Edizione: 2019, VI rist. 2021 Pagine: 744 Collana: Manuali di base [64] ISBN carta: 9788859300427 ISBN digitale: 9788858135730 Argomenti: Storia: opere generali, Storia contemporanea
Fra le molte periodizzazioni possibili per segnare il problematico termine a quo della storia contemporanea, questo manuale adotta l’ondata rivoluzionaria del 1848 – evento senza dubbio epocale a livello europeo, e avvertito come tale anche dai contemporanei – per raccogliere in un unico volume l’intera materia che comunemente viene ricompresa in questa disciplina. È una scelta che ha il vantaggio di includere in una trattazione organica problemi ed eventi imprescindibili per la comprensione del mondo contemporaneo, a cominciare da quelli relativi alla realizzazione dell’unità italiana. Questa nuova edizione si presenta ora in una forma decisamente rinnovata e accresciuta. La parte sul Novecento, in particolare, è stata ampliata e articolata in un maggior numero di capitoli di taglio essenzialmente tematico, per meglio dar conto delle trasformazioni degli ultimi decenni.
Edizione: 2021 Pagine: 744 Collana: Manuali di base ISBN: 9788859300427
Gli autori
Giovanni Sabbatucci
Giovanni Sabbatucci ha insegnato Storia contemporanea nelle Università di Macerata e di Roma La Sapienza. Per Laterza ha curato , con Vittorio Vidotto, una Storia d'Italia in 6 volumi (1994-1999) ed è autore, tra l'altro, di Il riformismo impossibile (1991), Il trasformismo come sistema (2003) e Partiti e culture politiche nell'Italia unita (2014).
Vittorio Vidotto ha insegnato Storia contemporanea nell'Università di Roma La Sapienza. Per Laterza ha curato Roma Capitale (2002) e Atlante del Ventesimo secolo (4 volumi, 2011) ed è autore, tra l'altro, di Italiani/e (2005), Roma contemporanea (n.e., 2006), 20 settembre 1870 (2020) e Storia moderna (con Renata Ago, n.e., 2021).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.
Premessa all’edizione 2019
Questa nuova edizione del volumeIl mondo contemporaneomantiene i caratteri strutturali di quelle che l’hanno preceduta, ma presenta numerose novità rispetto a un’opera che, derivata da un testo scolastico, ha poi conosciuto una larga circolazione soprattutto come testo universitario. Nuova è la scelta del termine a quo: si parte, anziché dalle rivoluzioni del ’48, dal quadro socio-economico e culturale dell’Europa di metà Ottocento, per arrivare fino ai nostri giorni.
Cambiano inoltre, rispetto alle edizioni precedenti, gli equilibri interni della narrazione: si è cercato infatti, com’è nella tradizione di quest’opera, non solo di allargare lo spazio dedicato agli eventi e alle problematiche dell’ultimo trentennio, oltre la fine del “secolo breve”, ma anche di dar conto, fin dai primi capitoli, di nuovi contributi e approcci storiografici.
Anche le note bibliografiche, naturalmente, sono state aggiornate, così come le cartine
e le “parole chiave”.
G.S. V.V.
1. Borghesia e classe operaia
1.1. I caratteri della borghesia
Le rivoluzioni del ’48-49 si erano concluse con un totale fallimento. Nessuno degli
esperimenti democratici aveva retto all’urto dell’ondata restauratrice. I vecchi sovrani
erano tornati sui loro troni dappertutto, salvo che in Francia (dove però l’istituto
monarchico era stato ripristinato sotto altra forma). Le istituzioni rappresentative
erano state quasi ovunque cancellate o soffocate dal ritorno dei metodi assolutistici.
Al clima di generale conservatorismo e alla sostanziale staticità delle strutture
politiche faceva però riscontro un processo di profondo mutamento della società: un
processo che aveva per principali protagonisti i ceti borghesi, ma che coinvolgeva
anche, sia pure più lentamente, le classi proletarie.
Tra il 1850 e il 1870 la borghesia europea conobbe una stagione di crescita e di affermazione.
Nonostante fosse ancora condizionata dalla persistenza delle vecchie gerarchie sociali
e fosse pesantemente sacrificata nella distribuzione del potere, la borghesia riuscì
in questo periodo a presentarsi come portatrice e depositaria degli elementi di novità
e trasformazione – lo sviluppo economico, il progresso scientifico –, a far valere la sua influenza e le sue idee-guida: il merito individuale, la libera iniziativa, la concorrenza, l’innovazione
tecnica.
Le stratificazioni della borghesia
Chi erano i protagonisti di questa fase della storia europea, che non a torto è stata
definita come «età della borghesia»? Allora come oggi il termine “borghesia” serviva
a definire una gamma molto ampia di figure e posizioni sociali. Al vertice si collocavano
i magnati dell’industria e della finanza, che aspiravano ad assumere gli stili di
vita tipici dell’aristocrazia e, dove ciò fosse possibile, a mescolarsi con essa grazie
soprattutto ad accorte politiche matrimoniali che univano i privilegi del denaro a
quelli del lignaggio. Al di sotto si collocavano i gruppi e le categorie sociali che
più propriamente si possono definire borghesi. Innanzitutto i ceti “emergenti”, la
cui fortuna era legata allo sviluppo dell’industria e del commercio: imprenditori
e dirigenti d’azienda, mercanti e banchieri. Accanto a loro, la borghesia più tradizionale:
quella che traeva i suoi proventi dalla terra, quella che esercitava le professioni (avvocati, medici, ingegneri) e quella che occupava i gradi medio-alti della burocrazia
statale. Un gradino più in basso si situavano impiegati e insegnanti, piccoli commercianti
e piccoli professionisti: insomma quell’area dai confini non ben definiti che già
allora veniva indicata come ceto medio o piccola borghesia. Nel complesso, la borghesia costituiva una fascia piuttosto
ristretta della popolazione: in Gran Bretagna, intorno al 1870, i borghesi in senso
lato non erano più del 20%; e la percentuale scendeva al 2% circa se si prendevano
in considerazione solo gli strati urbani superiori (senza contare, dunque, il ceto
medio e la borghesia agraria).
