo al declino degli Stati Uniti, paese-guida
del capitalismo e archetipo della democrazia liberale. E, quindi, anche all’epilogo
di una potenza che sino a poco tempo fa sembrava dovesse forgiare il Ventunesimo secolo,
sino a farne un «secolo americano» per eccellenza, in virtù tanto della sua egemonia
economica che del suo successo nella sfida storica al totalitarismo comunista.
In realtà, occorre innanzitutto evitare di emettere certe sentenze sommarie sulla
sorte del capitalismo, come se fosse in balìa di una serie di ipoteche altrettanto
deleterie che irreversibili dopo quanto è accaduto. Più che di una crisi di per sé
del capitalismo, è più appropriato e confacente parlare, alla luce di come sono andate
le cose, di un cortocircuito del sistema finanziario provocato dall’ingordigia dei
banchieri ma soprattutto dall’insipienza dei regolatori. Lo si era già constatato
tra il 1999 e il 2000 a proposito dell’«Internet mania», della profusione di titoli
delle società tecnologiche e di telecomunicazioni, sospinti dalle banche a vette inusitate,
che la Fed aveva lasciato correre. E così pure è avvenuto nel caso della bolla immobiliare
e della concomitante leva finanziaria alimentata a dismisura dagli alchimisti e dai
broker di Wall Street. Qualora avesse esercitato in pieno i suoi poteri di controllo,
la Fed avrebbe innanzitutto impedito che i titoli connessi ai mutui immobiliari giungessero
a intossicare il mercato e sbarrato comunque la strada, per tempo, a una diffusione
strabocchevole dei derivati e di altre transazioni. Per di più, il successore di Greenspan,
Ben Bernanke, commise lo stesso errore marchiano del suo predecessore sottovalutando
l’impatto della crisi dei subprime e rassicurando comunque il Congresso e il governo federale che i tardivi e oltretutto
parziali provvedimenti da lui adottati avrebbero potuto stabilizzare la situazione.
Non per questo la classe politica va considerata esente da responsabilità. I democratici
per primi, in quanto avevano escluso, durante le ultime battute della presidenza Clinton,
i prodotti derivati negoziati anche sui mercati esteri dalla regolamentazione in materia
finanziaria. Successivamente, nel luglio 2003, il Congresso – in linea con il programma
di Bush, ma con un ampio consenso da parte dei democratici, che ritenevano di poterne
beneficiare anch’essi – aveva varato una legge che, al fine di agevolare gli acquisti
di abitazioni, consentiva alle banche di accordare i relativi mutui senza doversi
dare la pena di verificare la disponibilità di un qualsiasi reddito da parte di chi
li sottoscriveva. Al contrario di quanto avveniva in passato, quando le banche s’informavano
persino sullo stato di salute e sulla composizione della famiglia di chi intendeva
contrarre un mutuo ai loro sportelli.
D’altra parte, quanto a miopia e imprevidenza gli economisti non sono stati da meno.
Fatta eccezione per Nouriel Roubini e qualche altro, si accorsero della bolla dei
subprime quando ormai era scoppiata. Inoltre, avvezzi a ragionare sulla base di modelli macroeconomici
standard, non avevano valutato adeguatamente il ruolo della finanza; e, quando era
sopraggiunta la tempesta finanziaria, avevano ritenuto che i suoi effetti sarebbero
stati transitori e comunque non tali da provocare un tracollo economico. L’ultimo
guaio, infine, l’aveva combinato la Fed, agendo in modo contraddittorio di fronte
all’emergenza di banche e società finanziarie, salvando così la Bear Stearns e lasciando,
invece, che la Lehman Brothers colasse a picco.
Ma se da più parti era mancata una valida opera di prevenzione e monitoraggio, dal
canto suo la corporate governance, nella quale s’era fatto grande affidamento, aveva mostrato la corda essendosi tradotta
in una gestione come quella dei colossi bancari basata sull’azzardo e sull’irresponsabilità.
Al punto che i loro azionisti, nell’intento di massimizzare i propri dividendi, e
il management, puntando su strategie eccessivamente rischiose per procurarsi elevate
prebende, avevano finito per incrinare la stessa stabilità del sistema economico.
Era così caduto l’assunto secondo cui il mercato autoregolandosi era in grado di produrre
senz’altro una maggior ricchezza, e quindi più benefici ed effetti positivi per l’intera
economia. La «finanza creativa» e autogestita aveva invece distrutto un’enorme quantità
di ricchezza, costituita non solo da denaro capitalizzato ma da una moltitudine di
imprese e posti di lavoro.
Tuttavia, non si può ritenere che il Great Crash abbia annientato i fondamenti dell’economia statunitense, e tantomeno che sia giunto
a incrinare le basi della democrazia americana. Il sistema economico è rimasto in
piedi ancorché fortemente danneggiato da una tempesta finanziaria estremamente violenta
e malgrado l’atteggiamento inizialmente incerto e contraddittorio, tra esitazioni
sul da farsi e decisioni superficiali o incoerenti, dei poteri pubblici. Gli Stati
Uniti contano pur sempre un vasto patrimonio tecnologico e un’alta produttività di
base; e sono tuttora al primo posto per gli investimenti complessivi nella ricerca
e nello sviluppo, tanto da figurare all’avanguardia per le tecnologie del futuro (come
la biotecnologia e la nanotecnologia).
