Capitolo primo.
Alle origini di una piccola tipografia
Un apprendistato in orfanotrofio
Dal secondo dopoguerra numerosi sono stati i contadini, gli operai e gli artigiani
trasformatisi nel corso del tempo in imprenditori, a capo di minuscole aziende man
mano ingranditesi e affermatesi in virtù dei risultati acquisiti specializzandosi
in un determinato settore produttivo. Anche alla crescita in forze di questa sorta
di ‘fanteria’ manifatturiera, costituita da tanti piccoli esercizi, nonché alla tenacia
e al singolare talento di quanti ne erano alla guida, si deve la posizione di rilievo
che l’industria italiana ha conquistato e mantenuto a livello europeo, risultando
tuttora, malgrado tante vicissitudini, a ridosso di quella tedesca.
Non sono state soltanto le regioni del Nord e del Centro a dare i natali a questa
costellazione di microimprese distintesi per alacrità e dinamismo. Anche nel Sud è
spuntata e cresciuta una schiera di unità produttive della stessa taglia, fattesi
strada grazie ad analoghe attitudini. E negli ultimi due decenni, in seguito allo
smobilizzo o al ridimensionamento degli stabilimenti sorti un tempo nel Mezzogiorno
sotto l’egida delle Partecipazioni statali, queste imprese, sbocciate per lo più in
vari centri urbani minori e in alcuni capoluoghi di provincia, hanno assunto un ruolo
importante nell’ambito di un’economia, come quella meridionale, dove per tanto tempo
erano rimasti scarsi o privi di forza propulsiva certi potenziali fattori di sviluppo.
Tuttavia, il loro itinerario non è stato agevole, né esente da difficoltà e battute
d’arresto: tanto più che, in parecchi casi, si è trattato di superare anche alcune
persistenti convenzioni sociali.
Quanto sia stato arduo «fare impresa» nel Meridione, a causa non solo di una selva
di pastoie burocratiche ma anche di pregiudizi di parte e vetuste remore culturali,
emerge in modo esemplare dalla vicenda dell’azienda salernitana di cui è stato protagonista
Orazio Boccia.
Dopo aver trasformato nel 1967 una tipografia artigianale, da lui fondata sei anni
prima, in una società a responsabilità limitata, egli dovette infatti misurarsi, per
un lungo arco di tempo, tanto con pesanti preclusioni di carattere politico quanto
con soffocanti vischiosità dell’ambiente locale mai dissoltesi del tutto. E se riuscì
a non capitolare, alle prese con questi e altri ostacoli, continuando ad andare dritto
per la sua strada, fu soprattutto perché era particolarmente temprato ad affrontare
avversità e tribolazioni, avendo vissuto sin dall’infanzia e per tanti anni un’esistenza
densa di stenti e privazioni.
«La mia sfortuna è stata anche la mia fortuna», ama dire, riferendosi non solo al
fatto di essere venuto al mondo in una famiglia povera in canna, ma anche alla grama
sorte cui sembrava destinato perché rimasto orfano del padre quando era poco più che
un fanciullo.
In effetti, sia per le sue umili origini sia a causa di questa grave sciagura che
aveva funestato la sua adolescenza, costringendolo a interrompere i corsi scolastici
dopo la quinta elementare, nulla lasciava intendere che quel ragazzo potesse avere
dinanzi a sé un futuro promettente. Per non parlare della sorte dei suoi famigliari.
Se suo padre, Vincenzo, nullatenente e scaricatore di merci dalle navi che attraccavano
al molo, aveva portato a casa (anche se non tutti i giorni) quanto bastava a malapena
a sfamare i suoi cinque figli, si può ben comprendere come, dopo la sua prematura
scomparsa, l’intera famiglia fosse precipitata nella miseria più nera.
Vincenzo (morto nel febbraio 1944) era stato degente in ospedale per tre mesi a causa
del tetano, un’infezione contratta durante la fuga da un campo di detenzione nei pressi
di Avellino, dove i tedeschi facevano stazionare i prigionieri prima del trasferimento
nei campi di concentramento, e già in quel periodo Orazio s’era dovuto arrabattare
per sostentare la madre e le sorelle. Non aveva allora neppure dodici anni, essendo
nato nel novembre 1932. E per raggranellare qualche soldo era divenuto uno sciuscià,
arrangiandosi, come altri suoi coetanei indigenti, a lucidare le scarpe dei soldati
americani e inglesi che all’indomani dello sbarco a Salerno affollavano le vie della
città, o a pulire le vasche degli alberghi diurni dove essi andavano a lavarsi.