Lo stile borghese
Nonostante la varietà delle sue componenti, la borghesia europea tendeva a esprimere
una propria cultura e un proprio stile di vita, i cui tratti essenziali si possono
ricondurre a un modello unitario. Lo stile di vita borghese doveva essere visibile
nei segni esteriori. Ad esempio, nell’abbigliamento, cui uomini e donne delle classi superiori dedicavano molta cura e che rappresentava,
assai più di quanto accade oggi, il principale segno distintivo di una condizione
sociale. Grandi cure erano destinate anche all’arredamento. Le abitazioni borghesi
non avevano certo lo sfarzo né l’ampiezza dei palazzi aristocratici. Requisiti tipici
della casa borghese erano piuttosto la solidità e la razionalità senza sprechi degli
spazi e delle funzioni domestiche. All’interno, però, l’abbondanza degli addobbi,
dei quadri e dei soprammobili, l’attenzione al particolare e il gusto della decorazione
rivelavano l’esigenza di tradurre il successo e la ricchezza in simboli visibili e
tangibili.
Accanto a questa esigenza – e nonostante l’adozione dei modelli aristocratici, presenti
soprattutto negli strati superiori – i valori fondamentali dell’etica e della cultura
borghese restavano quelli tradizionali. L’austerità, la moderazione, la propensione
al risparmio, la capacità di reprimere gli istinti erano le virtù capitali per il
borghese-tipo, quelle che gli permettevano di legittimare moralmente la propria posizione
nella società. Questa componente moralistica si rifletteva in particolare nella struttura
della famiglia: una struttura patriarcale basata sull’autorità del capofamiglia e
sulla subordinazione della donna. Nella società borghese, la donna era generalmente esclusa dalle attività lavorative
anche se aveva un ruolo decisivo nella sfera privata della tutela della famiglia e
della cura dei figli.
Morale e rispettabilità
Come si giustificava l’intransigenza borghese in materia di morale familiare e sessuale?
Proprio in quanto protagonista di un’ascesa sociale recente, priva di una consolidata
accettazione, la borghesia doveva costruire e difendere un’immagine di rispettabilità
(che non derivava, come per gli aristocratici, dall’appartenenza a un ordine privilegiato)
e doveva quindi dotarsi di quei saldi princìpi morali che ne giustificavano la nuova
posizione sociale.
In realtà, non tutti i borghesi praticavano scrupolosamente queste virtù: le cronache
della borghesia ottocentesca pullulano di speculatori disonesti, di avventurieri senza
scrupoli, di individui dalla doppia moralità. Ma l’idea secondo cui solo certe doti
morali potevano garantire il mantenimento o il miglioramento delle posizioni acquisite
era largamente accettata (e difesa spesso da una larga dose di ipocrisia).
La povertà come peccato
Ne discendeva la convinzione, ampiamente condivisa e ripetutamente enunciata, secondo
cui chi occupava i gradini inferiori della scala sociale era colui che di quelle doti
era sprovvisto. In altre parole, la povertà era un difetto morale o quanto meno il frutto di colpe ataviche. I poveri rimanevano poveri perché non
conoscevano l’arte del risparmio e non erano in grado di dominare i loro bassi istinti.
Così veniva spiegata, fra l’altro, la diffusione tra le classi subalterne della delinquenza,
dell’alcolismo, della prostituzione. Al contrario, si pensava che chiunque possedesse
accortezza, moderazione e capacità di sacrificio potesse raggiungere i traguardi più
ambiziosi, in termini di ricchezza e di rispettabilità.
1.2. La cultura del positivismo
Ottimismo borghese e progresso scientifico
Profondamente convinto della validità dei suoi princìpi e fiducioso nelle proprie
capacità, il borghese europeo della seconda metà dell’800 era anche animato da una
illimitata certezza nel progresso generale dell’umanità. Questo diffuso ottimismo poggiava soprattutto su due pilastri:
lo sviluppo economico [cfr. 1.3] e le conquiste della scienza. Negli anni 1850-70, la chimica, la fisica, la biologia
e tutte le scienze della natura conobbero importanti progressi teorici e tornarono
a occupare, come nell’età dell’Illuminismo, una posizione di preminenza nell’ambito
della cultura europea.
Il positivismo
Sui progressi della scienza si fondò essenzialmente una nuova corrente intellettuale,
il positivismo, che cominciò ad affermarsi verso la metà del secolo e venne poi allargando
la sua influenza fino a contrassegnare una lunga stagione della cultura occidentale
e diventare una sorta di mentalità diffusa, un metodo generale di ricerca e di interpretazione
della realtà. Il positivismo fu prima di tutto un indirizzo filosofico che considerava la conoscenza scientifica – quella basata su dati “positivi”, cioè
reali, oggettivi – come l’unica valida e applicava i metodi delle scienze naturali
a tutti i campi dell’attività umana, dall’arte all’economia, dalla psicologia alla
politica.
Il pensatore francese Auguste Comte (1798-1857) fu il fondatore della nuova filosofia
e il primo a tracciare i lineamenti di una “scienza della società”, ossia della moderna
sociologia. In seguito il filosofo inglese Herbert Spencer (1820-1903) ne elaborò un’interpretazione in chiave evoluzionistica,
fondata sulla convinzione che mondo sociale e mondo biologico obbedissero a leggi
analoghe, che trovò largo seguito soprattutto nel mondo anglosassone. Dal settore
degli studi filosofici il positivismo venne allargando la sua influenza a tutti gli
altri campi del sapere. Fra i maggiori esponenti della cultura positivista si annoveravano
infatti studiosi di economia e di politica, giuristi, storici, letterati e soprattutto
scienziati.
