Vittorio Vidotto ha insegnato Storia contemporanea nell'Università di Roma La Sapienza. Per Laterza ha curato Roma Capitale (2002) e Atlante del Ventesimo secolo (4 volumi, 2011) ed è autore, tra l'altro, di Italiani/e (2005), Roma contemporanea (n.e., 2006), 20 settembre 1870 (2020) e Storia moderna (con Renata Ago, n.e., 2021).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
1. Concetti, periodizzazioni, tipologie
1.2. Le periodizzazioni dell’età contemporanea
1.3. La legittimità della storia contemporanea
1.4. L’uso pubblico della storia
1.7. Il linguaggio della storia, gli storici e i libri di storia
1.8. Storia e memoria, verità e ricerca
2.2. Dallo Stato di diritto allo Stato sociale
2.3. Idee politiche, ideologie, fondamentalismi
2.4. Rivoluzione industriale, sviluppo, ambiente
2.5. Ceti, classi e società di massa
2.6. Le vie della comparazione e la contabilità morale del XX secolo
3.2. Fonti primarie, fonti secondarie e altri criteri di classificazione
3.3. Lo storico e le sue fonti
3.4. I luoghi, i vincoli e le alleanze
3.5. Fonti orali e storia orale
4.1. Gioacchino Volpe e Benedetto Croce, storici pubblici
4.3. L’alfiere della nuova storiografia liberale
4.4. Alle origini della coscienza di classe: la storia sociale di un outsider
4.5. Renzo De Felice: il fascismo e gli italiani
4.6. Una politica per la società di massa
4.7. Grande storia e divulgazione
4.8. La dinamica delle ideologie: storia e comparazione
Questa Guida è una introduzione critica allo studio della storia contemporanea, ma è anche un libro per avvicinare il non specialista a un grande tema culturale.
È la terza di una serie destinata a fornire un primo orientamento nei vari settori in cui si divide lo studio della storia: sono già state pubblicate infatti la Guida allo studio della storia moderna di Roberto Bizzocchi e la Guida allo studio della storia medievale di Paolo Cammarosano.
Qui sono presentate le caratteristiche e le peculiarità della storia contemporanea sia come campo di ricerca che come tradizione storiografica. Oltre a esprimere il punto di vista e gli interessi del suo autore, il libro riflette consapevolmente i dibattiti e le discussioni che hanno contrassegnato la sempre più ampia diffusione della storia contemporanea in Italia. Un settore di studi che ha ottenuto un suo statuto disciplinare autonomo soltanto a partire dai primi anni Sessanta, salvo poi espandersi rapidamente nelle università e porsi con sempre maggiore vivacità all’attenzione dell’opinione pubblica.
Il volume è diviso in quattro parti, corrispondenti ad altrettanti capitoli. Nel primo sono individuati i fondamenti concettuali e storiografici e illustrate le diverse forme e pratiche in cui si articola la storia contemporanea, affrontando anche alcuni nodi controversi come quello della legittimità stessa della storia contemporanea e l’uso pubblico della storia. Il secondo capitolo illustra alcune grandi questioni che attraversano l’intero arco dei due secoli dell’età contemporanea. Il terzo capitolo suggerisce le prime modalità di ricerca e ragiona sui caratteri e i limiti della documentazione e delle fonti. Nell’ultima parte, infine, sono presentati dieci libri ritenuti esemplari e insieme largamente esemplificativi del diverso modo di lavorare degli storici, delle particolarità del loro metodo e del rapporto intessuto con il pubblico dei lettori.
La Guida mantiene volutamente molti caratteri di uno strumento di studio e, da questo punto di vista, va usata impiegando alcuni accorgimenti. Non ha note a piè di pagina e neppure in fondo ai capitoli. I rinvii bibliografici e le citazioni seguono il criterio autore-data con l’elenco completo di tutte le opere citate disposte in ordine alfabetico in fondo al volume. Nel sistema autore-data possono apparire come pubblicazioni recenti opere di molti anni fa o perché ristampate o invece tradotte a distanza di anni, anche di molti anni o addirittura di secoli: l’elenco finale, che va quindi attentamente consultato, riporta in questi casi sempre la data dell’edizione originale per i libri stranieri e della prima edizione per quelli italiani. Ad esempio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber viene citata da un’edizione italiana del 2002 mentre l’originale era stato pubblicato in Germania nel 1904-1905.
Nel corso del testo, le citazioni più lunghe e/o più significative sono presentate separatamente con uno stacco sopra e sotto e con un corpo tipografico minore: è un artificio editoriale per accentuarne e non per diminuirne l’importanza. La loro lettura non deve quindi essere omessa, ma anzi meditata con particolare attenzione dal momento che in quelle parti è sviluppato, in genere, il ragionamento centrale degli autori trattati di cui queste citazioni offrono anche un esempio concreto del modo di scrivere e di argomentare.
Dedico questo libro, nato dall’esperienza dell’insegnamento universitario, a tutti gli studenti che in questi anni sono stati i diretti interlocutori e gli inconsapevoli suggeritori del mio lavoro.
Vittorio Vidotto
Quando comincia la storia moderna? Quante volte abbiamo sentito porre questa domanda e sentito ripetere la scontata risposta: dal 1492, dalla scoperta dell’America.
La storia contemporanea suscita sotto questo aspetto minori curiosità. Per il senso comune la contemporaneità è apparentemente intuitiva e non sembra aver bisogno di una definizione temporale. È la storia del presente, del mondo che ci circonda, degli avvenimenti appena conclusi e che producono effetti ancora oggi. È il tratto finale o il provvisorio punto d’arrivo della freccia del tempo.
Nella cultura storica italiana, invece, si è affermata e poi consolidata una diversa convenzione. Per «storia contemporanea» si intende infatti il lungo periodo che prende le mosse dal 1815 o, più indietro, dalla rivoluzione francese, per giungere fino ai nostri giorni. Vi è dunque un palese contrasto tra la percezione del contemporaneo e l’impiego specialistico e disciplinare che ne fanno gli storici. A ciò si aggiunge il mai risolto dilemma sui confini temporali tra moderno e contemporaneo, complicato ulteriormente dal diseguale peso contenutistico e simbolico dei due termini.
Nell’uso corrente, ma anche nella sua accezione colta, il termine «moderno» è in genere connotato da una valenza positiva (Bizzocchi, 2002, p. 9). In quanto contrapposto al passato e all’antico, il moderno fa tutt’uno con il progresso in tutte le sue forme: politiche, sociali, economiche, scientifiche, tecnologiche, dei costumi. Si pensi appena a tutti gli oggetti e strumenti che ci circondano e che definiamo «moderni» o «più moderni», e per i quali, nonostante la loro produzione recente, non usiamo l’aggettivo «contemporaneo». O a espressioni relative al tempo presente come «società moderna», «biologia moderna», «calcio moderno» per le quali apparirebbe riduttivo e insieme più opaco e meno incisivo il termine «contemporaneo». Per il sentire comune non è agevole distinguere tra moderno e contemporaneo, che sono avvertiti spesso come coincidenti e sovrapponibili.
In virtù del più ampio spettro semantico, la nozione comune di moderno tende dunque a inglobare quella di contemporaneo, che a sua volta può presentarsi come sinonimo di moderno o come una sua accentuazione, sezione finale e/o residuale. Questa tendenza è confermata dal linguaggio delle scienze umane. Si pensi a termini derivati come «modernità» e «modernizzazione», concetti che designano alcuni caratteri tipici del moderno – mobilità sociale, libertà politiche e uguaglianza dei diritti, sviluppo economico e tecnologico – e il processo storico della loro affermazione. Tutti elementi databili, nelle loro origini, entro l’arco temporale dell’età moderna, secondo la tradizionale scansione 1492-1815, ma caratterizzanti in modo inequivocabile soprattutto il periodo successivo, quello appunto dell’età contemporanea.
E mentre continuiamo a collocare nell’area della modernità molti aspetti del mondo contemporaneo, non cessiamo di ripetere, semplificandola, la definizione di Benedetto Croce (1866-1952) secondo cui ogni storia è sempre storia contemporanea: «perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni» (Croce, 1943, p. 5). Formula fortunata, ma che contribuisce a restringere appunto il contemporaneo all’esperienza del presente.
Gran parte delle difficoltà concettuali e delle peculiarità lessicali del concetto di contemporaneo e tutti i potenziali conflitti con il senso comune vengono parzialmente superati solo quando cominciamo ad usare espressioni come «storia contemporanea» o «età contemporanea», consapevoli di entrare in un ambito disciplinare dotato di proprie consuetudini e di statuti consolidati.
Una delle prime operazioni dello storico è quella di datare gli avvenimenti, ossia di collocarli nel tempo e di interpretarli in relazione ad altri in una sequenza elementare di prima e dopo. Il passo successivo è quello di attribuire un senso, un significato unitario a serie di avvenimenti altrimenti dispersi nel tempo. A questa esigenza rispondono anche le grandi cornici temporali di cui ci si serve quando si parla di epoca, età, secolo, o categorie come ad esempio quella di ancien régime. Non si tratta di semplici misure del tempo, perché queste denominazioni si caricano, fin dal loro uso sistematico nel corso dell’Ottocento, di contenuti interpretativi e talora di valori alternativi, come nel caso delle contrapposizioni tra medioevo ed età moderna, tra ancien régime ed età delle rivoluzioni.
Dalla fine del Settecento si diffonde l’impiego del concetto di secolo, portatore ed emblema di una connotazione epocale (Socrate, 2003). Avremo così il XVIII secolo, il Settecento della ragione e dei Lumi, e il XIX secolo, l’Ottocento del progresso e della borghesia. Questo strumentario concettuale, contro il quale si schierò vanamente Croce, ostile a ogni catalogazione che attentasse all’individualità assoluta degli eventi storici (Croce, 1943, pp. 296-301), si sarebbe via via ulteriormente arricchito. Intorno al 1960 diviene di uso generale anche in Italia (Fabi, 1962, p. 18; Cortelazzo e Zolli, 1979) la suddivisione del secolo in corso in decenni, già precedentemente diffusa nel mondo anglo-sassone: gradatamente si consolida un automatismo forzato e inarrestabile dettato dall’illusione razionalizzatrice della divisione decimale e imposto dal dettato comunicativo e semplificatore dei mass-media.
Il Novecento risulta così scandito in anni Venti, anni Trenta, anni Quaranta e così via. La fortuna di queste denominazioni deriva anche dal successo di espressioni come «i ruggenti anni Venti», The Roaring Twenties, titolo di un celebre film di gangster, un classico nel suo genere, diretto nel 1939 da Raoul Walsh e interpretato da James Cagney. In questo caso una sola parola, roaring, sembrava in grado di riassumere tutta l’atmosfera di un decennio segnato da un frenetico vitalismo, accompagnato dal diffondersi della musica jazz e dalla prima emancipazione femminile. Questa operazione semplificatrice tende a prolungare gli effetti di singoli fenomeni su un arco temporale più ampio del loro primo manifestarsi, ma paradossalmente costretto a non superare mai l’estensione prefissata di un decennio. Avremo così gli anni Trenta della grande crisi e dei totalitarismi, gli anni Quaranta della guerra mondiale e della ricostruzione, gli anni Cinquanta della guerra fredda e della decolonizzazione, gli anni Sessanta del benessere e delle rivolte studentesche, con il punto focale degli avvenimenti che si sposta di volta in volta dall’Europa all’America, coinvolge l’Italia o si allarga in una dimensione mondiale. E ancora gli anni Settanta della crisi economica e della radicalizzazione ideologica, gli anni Ottanta del crollo delle ideologie e del ritorno al mercato, e infine gli anni Novanta della società postindustriale e della globalizzazione.
