Edizione: 2021 Pagine: 384 Collana: Manuali di base [72] ISBN carta: 9788859300632 ISBN digitale: 9788858116548 Argomenti: Storia: opere generali, Storia moderna
Dalle scoperte geografiche e dall'espansione economica del Cinquecento all'età napoleonica: è la periodizzazione di questo volume pensato esplicitamente per la didattica universitaria ma con tutte le possibilità di essere apprezzato anche dal pubblico di libreria. Una trattazione classica della storia moderna arricchita dai risultati più innovativi della ricerca storiografica nel settore della storia sociale e culturale.
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.
1. Popolazione, economia, società
1.1. Crescita della popolazione, crescita delle città, crescita della domanda di beni
Dopo decenni di discussioni, gli storici sono ormai concordi nel considerare la crescita
o la diminuzione della popolazione come una delle variabili fondamentali dello sviluppo
della società europea nel corso dell’età moderna. All’aumento della popolazione sono infatti collegabili la crescita della produzione agricola e manifatturiera,
le innovazioni tecnologiche, le trasformazioni sociali e persino quei cambiamenti
più lenti e più nascosti che riguardano la sfera delle relazioni familiari, dei rapporti
tra i sessi e tra le generazioni. Ma contare gli esseri umani del ’500 non è cosa
facile. Data la frammentazione dei poteri pubblici e l’esiguità degli apparati burocratici
cinquecenteschi, gli elementi di valutazione pervenuti fino a noi sono saltuari e
lacunosi e, per determinare l’ammontare della popolazione, gli storici devono accontentarsi
di ipotesi e linee di tendenza.
I documenti di cui disponiamo consentono comunque di affermare che, dopo circa un
secolo di grave declino demografico, dal 1450 al 1600 la popolazione europea riprese
finalmente ad aumentare, passando da circa 59 a circa 89 milioni. Grazie anche, o
soprattutto, a massicce immigrazioni dalle campagne questa crescita interessò in particolar
modo i centri urbani. All’inizio del ’500 nessuna città europea raggiungeva i 200.000 abitanti. Cento
anni dopo, ben tre grosse metropoli – Napoli, Parigi e Costantinopoli – avevano largamente
superato quella cifra, mentre altre tre città – Milano, Venezia e Londra – contavano
tra i 150 e i 200.000 abitanti.
La densità di popolazione agli inizi del ’600 risente delle caratteristiche della
crescita demografica cinquecentesca. Le aree tradizionalmente più urbanizzate, come
l’Italia, i Paesi Bassi, la Francia nord-orientale, la Germania meridionale, l’Inghilterra
sud-orientale, sono anche quelle che hanno maggiormente beneficiato dell’aumento della
popolazione e risultano quindi le più fittamente abitate. Al contrario, le zone situate
ai margini dell’Europa, compresa la penisola iberica, appaiono scarsamente popolate
e, in alcuni casi, quasi deserte.
Nonostante questo, L’Europa rimaneva largamente rurale. La popolazione delle campagne costituiva in media l’80% del totale. Solo nell’Italia centro-settentrionale e nei
Paesi Bassi, dove la densità urbana – vale a dire il numero di agglomerati urbani
all’interno di una determinata area – era la più alta del continente, gli abitanti
delle città raggiungevano il 40-45% della popolazione. Nelle regioni orientali del
continente, dove la densità urbana era la più bassa, i contadini superavano invece
il 90%.
Le cause di questo aumento della popolazione tuttora non sono ben note e, anche in
questo campo, gli storici devono accontentarsi di congetture. È possibile che, dopo
decenni di pestilenze drammaticamente ricorrenti, per un certo periodo il flagello
delle epidemie si sia un po’ attenuato e che il tasso di mortalità sia dunque leggermente
diminuito. È anche possibile tuttavia che le condizioni di ripresa economica (di cui
parleremo nei prossimi paragrafi) abbiano incoraggiato un abbassamento dell’età al
primo matrimonio, sia per gli uomini sia per le donne. Sposandosi prima, le coppie
avevano la possibilità di mettere al mondo un maggior numero di bambini, e dunque
di far crescere il tasso di natalità, fino a raggiungere e superare quello di mortalità.
Nell’antico regime demografico, caratterizzato da assenza di limitazione volontaria delle nascite e da breve o brevissima
vita media (non più di 30-35 anni, contro i 75-80 di oggi), i due coefficienti di
natalità e mortalità erano molto vicini tra loro, intorno al 35-40 per mille. Variazioni,
anche limitate, dell’uno o dell’altro avevano quindi effetti immediati sulle dimensioni
globali della popolazione, determinandone la crescita o la diminuzione.
Una popolazione urbana in rapida o rapidissima crescita (tra l’inizio e la fine del
secolo gli abitanti di Venezia aumentarono del 45%, quelli di Londra del 140%, e quelli
di Amsterdam addirittura del 560%) comportava ovviamente un incremento della domanda di generi alimentari e altri beni di prima necessità. E questo esercitava un’importante
influenza sia sulle strutture della produzione sia su quelle dello scambio. L’aumento
della domanda spinge i prezzi verso l’alto, soprattutto se le condizioni sociali e
tecnologiche non permettono una crescita della produzione sufficiente a fronteggiare
le accresciute richieste dei consumatori. Ed è proprio questo quello che accadde nell’Europa
del ’500, in particolare nelle aree più urbanizzate dell’Europa occidentale. Tra l’inizio
e la fine del secolo il prezzo del grano raddoppiò in alcune città, come Firenze,
e triplicò, o addirittura quadruplicò, in altre, come Parigi.