Il rappresentante più significativo e più noto del nuovo spirito “positivo” fu appunto
uno scienziato: il grande naturalista inglese Charles Darwin (1809-1882). In un’opera
dal titolo L’origine delle specie, uscita nel 1859 e diventata subito celebre, Darwin formulò, sulla base di lunghe
osservazioni scientifiche sul mondo animale, una compiuta teoria dell’evoluzione,
destinata a divenire pietra miliare degli studi biologici successivi. Secondo questa
teoria, la natura è soggetta a un incessante processo evolutivo, guidato da un meccanismo
di selezione naturale che determina la sopravvivenza (e la riproduzione) degli individui
meglio attrezzati per reagire alle sollecitazioni dell’ambiente e la scomparsa degli
elementi meno adatti. L’uomo stesso, secondo Darwin, non è che il risultato dell’evoluzione
di organismi più elementari, l’ultimo anello di una catena biologica che procede dai
protozoi fino ai mammiferi più complessi. La teoria evoluzionistica contraddiceva
le credenze religiose sulla creazione dell’uomo direttamente ad opera della divinità
e forniva gli elementi per una storia del genere umano radicalmente alternativa a quella offerta dalle Sacre Scritture. In questo modo il darwinismo si
inseriva nel quadro più generale della cultura “positiva”, che tendeva a liberare
l’uomo da ogni forma di condizionamento soprannaturale, a immergerlo completamente
nel mondo della natura, a sostituire le certezze delle religioni rivelate con quelle
delle scienze esatte.
Il darwinismo sociale
Se da un lato la teoria dell’evoluzione si prestava a essere interpretata in chiave
ottimistica, come prova della possibilità di progresso indefinito della specie umana,
dall’altro il principio della selezione naturale poteva essere utilizzato per consacrare
il diritto del più forte nei rapporti fra gli individui, tra le classi e anche fra
gli Stati. Una concezione divenuta popolare alla fine dell’800, anche per le sue implicazioni
razziste, e definita dai suoi oppositori come «darwinismo sociale».
1.3. Lo sviluppo dell’economia
All’ascesa della borghesia corrispose, tra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli
anni ’70, un periodo di forte espansione economica non solo nel nuovo settore industriale,
ma anche in quello tradizionale dell’agricoltura: entrambi si avvantaggiarono dello
sviluppo delle ferrovie, che favorirono la circolazione e lo scambio delle merci e
aprirono anche le campagne alla penetrazione dell’economia di mercato.
I fattori dello sviluppo
Diversi sono gli elementi portanti che concorrono a sostenere questa fase di sviluppo.
Alcuni sono nuovi, altri rappresentano l’applicazione diffusa o il perfezionamento
di fattori già presenti soprattutto in Gran Bretagna.
Sul piano produttivo questa è l’età del ferro (o più precisamente della ghisa) e del
carbone, e la macchina a vapore costruita in ferro e alimentata a carbone vi svolge
un ruolo da assoluta protagonista: sia come forza motrice nelle fabbriche, che abbandonano
la ruota idraulica e si convertono alla meccanizzazione alimentata dal vapore, sia
come locomotiva nelle ferrovie e come motore per la navigazione [cfr. 1.4]. Fra il 1850 e il 1870, la potenza in cavalli vapore delle macchine fisse per l’industria
crebbe di tre volte in Gran Bretagna, di cinque volte in Francia, di quasi dieci volte
in Germania. Questi dati suggeriscono che lo sviluppo economico avvantaggiava le “nuove”
potenze industriali – la Francia del Secondo Impero e la Germania in via di unificazione
– consentendo loro di ridurre il divario che le separava dalla Gran Bretagna.
Le nuove normative e il libero scambio
Nell’Europa centro-orientale, dove più forti erano le sopravvivenze dell’antico regime,
furono smantellati gli ordinamenti corporativi che regolamentavano l’esercizio dei
mestieri ostacolando la mobilità del lavoro e l’innovazione tecnologica. Furono definitivamente
abrogate le vecchie leggi (mai seriamente applicate) che proibivano il prestito a
interesse. A questa larga liberalizzazione, risultata dalla rimozione dei vincoli
giuridici, si affiancava la diffusione del libero scambio. Nel giro di pochi anni
caddero le numerose barriere che si frapponevano alla libera circolazione delle merci:
dazi interni e soprattutto ai confini fra gli Stati. Una serie di trattati commerciali,
che prevedevano forti riduzioni delle tariffe doganali, fu stretta tra le principali
potenze europee. Il libero scambio favorì in primo luogo la Gran Bretagna che, grazie
al suo ruolo di maggiore potenza industriale e commerciale, poteva offrire i suoi
prodotti a prezzi competitivi sui mercati stranieri; ma finì col giovare anche agli
altri paesi europei, in quanto, provocando la scomparsa delle imprese meno attrezzate
per reggere alla concorrenza, favorì la modernizzazione dell’apparato produttivo.
Capitali e banche
Un ruolo decisivo giocò in questa fase lo sviluppo delle organizzazioni finanziarie.
Da un lato si moltiplicarono le società per azioni, che permettevano agli imprenditori di ridurre il rischio degli investimenti e di
sopperire al bisogno di capitale raccogliendolo fra numerosi sottoscrittori. Dall’altro
le banche assunsero una funzione decisiva nel promuovere lo sviluppo, incanalando
i capitali disponibili verso gli investimenti produttivi. Nacquero a questo scopo,
soprattutto in Francia e in Germania, “banche di investimento” (o “banche d’affari”),
la cui funzione principale non consisteva tanto nel fornire prestiti a breve termine per operazioni commerciali, quanto nel sostenere
iniziative di ampio respiro con finanziamenti a lunga durata. Fu questo il caso delle
banche di credito mobiliare sorte nella Francia del Secondo Impero o delle banche
miste tedesche, chiamate così perché svolgevano contemporaneamente due funzioni: quella
tradizionale della raccolta del risparmio e dell’offerta di credito a breve termine e quella nuova dell’investimento
a lungo termine nelle imprese industriali.