Né questi furono gli unici infimi espedienti a cui era ricorso, da scugnizzo di strada,
anche durante il periodo (tra il febbraio e l’agosto 1944) in cui soggiornò nella
città campana il governo Badoglio, prima di trasferirsi a Roma liberata dagli Alleati.
D’altra parte, una volta che le truppe anglo-americane erano ripartite per riprendere
la loro avanzata nel resto della Penisola, erano svanite le possibilità di qualche
buon guadagno, a portata di mano, per numerose bande di ragazzini dedite in precedenza
ai traffici più minuti, al limite – se non fuori – della legalità. Perciò molte famiglie
che su quei proventi avevano fatto sino ad allora affidamento s’erano trovate sempre
più in difficoltà nel tirare avanti.
A Orazio, rimasto senza più il becco di un quattrino, non piaceva rassegnarsi, bene
che fosse andata, a fare il garzone di bottega. Perciò sua madre, pur di togliere
dalla strada e sottrarre alle cattive compagnie quel suo figliolo che era ancora poco
più che un bambino, aveva pensato di affidarlo all’orfanotrofio cittadino. L’istituto,
intitolato a Umberto I, era stato ribattezzato dai salernitani col nome di «Serraglio»
per la ferrea disciplina a cui erano sottoposti gli adolescenti che ospitava e le
severe punizioni che venivano comminate per qualsiasi genere di trasgressione. Quanto
al trattamento dei ragazzi, era ben più che spartano. «Il pranzo consisteva in un
po’ di brodaglia e cinquanta grammi di pane, a volte anche meno! e alla sera, una
porzione di pane più consistente, circa centocinquanta grammi», ricorderà Orazio.
«Il freddo era la nostra condanna. A letto non avevamo coperte. Un materasso di fieno,
un paio di lenzuola, un cuscino appena appena imbottito». Solamente qualche tempo
dopo, sebbene non vi fosse certo di che scialare, erano stati assicurati almeno dei
pasti regolari a tutti.
Da quell’orfanotrofio, considerato una sorta di reclusorio, in cui era entrato nel
settembre 1945 insieme ad altri cinquecento ragazzi diseredati come lui, Orazio uscì
cinque anni dopo. Durante questa lunga permanenza aveva avuto modo di apprendere un
mestiere, grazie agli insegnamenti che, dopo un anno dal suo ingresso nell’istituto,
aveva cominciato a impartirgli un esperto tipografo, il maestro Ostroman, profugo
da Pola (in seguito al passaggio, avvenuto alla fine della guerra, dell’Istria alla
Jugoslavia), che aveva ottenuto un lavoro presso l’«Umberto I» in qualità di compositore.
«La sua abilità mi affascinava, come quel mestiere che mi sembrava interessante»,
rammenterà Orazio in un suo libretto autobiografico. Inoltre, coloro che maneggiavano
materiali per la stampa avevano diritto a cento grammi di pane e a un quarto di latte
in più, a titolo di risarcimento per il loro lavoro a contatto con il piombo e con
sostanze chimiche dannose per la salute. E anche questo contava per chi non aveva
in tasca che qualche spicciolo.
Una vocazione appesa a un filo
Nel novembre 1950, compiuti diciotto anni, Orazio aveva lasciato infine l’orfanotrofio.
Le macchine per la stampa sulle quali aveva compiuto il suo noviziato erano rudimentali;
ma, applicandosi con diligenza e assiduità, aveva comunque appreso le nozioni tecniche
e acquisito le competenze di un abile compositore a mano.
Tuttavia, ogni volta che s’era presentato in cerca di un impiego presso qualche stabilimento
tipografico della propria città aveva trovato le porte sbarrate. Quello del «Serraglio»
era un marchio che bollava quanti erano finiti tra le sue mura come degli scavezzacollo
o degli attaccabrighe, indipendentemente da qualsiasi valutazione di merito delle
loro attitudini. Di conseguenza, era stato costretto a barcamenarsi passando da un
lavoro di ripiego a un altro: via via come spalatore di catrame per l’asfalto delle
strade, muratore a secco, pulitore di vetrine, cameriere in qualche trattoria, addetto
a una pompa di benzina.
Per giunta, dato che non aveva celato di simpatizzare per il Partito comunista ed
era stato perciò debitamente schedato in questura, nessuna azienda, venendolo a sapere,
aveva voluto assumerlo. Si era allora nel pieno della Guerra fredda, all’indomani
dell’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, e la contrapposizione politico-ideologica
fra la Democrazia cristiana e la sinistra marxista era altrettanto aspra che pervasiva.