Questa ascesa dei prezzi, così violenta agli occhi dei contemporanei che si è addirittura parlato di una «rivoluzione
dei prezzi», venne dunque messa in moto dalla crescita della popolazione e dall’aumento
della domanda. Ma essa fu poi ulteriormente aggravata da un fenomeno che riguardava
più direttamente le monete e i metalli preziosi di cui erano fatte. Da un lato, grazie
alle miniere americane, l’oro e l’argento diventarono più abbondanti e quindi persero
parte del loro valore; dall’altro le autorità tesero a coniare monete con un contenuto
sempre più basso di metallo prezioso, provocando un’ulteriore diminuzione del loro
potere di acquisto. Da solo, il dato relativo ai prezzi e all’inflazione è tuttavia
poco significativo, perché quello che conta realmente è il suo rapporto con il livello
dei salari, che determina la capacità di acquisto dei consumatori.
Prendendo in esame i salari abitualmente percepiti dalle fasce più povere della popolazione,
gli storici hanno calcolato che a partire dal 1540 circa in molte aree d’Europa si
superò costantemente la soglia critica delle 100 ore di lavoro necessarie a comprare un quintale di grano, e che verso la
fine del secolo si toccò e superò spesso quella delle 200 ore di lavoro. La soglia
critica delle 100 ore di lavoro implicava che la metà del salario annuo di un lavoratore
non specializzato venisse spesa per comprare il pane per sé e la sua famiglia. Se
si toccavano le 200 ore, la famiglia non poteva permettersi nessun’altra spesa al
di fuori di quella per il pane. Questo significa che la domanda di beni che non fossero
legati alla pura sopravvivenza era estremamente «elastica», nel senso che si dilatava
o si contraeva a seconda dell’andamento dei prezzi del grano e di pochissimi altri
generi alimentari.
1.2. Le campagne
Alla crescita della domanda di beni di prima necessità avrebbero dovuto rispondere
le strutture produttive di base, vale a dire le aziende agricole. Ma grossi ostacoli
sociali e tecnici rendevano quasi impossibile una risposta efficace. La struttura
agraria più diffusa in tutta l’Europa era costituita dalla signoria. La signoria era un insieme organico formato da terre appartenenti direttamente al
proprietario terriero, il signore, e da altre terre a disposizione dei contadini. Questi, tuttavia, per utilizzarle,
dovevano pagare qualcosa al signore. Tale pagamento poteva avvenire in natura, lavorando
gratuitamente i campi di pertinenza diretta del proprietario terriero, oppure cedendogli
una parte del raccolto ottenuto sui propri appezzamenti.
In molti casi, però, il pagamento ormai avveniva in denaro: i contadini erano tenuti
a versare un canone annuo per il godimento dei loro campi, che per il resto potevano utilizzare a loro
piacimento. Quelle terre diventavano così quasi una proprietà dei contadini, che potevano
venderle, comprarle, trasmetterle in eredità ai propri figli, e così via. Accanto
ai terreni «signorili» o «feudali», in molte zone dell’Europa occidentale esistevano
anche terreni «liberi», per i quali nessuna forma di pagamento era dovuta. Questo
tipo di terre poteva appartenere a contadini, oppure ad abitanti di città che le davano
a lavorare, anche qui in cambio di un canone in denaro o di una quota del prodotto.
Le condizioni di vita delle popolazioni rurali, ma anche le possibilità di estendere
o intensificare la produzione agricola variavano dunque da zona a zona, a seconda
del tipo di struttura agraria prevalente. Il prelievo fiscale esercitato da signori e proprietari terrieri a danno dei contadini poteva infatti
essere così pesante da non lasciare loro alcuna risorsa per effettuare investimenti
capaci di aumentare la produttività della terra (per esempio per allevare più animali
in modo da disporre di più concime). In queste condizioni, se le città in crescita
demografica chiedevano più grano e altri prodotti agricoli, le campagne potevano rispondere
solo estendendo le superfici coltivate, a danno dei boschi e dei pascoli, oppure intensificando
lo sfruttamento dei terreni, a scapito della loro produttività.
A rendere le cose ancora più difficili intervenivano i meccanismi del mercato. Nelle annate buone, quando il raccolto era abbondante e finalmente i contadini avevano
qualcosa da vendere, i prezzi scendevano, e il guadagno si ridimensionava. Nelle annate
cattive, al contrario, quando i prezzi erano alti e vendere sarebbe stato vantaggioso,
gli scarsi raccolti bastavano a malapena a soddisfare i bisogni delle famiglie contadine,
ed esse non potevano permettersi di vendere nulla. In queste condizioni dover dipendere
dalle vendite per effettuare acquisti indispensabili poteva diventare molto pericoloso.