Per quanto inserite in un’apparente oggettività aritmetica, le due scansioni temporali finora indicate – secolo e decennio – non riescono a sottrarsi alla possibile imputazione di appartenere all’ambito degli artifici e delle convenzioni. Ma questo repertorio non sarebbe completo senza menzionare anche il concetto di generazione. Un concetto dallo statuto ancora più incerto. «Generazione» può infatti indicare un gruppo umano che ha in comune l’epoca della nascita oppure che – indipendentemente da un riferimento puntuale alla nascita – ha condiviso la partecipazione a una fase storica significativa. Qualche esempio può contribuire a chiarire queste differenze. La generazione del ’99, «i ragazzi del ’99», designa i giovani italiani che furono schierati in prima linea appena diciottenni, nel novembre 1917, dopo la disfatta di Caporetto. In questo caso «generazione» ha anche un significato tecnico in quanto coincide con la classe anagrafica, ossia tutti i nati nel 1899. La «generazione del Sessantotto» individua invece quanti parteciparono alle rivolte studentesche di quell’anno o si identificarono in quel clima: non solo studenti diciottenni, diciannovenni o appena ventenni come erano in grande maggioranza, ma anche numerosi giovani laureati vicini ai trent’anni. Non è quindi l’anno di nascita a definire la generazione, ma la partecipazione a un evento significativo. Analogo è il caso della «generazione del ’98», il gruppo di intellettuali spagnoli impegnati a ridefinire il ruolo politico e culturale del loro paese dopo il declino culminato nella sconfitta contro gli Stati Uniti nella guerra del 1898, con la perdita di Cuba e delle Filippine. «Generazione» ha anche il valore di una scansione temporale: già Erodoto, lo storico greco del V secolo a.C., sosteneva che un secolo era pari a tre generazioni. Ma è pur vero che ogni anno prende avvio una nuova generazione. E tuttavia il bisogno di identità e di appartenenza induce ad usare espressioni come «la mia/nostra generazione» oppure «la generazione dei nostri genitori». E ancora, in un ambito più decisamente storico, vedremo ricorrere definizioni come «la generazione del Risorgimento» oppure «Crispi, uno degli ultimi esponenti della generazione che aveva fatto il Risorgimento».
Secoli, decenni, generazioni sono dunque gli strumenti di cui lo storico si avvale per raggruppare gli eventi e scandire il tempo entro periodi significativi. Questi strumenti consentono di muoversi, secondo criteri codificati e condivisi, all’interno di uno specifico campo di studi, in questo caso la storia contemporanea, adempiendo ad una delle operazioni preliminari del lavoro storiografico, la periodizzazione.
La periodizzazione, termine derivato dalla scienza storica tedesca e importato in Italia da Croce nella sua Teoria e storia della storiografia (1917), non riguarda solo le suddivisioni interne di un lungo arco temporale, ma investe in primo luogo le ragioni che permettono di individuare i caratteri fondamentali e specifici di ogni età, determinando anche un inizio, e quindi un punto di cesura, che renda evidente un passaggio e giustifichi la denominazione di una nuova epoca storica.
Se, come si diceva, una lunga e consolidata tradizione colloca l’inizio dell’età moderna nel 1492, in coincidenza con la scoperta dell’America, non vi è altrettanto consenso sulla data di chiusura del periodo e quindi neppure sulla data iniziale della storia contemporanea. Il 1789, anno cruciale per la caduta dell’ancien régime, la presa della Bastiglia e l’abolizione del feudalesimo, e la rivoluzione francese nel suo insieme fino al 1794 o al 1799, al colpo di Stato di Napoleone, rappresentano infatti il culmine di un’epoca o l’inizio di una nuova età? Si tratta di date di cui non è forse superfluo sottolineare il carattere fortemente simbolico. Non solo per l’ovvia considerazione che il passaggio da un’età a un’altra non è un momento puntiforme collocato alla mezzanotte di un giorno fatale per cui uomini e donne, addormentatisi moderni, si sarebbero svegliati contemporanei. Ma soprattutto per la somma dei significati/effetti/cambiamenti riconosciuti a quelle date e consolidatisi nella storia e nell’immaginario dei popoli. Date universali, si potrebbe anche dire, e si è detto. Salvo ricordare, per prudenza e precisione, che invece sono momenti ed espressioni della cultura, delle tradizioni politiche e delle mentalità dell’Occidente e dell’Europa in particolare. Tant’è vero che sussistono forme di cultura e di organizzazione sociale – come quelle delle comunità tradizionali del nostro tempo nel Borneo o nell’Amazzonia – che pur appartenendo cronologicamente alla contemporaneità rientrano a maggior titolo nella dimensione del «non-contemporaneo» (Koselleck, 1986, p. 112).
Una frattura rivoluzionaria rappresenta la cesura ideale per segnare l’avvio di una nuova periodizzazione e per fissare un termine alla precedente. Se poi la storia politica e le correlate questioni del potere e della sovranità sono, come si vedrà in seguito, il fulcro originario della disciplina storica, la rivoluzione francese apparirà inevitabilmente come l’evento epocale che mutò e accelerò il passo della storia. Se invece ci si colloca sul terreno dei fatti economici e sociali sarà la prima rivoluzione industriale, quella già visibile nei suoi esordi in Inghilterra negli anni Ottanta del Settecento, ad imporre una sua dimensione periodizzante con la meccanizzazione della filatura del cotone, la produzione della ghisa e la nascita della fabbrica meccanizzata. E soprattutto con gli effetti a cascata di queste innovazioni: la graduale formazione della classe operaia, il peso crescente della borghesia imprenditoriale e del capitalismo industriale, la crescita del mercato, l’aumento della popolazione, lo sviluppo dei centri urbani, la riduzione del peso economico dell’agricoltura e la progressiva diffusione del benessere anche nei ceti inferiori. Rispetto alla rivoluzione politica, la cesura indotta dalla rivoluzione economica appare tuttavia meno netta, così come meno significativi risultano i suoi effetti immediati. Del resto il progresso degli studi e le correzioni al ribasso dei valori quantitativi del decollo industriale inglese hanno teso a ridimensionare la portata iniziale di quelle trasformazioni. Ma il fascino periodizzante di una doppia rivoluzione è rimasto a segnare gli esordi dell’età contemporanea.
Queste sono le coordinate temporali generalmente accettate in Italia e nel mondo dei nostri studi. Ma le periodizzazioni sono variamente radicate nelle diverse culture nazionali. La rivoluzione francese viene individuata come l’evento che dà avvio all’età contemporanea non solo, come è naturale, in Francia, ma anche in Germania, dove il dominio francese impose una modernizzazione delle strutture politiche e determinò anche, per reazione, la nascita del movimento nazionale tedesco. Per l’Inghilterra, che aveva conosciuto due rivoluzioni politiche nel corso del Seicento e possedeva già un ordinamento parlamentare, la rivoluzione francese non ha evidentemente la stessa rilevanza. Anzi, la seconda rivoluzione inglese del 1688-1689 con il pacifico cambiamento di regime rappresentava un modello alternativo a quello francese, mentre il periodo rivoluzionario e napoleonico veniva inquadrato nel più antico conflitto tra le due potenze per l’egemonia coloniale e commerciale nel mondo, conflitto che aveva visto prevalere l’Inghilterra nel 1763. Ora si riapriva una sfida politica in grado di mettere in discussione il dominio inglese nel mondo, una sfida che andava combattuta per terra e per mare, ma anche sul piano ideologico e culturale. Per l’insieme dell’Europa continentale, invece, la cesura rivoluzionaria rappresentava un momento epocale tanto per i fautori del cambiamento che per i difensori del passato.
Non sorprende quindi che in un libro fortunato e diffuso anche in Italia, come la Guida alla storia contemporanea, lo storico inglese Geoffrey Barraclough (1908-1984) collochi l’inizio della storia contemporanea intorno al 1890, quando il ruolo delle potenze e i rapporti di forza «che sono attuali nel mondo odierno assumono per la prima volta una chiara fisionomia», quando cioè entrano in scena su scala mondiale Giappone e Stati Uniti (Barraclough, 1971, pp. 18 e 107). Un punto di vista strettamente collegato al dominio mondiale della Gran Bretagna, consolidatosi nel corso dell’Ottocento, e all’emergere di nuovi protagonisti.
Cesure e periodizzazioni appaiono quindi strettamente legate ai tratti caratteristici delle singole storie nazionali anche quando si cerca di conferire alla storia contemporanea una forte connotazione di storia mondiale svincolata da ogni dimensione localistica. La diversità delle tradizioni nazionali e culturali si riflette anche nella terminologia impiegata, nella mancata equivalenza delle parole e dei concetti chiamati ad indicare le stesse cose.
Così la cultura storica inglese e americana non ha difficoltà a estendere la categoria della storia moderna fino alla seconda guerra mondiale o agli inizi della guerra fredda, salvo affiancarle l’espressione late modern per indicare tutto il periodo dal 1789 al 1989, anno della caduta del muro di Berlino. La definizione di contemporary history non indica quindi una scansione riconosciuta e accettata e i suoi termini cronologici sono in genere circoscritti al solo Novecento, ma più ancora agli anni successivi alla Grande guerra.
Anche la tradizione storiografica tedesca preferisce alla nozione di contemporaneo le scansioni del moderno attraverso le gradazioni dell’aggettivo neu (nuovo) in combinazione con Zeit (tempo, età): frühe Neuzeit, prima età moderna, Neuzeit,età moderna (fino al 1918), neueste Zeit, età nuovissima ossia contemporanea. È impiegata anche l’espressione Zeitgeschichte,ossia storia del [nostro] tempo, ma si è consolidata solo in parte e solo in rapporto al recente diffondersi di cattedre universitarie che portano questa intitolazione.
In Italia, infine, il costituirsi della storia contemporanea come settore autonomo di studi e come periodizzazione nasce da un complesso intreccio di tradizioni culturali, storiografiche, accademiche e didattiche.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento si pubblicano nel nostro paese alcune opere di taglio manualistico intitolate alla storia contemporanea (Manfroni, 1890; Lemmi, 1925). Il volume di Michele Rosi, Storia contemporanea d’Italia, pubblicato per la prima volta nel 1914, ne rappresenta uno degli esempi più significativi. Più volte riedito, partecipa di un canone interpretativo incentrato sulla funzione periodizzante del Risorgimento e sulla convinzione che la storia contemporanea italiana coincida per intero con la storia del Risorgimento. Un Risorgimento che «non termina con la proclamazione del Regno, né due lustri circa più tardi con l’acquisto di Roma», ma «continua fino ai nostri giorni e continuerà ancora per un pezzo, finché le forze del paese non abbiano avuto il loro logico sviluppo all’interno ed all’estero» (Rosi, 1917, pp. vii-viii). La centralità del Risorgimento domina del resto i programmi di storia dell’ultimo anno di ogni ordine di scuola dedicati all’età contemporanea, intesa secondo una periodizzazione che parte in genere dal 1748 – quando, con la conclusione della guerra di successione austriaca, si definiscono gli assetti politici nella penisola italiana (Rodolico, 1923) –, oppure individua come inizio la rivoluzione americana e la rivoluzione francese. Solo in seguito, nel secondo dopoguerra, il punto di partenza, il terminus a quo, viene spostato in avanti e fissato al 1815, consolidandosi per oltre un cinquantennio intorno a questa data.
Nelle università, a partire dalla metà degli anni Trenta, la storia del Risorgimento riceve un suo statuto disciplinare autonomo con le prime cattedre di professore ordinario che portano questa intitolazione. Nel 1935 nasce, per iniziativa del ministro fascista dell’Educazione nazionale Cesare Maria De Vecchi, l’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, un organismo nazionale per promuovere gli studi storici in questo settore. Certificando così una divisione di campo e una autonomia, se non una rivalità, con la cultura storica accademica più autorevole rappresentata dal suo esponente di maggiore spicco, Gioacchino Volpe (1876-1971), che governava l’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea costituito nel 1934.