E al riguardo Salerno non faceva eccezione. Tutt’altro.
Alla fine, non sapendo più a che santo votarsi, Orazio s’era rivolto all’ex commissario
dell’«Umberto I» Alfonso Menna, rimasto a suo tempo favorevolmente impressionato da
certe capacità non comuni per un ragazzo venuto su dalla strada, da lui riscontrate
in più di un’occasione. Menna aveva intrapreso frattanto la carriera politica e sarebbe
diventato nel luglio 1955 sindaco di Salerno e poi presidente dell’Isveimer. Ma già
prima di questa sua brillante carriera politica, quale esponente di riguardo della
Dc, passava per un personaggio autorevole e con le mani in pasta in varie iniziative,
tra cui quella dei cantieri scuola. E fu appunto a uno di questi centri dove venivano
smistati i disoccupati (perché non bighellonassero per le strade e non continuassero
a inscenare manifestazioni di protesta in piazza) che, su segnalazione di Menna, venne
assegnato anche il giovane Orazio.
Non era certo l’ideale per lui, che aveva seguitato a sognare l’«arte» del tipografo.
Ma intanto occorreva sbarcare il lunario e fu quanto ebbe così modo di fare nel corso
del 1954. In quel periodo strinse anche rapporti amichevoli con un gruppo di altri
cantieristi, fra i quali figuravano pure dei giovani militanti del Pci, come Pietro
Amendola, fratello di Giorgio, e il futuro segretario cittadino della Cgil Feliciano
Granati.
Con i primi ferri del mestiere
A tutto Orazio aveva pensato meno che a rimettere piede un giorno o l’altro nel vecchio
orfanotrofio. Ma nell’ottobre di quell’anno un’alluvione abbattutasi sulla città giunse
a colpire anche l’«Umberto I» e, sebbene i danni non fossero stati rilevanti per l’edificio,
erano tuttavia finiti in un mare di fango diversi carteggi, per cui bisognava recuperarli,
per quanto fosse possibile, e riordinare l’archivio. E questo proprio quando occorreva
attendere a una commessa per il taglio e la stampa di una grossa partita di pacchetti
di sigarette. Poiché non c’erano operai sufficienti per portare a compimento questo
lavoro, uno di loro, che fungeva da caporeparto ed era un ex alunno dell’istituto,
s’era ricordato di Orazio e l’aveva chiamato a dargli una mano come aiutante nel reparto
di legatoria.
Non s’era trattato di una vera e propria occupazione stabile e dai contenuti ben definiti,
ma lo era poi divenuta quando all’«Umberto I» fu affidato un incarico di particolare
rilievo da parte del Poligrafico dello Stato, ossia la stampa dei moduli per vari
brevetti industriali. Cosa che richiedeva l’impiego di un bravo compositore, come
era appunto Orazio, promosso quindi sul campo, ai primi del 1955, a nuove mansioni,
anche se retribuite con qualche manciata di soldi.
A ogni modo, per lui era stato come toccare il cielo con un dito. Anche se poi aveva
corso il rischio di perdere quel modesto lavoro conquistato inaspettatamente. Non
già perché non ce la mettesse tutta nello svolgere le sue mansioni, ma per ben altri
motivi: ossia, per la sua militanza politica.
Da tre anni, infatti, aveva preso la tessera del Pci: più che per una precisa scelta
di campo ideologica, per la sua indole personale, insofferente com’era a ogni genere
di abuso e di ingiustizia. Perciò, mentre s’era limitato per parecchio tempo a esprimere
delle obiezioni di fronte a certe norme e prescrizioni dettate dalla direzione dell’istituto,
che gli sembravano ingiustificate o vessatorie, alla fine, nel 1958, aveva ritenuto
che la misura fosse colma, e occorresse quindi reagire, in quanto non esistevano,
oltretutto, ferie di sorta (solo a metà agosto l’attività s’interrompeva per un giorno
o due) e intanto il lavoro era andato intensificandosi con il passaggio alla composizione
meccanica, mentre le paghe erano rimaste estremamente basse. Per di più, mancava un
montacarichi che servisse a trasferire le pesanti risme di carta dalle cantine, dove
venivano ammassate alla rinfusa, ai locali della tipografia, siti al primo piano.
Fu così che Orazio promosse uno sciopero, cosa che mai era accaduta all’«Umberto I».
La minaccia di procedere a una serie di licenziamenti in tronco non servì a Menna
(che era ancora a capo dell’istituto) per piegare le maestranze; alla fine, dopo un
duro braccio di ferro, la direzione giunse a concedere due settimane di ferie per
tutti e accolse altre richieste all’origine della vertenza.