È comprensibile quindi che le famiglie contadine si preoccupassero prima di tutto
di soddisfare le proprie esigenze di consumo, coltivando direttamente tutto ciò di
cui avevano bisogno, dai cereali alle fibre tessili. Il loro obiettivo primario era
l’autosufficienza, e solo in un secondo momento esse prestavano attenzione ai vantaggi economici che
un determinato prodotto agricolo poteva offrire, per esempio perché era molto richiesto
dalle popolazioni urbane.
La povertà di gran parte del mondo contadino non era la sola ragione di intralcio
alla crescita della produzione agricola, anche perché la società rurale non era perfettamente
omogenea: anche in campagna esistevano poveri e ricchi. Per liberarsi dei pesi e dei
fastidi legati alla gestione diretta delle proprie terre, molti proprietari terrieri
tendevano a cederle in blocco a fittavoli, che provenivano appunto dalle fasce più ricche della popolazione rurale. In un periodo
di aumento dei prezzi dei prodotti agricoli, accrescere il proprio giro di affari
prendendo terra in affitto risultava vantaggioso, e i contadini benestanti ne approfittavano.
Tuttavia, se il contratto di affitto era di breve durata, l’affittuario tendeva a
sfruttare al massimo terra, bestiame e lavoratori da lui dipendenti, in modo da trarre
il maggior guadagno possibile dal suo investimento. E alla lunga tutto questo si traduceva
in una distruzione di risorse. Se, al contrario, il contratto di affitto era di lunga
durata, l’inflazione tendeva a erodere le rendite percepite dai proprietari terrieri,
che cercavano di scaricare su altri questo loro relativo impoverimento.
Tutto questo comportava una radicalizzazione delle differenze interne al mondo rurale. Poche famiglie più fortunate riuscivano
a elevarsi al di sopra delle loro condizioni di partenza, alimentando un ancora incerto
processo di mobilità sociale. Quelle più sfortunate, invece, si riempivano di debiti,
perdevano proprietà e vedevano aumentare la propria dipendenza economica e sociale
dai signori e più in generale dai proprietari terrieri. In queste condizioni è evidente
che i margini per effettuare investimenti e migliorare le tecniche di produzione e
le rese agrarie erano limitati. Il divario tra i prezzi e i salari, in costante aumento,
come abbiamo visto, era spesso sufficiente a garantire guadagni ai coltivatori più
ricchi, che non erano quindi sollecitati a effettuare investimenti per introdurre
migliorie (attrezzi agricoli più efficienti, maggior uso di concimi, colture più pregiate
o più redditizie, avvicendamenti tra la coltura di cereali e quella di altre piante,
e così via).
La produttività della terra restava dunque assai modesta: si è calcolato che ogni chicco di grano
seminato non ne produceva in media più di 4 o 5, con grosse variazioni da un anno
all’altro e da una regione all’altra. Si continuava a recuperare la fertilità della
terra lasciandola riposare per uno o due anni dopo ciascun raccolto. La riduzione
del numero di capi di bestiame faceva diminuire la disponibilità di concime. E anche
gli attrezzi agricoli più importanti, come l’aratro, non subirono in questo periodo
alcun miglioramento. Perché questa situazione stagnante si mettesse in movimento bisognava
attendere che dalle città partisse una domanda di prodotti agricoli più consistente,
differenziata e regolare.
1.3. Il sistema manifatturiero
Se le campagne garantivano l’approvvigionamento di derrate alimentari, era nelle città
che aveva luogo la produzione manifatturiera, centrata sulle botteghe e le associazioni
di mestiere. Il sistema tradizionale delle corporazioni era nato per riunire tutti gli artigiani che svolgevano una stessa attività, e regolamentare
il loro lavoro. Lo scopo era di garantire che tra gli addetti a ciascun mestiere si
salvaguardasse una certa omogeneità, ostacolando fenomeni di concentrazione della ricchezza in poche mani. Perciò gli statuti delle corporazioni stabilivano
le regole per l’accesso al mestiere (per esempio quanto tempo dovesse durare l’apprendistato
e cosa bisognasse fare per diventare maestri), e spesso fissavano anche quale dovesse
essere il numero massimo di lavoranti per ciascuna bottega, quanto dovessero essere
pagati, se fosse consentito impiegare donne, e così via. In generale, inoltre, gli
statuti contenevano norme relative alla qualità dei prodotti (per esempio lunghezza,
larghezza e peso di ogni pezza di tessuto).
All’inizio del ’500 le più fiorenti città d’Europa erano anche importanti centri manifatturieri
e la loro prosperità era appunto legata allo sviluppo delle manifatture. L’attività
più diffusa e importante era senza dubbio quella tessile, che impiegava un altissimo numero di uomini e donne, addetti soprattutto alla lavorazione
della lana. In questo settore il primato industriale era detenuto dalle città dell’Italia
centro-settentrionale, come Firenze, Milano, Bergamo, che utilizzavano la lana delle
pecore allevate in Italia meridionale o in Spagna. Ma l’industria laniera era presente
anche nei Paesi Bassi e in Inghilterra, dove si affermò la produzione di panni di
lana di nuovo tipo, più leggeri e meno costosi, destinati ad avere grande successo
e a imporsi su tutti i mercati europei. Le industrie italiane, già messe in difficoltà
dalle guerre che stavano interessando la penisola, accusarono il colpo.