1.4. La rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni
La costruzione di linee ferroviarie, treni e navi a vapore fu certamente un prodotto
della rivoluzione industriale, ma al tempo stesso contribuì potentemente ad alimentarla.
La rivoluzione dei trasporti non ebbe solo conseguenze di ordine economico, ma influenzò
significativamente abitudini e modi di pensare della gente comune: dei borghesi che
commerciavano o viaggiavano per istruzione e per turismo, ma anche dei ceti popolari
(lavoratori che emigravano, manovali impiegati nelle costruzioni ferroviarie, contadini
che vendevano i loro prodotti sul mercato). La stessa immagine del mondo cambiò radicalmente,
com’era avvenuto ai tempi delle grandi scoperte geografiche; e l’idea di un mondo
unito, le cui parti erano legate fra loro da stretti rapporti di interdipendenza,
cominciò a farsi strada nella coscienza di molti.
La rete ferroviaria negli Stati Uniti d’America nel 1870
Il boom delle ferrovie
All’inizio degli anni ’50 esistevano in tutto il mondo circa 40 mila km di ferrovie:
15 mila negli Stati Uniti e 25 mila in Europa (di cui 11 mila nella sola Gran Bretagna).
Dieci anni dopo, l’estensione della rete ferroviaria mondiale era quasi triplicata
(110 mila km, di cui più della metà nel Nord America). La crescita continuò, con un
ritmo di poco inferiore, nei due decenni successivi, favorita dai grandi progressi
dell’ingegneria civile, che permisero di superare gli ostacoli naturali e di portare
le linee ferroviarie anche nelle zone più impervie. Nel 1871 con l’inaugurazione del
primo grande traforo delle Alpi, quello del Fréjus tra Francia e Italia, furono abbreviati
di ventiquattr’ore i collegamenti con l’Europa del Nord. Ma gli sviluppi più spettacolari
si ebbero negli Stati Uniti, dove le costruzioni ferroviarie accelerarono notevolmente
la conquista dei territori dell’Ovest: nel ’69 fu aperta la prima linea transcontinentale
da New York a San Francisco, fino ad allora raggiungibile solo via mare. Fra il 1860
e il 1880, le ferrovie penetrarono in vaste aree dei continenti extraeuropei, soprattutto
nelle colonie britanniche (India e Australia) e nell’America Latina.
La navigazione a vapore
Più lenta fu l’affermazione del vapore nel campo dei trasporti marittimi. Nell’800,
le navi a vela avevano raggiunto un notevole grado di efficienza: i clippers (velieri veloci impiegati per il trasporto transoceanico soprattutto di merci leggere
come il tè e le spezie) battevano in velocità gli steamers, battelli a vapore inizialmente azionati da grandi ruote a pale e dotati di vele
ausiliarie, appesantiti dall’esigenza di imbarcare il carbone necessario per alimentare
le macchine. Perciò solo dopo il 1860, con l’introduzione dell’elica al posto della
ruota e con la sostituzione degli scafi in legno con quelli in ferro, le navi a vapore furono potenziate e divennero decisamente competitive
in termini di velocità, oltre che di capacità di carico, soprattutto nelle rotte verso
l’Asia dopo l’apertura del Canale di Suez (1869) [cfr. 5.2] , dove i velieri non potevano manovrare.
La rivoluzione delle comunicazioni
Contemporaneamente alla rivoluzione dei trasporti, un’altra trasformazione non meno
radicale si ebbe nel campo della comunicazione dei messaggi, grazie alla diffusione
del telegrafo. Negli anni ’50 e ’60, tutti i paesi europei si dotarono di un sistema
di comunicazioni telegrafiche. Nello stesso periodo, nuove tecniche di isolamento
dei fili metallici consentirono la posa dei primi cavi telegrafici sottomarini: la
Manica fu attraversata nel 1851, l’Atlantico nel 1866.
La comunicazione dei messaggi era così svincolata per sempre dalla dipendenza dai
mezzi di trasporto e la velocità di diffusione delle notizie aumentò in modo vertiginoso.
Da allora diventò possibile concludere istantaneamente transazioni finanziarie con
paesi lontani, impartire direttive diplomatiche in tempi rapidissimi, guidare gli
eserciti da zone distanti dal fronte. Una rivoluzione nella rivoluzione si verificò
nel settore giornalistico, dove l’uso del telegrafo potenziò il ruolo delle agenzie di stampa, come la francese
Havas, la britannica Reuters, la tedesca Wolff, l’italiana Stefani (fondata nel 1853
con l’appoggio di Cavour): fornendo notizie ad altri organi di informazione – quotidiani,
riviste, ecc. –, esse divennero veicoli indispensabili per l’acquisizione e diffusione
delle notizie in tempi rapidissimi da tutto il mondo.
Comunicazioni postali e telegrafiche (1852-75)
1.5. Dalle campagne alle città
Il mondo rurale
Intorno alla metà dell’800, in tutta l’Europa continentale erano i lavoratori della
terra a costituire la grande maggioranza della popolazione attiva. Il mondo contadino
presentava tuttavia forti differenze fra Stato e Stato e fra regione e regione. La Gran Bretagna, con una popolazione agricola formata in
buona parte da lavoratori salariati, rappresentava un caso isolato. Così come un caso
limite era costituito dalla Russia, con i suoi 20 milioni e più di servi della gleba,
liberati solo nel 1861 [cfr. 3.7]. In Francia la tendenza all’aumento della piccola proprietà contadina, favorita
in parte dalla rivoluzione del 1789, continuò a manifestarsi per tutto l’800. Negli
Stati tedeschi e nei paesi dell’Impero asburgico una serie di leggi di emancipazione
emanate fra il 1815 e il 1850 aveva gradualmente abolito le ultime forme di lavoro
servile e avviato il processo di privatizzazione della terra.