Dopo di allora Orazio aveva continuato, come sempre, a essere irreprensibile sul posto
di lavoro quanto a impegno e rendimento. Tuttavia Menna voleva ormai levarselo di
torno e, pur di liberarsene, gli aveva fatto capire che lo avrebbe aiutato a mettere
su un’attività in proprio. Orazio accarezzava da sempre l’idea di rendersi indipendente
e adesso, grazie alla padronanza che aveva acquisito anche nell’impiego della linotype,
era convinto di potercela fare. Ma aveva rimandato ogni decisione al riguardo fin
quando non s’era assicurato la collaborazione di un caporeparto della tipografia umbertina,
Mario Esposito (che nel frattempo era stato licenziato), per impiantare in comune
una piccola azienda. A quel punto Menna era stato di parola: insieme alla corresponsione
di una buonuscita, s’era impegnato a garantire, nella sua veste di sindaco, qualche
ordinativo da parte dell’amministrazione civica, con pagamenti in contanti e in parte
anticipati, in modo che la nascente tipografia di Orazio Boccia e del suo socio fosse
in grado di lavorare fin da subito.
Molto impegno ma tante cambiali
Quella che vide la luce nel maggio 1961 era un’impresa per modo di dire, in quanto
consisteva semplicemente in un locale preso in affitto nel sottoscala di un edificio
situato nel cuore della città (così angusto che avrebbe ospitato successivamente soltanto
la cucina di un ristorante) e in un’attrezzatura rudimentale: un banco per il proto,
una pedalina semiautomatica per la stampa, comprata con i soldi della liquidazione,
e un vecchio tagliacarte dei banchi di cassa, munito di caratteri di stampa usati,
donato da Menna al suo ex dipendente al momento del congedo dalla tipografia dell’orfanotrofio.
Insomma, qualcosa fra un laboratorio e una bottega, dove s’era iniziato a lavorare
producendo, insieme a partecipazioni di nozze e ad annunci mortuari, moduli per stati
di famiglia, atti di nascita e altri certificati municipali. Benché esiguo, il ricavato
dalla stampa di questo minuto genere di documentazione costituiva la principale risorsa
finanziaria su cui si poteva contare, in quanto il Comune saldava puntualmente le
fatture (in base alla promessa fatta dal sindaco Menna), al contrario di quanto generalmente
faceva con altri fornitori.
Il guaio era che, con una macchinetta a mano, si stampavano non più di 700 copie l’ora;
e che, anche a lavorare sedici ore al giorno, come avveniva di norma, non si arrivava
a produrre quanto occorreva per coprire tutte le spese. Bisognava insomma servirsi
di una macchina da stampa ben più robusta, come una «Heidelberg» a stella da 3.500
copie all’ora. Costava 700.000 lire e, dato che il suo socio aveva dichiarato forfait
dopo pochi mesi, cedendogli gratuitamente la propria quota (peraltro ipotecata da
vari debiti), Orazio non esitò a firmare una serie di cambiali, da scontare mese per
mese, pur di avvalersi di un impianto che avrebbe consentito alla sua tipografia di
non operare fuori mercato. Che fu quanto poi avvenne, anche perché all’acquisto della
«Heidelberg» si aggiunse qualche tempo dopo, visti i primi promettenti risultati,
quello di una macchina usata per la stampa di grandi formati, rilevata da un’azienda
locale in procinto di chiudere i battenti.
Essendo quindi in grado di stampare anche dei manifesti, la tipografia di Boccia cominciò
a ricevere diverse ordinazioni al riguardo dalla Federazione provinciale del Partito
comunista. Ma, per questo genere di commesse, erano più le volte che lavorava in perdita
o che doveva aspettare un’eternità per riscuotere il pagamento, ancorché parziale,
delle relative forniture: come se fosse scontato che l’adesione di Orazio alla stessa
causa politica comportasse un contributo all’attività del partito, sotto una forma
o l’altra, e comunque l’obbligo di attenersi a questa regola, seppure a denti stretti.
Come fu possibile cavarsela
Oltretutto, per la «tipografia del comunista», come veniva chiamata quella di Orazio
Boccia, non era affatto facile ampliare il proprio giro di attività in una città orientata
politicamente verso il centro-destra. D’altronde, non è che i contrasti fra lo Scudo
crociato e il partito con la falce e il martello restassero confinati nel chiuso delle
aule parlamentari; essi rimbalzavano, in forme sovente più radicali, nelle amministrazioni
e nei circoli locali.