Dopo la metà del secolo, con il ritorno della pace, esse si dimostrarono in grado
di risollevarsi rapidamente, riconvertendosi alla lavorazione, più pregiata, della
seta, e spesso anche impiegando manodopera femminile, più flessibile e più economica. Con i velluti, i damaschi, i broccati di seta si
toccavano le vette della produzione di lusso, in cui primeggiavano ancora una volta
città come Genova, Venezia, Lucca, e la stessa Firenze. E poi Milano, che si concentrò
nella produzione di tessuti «auroserici», cioè di seta intessuta di fili d’oro, e
Bologna, che si specializzò nella produzione di organzini e di veli.
In aggiunta a queste industrie tradizionali, nel XVI secolo sorsero però anche nuovi
settori, che sfruttavano nuove tecnologie. Nell’Europa del tardo Medioevo l’industria
della carta era, per esempio, altrettanto affermata di quella tessile, ma fu proprio nel ’500
che essa ricevette un potentissimo impulso dalla diffusione della stampa a caratteri
mobili, messa a punto da Gutenberg a metà ’400. Venezia divenne la capitale europea dell’arte della stampa, ma anche
Lione, Norimberga, Anversa furono sede di importanti industrie tipografiche. Con ciò
si determinò una profonda trasformazione del libro da oggetto unico, e quindi raro
e di lusso, a manufatto riproducibile, e quindi alla portata di un largo numero di
consumatori.
L’aumento dei prezzi, di cui abbiamo parlato a proposito delle derrate alimentari,
interessava anche i prodotti manifatturieri: la produzione industriale era quindi
sostenuta anch’essa da una congiuntura favorevole. Ma a differenza della domanda di
grano, che non poteva scendere al di sotto di una certa soglia, ed era quindi «rigida»,
la domanda di manufatti era estremamente «elastica» e si contraeva violentemente a
ogni rialzo dei prezzi agricoli. Queste brusche fluttuazioni del mercato danneggiavano
fortemente gli artigiani più deboli che, non riuscendo a vendere i loro prodotti,
si caricavano di debiti. Alla lunga, essi si trovavano costretti a rinunciare al proprio
status di lavoratori indipendenti e a trasformarsi in lavoranti alle dipendenze di
imprenditori più ricchi e fortunati.
All’interno del sistema manifatturiero si determinarono quindi forti cambiamenti e
acute polarizzazioni della ricchezza, che fecero perdere alle corporazioni il loro
originario carattere egualitario. A questo si aggiunga che non tutta la produzione
manifatturiera avveniva sotto il controllo delle associazioni di mestiere. I sobborghi
delle città e le campagne erano infatti liberi dalla loro giurisdizione. E libere
dalla giurisdizione delle corporazioni erano in genere anche le donne, e altre fasce
particolari di popolazione. Gli imprenditori più ricchi cominciarono quindi a impiegare
nella produzione questo tipo di manodopera meno costosa, fornendo loro gli attrezzi
e la materia prima, e occupandosi poi della commercializzazione del prodotto finito:
era il putting-out system o manifattura domestica, che dominò la scena europea fino alla rivoluzione industriale.
1.4. Commercio e finanza
L’organizzazione del commercio, nell’Europa del ’500, merita altrettanta attenzione
di quella della produzione agricola o manifatturiera. Studi recenti hanno infatti
mostrato come la circolazione delle merci fosse in larga parte affidata a mercanti
itineranti, che si spostavano di località in località trasportando le loro mercanzie e raggiungendo
così anche le regioni più remote del continente. Il cuore commerciale di ogni città
era, ovviamente, il mercato, settimanale o giornaliero che fosse. Esso era in genere situato al centro dello
spazio urbano cui conferiva il suo carattere specifico, tanto che secondo lo storico
francese Braudel non esiste città senza mercato e non esiste mercato senza città.
Era qui che arrivavano i prodotti del contado e avvenivano gli scambi più importanti,
quelli che le autorità volevano regolare e controllare. Ma attività commerciali si
svolgevano anche nelle botteghe degli artigiani e nei magazzini dei mercanti.
Il commercio ambulante da un lato entrava in concorrenza con queste strutture più
stabili, dall’altro però si integrava con esse e le utilizzava come punto di appoggio.
Molti mercanti «sedentari» erano infatti parenti o soci di quelli itineranti e facevano
parte, come loro, di una vasta rete che poteva estendersi dalla Spagna alla Germania,
dall’Italia alle Fiandre. I commercianti ambulanti che, è bene ricordarlo, giravano
a piedi o a cavallo, portavano di preferenza merci non deperibili e poco voluminose,
come pentole, pettini, fazzoletti, almanacchi, aghi e filo da cucire, forbici, e così
via. E tuttavia nei loro fardelli era possibile trovare anche limoni e altri agrumi.