Diversi furono però i beneficiari di queste trasformazioni. Nel Sud e nell’Ovest della
Germania, la scomparsa del regime feudale lasciò il posto alla piccola e media proprietà.
Nelle regioni tedesche a est dell’Elba, nonché in buona parte dell’Europa orientale,
la privatizzazione della terra andò invece a vantaggio dei grandi proprietari, mentre,
per la maggior parte dei contadini, l’emancipazione significò semplicemente il passaggio
dalla condizione di servi a quella di braccianti senza terra e non sempre comportò
la rottura dei vincoli di subordinazione agli antichi signori. Una condizione in parte
analoga, aggravata dalla scarsa produttività dei suoli, era quella in cui versavano
i contadini del Mezzogiorno d’Italia e dell’intera Europa mediterranea. La situazione
era ancora più complessa in altre zone del continente (Germania centrale, Italia centro-settentrionale,
Austria, Boemia), dove coesistevano azienda capitalistica e piccola proprietà, lavoro
salariato e mezzadria.
L’abbandono delle campagne
I progressi, peraltro limitati, realizzati dall’agricoltura europea nel periodo di
generale sviluppo economico degli anni ’50 e ’60 non valsero a modificare le condizioni
di vita delle masse contadine. Quasi dappertutto i lavoratori agricoli versavano in
condizioni di notevole disagio: i redditi erano bassi o bassissimi salvo rare eccezioni,
l’alimentazione povera, l’analfabetismo diffuso, la partecipazione alla vita politica
quasi inesistente. Dappertutto i ceti rurali costituivano l’elemento statico della società, quello più legato alle
religioni tradizionali e alle consuetudini del mondo preindustriale.
La novità più rilevante stava nel fatto che lo sviluppo industriale e la rivoluzione
dei trasporti offrivano ai lavoratori della terra maggiori possibilità di allontanarsi
dal luogo d’origine. Fra il 1840 e il 1870, milioni di lavoratori – in buona parte contadini poveri provenienti dalla Gran Bretagna e dall’Europa centrale
– lasciarono i loro paesi per andare a dissodare le terre vergini del Nord America,
dove trovarono condizioni più favorevoli e più occasioni per liberarsi dalla condanna
alla povertà. Ancora più imponente fu, nello stesso periodo, il numero di coloro che
abbandonarono definitivamente le campagne per trovare lavoro nelle città come manovali,
muratori o operai di fabbrica.
L’urbanesimo
Ebbe allora inizio quel grande processo storico che va sotto il nome di urbanesimo
e che avrebbe portato gradualmente la maggioranza della popolazione dei paesi sviluppati
a trasferirsi dalle campagne nelle città. Intorno al 1850, la grande città – intendendo
per grande città ciò che si intendeva allora, cioè un centro con almeno 100 mila abitanti
– era ancora un fenomeno molto raro. Unica eccezione, la Gran Bretagna, dove già negli
anni ’40 la popolazione urbana aveva uguagliato e superato quella rurale e dove, nel
1850, esistevano una trentina di grossi centri industriali. In Germania, invece, il
pareggio tra i residenti in città e quelli in campagna venne raggiunto solo all’inizio
del ’900, in Francia una trentina di anni dopo, in Italia solo a metà del XX secolo.
Nell’800 si moltiplicò il numero delle grandi città. Se all’inizio del secolo soltanto
Londra aveva già superato il milione di abitanti, nel 1914 ben 22 città avevano oltrepassato
quella soglia: 8 in Europa, 10 in Asia e 4 in America. Fu uno sviluppo impetuoso, stimolato in gran parte dall’espansione del commercio europeo
nel mondo: anche in Asia, infatti, crebbero soprattutto le cosiddette “città-emporio”,
ovvero i centri di scambio situati vicino alle foci di fiumi navigabili o ai terminali
di linee ferroviarie, come Canton in Cina o Calcutta e Bombay in India.
Le città in Europa e negli Stati Uniti
Alla metà dell’800 Londra, con oltre 2 milioni e mezzo di abitanti, era di gran lunga
la più grande metropoli del mondo e continuava a espandersi a un ritmo impressionante.
In Francia, nello stesso periodo, le città con più di 100 mila abitanti erano solo
sei, compresa Parigi, che superava ormai il milione. In Germania erano otto, fra cui Berlino, che raggiungeva
appena i 400 mila residenti. Solo trent’anni dopo, la situazione era molto cambiata.
In Francia e in Germania, il numero delle grandi città era più o meno raddoppiato.
Le grandi capitali si erano ampliate a dismisura: Parigi era passata da poco più di
1 a oltre 2 milioni di abitanti, Berlino da 400 mila a oltre 1 milione, mentre Londra
manteneva largamente il suo primato, superando i 4 milioni e mezzo. Alla base di questo
fenomeno c’erano cause diverse, ma strettamente legate fra loro.
In Gran Bretagna l’industrializzazione ridisegnò la geografia delle città, favorendo
lo sviluppo di piccoli centri in passato ai margini della vita economica e sociale
del paese: infatti Birmingham, Glasgow, Liverpool e Manchester avevano superato abbondantemente,
alla metà dell’800, i 200 mila abitanti mentre un secolo prima nessuna di loro oltrepassava
i 30 mila. In Francia e in Italia, invece, lo sviluppo delle città ebbe caratteri
diversi sia per le peculiarità del sistema urbano dei due paesi, sia per il più lento
sviluppo dell’industrializzazione: qui furono le città già preminenti durante l’ancien régime a registrare gli incrementi demografici più significativi, lasciando così quasi intatte
le tradizionali gerarchie urbane.