Fortunatamente per Orazio, Menna teneva saldamente in mano il timone del Comune (ciò
che avrebbe continuato a fare sino all’ottobre 1970). E nei riguardi di quell’ex «serragliuolo»
dalla faccia tosta, ma che aveva preso a ben volere, non ammetteva che si commettessero
soprusi.
A ogni modo, una cosa era il comportamento leale quanto corretto dell’ex commissario
dell’orfanotrofio, altra cosa era l’atteggiamento di gran parte del notabilato locale
nei confronti di un’aziendina alle prime armi. Provvidenziale risultò pertanto la
mediazione di un canonico, già assistente spirituale all’orfanotrofio, nell’accreditare
Orazio presso la direzione degli Ospedali Riuniti di Salerno (di cui era uno dei consiglieri
d’amministrazione). Vi si stampavano cartelle cliniche e moduli per la registrazione
sia dei controlli della pressione sia di altri esami di routine dei pazienti. Fu così
che l’istituto affidò man mano alla tipografia di Boccia parte di questo lavoro, che
veniva ordinato con una certa continuità.
Può sembrare paradossale che, proprio da sponde del tutto opposte a quelle in cui
militava, Orazio ricevesse più di un aiuto per la sua attività. Ma se ciò accadde,
fu in virtù della qualità e dei prezzi particolarmente convenienti, nonché della puntualità
con cui venivano eseguite dalla sua azienda le forniture che le erano commissionate;
non già perché si cercasse di attirare Boccia dalla propria parte e tantomeno per
stabilire con lui dei rapporti di natura clientelare.
D’altronde Orazio aveva tentato di creare un consorzio tra diversi tipografi salernitani
per accrescere l’attività e il fatturato. La sua idea era di specializzarsi, ciascuno
in un determinato ramo: montaggio, incisione, allestimento, stampa. Ciò avrebbe consentito
di ripartire le spese e di disporre, tutti insieme, di un macchinario aggiornato.
Ma alcuni suoi colleghi avevano detto che era un «pazzo» e altri avevano sospettato
che in realtà volesse «farli fuori».
Una scelta obbligata
A Orazio, perciò, non era rimasto che far conto unicamente sulle proprie forze. E
quindi investire pressoché tutti i suoi proventi, come stava facendo, per rendere
più consistenti gli impianti di cui si serviva. Per migliorarne il rendimento, aveva
così deciso di acquistare una macchina da stampa «Saturnia», con l’intento di realizzare
prodotti e servizi che potessero assicurare alla sua azienda qualche quotazione in
più sul mercato locale. Aveva infatti messo gli occhi sul quindicinale «Tutti i concorsi»,
il più grosso lavoro a stampa che si faceva a Salerno; e se fosse riuscito ad acquisirlo,
avrebbe cominciato a operare non più alla giornata.
Aveva perciò chiesto all’Isveimer, per poter affrontare una scommessa così impegnativa,
un finanziamento a medio termine per 15 milioni di lire a tasso agevolato.
Questa sua richiesta sarebbe poi andata in porto. Ma intanto aveva visto giusto nel
ritenere che quello della stampa periodica specializzata fosse un potenziale core business su cui occorreva puntare. Si trattava infatti di un settore che andava popolandosi
di nuove testate, in seguito alla crescita sia degli indici di lettura sia dell’interesse
che il pubblico stava manifestando per una gamma più ampia di argomenti.
Frattanto, grazie a un progressivo incremento delle commesse, Orazio aveva constatato
che non sarebbero più bastati a dargli una mano l’ex socio Mario Esposito (tornato
un anno dopo sui suoi passi, ma in veste di semplice operaio) e qualche altro lavorante.
Per il resto, seguitava ad assisterlo, nel disbrigo della corrispondenza e nella tenuta
della contabilità, la sua fidanzata Luisa Pecoraro, che aveva conosciuto nel 1958
fra i banchi della tipografia dell’orfanotrofio e che avrebbe sposato nell’aprile
1963.
Insomma, era giunto il momento di dare un assetto più robusto a quella sua piccola
impresa se si voleva farla crescere davvero e non limitarsi a tenerla in piedi.
Orazio aveva così provveduto ad assumere alcuni operai, anche se per il momento con
contratti a tempo determinato. Prima di tutto, infatti, occorreva ottenere la commessa
per la stampa di un periodico come «Tutti i concorsi» e, una volta accresciuta grazie
ad essa l’attività, procurarsi i mezzi necessari per trasferire altrove la sede della
tipografia, dato che in quella originaria ci si stava ormai sempre più stretti.
Capitolo secondo.