Muovendosi tra i mercati mediterranei e quelli dell’Europa continentale, raggiungendo
la Scandinavia, l’Europa orientale, la Russia, essi permettevano anche alle più remote
campagne di essere ogni tanto raggiunte dai prodotti delle manifatture urbane.
Molte delle caratteristiche appena descritte si ritrovavano nel grande commercio internazionale, quello che muoveva spezie, tessuti preziosi e denaro. Anche i grandi mercanti della
Germania meridionale o dell’Italia centro-settentrionale si avvalevano di reti di
parenti e di soci, pronti a muoversi da Lucca ad Anversa o da Augusta (Augsburg) a
Madrid e a trascorrere lunghi periodi lontani da casa. E fu proprio all’interno di
queste comunità mercantili che si misero a punto nuovi strumenti societari e finanziari,
come la società in accomandita e la lettera di cambio, che consentiva di effettuare
un pagamento in una città e farlo riscuotere in un’altra.
A queste società private, su base familiare, cominciarono inoltre ad aggiungersi,
soprattutto nella seconda metà del secolo, compagnie mercantili «privilegiate», cioè dotate di «privilegi» conferiti da un’autorità cittadina o statale, che di
solito consistevano nel diritto di esercitare in esclusiva il commercio di un determinato
prodotto o in una determinata area. Gli esempi più famosi, come quello dell’inglese
Compagnia delle Indie, furono il risultato finale di un processo iniziato molto tempo prima. Le prime compagnie
erano infatti associazioni temporanee, costituite appositamente per un’impresa e destinate
a sciogliersi al momento della sua conclusione, dopo aver distribuito gli utili tra
i soci, in proporzione al capitale inizialmente investito. Esempi di questo tipo di
associazione si trovavano all’inizio del secolo in Spagna e in Portogallo, dove costituivano
la più comune forma di organizzazione dei viaggi di esplorazione e conquista dei territori
del Nuovo Mondo.
Con il passar del tempo la struttura si perfezionò, tendendo a durare più a lungo
o addirittura a diventare permanente: in Olanda, nel 1602, diverse compagnie commerciali
si associarono tra loro, dando vita alla Compagnia unificata delle Indie orientali che aveva il monopolio dei traffici con l’Oriente e funzionava ormai come una società
per azioni, distribuendo dividendi invece di restituire il capitale.
I prodotti più costosi non erano tuttavia gli unici a muoversi sulle lunghe distanze.
Soprattutto per mare viaggiavano, infatti, anche il grano, il vino, l’olio, le fibre
tessili, il legname da costruzione. Fu anzi proprio nel ’500 che alcune regioni d’Europa,
come per esempio la Sicilia, la Polonia, o la Castiglia, si specializzarono nella
produzione di materie prime destinate al mercato internazionale, dove in cambio si acquistavano i manufatti,
più o meno di lusso, prodotti nelle città industriali.
I più ricchi mercanti cinquecenteschi trafficavano tuttavia soprattutto in denaro. E anche il denaro si muoveva. Gli scambi principali avvenivano in alcune grandi
fiere annuali (Besançon, Piacenza) dove i membri di quella che gli storici hanno definito
la «repubblica internazionale del denaro» si incontravano per effettuare le principali operazioni finanziarie. La finanza
europea del ’500 cresceva tuttavia soprattutto grazie al rapporto con i sovrani. Le
esigenze dei nuovi apparati burocratici, di cui gli Stati si andavano lentamente dotando,
e soprattutto le enormi spese di guerra facevano sì che i sovrani avessero sempre
più bisogno di denaro (per valutare le dimensioni del fenomeno basti dire che, tra
il 1500 e il 1650, le spese della corona spagnola si moltiplicarono all’incirca per
venti). Non potendo procurarselo abbastanza in fretta attraverso l’imposizione fiscale,
essi erano costretti a farselo anticipare da queste compagnie di grandi mercanti-banchieri,
che compensavano cedendo loro il diritto esclusivo a sfruttare miniere (per esempio
quelle d’argento o di rame dell’Europa centrale), a incamerare le tasse su un particolare
prodotto (per esempio il sale), oppure a esigere le imposte dirette di una determinata
regione.
La prima metà del secolo vide protagonisti i mercanti della Germania meridionale,
come i Fugger, banchieri di Carlo V. Dopo il 1550, tuttavia, essi vennero soppiantati dalla finanza
genovese, che si conquistò il posto di primo piano sulla scena europea, sempre grazie a un
rapporto privilegiato con gli Asburgo. Queste grandi compagnie finanziarie operavano
tuttavia anche con i privati, agendo da intermediari per i piccoli e medi investimenti
nel settore creditizio. Per raccogliere denaro, infatti, gli Stati, le città, le grandi
istituzioni e persino le principali famiglie nobili cominciarono a emettere titoli
di debito consolidato a tasso fisso (juros in spagnolo, rentes in francese, «luoghi di monte» in alcuni Stati italiani), che venivano gestiti e
messi in circolazione appunto da queste compagnie bancarie, le quali consentivano
di effettuare anche speculazioni finanziarie più rischiose, e più redditizie, sui
cambi tra le monete, e così via.