Non solo grazie a queste iniziative istituzionali, ma anche in seguito alla pubblicazione, nel 1931, dell’opera di Adolfo Omodeo (1889-1946), L’età del Risorgimento italiano, la categoria del Risorgimento tende a rafforzarsi e a dilatarsi nel panorama culturale italiano. Per Omodeo l’età del Risorgimento si configura come un momento della storia universale: la formazione morale del popolo d’Italia, la sua affermazione nel mondo, in una parola l’emergere della nazionalità italiana, derivano da «tutto il moto della moderna civiltà europea» e costituiscono «la più elevata e nobile forma dello spirito moderno attuato da italiani in terra d’Italia» (Omodeo, 1955, p. xvii). La fortuna del volume di Omodeo, divenuto libro di formazione per intere generazioni, contribuiva a inserire la storia d’Italia in un più ampio contesto europeo sottolineando il primato delle forze politiche e morali. Tanto il filone nazionalista, con esplicite declinazioni sabaude e fasciste, che quello etico-politico, più o meno esplicitamente antifascista, convergono separatamente a circoscrivere l’età contemporanea all’interno del grande evento risorgimentale. Non c’è spazio e quindi non c’è nome per la storia contemporanea nelle università italiane, dove l’insegnamento comincerà ad entrare alla fine degli anni Cinquanta liberandosi gradatamente dalla sudditanza della storia del Risorgimento e dall’egemonia esercitata dagli storici moderni impegnati in temi contemporaneistici e comunque a coprire la storia generale per tutto l’arco temporale «fino ai nostri giorni». Fino ad allora, e in molte università anche oltre, opera la tacita intesa di una separazione tra storia europea e storia italiana dell’Ottocento (almeno fino al 1870), l’una affidata ai modernisti, l’altra tutelata dai risorgimentisti. Bisogna attendere il 1961 per vedere introdotta nell’università di Firenze la prima cattedra di ruolo in Storia contemporanea, attribuita a Giovanni Spadolini, mentre il secondo concorso a cattedre si tiene solo nel 1968. Ormai si guarda con occhi diversi alla storia dell’Italia postunitaria: cominciano ad affermarsi gli studi sull’età giolittiana e sul regime fascista mentre ha perduto ogni giustificazione e legittimità una visione continuista della storia del Risorgimento che avrebbe trovato il suo compimento nella vittoria della Grande guerra e un nuovo slancio nell’affermazione del fascismo.
Con un lieve ma significativo ritardo, anche i testi per le scuole superiori, che dedicano l’intero volume finale alla storia dal 1815, cominciano ad adottare il titolo «Storia contemporanea». È il fortunato manuale di Rosario Villari del 1970 a fare da battistrada, presto seguito da altri autori (come De Rosa nel 1971) e anche da quelli già presenti sul mercato editoriale.
Questo percorso culturale e disciplinare, didattico e accademico – qui brevemente accennato – spiega coincidenze e sovrapposizioni tra storia del Risorgimento e storia contemporanea ora sentite come equivalenti in virtù di un punto di vista prevalentamente italocentrico, ora disposte invece cronologicamente in sequenza all’interno di una lunga periodizzazione.
Pur consolidata nei programmi scolastici, dalla manualistica e da una larga diffusione universitaria, la periodizzazione dal 1815 continua a suscitare riserve tra gli studiosi. Non basta sottolinearne la dimensione pratica e convenzionale. Per molti appare troppo legata alle origini remote del contemporaneo e troppo lontana dalle accelerazioni sociali e politiche del Novecento. Da qui il suggerimento di partire dal 1870, l’anno che segna il termine dei processi di unificazione di Italia e Germania e la nascita di nuovi equilibri di potenza in Europa mentre si scorgono in prospettiva la politica dell’imperialismo, la seconda rivoluzione industriale e gli esordi della società di massa. Di qui anche il ricorso ad altri strumenti periodizzanti meno estesi e più tematizzati, come l’età delle rivoluzioni (1776/ 1789-1848) e l’età dell’imperialismo (1870/1875-1914/1918). Di qui, infine, la manipolazione della categoria di secolo piegata a una dimensione più elastica.
Già lo storico francese Fernand Braudel (1902-1985), il teorico della distinzione tra una lunga durata delle trasformazioni strutturali economiche e sociali e il tempo breve degli avvenimenti politici, aveva suggerito l’insolita periodizzazione di un «lungo secolo XVI» – dal 1450 al 1640 – corrispondente ad una fase di sviluppo dell’economia e della società. In analogia con questa definizione, lo storico inglese Eric J. Hobsbawm (n. 1917), autore di una trilogia (The Age of Revolutions. Europe 1789-1848, 1962; The Age of Capital 1848-1875, 1975; The Age of Empire 1875-1914, 1987, tradotta in italiano, tra il 1963 e il 1987, con i titoli Le rivoluzioni borghesi, Il trionfo della borghesia, L’età degli imperi), ha introdotto la nozione di «lungo Ottocento» per il periodo posto tra il 1789 e il 1914, tra la rivoluzione francese e la prima guerra mondiale. Non conta, in questo caso, il tempo cronologico, ma un tempo metaforico posto tra due elementi di forte discontinuità.
Proseguendo nella sua ricostruzione storica, Hobsbawm ha pubblicato, nel 1994, un volume sul Novecento, The Age of Extremes. The Short Twentieth Century, il cui fortunato titolo italiano, Il secolo breve (1995), che si differenzia da quelli utilizzati nelle traduzioni tedesca, francese e spagnola, insiste sulla singolarità della periodizzazione. Così, tanto l’Ottocento che il Novecento vengono svincolati dalla loro naturale cronologia in nome di cesure più forti: per il secolo breve, la caduta del comunismo e dell’impero sovietico tra 1989 e 1991, un evento decisivo per un marxista di formazione e un comunista per militanza come Hobsbawm.
Non tutti hanno condiviso l’idea del Novecento come secolo breve, una definizione proposta nel 1993, un anno prima di Hobsbawm, anche dallo storico americano Jack Hexter (1997, p. 728). Alcuni ne hanno rovesciato l’assunto proponendo un arco temporale più esteso, anche oltre i cento anni (Arrighi, 1996), o parlando di un «secolo lungo, anzi il più lungo della storia» (Salvadori, 2002, p. v), per la somma di drammatici accadimenti, violenze e tragedie che ne hanno segnato il percorso. Altri, come Charles Maier, hanno rifiutato l’idea di secolo preferendo individuare l’unità di un’epoca, quella dal 1850 (o 1860) agli anni Settanta o Ottanta del Novecento, in cui i destini dei popoli erano legati ai loro Stati nazionali, la scienza e la tecnologia «erano concentrate sulla produzione in serie di macchine standardizzate e sulla conquista del movimento [e] il controllo del proprio territorio era il valore superiore a tutti gli altri» (Maier, 1997, p. 56). Tutto questo era finito negli ultimi venti/venticinque anni del XX secolo quando erano radicalmente cambiati i sistemi produttivi e si era imposta la globalizzazione (vedi 2.4).
Il successo internazionale del volume di Hobsbawm, i dibattiti che lo hanno accompagnato e il chiudersi del secolo hanno fatto molto ragionare sulle caratteristiche dominanti del Novecento. Quasi che, in forza di categorie mentali e temporali profondamente radicate e largamente inflazionate dai mass-media, fosse impossibile alla maggioranza degli storici sottrarsi all’«ossessione del secolo», cioè alla necessità di fornire un’interpretazione complessiva e onnicomprensiva dell’intero Novecento. Quasi che questa prima, elementare forma di periodizzazione, il secolo appunto, rimanesse la più importante e cogente, insieme a un debito da pagare alla tradizione delle filosofie della storia (storicismo, marxismo), sotterraneo retaggio di molta storiografia. E questo al di là di ogni ragionevole prudenza, accettando talora il rischio della profezia, di fronte a un secolo ancora in conclusione o appena concluso.
Il ragionevole relativismo a cui può portare la riflessione sulle definizioni, denominazioni e periodizzazioni, soprattutto se misurate in un quadro culturale comparativo, non deve tuttavia spingersi fino ad accettare le obiezioni che da molte parti si sentono pronunciare sulla legittimità della storia contemporanea come storia degli avvenimenti più recenti. La locuzione stessa di storia contemporanea si presenterebbe come un ossimoro, per il contrasto tra «storia», che suggerisce una distanza temporale, e «contemporanea» che sottolinea invece la simultaneità.
L’argomento rientra a pieno titolo tra i pregiudizi più diffusi nei confronti della storia e degli storici. Secondo un’opinione corrente si può fare legittimamente storia solo se tra lo storico e gli argomenti trattati sia interposto un adeguato lasso di tempo, tale in ogni caso da garantire che siano spenti i contrasti e le passioni legati a una determinata vicenda, e quando si siano rese interamente disponibili le principali fonti archivistiche e documentarie: si sia creata cioè quella che potremmo chiamare una «distanza legittimante».
È superfluo sottolineare che un lavoro di ricostruzione storica ha fondamenti tanto più solidi quanto più ampia è la documentazione esaminata. Ma è anche vero che non è possibile, in nome di un’auspicata distanza, censurare gli storici per non aver atteso i quaranta o i settant’anni previsti dalla normativa sugli archivi o sulla privacy, per affrontare temi come la persecuzione ebraica in Italia sotto il fascismo o la politica del primo centrosinistra.
In realtà la storia nasce a ridosso degli avvenimenti. Non solo nella forma preliminare della cronaca come resoconto tendenzialmente acritico. Ma anche in tutte le tappe immediatamente successive, dettate dalla necessità di fornire una prima ricostruzione ordinata e una cronologia, di analizzare le cause e individuare gli attori principali, di stabilire una gerarchia di rilevanze. Del resto, senza questo continuo farsi e accumularsi a caldo di ricordi, resoconti e analisi non sarebbe possibile raggiungere l’invocata legittima distanza, in realtà risultato finale di una serie concatenata di operazioni critiche.
Ma la distanza temporale non è affatto garanzia di un «raffreddamento delle passioni». Si pensi appena alle controversie tra storiografia marxista e storiografia liberal-democratica, impersonate rispettivamente da Albert Soboul e François Furet, sull’interpretazione della rivoluzione francese negli anni Settanta del secolo scorso, a quasi duecento anni dalla presa della Bastiglia; o alle violentissime polemiche contro Renzo De Felice (1929-1996) seguite alla sua Intervista sul fascismo, pubblicata nel 1975, a oltre trent’anni dalla caduta del regime.
Va anche ricordato che alcuni grandi libri di storia, emblemi e vanto della disciplina, sono stati scritti sotto l’urgenza di fatti appena compiuti e avevano visto gli autori partecipi di quelle vicende. Pensiamo alla Guerra del Peloponneso di Tucidide, alla Storia d’Italia di Guicciardini, all’Italia in cammino di Volpe e alla Storia d’Italia di Croce, a Nascita e avvento del fascismo di Tasca, alla Strana disfatta di Bloch, all’Italia contemporanea di Chabod. Tutti storici contemporanei se commisurati al loro tempo e tutti portatori di un’interpretazione forte. Qui sta infatti la questione dirimente: se un’interpretazione forte, dettata da un diretto coinvolgimento personale e politico, abbia la capacità di durare e di continuare a proporsi come chiave di lettura e fornire suggerimenti e stimoli a ulteriori riflessioni.
Una distanza temporale è auspicabile, ma spesso non è sufficiente. Un esempio al riguardo può essere illuminante. Fino a tempi recentissimi si è sostenuto che all’indomani dell’attentato di via Rasella a Roma del 23 marzo 1944, dove rimasero uccisi 33 soldati germanici, le autorità tedesche avrebbero affisso manifesti chiedendo ai responsabili di consegnarsi evitando così la rappresaglia contro ostaggi innocenti. Nonostante la documentata falsità della notizia, una parte consistente dell’opinione pubblica ha continuato a credere che le 335 vittime delle Fosse Ardeatine, il massacro eseguito il giorno successivo, avrebbero potuto aver salva la vita se i partigiani comunisti, autori dell’attentato, si fossero lasciati arrestare (Portelli, 1999a, pp. 5-8). La disputa sull’opportunità politica dell’azione di via Rasella, discussione legittima e ancora aperta, si alimentava così, nonostante gli oltre cinquant’anni trascorsi, di un vero e proprio falso storico. Dimostrando che l’opera razionalizzatrice della storia e delle sue procedure di verifica può essere efficacemente ostacolata e vanificata dalla forza vincente delle false notizie sostenute dai mass-media.