Un difficile ma promettente itinerario
Perizia più alacrità
Orazio Boccia aveva superato da poco la trentina. E per uno come lui che, pur sveglio
e tenace nei suoi propositi, aveva esordito pochi anni prima con le «pezze al sedere»
(come si diceva dalle sue parti), era stato senz’altro un gran passo avanti giungere
a creare un’azienda tutta sua, seppur minuscola. È vero che nel periodo della ricostruzione
post-bellica e in quello successivo, ancora impervio, tanti altri artigiani s’erano
fatti avanti lavorando di gran lena e sospinti da una forte volontà di riscatto e
affermazione. Ma Orazio, trovandosi a operare in una provincia del Sud, non aveva
avuto modo di trarre vantaggio dalle crescenti opportunità generate altrove – come
nel Settentrione – dal trend espansivo di quegli anni, sfociato nel «miracolo economico».
Salerno era rimasta ai margini di quel poderoso processo di sviluppo che aveva avuto
per epicentro il «triangolo industriale» del Nord-Ovest e aveva riguardato varie località,
dal Veneto all’Umbria, e coinvolto in parte anche Napoli, grazie alla notevole attività
del distretto siderurgico-cantieristico di Bagnoli facente capo all’Iri.
Non che il Salernitano fosse del tutto sprovvisto di un tessuto industriale. Accanto
al settore edilizio (in cui spiccava, dai primi anni del Novecento, uno stabilimento
dell’Italcementi) s’era sviluppato quello manifatturiero della ceramica, oltre al
tradizionale comparto alimentare. I traffici del porto e il commercio dei prodotti
agricoli dell’entroterra rappresentavano altri punti di forza dell’economia locale.
A ogni modo, una minuscola azienda artigianale come quella di Orazio Boccia avrebbe
dovuto, per divenire un’impresa a pieno titolo, acquisire più salde fondamenta. E
doveva farlo per tempo, dal momento che il settore tipografico stava conoscendo rapidi
progressi. C’era tuttavia da superare quella sorta di «collo di bottiglia» che era
il vecchio locale in cui si continuava a lavorare, ormai divenuto pressoché inagibile
e che non avrebbe potuto ospitare ulteriori attrezzature.
Per ingrandire l’azienda occorreva trovare un nuovo socio e a tal fine Orazio aveva
sondato un avvocato, Giuseppe Spagnuolo, da lui conosciuto qualche tempo prima, quando
questi s’era recato nella sua tipografia per farsi stampare la tesi di laurea. Di
famiglia benestante, Spagnuolo s’era detto disposto a investire qualche milione di
lire, sicuro che gli avrebbe potuto fruttare un buon gruzzolo di quattrini senza doversi
impegnare più di tanto. Bastava lasciar fare all’artefice di quella piccola impresa,
la cui perizia e dedizione al lavoro erano acclarate.
Nel maggio 1967 «a puteca» (la bottega), come era chiamata la tipografia di Orazio,
venne trasferita in una nuova sede, più spaziosa, di 300 metri quadri, al piano terra
di un edificio prossimo al centro cittadino. E tre mesi dopo, l’8 agosto, l’azienda
fu trasformata in una società a responsabilità limitata, la «Arti Grafiche Boccia»,
con un capitale sociale di sette milioni di lire, detenuto per metà da Orazio Boccia
e per il resto dall’avvocato Spagnuolo.
Il passaggio al sistema litografico
Da quel momento fu possibile, tirate le somme di quanto s’era realizzato sino ad allora,
e con le spalle un po’ più coperte, valutare quale altro investimento fosse possibile
e più opportuno compiere. In pratica, si trattò di una pausa di riflessione, necessaria
per completare la sistemazione degli impianti nella nuova sede ed esaminare come e
in quale direzione stesse evolvendo il mercato.
Negli ultimi tempi s’era cominciato a lavorare per conto di committenti privati e
si puntava ad ampliare l’area della clientela su questo versante. Il principale obiettivo
era pur sempre di acquisire la stampa di un periodico di vasta diffusione come «Tutti
i concorsi» (che aveva una tiratura di circa 60.000 copie). D’altronde, era stato
questo il motivo che aveva portato Orazio a cercare un socio, in modo da poter contare
su qualche risorsa in più per accrescere le chances della sua azienda tramite l’introduzione di nuovi macchinari e procedimenti tecnici.
Tuttavia, per dare nuovo impulso all’attività era necessario compiere un salto di
qualità. Orazio aveva intuito da tempo che il vecchio sistema di stampa tipografico
era in via di superamento, che stava per essere soppiantato dalla stampa litografica.