Anche in questo caso, per capire le dimensioni del fenomeno basti dire che gli investimenti
finanziari costituivano una quota assai rilevante della ricchezza di tutti i ceti
urbani, a eccezione dei miserabili. Il mercato del credito era tuttavia sottoposto
alle stesse brusche fluttuazioni che caratterizzavano gli altri mercati. Ciclicamente
i sovrani dichiaravano bancarotta, sospendevano cioè il pagamento dei propri debiti,
e questo provocava fallimenti a catena tra le ditte bancarie più esposte e una crisi
di fiducia nell’intero settore: la bancarotta dichiarata nel 1557 da Filippo II provocò,
per esempio, la rovina dei Fugger e danni gravissimi alla piazza finanziaria di Anversa,
che dal re di Spagna dipendeva.
1.5. Crisi economiche, pauperismo e nuove politiche sociali
Le guerre, i cattivi raccolti, le epidemie erano flagelli ricorrenti nell’Europa del
’500, e man mano che diminuiva il potere d’acquisto delle fasce medio-basse della
popolazione, i loro effetti si facevano sempre più gravi. Quando le condizioni economiche
peggioravano bruscamente, perché il raccolto era stato insufficiente o perché la domanda
di manufatti era crollata, anche gli artigiani o i contadini indipendenti, che tuttavia
vivevano prossimi alla «soglia critica», potevano precipitare nella povertà. A questi
poveri che si definiscono congiunturali, perché le loro condizioni disagiate dipendevano da una congiuntura sfavorevole,
si aggiungevano poi i cosiddetti poveri strutturali, vale a dire coloro che erano in ogni caso inabili a procurarsi il necessario per
vivere e dovevano dunque ricorrere alla carità del prossimo: vedove, orfani, vecchi,
malati, invalidi...
Poveri di questo tipo erano naturalmente sempre esistiti, alimentando le schiere dei
mendicanti, e la Chiesa, le associazioni professionali, le confraternite, i privati
stessi si erano sempre posti il problema di assisterli con elemosine, elargizioni
di cibo e altro. Date le loro condizioni, si riteneva inoltre che avessero il diritto
di fare appello alla carità dei buoni cristiani e non destava scandalo che mendicassero. L’atteggiamento di quegli
stessi buoni cristiani cominciò tuttavia a irrigidirsi nel momento in cui il numero
dei mendicanti che affollavano le strade cittadine e i sagrati delle chiese prese
ad aumentare. A intervalli più o meno regolari, soldati sbandati, lavoratori temporaneamente
disoccupati, contadini scacciati dalle loro terre andavano ad aggiungersi ai poveri
tradizionali, destando l’irritazione e la paura dei cittadini benestanti e delle autorità.
Crisi economiche particolarmente violente, che colpirono l’Europa occidentale tra
il 1520 e il 1530, e furono in molti casi accompagnate da rivolte e sommosse, costituirono
quindi l’occasione per un generale ripensamento della politica della carità. Alcune
città, come Lione o Venezia, pensarono di risolvere il problema ricorrendo al sistema abituale dei lavori pubblici,
cioè impiegando i disoccupati nell’ampliamento delle mura urbane o nel potenziamento
dell’arsenale navale.
Le nuove allarmanti dimensioni del fenomeno indussero altre autorità cittadine a cercare
di risolvere la questione in maniera più radicale. Fu così che, anche seguendo l’opinione
di letterati come Thomas More, Erasmo da Rotterdam e Juan Luis Vives, varie città si misero a elaborare piani che prevedevano il divieto di mendicare,
la centralizzazione delle elemosine, la loro distribuzione controllata ai soli «veri
poveri», l’espulsione degli immigrati e varie forme di lavoro coatto. A queste misure si aggiungevano l’individuazione o la vera e propria costruzione
di luoghi di reclusione dove internare i mendicanti per toglierli dalle strade e costringerli
a lavorare. I poveri si trasformavano così in manodopera a basso costo, utile a potenziare le manifatture esistenti o a crearne di nuove.
1.6. La fine dell’espansione economica e il declino della popolazione
Una gravissima carestia, seguita da epidemie, colpì gran parte dell’Europa nel 1590. Fu il primo segnale
di un cambiamento di lunga durata. Il tasso di crescita demografica, che fino allora
era stato sostenuto, cominciò invece a rallentare e in alcune regioni si fermò del
tutto. Questo innescò una serie di reazioni a catena. Nei decenni precedenti, l’aumento
della domanda di prodotti agricoli aveva stimolato alcune trasformazioni nelle campagne:
nuove terre erano state messe a coltura e, dove le condizioni lo permettevano, si
erano introdotte nuove produzioni intensive (come quella dell’olio, per esempio),
destinate ai mercati urbani. La crescita della domanda aveva anche favorito un miglioramento
nella commercializzazione dei prodotti agricoli, tanto che l’Europa occidentale poteva
ormai ricevere regolarmente grano dal Baltico.
Questo processo di espansione produttiva era però estremamente fragile e bastarono
pochi anni di sovrapproduzione e di conseguente caduta dei prezzi a metterlo in crisi.