Il problema non si risolve con la distanza temporale dagli avvenimenti, ma con il rispetto delle regole di valutazione critica dei fatti, con il confronto tra le informazioni e l’accertamento della loro provenienza, utilizzando tutte le fonti che si rendono via via disponibili senza affidarsi mai, dove possibile, ad una sola: consapevoli che il tempo potrà – ma non sempre – arricchire la documentazione, e che sempre diversi saranno gli interrogativi posti al passato. Consapevoli, infine, che tutte le ricostruzioni, anche le più elementari, entrano comunque nel bagaglio dello storico per essere sottoposte a continue e reiterate verifiche.
Tutte le questioni relative alla legittimità della storia contemporanea derivano dai rapporti strettissimi che intercorrono con il suo campo prevalente di ricostruzione e di analisi: la politica. Del resto la storia come disciplina moderna nasce anche dall’esigenza di dare fondamento all’emergere e al consolidarsi degli Stati nazionali, di tutelare l’affermarsi di regimi e partiti politici, di giustificare le politiche espansive dei nazionalismi, di celebrare l’orgoglio e l’identità nazionale. Se si guarda al passato della nostra disciplina è impossibile dimenticare o sottostimare la funzione politica e pedagogica che sta alle sue origini.
A questa componente originaria si affianca, a partire dall’Illuminismo, la graduale messa a punto della storiografia come disciplina scientifica, armata della critica laica delle fonti, insofferente di ogni autorità rivelata, politica o religiosa. Queste due anime procedono affiancate intrecciandosi e contraddicendosi secondo un andamento fatto di aggiustamenti, messe a punto, revisioni e nuove visioni di insieme.
Con l’allargarsi della storia contemporanea alle tematiche economiche e sociali, delle mentalità e della cultura, con l’aprirsi alle concettualizzazioni della politologia e dell’antropologia, ma soprattutto con il declino delle grandi contrapposizioni ideologiche – tra marxismo e liberal-democrazia –, a partire dagli anni Ottanta le suggestioni esplicitamente politiche sono arrivate sempre più attutite e più mediate. Anche se è difficile sostenere che il modello ideale dello storico, come intellettuale tendenzialmente laico e super partes, non rimanga tuttora insidiato dalle sollecitazioni della politica.
Lo studioso e lo studente di storia contemporanea devono essere consapevoli in partenza di queste origini e, se si vuole, di queste insidie, e attrezzarsi comunque a individuare e comprendere le peculiarità, il fascino, i potenziali coinvolgimenti e anche i limiti della storia contemporanea. Accettandone i caratteri originari e la specifica legittimità.
La storia, intesa come flusso ininterrotto di accadimenti nel tempo, non può fermarsi. Ma anche la storia come ricostruzione e come racconto continua incessantemente a svilupparsi, perché nella cultura del mondo occidentale, che ha dato vita alla ricerca storica, seguitiamo a interrogarci sul passato, a cercarne un senso e a indagare sulle origini del presente, convinti di rispondere a un bisogno fondamentale e a una fondamentale funzione civile.
Nel dibattito culturale e politico, quello che si svolge in particolare sulla stampa quotidiana e periodica, ricorre con grande frequenza la locuzione «uso pubblico della storia». Con essa si intende, a un primo livello, l’estensione del discorso storico fuori dall’originario ambito scientifico e disciplinare destinato prevalentemente agli specialisti e ai cultori della materia (Gallerano, 1995, p. 17). Il secondo, successivo livello identifica l’uso improprio della storia quando viene manipolata a fini propagandistici e trasformata in strumento esplicito di lotta politica.
Se guardiamo al primo aspetto è agevole constatare come, al di là della novità della definizione, coniata dal filosofo tedesco Jürgen Habermas (öffentliches Gebrauch der Historie) in occasione della grande disputa sulla memoria del nazismo in Germania (lo Historikerstreit del 1986-1987, vedi 2.6), l’uso pubblico sia parte ineliminabile della storia politica. La storia politica vive infatti anche dello scambio tra mondo degli studi e scena pubblica, suscitando echi non controllabili nei mass-media. Il secondo aspetto, poi, non è che una estremizzazione del primo, e insieme uno dei rischi più scontati cui va incontro il discorso storico.
Introdurre una disciplina o una moratoria dell’uso pubblico della storia, che non siano quelle indotte dal confronto delle idee e delle interpretazioni, non appare né possibile né utile. Tanto più che quanti deprecano l’uso improprio della storia a fini politici sono quasi sempre essi stessi largamente partecipi del gioco. Compito degli storici dovrebbe essere semmai quello di intervenire a correggere o a svelare le forzature e le falsificazioni insite nelle intenzioni politiche e pedagogiche, soprattutto quando scendono in campo le autorità pubbliche in occasioni celebrative altamente simboliche.
Da questo punto di vista una nuova stagione si è aperta in Italia da quando il presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi si è assunto come compito istituzionale non solo quello di difendere i valori della Resistenza ma anche quello di contestare agli storici l’idea di una morte della patria (Galli della Loggia, 1996) legata all’8 settembre 1943, alla sconfitta militare, alla resa incondizionata, al dissolversi dell’esercito e delle istituzioni del paese. Con la massima autorità pubblica impegnata a fornire il maggior contributo all’uso pubblico della storia, gli storici sono inevitabilmente costretti a calcare la scena dei mass-media e a prendere posizione (Romanelli, 2003). È una vicenda molto caratteristica dell’Italia e della difficile riconciliazione con il passato di un paese oggi democratico, ma segnato nella sua storia dalla stagione dittatoriale del fascismo. Sì che appare davvero arduo, al fine di rafforzare l’identità nazionale, ritrovare una continuità positiva in una storia d’Italia connotata invece da fratture profonde e da drammatiche discontinuità.
Così resta aperto in Italia un discorso storico pubblico caratterizzato dall’obiettivo di individuare responsabilità e colpe non solo dei protagonisti di un tempo, ma anche dei loro eredi o supposti tali di oggi. Un discorso che tende a fornire spiegazioni monocausali degli avvenimenti, privo dell’articolazione e complessità di una vera analisi storica, sottoposto com’è alle sollecitazioni e soprattutto alle rudimentali semplificazioni dei mass-media. Rimane quindi difficile distinguere un uso pubblico buono da uno cattivo quando è in atto un’esplicita contrapposizione politica e storiografica.
Problemi analoghi si sono presentati e si presentano non solo in Germania con le controversie sul nazismo (vedi 2.6), ma anche in Francia nei confronti della memoria rimossa sul regime collaborazionista di Vichy e, più recentemente, nelle riconsiderazioni sulla guerra di Algeria a quarant’anni di distanza dalla sua conclusione nel 1962.
Una distinzione è tuttavia d’obbligo: tra l’uso pubblico della storia in un sistema politico liberale e democratico, dove possono essere azionate le procedure di verifica critica ed ascoltate una pluralità di voci, e quanto avviene invece nei regimi autoritari e totalitari dove verifiche e critiche non sono ammesse.
Per concludere bisognerà anche ricordare che alcune grandi opere di storia contemporanea, tra cui le già citate Storia d’Italia di Croce e L’Italia in cammino di Volpe di cui si parlerà più avanti, sono forse da annoverare tra i maggiori esempi di un uso pubblico della storia e del pieno dispiegarsi della funzione pubblica dello storico.
Da quanto detto finora emerge con tutta evidenza come la storia politica rappresenti l’elemento originario e istitutivo della storia contemporanea. E fino a tempi relativamente recenti anche uno dei suoi caratteri dominanti.
La storia contemporanea nasce infatti come storia politica non solo in Italia, ma anche in ogni altro paese che possa vantare una tradizione storiografica. Anzi, ogni storia è nata anche nel passato più antico all’interno della dimensione politica e in virtù di una sollecitazione politica.
Questo primato della storia politica deriva dall’importanza cruciale che per ogni collettività rivestono i temi oggetto della sua attenzione. In primo luogo e in generale tutte le questioni relative alla conquista e al mantenimento del potere; le rivoluzioni e i colpi di Stato; le guerre e le battaglie; e ancora la formazione e il consolidamento degli Stati nazionali; i trattati e le alleanze; infine le forze politiche e i leader protagonisti di tutti questi processi.
Di questi processi la storia politica ha fornito per lungo tempo una sorta di discorso legittimante. Ad assolvere a questa funzione hanno provveduto, in Italia, gran parte della storiografia risorgimentale e di quella nazionalista e fascista, ma anche autorevoli esponenti della storiografia liberale. Nel secondo dopoguerra la rinascita dei partiti e del libero confronto politico hanno favorito l’esplosione di una forma particolare di ricerca storica, quella che potremmo chiamare la storiografia delle appartenenze. Storici militanti (spesso prima militanti e poi storici) si sono dedicati a ricostruire le origini e le vicende dei partiti di appartenenza rispondendo alla necessità di radicare nella storia i fondamenti della propria più forte identità politica. I cattolici e i democristiani ebbero con Gabriele De Rosa (Storia del movimento cattolico in Italia, 1966) la loro storia, e così i comunisti con Paolo Spriano (Storia del Partito comunista italiano, 1967-1975) e i socialisti con Gaetano Arfé (Storia del socialismo italiano, 1965), per non dire che dei maggiori e delle loro pionieristiche opere di sintesi. Salvo rare eccezioni, fino a tutti gli anni Sessanta e anche oltre, la coincidenza tra l’oggetto di studio e il partito o anche la particolare ideologia di appartenenza individuava un percorso obbligato di militanza storiografica. In virtù di questa esplicita scelta di campo la storiografia di partito conserva inevitabilmente qualche aspetto assolutorio e giustificazionista, nonostante il rispetto delle regole della metodologia scientifica fondata sull’esame della documentazione ufficiale e l’utilizzazione degli archivi delle singole organizzazioni. Questi studi si legano al protagonismo dei partiti, al ruolo centrale da essi svolto nel sistema politico italiano e al contributo positivo fornito alle trasformazioni del paese.
La cornice di riferimenti ideologici e culturali entro cui opera questo tipo di storia politica, al di là della ricostruzione minuta e puntuale degli avvenimenti, è caratterizzata, pur con diverse declinazioni, dall’adesione di principio al modello democratico e antifascista, impiegato come criterio per valutare aspetti positivi o negativi, legittimità ed esclusioni. Una storia segnata da una fortissima componente valutativa spesso inconsapevolmente amministrata al di fuori di ogni riflessione metodologica quanto alle conseguenze teoriche e pratiche di tale approccio: l’impossibilità di sottrarsi dall’obbligo di misurare sistemi e regimi politici, uomini e partiti in rapporto alla maggiore o minore rispondenza a un modello politico ideale.
Un sistema di valori cui rimangono sottesi da un lato l’idea e l’auspicio di uno sviluppo progressivo delle forze politiche e dall’altro, per gli storici, l’impegno ad operare per la realizzazione di questo obiettivo. Di questo ruolo della storia e degli storici non è difficile trovare alcune esplicite enunciazioni. Nella presentazione della Storia d’Italia della casa editrice Einaudi (1972), la maggiore impresa collettiva degli anni Settanta, l’editore, dopo aver affermato che «la ricerca storica è uno dei modi più efficaci di partecipazione alla realtà presente», si proponeva di «trovare nella meditazione del passato un termine di confronto capace di dare forza e chiarezza alla lotta politica rinnovatrice» (Storia d’Italia, 1972, p. xxxvi). Ad oltre vent’anni di distanza, nel 1994, i due curatori di un’altra Storia d’Italia, tra cui si annovera l’autore di queste pagine, partendo dalla constatazione che «la lunga crisi attraversata dal paese, e in primo luogo dal suo sistema politico, sollecita nuove riflessioni sull’intera vicenda nazionale e nuovi interrogativi sulla solidità dello stesso edificio unitario», sostenevano che ricostruire le vicende degli ultimi due secoli risponde «anche a un’esigenza di impegno civile e politico in senso lato» (Sabbatucci e Vidotto, 1994, pp. viii-ix). Pur nella diversa formulazione, sono visibili in queste affermazioni i segni, più o meno mediati, di un’originaria intenzione politica, o se si preferisce etico-politica, dello statuto originario della storia contemporanea come storia politica.