D’altra parte, le iniziative assunte in sede politica per cambiare le regole del gioco
del sistema finanziario dovrebbero imbrigliare in futuro certe spinte esuberanti e
disordinate dei mercati, riconducendole entro ambiti e circuiti normali. Si è provveduto,
infatti, a mettere in riga le banche affinché non si avventurino più, attraverso la
cavalcata delle cartellizzazioni, in una rovinosa leva finanziaria, e svolgano invece
la funzione loro propria: quella di trasferire il denaro dai risparmiatori agli investitori
e viceversa.
Una prima importante decisione a questo riguardo è stata presa da Barack Obama e dal
nuovo responsabile del Tesoro, Tim Geithner, col divieto di negoziazione di titoli
in conto proprio e con la separazione del credito commerciale da quello delle banche
d’affari. Ciò dovrebbe riportare l’attività bancaria verso il business tradizionale
ed evitare che gli istituti preposti alla gestione dei depositi dei risparmiatori
se ne servano per un proprio giro di speculazioni ad alto rischio.
Quanto agli interrogativi che sono venuti ponendosi sulla tenuta della democrazia
americana, il pur considerevole potere dei «grossi gatti grassi», ossia degli esponenti
delle venticinque maggiori banche e società finanziarie di Wall Street, non è mai
arrivato al punto da intaccare i valori e le qualità di fondo del sistema politico
americano.
È vero piuttosto che il governo federale ha dovuto contribuire con ingenti stanziamenti
di denaro pubblico alla ricapitalizzazione di alcune banche, considerate troppo grandi
e interconnesse per lasciarle fallire. E che c’è sempre il rischio che, passata la
bufera, esse tornino ad agire come prima. Ma le disposizioni varate nel frattempo
dovrebbero garantire in futuro una sorveglianza più estesa e penetrante sul loro operato.
Senza contare che adesso l’opinione pubblica è assai più vigile nei confronti dell’alta
finanza.
Un futuro a tinte chiaroscure
Che la democrazia americana non abbia subìto smagliature lo dimostra, se non altro,
il serrato dibattito politico in atto sulla riconversione del sistema economico.
I repubblicani ritengono che lo staff presidenziale della Casa Bianca punti a una
statalizzazione strisciante dell’economia tramite l’istituzione di speciali agenzie
pubbliche e semipubbliche, con il compito non solo di controllare le banche d’affari
affinché non assumano rischi eccessivi o non commettano eventuali abusi, ma di governare
di fatto l’intero sistema finanziario in funzione di determinati obiettivi di carattere
politico. Il successo che essi hanno ottenuto nel novembre 2010, nelle elezioni legislative
di mid-term, li ha indotti a intensificare la loro opposizione a ulteriori misure che rendano
più rigidi i congegni di regolazione del sistema bancario. Lo si può constatare dalla
relazione di Peter Wallison, esponente di spicco del Partito repubblicano e dell’American
Enterprise Institute, la quale diverge totalmente dagli altri due rapporti stilati
dalla Commissione d’inchiesta sulla crisi, nominata dal governo federale: in essa
viene infatti addebitata pressoché interamente alle agenzie parapubbliche Fannie e
Freddie (che, trasformate oggi in enti pubblici, garantivano gran parte dei mutui
casa in America) la responsabilità di aver innescato la miccia che ha provocato il
crollo di Wall Street.
A loro volta, i democratici considerano essenziale riformulare l’architettura finanziaria
anche e soprattutto per rimettere in marcia l’attività produttiva. Del resto, senza
una ripresa in forze della produzione di beni e servizi non sarebbe possibile ridurre
la voragine del disavanzo pubblico e creare adeguate condizioni di sostenibilità del
colossale indebitamento americano.
Fatto sta che, nonostante i prestiti stanziati dal governo per la ricapitalizzazione
di alcune grandi imprese più malconce, l’industria manifatturiera non appare in grado
di riprendersi in tempi brevi. Interi Stati, dall’Ohio al Michigan, hanno visto le
fabbriche ridursi in grumi di ferraglie inutilizzate e rugginose; e quasi sei milioni
di posti di lavoro sono andati perduti. Dai tempi della Grande Depressione degli anni
Trenta non era mai accaduta una cosa del genere.
C’è dunque più di un motivo per chiedersi se non sia impallidita di colpo la stella
dell’America sul proscenio mondiale: in sostanza, cosa possa restare della sua vocazione
imperiale di qualche anno fa, vocazione strettamente legata alla forza d’urto e alle
direttrici di marcia del suo apparato produttivo e tecnologico.
Per quasi un secolo la grande industria è stata infatti uno degli assi portanti e
il principale motore del capitalismo americano che, nelle sue differenti versioni,
ha dominato la scena economica mondiale, influenzando in un modo o nell’altro la fisionomia
e il percorso degli altri Paesi avanzati in Europa e altrove. E ciò in virtù dapprima
del modello taylorista-fordista, poi di quello manageriale affermatosi tra gli anni
Trenta e gli anni Sessanta, infine di quello delle multinazionali, che di volta in
volta hanno segnato altrettanti tornanti cruciali sul terreno delle innovazioni di
processo e di prodotto. Tanto che l’industria, associata ai laboratori e ai centri
di ricerca dove si producevano nuove idee e nuovi progetti, era non solo la leva principale
dell’impetuoso sviluppo dell’economia statuni...