Nella seconda metà dell’800, furono soprattutto gli Stati Uniti a elaborare un nuovo
modello di sviluppo della città, con la costruzione dei grattacieli e l’espansione
dei sobborghi periferici. Questo nuovo modello era ben rappresentato da New York e
Chicago. La prima passò da poco più di 50 mila abitanti all’inizio dell’800 a 3 milioni
e mezzo nel 1900. La seconda fu protagonista di un vero e proprio boom demografico
in solo mezzo secolo: dai 5 mila residenti nel 1850 a 1.700.000 nel 1900.
L’urbanizzazione in Gran Bretagna a metà ’800
I nuovi centri della vita urbana
L’ampliamento delle dimensioni urbane e le trasformazioni delle città avevano dato
vita a nuovi centri che si affiancavano e si sostituivano a quelli tradizionali (la
cattedrale, il municipio, la piazza del mercato). Punti di riferimento essenziali
erano in primo luogo le stazioni ferroviarie, spesso costruite come grandiosi monumenti
alla modernità dell’età industriale, poi la Borsa, i grandi magazzini, il tribunale
e, nelle capitali, i palazzi dei ministeri. Attorno a questi poli si sviluppava il
quartiere degli affari, che tendeva a svuotarsi dei suoi abitanti di condizione meno
agiata e a riempirsi di uffici e di negozi.
I ceti popolari espulsi dai centri storici andavano ad addensarsi, assieme ai nuovi
immigrati, nelle grandi periferie, costruite completamente da zero o nate dall’assorbimento
e dalla trasformazione di villaggi già separati dal centro principale, come i sobborghi
che costituivano la “cintura operaia” di Parigi. Diventava sempre più netta la separazione
fra le periferie operaie, sovraffollate, malsane, prive di servizi e spesso afflitte
dal fumo delle fabbriche, e i quartieri residenziali borghesi, che erano situati in
zone più amene e cominciavano a essere provvisti di acqua corrente e di impianti di
riscaldamento centralizzato. Anche questa separazione costituiva una differenza importante
rispetto alla città tradizionale, dove ricchi e poveri coabitavano nelle stesse strade
e spesso nei medesimi edifici: i ricchi ai piani bassi, i poveri ai piani alti e nelle
soffitte.
Le infrastrutture urbane
Lo sviluppo urbano impose presto di affrontare i gravi problemi igienici e sanitari
derivanti dal sovrappopolamento che favoriva la diffusione di malattie infettive –
in primo luogo il colera e il tifo – e manteneva la mortalità a livelli molto elevati.
Dovunque fu migliorata o ricostruita la rete fognaria e l’acqua potabile divenne più
diffusa e più regolare, anche se doveva passare ancora parecchio tempo prima che la
disponibilità di acqua corrente e di servizi igienici nelle case diventasse un fatto
generalizzato.
Le autorità pubbliche cercarono anche di facilitare gli spostamenti all’interno dell’area
urbana. Le strade in terra, polverose d’estate e fangose d’inverno, furono sostituite
dal selciato. I quartieri della periferia, bui e malsicuri nelle ore notturne, furono,
come già il centro, illuminati da lampioni a gas. Attraversare la città divenne più
facile anche per chi non disponeva di mezzi privati, grazie all’organizzazione di
reti di trasporto pubbliche. Un caso unico era quello di Londra che, già negli anni
’70, aveva un efficiente sistema di ferrovie metropolitane. Ma in tutte le grandi
città, molto prima dell’avvento delle metropolitane e delle tramvie elettriche, gli
itinerari più importanti erano serviti dagli omnibus, grandi carrozze su rotaie trainate
da cavalli.
Man mano che l’area urbana si ampliava, si moltiplicavano i servizi commerciali (mercati,
botteghe, grandi magazzini), i luoghi di svago e di riunione (teatri, caffè, ristoranti),
i punti di riferimento culturali (scuole, musei, biblioteche), ma anche le istituzioni
preposte al controllo sociale: uffici comunali, posti di polizia, tribunali, carceri.
Amministrare le città
L’intervento sempre più sistematico dei pubblici poteri, statali e municipali; lo
sviluppo di più ampi apparati burocratici per il governo delle città; la creazione
di nuovi corpi di polizia sempre più numerosi e più “professionali”; la formazione
di nuovi quadri tecnici (amministratori, architetti, ingegneri) specializzati nei
problemi della convivenza urbana: tutto ciò servì a disciplinare i processi di urbanizzazione
e ad attenuarne il carattere spontaneo, talora “selvaggio”. Pur conservando al suo
interno squilibri giganteschi, la grande città tendeva a perdere il suo aspetto caotico
e si avviava a diventare un sistema organizzato e funzionale, specchio della civiltà
moderna e dei suoi progressi e al tempo stesso luogo di tutte le sue contraddizioni.
1.6. Quattro esempi di rinnovamento urbano: Parigi, Londra, Vienna e Chicago
La Parigi di Haussmann
La ristrutturazione di Parigi negli anni ’60 dell’800 fu un esempio di intervento
attuato dallo Stato, in base a un progetto consapevolmente studiato. Su incarico di
Napoleone III, il prefetto Georges-Eugène Haussmann operò in profondità sul vecchio
tessuto urbano, sventrando buona parte del centro medievale, col suo intrico di vicoli
strettissimi, e aprendo una serie di larghi viali, i boulevard, che avevano lo scopo
di rendere più piacevole e meglio percorribile il centro cittadino, ma servivano anche
a scoraggiare il ripetersi di sommosse urbane come quelle del ’48: nei grandi boulevard,
infatti, erano più facili gli spostamenti delle forze di polizia ed era impossibile
la costruzione di barricate. L’opera di Haussmann non si limitò alla risistemazione
della rete viaria: nell’arco di un ventennio, tra gli anni ’50 e ’60 dell’800, Parigi
fu dotata di ben quindici nuovi ponti sulla Senna, di quattro nuove stazioni ferroviarie,
di un nuovo sistema di fognature, di parchi e di edifici pubblici.