Si trattava però di affrontare un notevole impegno finanziario, in quanto occorreva
procurarsi una macchina da stampa totalmente automatica. E quella a due colori su
cui Orazio aveva messo gli occhi costava quindici milioni di lire. Aveva deciso comunque
di acquistarla, sebbene comportasse, appunto, una spesa non indifferente, considerando
le scarse risorse a sua disposizione e i debiti già contratti.
Ma in questa come in altre sue risoluzioni egli era portato, una volta convinto della
validità di una certa opzione, a non tergiversare. Dalla fine degli anni Sessanta
la sua tipografia contava una decina di dipendenti (fra i quali anche un contabile,
Aniello Zappullo) e, per mandarla avanti, bisognava adesso disporre di un apparato
tecnico più consistente, al fine di accrescere il lavoro e il fatturato con più continuità.
Nel 1972 fecero così ingresso in azienda una macchina monocolore marca Nebiolo e una
offset bicolore.
Il passaggio al sistema litografico segnò una svolta per la Arti Grafiche Boccia.
In particolare, l’attivazione di una offset bicolore (la prima del genere messa in
funzione a Salerno) consentiva la realizzazione non solo di opuscoli e dépliant ma
pure di giornali e periodici a colori, nonché di poster e manifesti elettorali policromi.
Il progetto di uno stabilimento nuovo di zecca
In previsione di una crescita delle ordinazioni, Orazio pensò che prima o poi si sarebbe
dovuto disporre di uno spazio assai più ampio rispetto a quello in cui ci si era sistemati
da pochi anni. Decise così, tra il 1973 e il 1974, di acquistare due lotti di terreno
nella zona industriale di Fuorni, per complessivi 3.100 metri quadri.
Eppure, intorno alla metà degli anni Settanta non si navigava in buone acque. Si era
infatti nel pieno di una congiuntura economica particolarmente tormentata, a causa
delle pesanti conseguenze provocate in tutt’Europa dal rincaro vertiginoso dei prezzi
petroliferi imposto dai paesi arabi produttori di greggio per ritorsione nei confronti
dei governi occidentali, accusati di aver appoggiato Israele durante la guerra del
Kippur del 1973. Non solo. A un’inflazione che stava crescendo in Italia a vista d’occhio
(tanto che avrebbe superato presto le due cifre) s’era intrecciata una spirale recessiva.
Oltretutto, una forte instabilità politica e l’offensiva dei gruppi terroristici,
che prendevano di mira anche esponenti del mondo imprenditoriale, non lasciavano sperare
in un’inversione di tendenza. Avevano anzi suscitato una vasta ondata di pessimismo
sull’avvenire del paese.
In una situazione così pesante e densa di incognite ci voleva del coraggio a investire
e a caricarsi di ulteriori fardelli. Tanto più che il progetto concepito da Orazio
Boccia, per la costruzione di un grosso stabilimento, era un impegno di notevole portata
e tale da protrarsi per parecchi anni. Ma da quando era stata attivata l’«Invicta
40», la nuova macchina da stampa litografica, in azienda s’era assistito a una crescita
del lavoro nel campo dei giornali e delle riviste. Insomma, Boccia era convinto che
non avrebbe fatto il passo più lungo della gamba.
Come era prassi normale nel caso di nuovi investimenti privati di una certa consistenza
destinati allo sviluppo economico del Sud, la Arti Grafiche Boccia aveva presentato
nel 1978, mentre era in corso di allestimento il primo capannone, una domanda alla
Cassa per il Mezzogiorno (tramite l’Isveimer) per un finanziamento a tasso agevolato
di 600 milioni al fine, appunto, di procedere all’ampliamento dello stabilimento.
Orazio ben sapeva come andavano le cose a questo riguardo. Per legge ci sarebbero
voluti tre mesi per ottenere un parere di conformità per un finanziamento della Casmez;
inoltre, anche in caso di parere favorevole, non era detto che la pratica avrebbe
poi seguito il suo iter in tempi ragionevoli. L’aveva sperimentato già nel 1976, quando
la Arti Grafiche Boccia, avendo ottenuto un giudizio positivo in merito a una sua
richiesta di finanziamento di 20 milioni avanzata nell’aprile 1975 (seppur dopo sedici
mesi da quando l’aveva inoltrata), aveva poi dovuto attendere parecchio altro tempo
prima che venisse firmato un «mandato esecutivo» per l’effettuazione del relativo
finanziamento.
Perciò adesso, in una fase di crescenti tassi d’inflazione, c’era motivi in più per
preoccuparsi della lentezza delle procedure rituali, nonché di ulteriori ritardi.