Anche se questa ispirazione non è necessariamente manifesta o dichiarata nelle ricerche particolari, essa individua tuttavia il quadro mentale originario in cui si iscrive il lavoro dello storico politico. Il sentirsi investiti di un mandato ideologico e culturale in funzione di un progetto politico ideale da realizzare ha comportato in Italia l’affiorare – soprattutto nella storiografia di sinistra, la più coinvolta in questa dinamica – delle tematiche legate alle occasioni mancate e alle realizzazioni incompiute. Di converso, riconoscersi in una fase politica positiva, ma tutta consegnata al passato, come è il caso del giudizio sull’Italia liberale e sulla costruzione del nuovo Stato da parte della storiografia liberale, ha implicato invece una riflessione dettata, in ultima analisi, dai temi della perdita dei valori nazionali e di un potenziale regresso. Come se l’Italia fosse sempre e inevitabilmente sotto processo. E gli storici giudici e profeti. Nessuno, credo, degli studiosi formatisi nel dopoguerra ha saputo, potuto o voluto sottrarsi interamente a questo clima culturale e ai suoi automatismi.
L’impossibilità di disgiungere il lavoro di ricostruzione storica specialistica dalla divulgazione delle sue linee interpretative generali entro un più vasto mondo intellettuale e culturale ha portato alla costruzione di una «vulgata», ossia di una versione popolarizzata, semplificata e cristallizzata dei grandi temi della storia italiana, gestita direttamente dai diversi schieramenti politici, secondo un modo di procedere non lontano da quello poi ribattezzato «uso pubblico della storia».
Anche se nel linguaggio corrente è invalsa l’abitudine di definire «vulgata» solo quella prodotta dallo schieramento politico culturale di sinistra, in realtà un analogo sistema di discorso è presente in tutti gli orientamenti. Se a sinistra si privilegeranno le tesi di Antonio Gramsci (1891-1937), tratte dai suoi Quaderni del carcere, sul Risorgimento come rivoluzione mancata o si insisterà sul ruolo delle opposizioni al fascismo e sul peso decisivo della componente popolare della Resistenza, gli eredi del moderatismo liberale punteranno sul contributo positivo della Destra storica o sul successo nella Grande guerra, la prova più alta superata dalla giovane nazione italiana, mentre rimarrà aperto il giudizio sull’esperimento giolittiano. Né per l’uno né per l’altro campo (le cui posizioni, peraltro, sono qui per forza di cose semplificate), bisogna tuttavia immaginare un corpus unitario privo di alternative o di sfumature. Proprio per questo anche il senso comune storico appare così inevitabilmente frammentato tra le diverse appartenenze politiche e ideologiche.
A queste peculiarità del clima culturale italiano ne va aggiunta un’altra: la diffusa sistematica intolleranza nei confronti di ogni revisione interpretativa, trattata come un attacco politico, deprecabile come un tradimento. Così la propensione revisionistica, invece di essere una delle qualità più alte del lavoro dello storico, votato a ricostruire e a reinterpretare il passato secondo nuovi schemi e nuovi documenti, è stata e in parte continua ad essere trasformata in una imputazione da portare in giudizio di fronte ai custodi delle vulgate storiografiche. Del resto i termini «revisionismo» e «revisionista», impiegati anche per definire le richieste di modifica degli aspetti più punitivi del trattato di Versailles, richiamano invece, nell’accezione più diffusa in Italia, i contrasti e i dibattiti interni al marxismo e ai partiti socialisti e comunisti, dove queste locuzioni erano impiegate a designare l’opportunismo politico delle tendenze di destra accusate di abbandono del rigore rivoluzionario, e mantengono quindi un’esplicita connotazione negativa (Bongiovanni, 2003, pp. 18-20).
La vittima più illustre di questo atteggiamento, che ha visto affiancati mass-media e storici di professione, è stato Renzo De Felice, il maggiore studioso del fascismo italiano e il primo a fornire nuovi strumenti concettuali per l’analisi e la comprensione del ventennio fascista. Già il primo volume della sua grande biografia di Mussolini, Il rivoluzionario (1965), sollevò aspre polemiche perché ricostruiva la matrice rivoluzionaria e di sinistra del fascismo. I contrasti si ripeterono con l’uscita dei successivi volumi, in particolare di quello intitolato Il duce. Gli anni del consenso (1974), che affrontava appunto il tema del consenso degli italiani al regime negli anni Trenta. Ma a scatenare le reazioni più accese, soprattutto a sinistra, fu la pubblicazione nel 1975 dell’Intervista sul fascismo in cui De Felice esponeva le sue tesi in forma sintetica e a tratti fortemente polemica (vedi 4.5).
Negli anni Sessanta e Settanta era davvero inconsueto che gli storici italiani dell’età contemporanea potessero liberarsi dalle scelte originarie di schieramento e di militanza, elementi fondanti del loro bagaglio genetico e identitario. Si era storici comunisti, socialisti, cattolici, liberali o moderati: l’identità e l’appartenenza politica equivalevano a precise connotazioni culturali. Una tradizione che non si è spenta interamente ancora oggi.
La singolarità del percorso intellettuale di De Felice, già comunista e studioso delle correnti rivoluzionarie del giacobinismo italiano, e la sua tendenza a sganciare il giudizio sul fascismo dal canone di un antifascismo di maniera, non poteva che suscitare allarme e critiche pregiudiziali, compensati solo in parte dal convinto appoggio di una minoranza degli storici di professione.
Questi rapidi accenni al dibattito pubblico sui caratteri del fascismo e sull’atteggiamento degli italiani nei confronti del regime consentono di misurare il rilievo che la storia politica ha rivestito e riveste in un paese segnato da forti contrapposizioni e da una memoria storica non riconciliata. Nonostante una certa, inevitabile, povertà critica, queste discussioni, condotte prevalentemente nel circuito dei mass-media (ma con ricadute non secondarie anche nelle pubblicazioni specialistiche e nell’insegnamento universitario), hanno avuto tuttavia il merito di divulgare i contrasti interpretativi e di accelerarne la diffusione nell’opinione pubblica colta. Ne ha sofferto invece una più chiara percezione di quel che le nuove tendenze storiografiche e metodologiche andavano elaborando nel tentativo di sottrarsi e di tagliare i vincoli delle appartenenze per approdare a forme diverse di storia politica.
Il caso De Felice si inserisce per certi aspetti in una fase cruciale di trasformazione della storia politica impegnata, dalla metà degli anni Settanta, a individuare e a ricostruire la formazione, le caratteristiche e i comportamenti della società di massa, uno dei fenomeni più vistosi dell’età contemporanea e insieme uno dei nodi cruciali della riflessione storiografica intorno al quale ruotano nuove concettualizzazioni, nuove interpretazioni e nuovi interrogativi. Interrogativi coinvolgenti e drammatici come quelli relativi a uno dei grandi paradossi del Novecento, epoca di grande sviluppo economico, civile e materiale e insieme età di guerre rovinose e distruzioni, di dittature e totalitarismi, di stermini e genocidi, di violenze e odi collettivi. Fatti e comportamenti non imposti a sudditi remissivi, ma condivisi da grandi masse politicamente orientate. È proprio la riflessione sulla società di massa a definire i contorni della nuova storia politica. Il funzionamento delle ideologie politiche nella mobilitazione collettiva, il ruolo dei miti e dei simboli, i meccanismi di aggregazione e le forme della militanza sono diventati il campo di indagine degli storici. Un posto centrale è occupato dalla categoria della «nazionalizzazione delle masse», introdotta dalla storico tedesco-americano George L. Mosse (1918-1999): una locuzione che indica il processo di coinvolgimento delle masse negli obiettivi politici proposti o imposti dalle classi dirigenti nazionali. Veicolo di questo coinvolgimento sono le ideologie nazionaliste di fine Ottocento (vedi 2.3). Con altri obiettivi ma con procedure non dissimili operano i partiti socialisti e, successivamente, quelli comunisti, nonché le organizzazioni fasciste e nazionalsocialiste. Pur nella loro radicale diversità, tutti questi movimenti sono connotati da un esteso corpus ideologico e da un progetto generale per il presente e per il futuro della società e si presentano come religioni politiche dotate di un credo, di parole d’ordine, di miti e rituali di massa, espressione di una «nuova politica» (Mosse, 1975, pp. 7-26; Macry, 1995, pp. 296-314; Gentile, 2001).
Lo spostamento degli interessi su questi temi ha cambiato profondamente la riflessione degli storici e prodotto un benefico raffreddamento delle contrapposizioni ideologiche tra le storiografie di partito. Infatti, oltre ai contenuti delle ideologie e dei progetti politici, si è cominciato a prestare attenzione al modo di operare, ai linguaggi e alle forme, alle tradizioni in grado di spiegare le ragioni profonde della mobilitazione delle masse e il loro coinvolgimento
Ma non sono solo questi gli aspetti che contribuiscono a definire lo statuto della nuova storia politica. La sociologia e la scienza politica hanno fatto breccia nella storia contemporanea e gli storici hanno trasferito nel loro bagaglio, adattandoli ai loro fini, gli strumenti che queste discipline impiegano nel loro campo di studi. Si pensi, per citare un solo caso, ai lavori di Paolo Pombeni su partiti e sistemi politici (Pombeni, 1994). Ne è derivata un’attenzione per la classificazione degli stadi di sviluppo politico e sociale e per l’impiego di criteri di comparazione tra diversi modelli politici e sociali. Concetti come modernizzazione, secolarizzazione, culture e subculture, sistema politico vengono correntemente impiegati senza neppure più la consapevolezza della loro origine. Termini potenzialmente neutri subiscono comunque una declinazione valutativa, come nel caso delle locuzioni «modernizzazione democratica» e «modernizzazione autoritaria». Anche nell’analisi dei sistemi politici, dei loro automatismi e delle loro regole operative non mancano criteri di valutazione: si consideri ad esempio il primato concesso negli ultimi anni in Italia al principio democratico dell’alternanza tra due schieramenti antagonisti, di destra e di sinistra, proposto all’attenzione dell’opinione pubblica come modello politico ideale e proiettato nel passato delle vicende politiche italiane postunitarie come rilevatore, in virtù della sua assenza, della debolezza cronica del nostro sistema politico, sistematicamente affidato invece ai compromessi del trasformismo (Sabbatucci, 2003).
Questi interessi consentono anche di misurare la differenza tra chi opera su diversi registri e chi invece è rimasto legato ai vecchi schemi della storiografia di partito. I nuovi storici continuano in genere a rivendicare il primato della storia politica sulle altre storie, convinti che la dimensione del potere rimanga pur sempre al centro della vita collettiva, ma tendono ad evitare di lasciarsi coinvolgere negli scontri pregiudiziali caratteristici della storiografia delle appartenenze. Un settore che mantiene ciononostante una sua perdurante vitalità, vincolato e vivificato da un rapporto ancillare con la militanza politica, le sue priorità e suggestioni.
Tuttavia, su alcuni aspetti nodali della storia politica italiana, la storiografia di sinistra ha mostrato, a partire dagli anni Novanta, segnali di profondo rinnovamento e di un vero e proprio scompaginamento delle tradizionali interpretazioni. Il caso più significativo è quello rappresentato dal volume di Claudio Pavone, Una guerra civile (1991), con una rilettura dell’esperienza e della dimensione morale della resistenza accompagnata da una riflessione sulle ragioni e le forme di coinvolgimento dei singoli. Una novità segnalata già nel titolo che introduce una locuzione, «guerra civile», prevalentemente impiegata in senso polemico dalla destra filofascista. Di grande importanza sono anche gli studi sulla repubblica di Salò – fra cui si ricorda di Luigi Ganapini, La repubblica delle camicie nere (1999) – affrontati fuori dagli schemi e dai pregiudizi fino allora correnti.