Tra il 1619 e il 1622 alle difficoltà della produzione agricola si aggiunsero quelle
del commercio internazionale: il valore globale delle merci che dall’America meridionale
giungevano a Siviglia subì un tracollo, e una contrazione dei traffici è riscontrabile
anche nei dati che riguardano lo stretto di Sund, tra il Baltico e il Mare del Nord
(vale a dire tra l’Europa orientale e quella nord-occidentale), o in quelli relativi
alle entrate dei dazi veneziani.
Questo insieme di indicatori negativi ha fatto molto discutere gli storici. Per alcuni
si trattò di un chiaro esempio di crisi malthusiana derivante dal fatto che la popolazione europea aveva raggiunto il massimo livello
che le risorse allora disponibili potevano consentire. Il maggiore sfruttamento cui
furono sottoposte le terre, per soddisfare la crescente domanda di cereali e altri
prodotti, ne danneggiò la fertilità, provocando un peggioramento dei raccolti. Il
pane e gli altri generi alimentari divennero quindi più rari e costosi e il conseguente
deterioramento delle condizioni di vita facilitò il diffondersi di epidemie e ne aggravò
le conseguenze, provocando prima una stasi e poi una diminuzione della popolazione
[parola chiave: Crescita demografica].
Altri studiosi hanno però dimostrato che raramente lo scoppio di una pestilenza era
da ricollegarsi alla malnutrizione, e che gli effetti delle epidemie erano molto più
complessi di quanto non si credesse fino a poco tempo fa. Le difficoltà economiche,
conseguenti alla chiusura dei mercati e alla caduta della domanda di generi di non
primissima necessità, spingevano i giovani di ambo i sessi a rinviare il matrimonio
e quindi a iniziare più tardi a fare figli. Nella nostra società caratterizzata dal
controllo delle nascite questo è ininfluente, ma nell’Europa presettecentesca, dove
ogni coppia metteva al mondo un figlio all’incirca ogni venti mesi, il rinvio generalizzato
del matrimonio aveva conseguenze rilevanti sull’insieme della popolazione. Inoltre
le epidemie non colpivano uniformemente tutte le classi di età, ma infierivano particolarmente
sui bambini, oltre che sugli anziani, e a volte anche sui giovani in età riproduttiva.
Quando erano i bambini o i giovani a essere particolarmente colpiti, i vuoti che così
si aprivano nella popolazione ne compromettevano le capacità riproduttive, rendendo
molto più lento il recupero. Per i sopravvissuti, tuttavia, questo feroce meccanismo
aveva spesso effetti benefici, soprattutto nelle campagne, dove le aziende agrarie
frammentate dalle divisioni ereditarie, che si susseguivano a ogni passaggio di generazione,
si potevano ricomporre in unità più funzionali. Sia in campagna sia in città, inoltre,
la manodopera, divenuta più rara, acquistava maggiore potere contrattuale e i salari
recuperavano potere d’acquisto.
Parola chiaveCrescita demografica
Quello tra crescita della popolazione e sviluppo delle risorse è un rapporto cruciale
per la sopravvivenza di qualsiasi gruppo animale, compresi gli esseri umani. Per lungo
tempo l’ottica con cui si è guardato a questi fenomeni è stata quella del filosofo-economista
inglese Thomas Robert Malthus (1766-1834). Nel suo Saggio sul principio di popolazione egli sosteneva che mentre la popolazione tende ad aumentare secondo una progressione
geometrica (1, 2, 4, 8, 16, 32...), le risorse invece crescono con semplice proporzione
aritmetica (1, 2, 3, 4, 5, 6...). Nel corso degli anni, si apre quindi un crescente
divario tra il numero di bocche da sfamare e le disponibilità alimentari – mentre
in parallelo peggiorano le condizioni di vita della popolazione – finché non si supera
il punto critico che porta alla catastrofe demografica, sotto forma di carestie ed
epidemie. Le carestie, provocate dall’eccessivo sfruttamento della terra, costringono
infatti la popolazione ad alimentarsi in maniera insufficiente e quindi la indeboliscono,
rendendola più vulnerabile alle malattie, finché un morbo particolarmente aggressivo
non interviene a uccidere un altissimo numero di persone. In un primo periodo, i sopravvissuti
beneficiano di condizioni di vita estremamente vantaggiose, ma dopo qualche tempo
si innesca di nuovo la spirale perversa e la «forbice» malthusiana tra popolazione
e risorse riprende ad allargarsi. Tra i freni preventivi in grado di impedire o rallentare
la formazione del divario tra popolazione e risorse, Malthus individua la tendenza
a rinviare il matrimonio e l’incidenza non trascurabile del celibato definitivo. Diffondendosi
in tutti gli strati della società, queste due pratiche sociali riescono a tenere basso
l’indice di natalità e quindi a contenere l’aumento della popolazione.
La teoria malthusiana ha avuto grande influenza sul pensiero sociale ed economico
dell’Europa contemporanea, e anche molti storici l’hanno utilizzata per spiegare alcuni
fenomeni del passato. Lo storico francese Le Roy Ladurie ha per esempio sostenuto
che le tensioni sociali e politiche dei tre secoli dell’età moderna (XVI-XVIII) sono
in parte spiegabili con le difficoltà suscitate dalla pressione demografica. Nei periodi
di aumento della popolazione, infatti, la crescente offerta di manodopera fa diminuire
i salari, e quindi determina un peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori.