Una pratica di finanziamento senza più traccia
Questa volta, però, la vicenda avrebbe assunto aspetti assolutamente inimmaginabili.
La documentazione richiesta per legge e destinata a passare al vaglio degli uffici
competenti era ineccepibile, e quindi pareva che la pratica potesse concludersi in
breve tempo. Invece, ancora nell’agosto 1982, a quattro anni di distanza, continuava
a restare in sospeso, nonostante fossero già avvenuti i debiti controlli sul primo
e sul secondo stadio d’avanzamento dei lavori del nuovo stabilimento. Alla fine si
era scoperto che le planimetrie presentate a corredo della domanda erano sparite,
dimenticate in qualche scaffale negli uffici della Cassa per il Mezzogiorno, se non
addirittura trafugate.
Era perciò naturale nutrire il sospetto che le lungaggini nell’evadere la richiesta
potessero essere frutto di intenzionali insabbiature. Ma per «costituzione mentale»
Orazio Boccia era e rimarrà tetragono a percorrere quelle scorciatoie «agevolative»
– dalla raccomandazione politica all’accettazione di opportune consulenze facilitatrici
– o quant’altro un certo «genio italico» possa inventare. Sta di fatto che in precedenza,
fino a quando Menna era rimasto a capo dell’Isveimer, non era mai successo che le
domande per un regolare finanziamento a tasso agevolato avanzate dall’impresa salernitana
subissero un incaglio diverso da quelli correnti di ordine burocratico. L’episodio
a cui si è fatto riferimento è perciò indicativo della sostanziale differenza che
si andava determinando tra la prima governance della Casmez, in cui erano prevalse una visione illuminata e l’etica pubblica, e
la successiva, in cui alcuni pezzi del suo apparato burocratico cominciavano a minarne
seriamente sia i fini e gli obiettivi che i risultati.
Nel frattempo, comunque, la costruzione dei capannoni del nuovo stabilimento era proseguita
speditamente, poiché Orazio, pur di farcela, era ricorso a un mutuo bancario per 700
milioni, garantito in gran parte dai risparmi dei suoi famigliari. Con altrettanti
sforzi s’era provveduto a migliorare le attrezzature tecniche. Nel 1979 venne acquistata
una macchina da stampa a colori in foglio, in modo da produrre in un’unica soluzione
gli stampati a colori e da corrispondere alla crescente domanda che stava affluendo
in azienda a questo riguardo: dagli annunci commerciali a quelli elettorali, dai fogli
politici alle riviste periodiche.
Tra i banconi di lavoro
Al mensile «La voce della Campania», inizialmente stampato su una macchina monocolore,
s’erano così aggiunti altri periodici, sia politici che di categoria, con una diffusione
non più limitata alla città di Salerno e al suo circondario.
È vero che per stampare riviste a quattro colori occorrevano altrettanti passaggi
a stampa, e si facevano talora le nottate per eseguirli e verificare che tutto fosse
proceduto per il meglio. Ma Orazio era abituato a non contare le ore di lavoro ai
banconi della tipografia, tra un’operazione e l’altra; e sovente accanto a lui, per
«chiudere» le pagine di un periodico o di un giornale locale, c’erano i rispettivi
direttori e i loro più stretti collaboratori, con i quali conversare e scambiare opinioni
su fatti politici e di cronaca.
Siccome si trattava per lo più di persone della stessa fede politica di Orazio, la
sua azienda era divenuta anche una sorta di ritrovo e di crocevia, oltre che per dirigenti
e militanti del Partito comunista, per alcuni scrittori e giornalisti dell’«intellighenzia»
di sinistra.
Se in passato Orazio aveva avuto modo di conoscere il poeta Alfonso Gatto, era poi
entrato in rapporti con Vasco Pratolini, che per le edizioni fuori mercato di alcuni
suoi scritti (quelle che Mondadori non pubblicava in esclusiva) s’era rivolto alla
tipografia salernitana, dove erano di casa altri intellettuali, come Pellegrino Sarno,
Michele Prisco, Pietro Laveglia e Gaetano Macchiaroli. Nella tipografia di Boccia
capitavano sovente anche parecchi giovani collaboratori di quotidiani e riviste, poi
affermatisi nel mondo della carta stampata e dei media, come Luigi Vicinanza, Procolo
Mirabella, Giuseppe D’Avanzo, Matteo Cosenza, Michele Santoro, Mariano Ragusa, Beppe
Blasi, Fabrizio Feo, Edoardo Scotti, Antonio Polito. Insomma, una brigata di pubblicisti
di talento.
Così Santoro descriverà poi l’atmosfera in cui si la...