Sollecitati da un ampio dibattito pubblico, gli storici si sono impegnati a ricostruire le motivazioni culturali e politiche delle diverse scelte di campo compiute negli anni della guerra civile, uno dei nodi più controversi nella definizione dell’identità nazionale italiana del secondo dopoguerra: un tema, questo, che ha avuto ampia risonanza nell’opinione pubblica, ben al di là dell’ambito specialistico.
La tastiera dello storico dell’età contemporanea è in realtà ricca di molte altre opzioni. Indicative di temi forse meno presenti sulla ribalta dei mass-media, ma non per questo meno significativi o meno interessanti per chi si avvicina a questi studi.
In primo luogo il contemporaneista ha frequentato e frequenta il campo della storia economica: un’area di studio volta a ricostruire le principali attività produttive, l’origine della ricchezza e della povertà, le cause dello sviluppo, della stagnazione o del declino. Storia dell’agricoltura, dell’industria e del commercio, della banca e dell’impresa. Insomma un settore ampio e articolato dotato di una sua autonomia disciplinare riconosciuta – anche e soprattutto a livello accademico – e di una lunga tradizione. Una tradizione che risale alle origini dell’economia politica nel Settecento e che si è consolidata nell’Ottocento come scienza attenta a celebrare le conquiste economiche dei singoli Stati e il loro peso sulla scena mondiale, e insieme a giustificare le particolarità dello sviluppo economico nazionale, contribuendo a definirne gli obiettivi futuri in una gara tra le potenze. Storia e politica economica tendevano così a legittimarsi reciprocamente tanto in funzione di un espansionismo imperialista quanto nella riflessione propositiva sulle riforme destinate a riorganizzare la nuova società nata dalle impetuose trasformazioni di fine Ottocento. Pur nella diversità delle singole scuole nazionali, un settore degli studi storici si poneva al servizio di un progetto politico e preliminarmente di una teoria generale del mondo e della società. Per uno dei maggiori esponenti dello storicismo tedesco, Gustav Droysen (1808-1884), «il sistema della vita economica» non poteva essere circoscritto «alla quantità della produzione di merci» ma era individuato, con altisonante consapevolezza, come «uno dei grandi fattori nel complesso del disegno etico universale» (Droysen, 1966, p. 265). Con ancora maggiore rilevanza la storia economica rientrava nell’impianto teorico elaborato da Marx e fondato sulla lotta di classe, con la sua analisi della borghesia e del proletariato, del nuovo mondo capitalista e industriale, delle sue origini e dei suoi esiti futuri. La chiave di lettura marxista o ispirata al marxismo, fortemente condizionata dal giudizio sul sistema capitalistico, divenne una delle principali vie di accesso alla storia economica. Non solo per i suoi legami con il marxismo, ma anche per l’influenza esercitata da altre dottrine, come il liberismo o le più recenti teorie dello sviluppo e del sottosviluppo, la storia economica non si configura come una disciplina neutrale. Il metro di paragone delle sue ricostruzioni e la scala valutativa in cui sono inserite sono prevalentemente orientati sugli indicatori dello sviluppo e dello sviluppo industriale in primo luogo. Di fronte a questo obiettivo primario si misurano i percorsi virtuosi e le occasioni mancate della politica economica nei singoli paesi. Queste procedure della storia economica non possono sorprendere dopo quanto detto a proposito della storia politica. Del resto vi è una lunga tradizione di sovrapposizioni, scivolamenti e contaminazioni tra i due campi di studio.
La storia economica dell’età contemporanea nasce in Italia con la grande sintesi di Gino Luzzatto (1878-1964), pubblicata originariamente nel 1948 e più volte riedita dall’autore fino al 1960 come secondo volume della Storia economica dell’età moderna e contemporanea (Luzzatto, 1960): una trattazione panoramica, chiara, informata e aggiornata fino al 1950, degli sviluppi dell’economia del mondo capitalista e industrializzato, Europa, Stati Uniti e Giappone. Nel suo lungo percorso di studi Luzzatto era risalito dal Medioevo fino ai tempi più recenti, affrontando nel 1963 anche la ricostruzione dei primi decenni dell’economia italiana postunitaria (Luzzatto, 1968). Più o meno nello stesso periodo, tra la metà degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, una svolta decisiva si era prodotta negli studi di storia economica in Italia in seguito all’irruzione in questo settore di un giovane storico politico, Rosario Romeo, che aveva sferrato con Risorgimento e capitalismo (1959) un vigoroso attacco alla storiografia di ispirazione marxista, alle tesi di Gramsci relative al Risorgimento e aveva affrontato per la prima volta, fuori dagli schemi usuali, il tema del decollo industriale italiano (vedi 4.3). Ne era scaturito uno dei più vivaci e controversi dibattiti storiografici del dopoguerra, superato solo, per intensità ma non per rilevanza, da quello successivo sul fascismo innescato dalle interpretazioni di De Felice.
La storia del processo di industrializzazione in Inghilterra e in Europa rimase per molti anni il nodo tematico più esplorato, quello su cui convergevano gli interessi tanto dei contemporaneisti che degli storici dell’economia. Un interesse confermato dalla fortuna editoriale e didattica dei libri dedicati all’argomento dagli inglesi Thomas S. Ashton (1969), Phyllis Deane (1971), Sidney Pollard (1984) e dall’americano David S. Landes (1978), pubblicati in origine tra il 1948 e il 1981, e delle recenti messe a punto di Pat Hudson (1995) e di Joel Mokyr (2002), per non dire che dei testi più noti e diffusi in Italia. Ma si devono anche ricordare i volumi della grande Storia economica Cambridge (1974-1980), della Storia economica e sociale del mondo curata dal francese Pierre Léon (1980) o della Storia economica d’Europa (1980), diretta da Carlo Maria Cipolla (1922-2000), il maggiore storico italiano dell’economia della seconda metà del Novecento: tutte opere che dedicano largo spazio all’industrializzazione.
Proprio la traduzione in italiano di grandi opere di storia economica pubblicate all’estero è una conferma della rilevanza che questi temi avevano assunto, non solo per gli specialisti, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta. I grandi editori di cultura (Einaudi, Laterza, il Mulino, Utet) erano in grado infatti di monitorare le nuove tendenze e di promuoverne la diffusione presso il pubblico colto.
La riflessione sulla radicalità del cambiamento indotto dalla rivoluzione industriale innesca e potenzia l’attenzione per le trasformazioni sociali che ne derivarono: nascita della fabbrica e del proletariato di fabbrica, emergere della borghesia imprenditoriale, urbanizzazione accelerata, nuove forme di povertà e sfruttamento. Su tutte queste vicende si era già posato lo sguardo lungimirante di Marx e di Engels, che fornirono nelle loro opere giovanili i materiali per una prima ricostruzione di molti fenomeni. In seguito Il capitale di Marx, edito tra il 1867 e il 1894, avrebbe proposto una teoria economica di quella realtà e suggerito anche un modello del successivo sviluppo sociale ed economico, determinando una decisiva influenza sul lavoro degli storici impegnati a decifrare i nuovi meccanismi sociali.
Anche senza voler stabilire genealogie troppo deterministiche, è indubitabile che – sia in relazione diretta con le concezioni marxiane sia, spesso, in contrapposizione più o meno marcata ad esse – da Marx discendono una serie di studi economici e sociali che segnano l’esordio della sociologia a fondamento storico. Basti ricordare i nomi dei tedeschi Werner Sombart (1863-1941), con Il capitalismo moderno e Il borghese, rispettivamente del 1902 e del 1913, e Max Weber (1864-1920), con L’etica protestante e lo spirito del capitalismo ed Economia e società, pubblicate nel 1904-1905 e nel 1922. Queste opere propongono visioni di lungo periodo e utilizzano una lettura comparativa di realtà spesso lontanissime tra loro, procedure in genere osteggiate dagli storici puri. Guardano prevalentemente al passato ma si avvicinano anche al presente offrendo gli strumenti di analisi per affrontare le trasformazioni in atto. La società, le classi o singole figure sociali cominciano a uscire dalla loro indeterminatezza per diventare oggetto di ricostruzione e di rappresentazione storica. Da allora e sempre più nettamente la formazione tecnica dello storico si apre alla concettualizzazione delle scienze sociali. Un fortissimo contributo in questa direzione viene anche dalla scuola storica delle «Annales», dal nome della rivista «Annales d’histoire économique et sociale» (oggi «Annales. Histoire, Sciences sociales») fondata nel 1929 da due storici francesi, il medievista Marc Bloch (1886-1944) e il modernista Lucien Febvre (1878-1956), autori di una vera e propria rivoluzione storiografica che ha consentito alla storia di aprire nuove immense aree di ricerca soprattutto nel campo di quella che, con formula forse troppo ampia, definiamo «storia sociale» (Burke, 1992, p. 121): anche se l’apporto diretto delle «Annales»agli studi di storia contemporanea è rimasto sostanzialmente marginale persino negli anni Settanta, il periodo di maggiore fortuna della «nuova storia» francese che, sotto la guida di Braudel, continuava ad ispirarsi al metodo dei due padri fondatori.
La storia sociale si propone come ricostruzione globale di una società e come momento più avanzato della ricerca rispetto alla storia tradizionalmente legata alle vicende politiche. Un’ambizione non nuova se scorriamo questa dichiarazione di principi di uno storico-giornalista come Raffaele De Cesare che nel 1907 scriveva: «L’epoca della storia convenzionale è passata: della vecchia storia ridotta alle guerre, alle ambasciate, agl’intrighi della diplomazia e alla vita delle corti, e narrata in periodi pomposi e retorici. Oggi la storia è chiamata a riprodurre tutte le manifestazioni umane, tutta la vita sociale nella forma più semplice» (De Cesare, 1907, I, p. xi). Affermazioni ripetute infinite volte più o meno con i medesimi accenti polemici nei confronti della storia cosiddetta événementielle (o, nella brutta traduzione italiana, evenemenziale), ossia la storia degli avvenimenti politici.
Nel riflettere sui caratteri generali della storia sociale, Hobsbawm ha provato a tracciarne un percorso ideale: «Partendo dall’ambiente materiale, e storico, si passa alle forze ed alle tecniche produttive (con la demografia collocata in qualche posizione intermedia), alla struttura economica che ne consegue – divisione del lavoro, scambio, accumulazione, distribuzione del sovrappiù, etc. – e ai relativi rapporti sociali. A ciò può far seguito l’analisi delle istituzioni e dell’immagine e del funzionamento della società che sono alla base di quelle istituzioni» (Hobsbawm, 1973, p. 67). Questo impianto individua alcuni settori di ricerca tipici dello storico sociale: dallo studio delle classi e dei gruppi sociali, a quello dei comportamenti demografici, allo sviluppo urbano, alle mentalità, all’analisi delle grandi fasi di trasformazione e modernizzazione, al ruolo dei movimenti collettivi e/o di protesta.
Secondo questa proposta la storia sociale rappresenterebbe il punto più alto del lavoro dello storico, quello dove convergono i principali fili delle nuove ricerche. In qualche misura a questo disegno rispondono proprio alcuni libri dello stesso Hobsbawm, i grandi affreschi dedicati al trionfo della borghesia o all’età degli imperi (vedi 4.7).