Londra e lo sviluppo dell’edilizia privata
Da princìpi completamente diversi fu guidato lo sviluppo di Londra nell’800. Qui l’intervento
pubblico risultò quasi assente: mentre a Parigi il governo indicava con minuzia i
caratteri e le direttrici dell’attività edilizia, a Londra non esisteva nemmeno uno
strumento di pianificazione generale. L’espansione della città era nelle mani dell’iniziativa
privata, ovvero dei proprietari terrieri che, attraverso un meccanismo di leasing, cedevano agli imprenditori edilizi diritti di superficie e usufrutto per periodi
determinati (fino a 99 anni), rimanendo però in possesso del terreno e garantendo
così un’omogeneità tra i complessi immobiliari. A Londra, infatti, i quartieri venivano
chiamati con i nomi delle famiglie proprietarie dei terreni: Bedford, Grosvenor, Hannover
(ovvero la dinastia regnante, anch’essa promotrice di attività edilizie private).
Nell’800, soprattutto nella parte occidentale della città (West End), nacquero eleganti
complessi residenziali dove si concentrarono i ceti più benestanti.
Vienna e la riorganizzazione del centro cittadino
Nell’800 Vienna rappresentò un modello urbanistico per la riorganizzazione del suo
nucleo centrale e la dislocazione degli edifici connessi alle sue funzioni di capitale
imperiale. Tra il 1815 e il 1857, infatti, furono abbattute le antiche mura e nella
zona liberata venne costruita la Ringstrasse, ovvero un’ampia strada circolare dove
successivamente furono collocati i principali edifici pubblici – Parlamento, municipio,
università, musei nazionali, teatro lirico – e una serie di eleganti palazzi con abitazioni
private. Il Ring divenne presto il luogo più importante e prestigioso della città,
al confine tra il centro antico e i borghi esterni: al pari dei boulevard parigini, costituì una via di passeggio e un punto di ritrovo per la vita
intellettuale e mondana, con una forza di attrazione irresistibile per la ricca borghesia
cittadina.
Chicago e la costruzione dei primi grattacieli
Nell’ultimo decennio dell’800 Chicago costituì uno dei simboli più evidenti del dinamismo
americano. Metropoli “nata dal nulla”, centro della macellazione delle carni e dell’immagazzinamento
dei cereali, nodo strategico delle comunicazioni ferroviarie tra l’Est e l’Ovest degli
Stati Uniti, venne quasi completamente distrutta da un incendio nel 1871. In breve
tempo fu ricostruita e da allora cominciò a espandersi a ritmi straordinari. Fu un
luogo privilegiato di sperimentazione per la costruzione dei grattacieli: qui, infatti,
i migliori architetti, tra cui Louis Henry Sullivan, misero in pratica le loro teorie
per uno sviluppo verticale della città. Nacquero un avveniristico centro degli affari
e una serie di efficienti infrastrutture urbane. Con la Fiera colombiana, nel 1893,
Chicago divenne famosa in tutto il mondo come una delle metropoli più moderne e dinamiche
del pianeta.
1.7. La nascita del movimento operaio e la Prima Internazionale
Con lo sviluppo della grande industria, il proletariato di fabbrica veniva assumendo
sempre maggiore consistenza. I salari nell’industria erano mediamente superiori a
quelli del settore agricolo e crebbero lentamente negli anni ’50 e ’60, pur senza
mai elevarsi molto al di sopra del livello di sussistenza, salvo che per alcune categorie
di lavoratori specializzati. Ma per altri aspetti – orari di lavoro, condizioni abitative,
assenza di sicurezza sul proprio futuro – la vita dell’operaio non era migliore di
quella del lavoratore agricolo.
La formazione di una coscienza di classe
Il movimento operaio britannico – l’unico che potesse vantare una struttura organizzativa
ormai solida e si potesse muovere in condizioni di relativa libertà – si era concentrato
sul rafforzamento delle Trade Unions, che conobbero un notevole sviluppo negli anni
’50 e ’60. Questo sviluppo fu coronato, nel 1868, dalla costituzione del Trade Unions Congress, che riuniva i delegati di tutti i maggiori sindacati e che rappresentò da allora
il nucleo basilare del movimento operaio in Gran Bretagna.
Peggiore era la situazione del movimento operaio francese, decimato nei suoi quadri
più attivi dalle sconfitte del ’48 e del ’51. I pochi nuclei organizzati su base locale
erano influenzati soprattutto dalle teorie di Proudhon, fautore di una sorta di cooperativismo
a sfondo anarchico. I princìpi proudhoniani – che ben si adattavano alla struttura
sociale di un paese caratterizzato dalla presenza di molti piccoli proprietari contadini
e in cui l’artigianato e il commercio minuto conservavano un peso notevole anche nelle
città – ebbero una certa fortuna anche in Italia, dove, peraltro, il proletariato
di fabbrica era ancora pressoché inesistente e i pochi nuclei di operai e artigiani
organizzati in società di mutuo soccorso avevano subìto soprattutto l’influenza di
Mazzini, fautore della cooperazione e ostile alla lotta di classe e a ogni forma di
collettivismo.
Molto diversa era la situazione in Germania, dove un movimento socialista esisteva già prima del ’48. Alla fine degli anni ’50,
questo movimento trovò un leader abile e autorevole in Ferdinand Lassalle, che basava
le sue concezioni socialiste su una teoria dello sfruttamento capitalistico molto
simile a quella marxista, ma, diversamente da Marx, credeva nella possibilità per
i lavoratori di conquistare lo Stato borghese e di trasformarlo dall’interno attraverso
il suffragio universale. Lassalle svolse nel suo paese, la Prussia, un’intensa attività
politica e riuscì a fondare, nel 1863, una Associazione generale dei lavoratori tedeschi,
che raccolse vaste adesioni negli Stati della Confederazione germanica e rappresentò
il primo importante esempio di partito operaio organizzato su scala nazionale.