Allo stesso tempo aumenta lo spezzettamento delle aziende agricole o artigianali,
perché ad ogni passaggio di generazione bisogna suddividere il patrimonio di famiglia
tra un crescente numero di eredi, finché la maggioranza delle famiglie non può più
contare sull’autosufficienza. Di qui le proteste e le rivolte che costellarono la
storia europea del periodo. La ricerca degli ultimi decenni ha però in parte sconfessato
il modello malthusiano. Gli studi epidemiologici hanno dimostrato che la peste e altre
malattie non sono particolarmente sensibili alla malnutrizione, vale a dire colpiscono
ugualmente mal nutriti e ben nutriti. Inoltre l’economista e demografa danese Ester
Boserup (1910-1999) ha sostenuto in maniera convincente che nelle società agrarie
tradizionali l’aumento della popolazione svolge spesso un ruolo di stimolo allo sviluppo
economico. È infatti la pressione della crescente domanda di generi alimentari a sollecitare
la ricerca di nuove soluzioni, incoraggiando i miglioramenti tecnologici sia nella
produzione che nella conservazione e distribuzione degli alimenti.
Sommario
Il XVI secolo fu caratterizzato da un notevole aumento della popolazione che, anche
a causa dell’immigrazione, interessò in modo particolare le città. Le cause di questo
fenomeno non sono chiare: forse un rallentamento delle epidemie, forse un abbassamento
dell’età al matrimonio.
La crescita della popolazione provocò un aumento dei prezzi dei generi di prima necessità
così forte da far parlare di una «rivoluzione dei prezzi». L’aumento della domanda
di grano e altri prodotti favorì le aziende agricole, ma la struttura agraria più
diffusa continuò a essere la signoria, che prevedeva diversi oneri a carico dei contadini,
e la produttività della terra restò assai bassa.
Un’altra conseguenza dell’aumento dei prezzi agricoli fu la diminuzione del potere
d’acquisto dei lavoratori urbani, addetti alla produzione di manufatti, all’interno
del sistema delle corporazioni di mestiere. L’aumento dei prezzi riguardò anche questo
tipo di beni urbani, ma la domanda di essi risentiva immediatamente di ogni piccolo
innalzamento dei prezzi dei prodotti agricoli, facendo precipitare nell’indigenza
anche molti artigiani indipendenti.
L’aumento della popolazione comportò anche una crescita delle attività commerciali
e, con esse, di quelle finanziarie e creditizie, anche su scalainternazionale. Si
costituirono compagnie commerciali, spesso dotate di privilegi, e in grado di ottenere
alti profitti dalle loro attività. Anche il prestito ai sovrani, benché rischioso,
fu spesso assai redditizio.
La crescita della popolazione, non adeguatamente sostenuta da un aumento delle risorse
disponibili, generò un aumento della povertà che, a sua volta, attrasse l’attenzione
di molti governi cittadini, preoccupati di mantenere l’ordine. Furono così creati
i primi istituti di assistenza ai poveri che svolgevano contemporaneamente un ruolo
di assistenza e di repressione.
Alla fine del ’500 una grave crisi di mortalità diede il via a un rovesciamento della
tendenza alla crescita demografica. Anche qui le cause non sono ben note, ma è probabile
che sia intervenuto un innalzamento dell’età al matrimonio.
Bibliografia
In generale, su tutti i problemi affrontati in questo capitolo: Storia economica e sociale del mondo, a cura di P. Léon, vol.1/2, Le origini dell’età moderna, 1300-1580, Laterza, Roma-Bari 1981; C.M. Cipolla, Storia economica dell’Europa preindustriale, Il Mulino, Bologna 1990; Paolo Malanima, Economia preindustriale: mille anni: dal 9. al 18. secolo, B. Mondadori, Milano 1997.
Sull’evoluzione demografica: M. Reinhard-A. Armengaud-J. Dupâquier, Storia della popolazione mondiale, Laterza, Bari 1971; M. Livi Bacci, Storia minima della popolazione del mondo, Loescher, Torino 19935
Sulla signoria rurale: R. Ago, La feudalità nell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 19982.
Sul commercio, l’industria manifatturiera e la finanza: Storia economica Cambridge, vol. 4, L’espansione economica dell’Europa nel Cinque e Seicento, a cura di E.E. Rich e C.H. Wilson, Einaudi, Torino 1975; vol. 5, Economia e società in Europa nell’età moderna, a cura di E.E. Rich e C.H. Wilson, Einaudi, Torino 1978; F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), vol. II, I giochi dello scambio, Einaudi, Torino 1981.
Sul pauperismo e le politiche sociali: J.-P. Gutton, La società e i poveri, Mondadori, Milano 1977; B. Geremek, La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Laterza, Roma-Bari 1986.
Sul ruolo delle donne: M.E. Wiesner, Le donne nell’Europa moderna, Einaudi, Torino 2003, di cui si segnala l’Introduzione all’edizione italiana di A. Groppi.
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