In realtà la pratica della storia sociale è fatta di tanti contributi diversi, su scala grande e minuta, che difficilmente si riconoscerebbero interamente in questa classificazione generale. Più delle grandi ricostruzioni, di cui Hobsbawm è il maestro più noto e universalmente apprezzato, conta la disseminazione tematica che la storia sociale ha generato negli studi sull’Ottocento e sul Novecento. Dal primo grande esempio rappresentato da The Making of the English Working Class di Edward P. Thompson (vedi 4.4), pubblicato nel 1963 (trad. it. Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, 1969), ad alcune importanti ricerche italiane come Ottocento di Paolo Macry (1988) o come la Storia della borghesia italiana di Alberto M. Banti (1996). Molti tra i migliori esempi della nuova storia contemporanea sono caratterizzati dall’attenzione per gli aspetti sociali. Nessuna opera collettiva recente ha rinunciato a trattare la storia della società e anche grandi biografie politiche, come quella di Rosario Romeo dedicata a Cavour e il suo tempo (1969-1984), presentano ampi spazi di approfondimento dei quadri economici e sociali.
L’incontestabile legame fra trasformazioni dell’economia e della società e studi di storia economica e sociale conferma, ancora una volta, come le motivazioni dello storico, e dello storico contemporaneista in particolare, siano sollecitate dal suo coinvolgimento nel presente oltre e al di là di eventuali forme di militanza in movimenti e partiti. L’attenzione per la dimensione economica e sociale che si registra in Italia negli anni Sessanta deriva dall’evidente interconnessione dialettica con il miracolo economico, l’avvio della società del benessere e le frizioni sociali che li accompagnano.
La rivoluzione culturale e politica del Sessantotto in Italia e nell’Occidente industrializzato dà alimento a tematiche come la storia degli atteggiamenti culturali e delle mentalità. Una maggiore attenzione si concentra sui mass-media e sulla loro capacità di influenzare comportamenti personali e collettivi.
L’emergere di un nuovo femminismo nelle società avanzate innesca il campo di studi della storia delle donne e della correlata storia di genere (gender history): partita dagli Stati Uniti, è la tendenza culturale che registra in assoluto la più rapida diffusione in tutto il mondo occidentale. Il tema della gender history (inteso come attenzione alle relazioni tra i sessi e ai sistemi di potere che ne scaturiscono) è radicalmente alternativo e contribuisce a fornire unità di intenzioni a una produzione inizialmente frammentaria e descrittiva, assicurando «identità corporativa» a una intera generazione di storiche.
Per il contributo dell’Italia a questa esplosione storiografica sulle donne, scritta da donne, va ricordato il ruolo decisivo della rivista «Memoria» (33 numeri pubblicati tra il 1981 e il 1993). Mentre è un editore italiano, Vito Laterza, a promuovere una grande opera dedicata alla Storia delle donne in Occidente (1990-1992),in seguito tradotta in molti altri paesi, affidandola a due storici francesi, il medievista Georges Duby e la contemporaneista Michelle Perrot, con un folto numero di collaboratrici e collaboratori internazionali: cinque volumi di cui gli ultimi due dedicati rispettivamente all’Ottocento e al Novecento.
La ricca articolazione della storia delle donne è appena un esempio, ma tra i più significativi, della incontrollabile varietà che caratterizza oggi la storia contemporanea. Varietà che induce talora in un certo smarrimento chi si propone come obiettivo la ricerca di un’unità della storia: un criterio in sintonia con impianti teorici e ideologici forti, ma al momento in netto declino. Per una disciplina che nel suo periodo di fondazione e di assestamento, tra il 1815 e il 1914, aveva concentrato «l’attenzione essenzialmente sulle gesta passate di leader maschi bianchi adulti, una esigua minoranza delle persone che sono vissute fin qui sulla terra» – come ha ricordato argutamente Hexter (1997, p. 728) – è stato un passaggio sconvolgente quando si è «cominciato a prestare attenzione a come la stragrande maggioranza degli esseri umani non bianchi, non maschi, non adulti sia vissuta e morta nel passato». La storia sociale, la storia «dal basso» ha compiuto questa rivoluzione in ogni campo della ricerca. Una rivoluzione accompagnata, nell’area linguistica «europea» (estesa dall’Europa all’America e all’Australia), da un’enorme crescita nel numero degli specialisti e nella quantità della produzione (Giarrizzo, 1995).
In Italia, nel solo settore scientifico disciplinare intitolato alla storia contemporanea nel nostro sistema universitario (M-STO/04), si annoveravano, nel 2003, circa 550 tra professori ordinari, professori associati e ricercatori, senza contare i dottorandi e i dottori di ricerca non ancora inquadrati. La Società italiana per lo studio della storia contemporanea (Sissco), all’inizio del 2004, registrava 475 soci.
In presenza di questi numeri, e senza guardare ad altri paesi dove le tradizioni di studio sono altrettanto sviluppate, non ci si può più sorprendere di fronte alla molteplicità dei campi di ricerca che si riconoscono nell’ambito della storia contemporanea, spesso ridotta a pura cornice cronologica. Dalla storia del Risorgimento, alla storia urbana e rurale, alla storia delle comunicazioni di massa, alla storia istituzionale. Settori contigui, come quello delle relazioni internazionali, della storia delle Americhe o dell’Europa orientale, difendono una loro specifica tradizione accademica e professionale.
Sono saltate le tradizionali gerarchie e graduatorie disciplinari, ed è un segno di grande dinamismo. Ma per chi si avvicina a questi studi continua a mantenere un ruolo di grande importanza formativa, come elemento di raccordo, lo studio della cosiddetta «storia generale», di taglio per lo più manualistico. Uno studio che spesso non viene più imposto e/o verificato con il rigore di un tempo, in parte perché lo si ritiene assolto nelle scuole superiori, ma soprattutto perché penalizzato dalla frammentazione modulare dei nuovi ordinamenti universitari. Con grave perdita di quella visione d’insieme e di quella corretta scansione cronologica che dovrebbe essere difesa comunque, anche in presenza della positiva, poliedrica varietà della storia contemporanea.
L’eclettismo tematico della storia contemporanea ha come inevitabile ricaduta una ampia varietà di terminologie e di concettualizzazioni che innervano il tessuto del discorso storico, senza configurarsi tuttavia come un linguaggio specialistico, ma mantenendo una prossimità con gli stilemi e il vocabolario della comunicazione colta.
Ogni settore – la storia economica, quella sociale, quella delle donne – impiega vocaboli, espressioni e concetti caratteristici di specifici campi di studio, ma anche del linguaggio corrente. La storia politica adotta i termini del linguaggio politico: Stato, nazione, patria, ma anche populismo, qualunquismo, centrismo, trasformismo e i sostantivi derivati di cui sarebbe impossibile dare un elenco anche solo approssimativo. Tra politica e storia gli scambi, i prestiti e gli intrecci sono la regola. Termini come consenso e legittimazione si consolidano prima tra gli specialisti (storici e politologi) per poi passare nel vocabolario usuale della politica. Concetti come autoritarismo e totalitarismo sono adottati dagli storici quando si impongono come categorie di analisi dei sistemi politici.
In ogni caso il contributo degli storici al linguaggio politico è mirato a tutelarne la proprietà di impiego e a difenderne la corretta contestualizzazione temporale onde evitare i pericoli dell’anacronismo. È sbagliato parlare ad esempio delle tendenze totalitarie di Crispi, quando il termine appropriato potrebbe essere «autoritarie». Si può scrivere e si scrive di capitalismo e di imperialismo della Roma antica, ma bisogna essere consapevoli delle differenze con il capitalismo e l’imperialismo contemporaneo. L’impiego di molte categorie concettuali è tutt’altro che pacifico e nasconde a stento divergenze profonde tanto di definizione che di applicazione. Apertissima è ad esempio la discussione sui caratteri più o meno totalitari del fascismo italiano (vedi 2.6).
Nel linguaggio storico hanno una forte evidenza le connotazioni temporali che consentono di distribuire opportunamente le vicende nel tempo, secondo i due principi della diacronia (o successione) e della sincronia (o contemporaneità). Il tempo storico, come si è già accennato, è diverso dal tempo naturale, non procede sempre e ovunque con la stessa velocità, e dunque è di grande interesse segnalare ritardi e accelerazioni, cesure e continuità. Per quest’ultimo caso è largamente diffusa l’espressione «senza soluzione di continuità» per indicare l’assenza di cesure o di interruzioni. I fattori di continuità sono decisivi, ma ancora più importanti, in ogni discorso storico, sono i momenti e le fasi del cambiamento. Come ha sottolineato Giuseppe Galasso, «il giudizio storico è fondato su categorie estremamente determinate come quelle del cambiamento e del successo» (Galasso, 1975, p. 278). Cambiamento di un regime, di un sistema politico, di uno stile di vita. Queste categorie permettono di comprendere il successo o la sconfitta di un leader politico, di un esercito, di uno Stato, di un sistema economico, di un’ideologia, intrecciando ragioni profonde e motivazioni occasionali. Ricercando quindi una risposta ad alcune domande elementari: che cos’è cambiato e quando, chi ha prevalso, chi è stato sconfitto.
Termini come «identità», di matrice antropologica, si sono largamente diffusi da quando le forme della partecipazione politica, della militanza, della adesione a un programma o a un progetto, della connotazione di genere sono divenute uno dei fulcri della ricerca storica. Confermando la ridotta distanza dal linguaggio colto dell’opinione pubblica e dei media.
Dove sta dunque la differenza, qual è la specificità del discorso storico? Parafrasando alcune considerazioni di Arnaldo Momigliano, grande storico dell’antichità (1908-1987), prendiamo due frasi, «Stamattina ho preso la metropolitana» e «Mussolini entrò in guerra il 10 giugno 1940», per constatare come non vi sia alcuna differenza logica tra di esse e neppure tra le due spiegazioni che vi possiamo aggiungere. Nel primo caso «perché avevo fretta e avrei fatto tardi a piedi», nel secondo caso «perché il duce temeva di essere escluso dai benefici della prossima vittoria della Germania nazista sulla Francia». Nel ricostruire quel che ho fatto stamattina basta un «lieve sforzo della memoria», mentre per capire la scelta di Mussolini è necessario dare avvio a una ricerca storica che è tale «quando o lo stabilire i fatti o lo spiegarli esige uno studio di documenti» (Momigliano, 1960, p. 365).
Questa tessitura documentaria deve essere in ogni caso resa visibile «pena il mancato riconoscimento – ha scritto il filosofo polacco Krzysztof Pomian (2001, p. 277) – della qualifica di scrittura storica. Vi devono infatti essere presenti precisi marchi di storicità: costruzioni verbali, segni grafici o iconici che rimandino alle prove delle affermazioni fatte nel testo e che ne permettano l’accesso al lettore»:
[...] i marchi di storicità – continua Pomian (2001, pp. 277-278) – sono numerosi: nomi di persona e di luogo, date degli avvenimenti, rimandi a note e note a fondo pagina o in calce al testo, virgolette che isolano la citazione di una fonte scritta seguita dalla sua indicazione ed eventualmente dal suo luogo di edizione, allegati che riproducono testi e documenti, foto, mappe, piante, sezioni stratigrafiche, risultati di misurazioni... E ci sono anche marchi di storicità immanenti alla lingua: lo storico necessita infatti di una retorica particolare.
Comunque sia, i marchi di storicità devono spalancare al lettore una via in grado di farlo uscire, se lo desidera, dall’opera storica che sta leggendo per condurlo verso le prove fondamentali delle argomentazioni ivi avanzate, ossia i testi, le immagini e gli oggetti esterni a quest’opera stessa poiché presenti nelle biblioteche, negli archivi, nei musei, nei laboratori o negli scavi.
Il rispetto delle procedure storiche non implica sempre e necessariamente che l’esibizione delle prove documentarie debba assumere esclusivamente il carattere delle note bibliografiche e archivistiche caratteristico dello stile scientifico e accademico, per intenderci quello della storiografia universitaria. Questi apparati possono essere anche sintetizzati in fondo al volume o resi espliciti da una bibliografia ragionata. Così come l’esposizione, anche tesa a lumeggiare differenze e divergenze, dell’utilizzo delle fonti, delle testimonianze e del loro contributo alla ricostruzione di una vicenda o all’interpretazione di un fenomeno può assumere un aspetto discorsivo e un andamento «leggero». Quello che deve rimanere fuori del discorso storico in senso proprio, quello che, nonostante le apparenze, non è storia, è la fiction, la finzione. In una parola tutto quello che non è documentabile, che non è verificabile o che non è risultato di una ricerca. Scene d’ambientazione, drammatizzazioni anche efficaci, discorsi virgolettati senza riscontri documentali non sono storia. Ciò non significa che il verosimile, il probabile non siano portatori di suggestioni storiche, ma devono essere correttamente individuabili per quello che sono.
Anche i libri di storia più rigorosi accolgono tuttavia pagine di pura finzione letteraria volte a sorprendere e a coinvolgere il lettore.
Con un passo di notevole efficacia, Umberto Levra apre un suo lungo saggio su Torino nel periodo successivo alla perdita del ruolo di capitale del regno d’Italia. L’annuncio di quella decisione provocò gravi incidenti nel centro della città, con oltre cinquanta morti.
Intorno alle nove della sera del 22 settembre 1864 il calzolaio Candido Pavesio di 35 anni, celibe, nato a Stupinigi ma da tempo dimorante a Torino, giaceva supino in piazza San Carlo. Immobile, tra le grida e la concitazione generale, sentiva un torpore freddo salire lungo le gambe, la testa divenuta improvvisamente pesante, la vista che si annebbiava, mentre una chiazza di sangue dalla sua schiena si allargava sui ciottoli della piazza. Il dolore non era forte, ma la spossatezza enorme, lo stupore ancora di più: cosa era successo, si domandava senza trovare risposta, in quella piazza dove fino a qualche anno prima aveva preso parte a tante ordinate e festose manifestazioni patriottiche? Certo allora regnava la gioia, ora no, la tensione era fortissima [...] ma come era possibile che a sparargli fossero stati quei soldati di fanteria tante volte applauditi per le vie di Torino, negli anni epici appena trascorsi? [...] Erano domande a cui il calzolaio Pavesio, fedele al suo re e rispettoso delle istituzioni, non trovava risposta. L’odore acre della polvere da sparo non era ancora dissolto quando alcune braccia pietose lo sollevarono, ormai privo di sensi. Trasportato all’ospedale di San Giovanni, vi morì appena ricoverato [...].
Nel leggere l’inizio di questa pagina la prima reazione dello storico di professione è di invidia per lo straordinario reperimento (diario del sopravvissuto, verbale di interrogatorio?) che ha consentito all’autore di dare corpo a un evento così drammatico. Segue, subito dopo l’annuncio della morte del protagonista, l’ammirato stupore per la brillante disinvoltura con cui è redatto questo incipit (Levra, 2001, pp. xix-xx). Ovviamente quello appena citato è un caso tutt’altro che unico. Posso appena ricordare il prologo al volume Donne ai margini. Tre vite del XVII secolo di Natalie Zemon Davis (1996, pp. 3-6) dove la nota storica americana si spinge ad immaginare un dialogo, a distanza di secoli, fra le tre protagoniste e l’autrice.
Del resto ogni ricostruzione storica è in qualche misura un racconto e pone dunque un problema di comunicazione con il pubblico. Mentre agli storici viene in genere imputato di rimanere prigionieri dei loro tecnicismi e di prestare poca attenzione alla cifra stilistica. In moltissimi casi questo è vero ed è facilmente dimostrabile. Ad una scrittura noiosa e a un basso tasso di leggibilità si aggiungono spesso un’insistita esibizione di competenze bibliografiche e pesanti apparati di note, talora indispensabili a sostenere la novità della ricerca, talaltra redatti a soli fini accademici. Questi casi si giustificano con il rispetto delle tradizioni e l’omaggio d’obbligo ai dettami delle corporazioni universitarie di appartenenza: spesso si tratta infatti di volumi destinati al circuito ristretto degli specialisti. Ma difetti di questo tipo si riscontrano talora anche in lavori pensati per la generalità del pubblico colto. In quest’ultima categoria rientra la grande biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice (vedi 4.5). Volumi ponderosi, periodare pesante, apparati sterminati cui fa riscontro tuttavia, anche grazie alle polemiche che investirono l’autore, uno straordinario successo editoriale, con ben dodici edizioni dei primi tre tomi fra il 1965 e il 1997: a conferma che la leggibilità non è sempre indispensabile garanzia di successo, né può essere invocata per attribuire o negare valore a un’opera storica prescindendo dalla novità della trattazione e dalle qualità dello studioso.
È una vecchia e ricorrente polemica che vede contrapposti storici professionali da una parte, giornalisti e scrittori di storia dall’altra, e sulla quale è forse opportuno fare chiarezza.
Nella diffusione delle conoscenze storiche e degli interessi per la storia è decisivo in primo luogo imparare a distinguere una buona divulgazione, informata e brillante, da un’opera originale di ricerca: assolvono a funzioni diverse, talora egualmente importanti. E come si danno opere diverse, così esistono lettori e pubblici diversi e linguaggi misurati sui diversi destinatari. Né il primato della leggibilità e della divulgazione può tradursi in alibi per nascondere la superficialità dell’analisi e per trascurare ogni forma di controllo critico.
D’altra parte la costruzione di un testo storico fornito di apparati e di rinvii alla documentazione, lavoro complesso nell’impianto e nell’architettura espositiva, non solo risponde alle peculiarità di un settore disciplinare di studio e ricerca, nel senso indicato sopra da Pomian, ma rivela anche caratteristiche particolari delle diverse tradizioni culturali. In Italia si è imposto quello che con qualche forzatura potremmo chiamare il «canone chabodiano». Federico Chabod (1901-1960) è stato il maggiore storico italiano dell’età moderna tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, studioso di Machiavelli, dello Stato di Milano, dell’idea di nazione. Allievo tra gli altri di Volpe, professore universitario a Milano e poi a Roma, diresse dal 1947 l’Istituto italiano per gli studi storici fondato da Croce nel suo palazzo di Napoli, dove completò la propria formazione la nuova generazione di storici del secondo dopoguerra: da Rosario Romeo a Cinzio Violante, a Giuseppe Giarrizzo, Franco Gaeta, Marino Berengo, Gennaro Sasso, Giuseppe Galasso, Sergio Bertelli, Renzo De Felice e molti altri. Già nelle opere di argomento modernistico e in seguito nella Storia della politica estera italiana (1951), accanto a una scrittura «alta», Chabod disponeva un esteso impianto di citazioni e di rinvii, teso a documentare la complessità e la ricchezza su cui poggiava l’originalità della sua ricostruzione. Era anche un modo per legittimare il nuovo canone della storiografia scientifica, posta al riparo dai semplicismi e dalle forzature ideologiche (vedi 4.2). Un modello ripetuto in seguito dalla più giovane storiografia e divenuto in ogni caso, consapevolmente o meno, un punto di riferimento obbligato.
Va poi in qualche misura riportato nei suoi giusti limiti il luogo comune sugli storici italiani che non sanno scrivere per il grande pubblico, a differenza degli anglosassoni ed anche dei francesi. È certo che una produzione editoriale pensata per grandi numeri, come quelli dei potenziali lettori di lingua inglese, impone un approccio più agevole, una pagina più leggera, apparati ridotti, collocati a fine capitolo e/o alla fine dei volumi. Un confronto tra il Mussolini di De Felice e lo Hitler di Ian Kershaw (1999-2001) è, al riguardo, estremamente rivelatore. Ma è anche vero che nel mondo universitario anglosassone i libri specialistici non sono diversi dai nostri e hanno circolazione ridotta e tirature molto basse.
Gli storici italiani, salvo rare eccezioni, scontano anche una certa riluttanza ad affrontare grandi argomenti di sintesi e ad impegnarsi nel genere della biografia storica di dimensioni contenute. Settori nei quali soffrono la concorrenza di opere straniere tradotte, come quelle dell’inglese Denis Mack Smith, molto amato dagli editori, ma osteggiato dagli storici, sistematicamente ostili al disinvolto taglio interpretativo della sua produzione, dalla Storia d’Italia (1959) ai successivi libri dedicati a Garibaldi (1970), Vittorio Emanuele II (1972), Mussolini (1983), Cavour (1984).
Negli ultimi anni è tuttavia possibile riscontrare un mutamento di tendenza nel tentativo di privilegiare registri comunicativi più accessibili. È il caso dei lavori di Aurelio Lepre (Mussolini l’italiano, 1995; La storia della repubblica di Mussolini, 1999); di Ernesto Galli della Loggia che con L’identità italiana (1998) ha aperto temi considerati a lungo secondari per la riflessione storica; di Emilio Gentile che con Il culto del littorio (1993), uno dei pochi libri di storia italiani tradotti in inglese (1996), ha inaugurato il filone di studi sulla religione della politica in epoca fascista.
La positiva diversità di larga parte della nuova storiografia non deve far dimenticare tuttavia i grandi esempi di letteratura storica del passato, tra i quali spiccano per potenza e intensità di scrittura le opere di Croce e soprattutto quelle di Volpe.
Questione cruciale è quella dell’equilibrio fra il taglio di un’opera storica e le aspettative dei destinatari, siano la borghesia di sentimenti nazionalisti e fascisti per Volpe o siano invece gli studenti dell’Institut d’Etudes politiques di Parigi di fronte ai quali Chabod pronunciò nel 1950 una serie di lezioni poi tradotte, dopo la sua morte, col titolo L’Italia contemporanea (1961): l’agile volumetto del grande storico divenne subito la lettura ideale per un largo pubblico che voleva essere iniziato a un punto di vista antifascista, tanto da consolidarsi come un piccolo classico, giungendo nel 1998 alla trentaduesima edizione.
Scrittura più o meno facile, maggiore o minore leggibilità, numero di copie vendute, sono tutti elementi che contribuiscono alla diffusione dei libri di storia e alla costruzione di una cultura storica. Ma a questo punto è chiaro che l’articolazione dei generi impone anche un’articolazione dei giudizi.
Così va sfatata l’affermazione che uno dei più brillanti, intelligenti, piacevoli e leggibili giornalisti del Novecento, Indro Montanelli (1909-2001), autore di una Storia d’Italia (1965-1997) in più volumi, rivaleggi alla pari con i grandi della storiografia, com’è stato sostenuto, nel riproporre l’opera nell’autunno del 2003, da parte del «Corriere della Sera», che l’aveva avuto a lungo tra i suoi inviati. Scritta a quattro mani, prima con Roberto Gervaso e poi con Mario Cervi (senza che il loro contributo sia precisato), leggibilissima e accattivante, ma non priva di inesattezze, la storia di Montanelli era destinata a lettori borghesi di media cultura avidi di assorbire i retroscena, gli squarci prospettici, i particolari minuti, la fine descrizione dei personaggi e insieme i caustici giudizi e i paradossi a cui il giornalista li aveva abituati. Veicolata dalla grande notorietà del suo autore, protagonista e testimone egli stesso degli avvenimenti che occupano circa metà della sua opera, questa storia d’Italia ha avuto un notevole successo all’uscita, innumerevoli ristampe in seguito e nuova grandissima diffusione nel 2003-2004.
La diversità dei generi e delle tipologie dovrebbe quindi suggerire cautela nel proporre confronti di qualità o classifiche di merito fra prodotti non confrontabili.
Vi sono invece settori dove il grande giornalismo d’inchiesta si incrocia felicemente con la ricerca storica. Penso al Palmiro Togliatti di Giorgio Bocca del 1973, un libro costruito in gran parte sulle testimonianze rese all’autore dai membri del gruppo dirigente comunista, o al volume di Giampaolo Pansa Il sangue dei vinti (2003), dedicato agli eccidi di fascisti o supposti tali compiuti dai partigiani per lunghi mesi dopo la liberazione dell’aprile 1945. Certo il libro di Pansa è pieno di ricordi personali e di descrizioni ambientali del p...