Il movimento operaio si organizza. L’Internazionale del 1864
La crescente contrapposizione tra proletariato e borghesia favorì la nascita di un’organizzazione
internazionale di coordinamento del movimento operaio. La riunione inaugurale della
nuova organizzazione, che prese il nome di Associazione internazionale dei lavoratori,
si tenne a Londra nel settembre 1864. Vi presero parte rappresentanti delle organizzazioni
operaie inglesi e francesi. Un emissario di Mazzini rappresentava le società operaie
italiane. Gli altri partecipanti alla riunione erano esuli di vari paesi invitati
a titolo personale, fra cui Karl Marx. Quest’ultimo, assuntosi il compito di redigere lo statuto provvisorio, riuscì a
inserire nel documento alcuni punti che qualificavano l’Associazione in senso classista,
nonostante l’opposizione del rappresentante italiano: da allora i mazziniani non ebbero
più parte alcuna nell’Internazionale. Ciò che risultava più evidente era l’affermazione
dell’autonomia del proletariato e la priorità data alla lotta contro lo sfruttamento.
La fondazione dell’Associazione internazionale dei lavoratori – o Prima Internazionale,
come venne successivamente chiamata – fu senza dubbio un evento capitale nella storia
del movimento operaio, ma lo fu più per il suo significato simbolico che per i suoi
effetti pratici. L’Internazionale costituì subito un punto di riferimento ideale per
i lavoratori di tutta Europa, oltre che uno spauracchio per i governi, sempre pronti
ad attribuirle la responsabilità di agitazioni e complotti. Ma la sua capacità di
rappresentare realmente le organizzazioni operaie dei singoli paesi e di guidare la
loro attività fu assai scarsa e il suo funzionamento venne gravemente compromesso
dall’eterogeneità delle sue componenti e dalle aspre rivalità che dividevano i suoi
capi.
La contrapposizione tra socialisti e proudhoniani
Fino alla fine degli anni ’60, il dibattito ai vertici dell’Internazionale vide contrapposti
da un lato i socialisti veri e propri (coloro, cioè, che sostenevano la socializzazione
dei mezzi di produzione), dall’altro i proudhoniani, fautori di un sistema fondato sulle cooperative e sulle autonomie locali.
Nei primi congressi dell’Associazione le tesi dei proudhoniani furono ripetutamente
sconfitte. Ma gli ideali libertari conobbero nuova fortuna nella versione assai più
radicalmente rivoluzionaria che ne diede il russo Michail Bakunin (1814-1876), massimo
teorico dell’anarchismo.
Il contrasto tra Bakunin e Marx
Una divergenza radicale separava le posizioni di Marx, che era la personalità di maggiore
spicco dell’Internazionale, e quelle di Bakunin. Per Bakunin l’ostacolo principale
che impediva all’uomo il conseguimento della piena libertà era costituito non tanto
dai rapporti di produzione, quanto dall’esistenza stessa dello Stato. Lo Stato era,
assieme alla religione, lo strumento di cui si servivano le classi dominanti per mantenere la stragrande
maggioranza della popolazione in condizioni di inferiorità economica e intellettuale.
Così, abbattuto il potere statale, il sistema di sfruttamento economico basato sulla
proprietà privata sarebbe inevitabilmente caduto. Il comunismo si sarebbe instaurato
spontaneamente come l’ordine più consono alle esigenze naturali delle masse, senza
che allo Stato dovesse sostituirsi alcuna organizzazione di tipo centralizzato e coercitivo.
Marx aveva pubblicato nel 1867 il primo volume della sua opera fondamentale Il Capitale in cui non solo analizzava i meccanismi del modo di produzione capitalistico, ma
sosteneva che la realizzazione del socialismo sarebbe derivata dalle leggi stesse
dello sviluppo economico. Anche Marx vedeva nella religione e nello Stato degli strumenti
al servizio delle classi dominanti, ma collocava l’uno e l’altra nella sfera della
«sovrastruttura», li considerava cioè come un prodotto della «struttura» economica basata sullo sfruttamento: solo la distruzione di quella struttura – ossia del sistema capitalistico – avrebbe reso possibile
la distruzione dello Stato borghese. Si doveva dunque partire dallo scardinare la
struttura economica. Pertanto, anche per Marx, l’avvento del comunismo e della società comunista – senza privilegi,
senza classi, senza proprietà privata e senza Stato, ma le cui potenzialità produttive
e tecniche fossero a disposizione di tutti i suoi membri – avrebbe portato con sé
l’«estinzione dello Stato»; tuttavia, questo stadio finale sarebbe stato raggiunto
solo dopo una fase transitoria, quella della «dittatura del proletariato», necessaria
per neutralizzare la reazione delle classi dominanti (perché le organizzazioni operaie
avrebbero rifondato, in quel tempo, la struttura sociale e produttiva). Per Marx,
quindi, il protagonista del processo rivoluzionario non poteva essere che il proletariato
industriale dei paesi più avanzati. Per Bakunin, invece, il vero soggetto della rivoluzione
erano le masse diseredate in quanto tali, senza distinzione fra operai, contadini
e sottoproletari.
La crisi dell’Internazionale e la sorte del bakuninismo
Il contrasto tra marxisti e bakuniniani, esploso agli inizi degli anni ’70, mise in
crisi le fragili strutture dell’Internazionale che fu sciolta ufficialmente nel 1876. Gli anarchici riuscirono tuttavia a conservare in molti paesi
europei un seguito e un’influenza considerevoli. Il bakuninismo, infatti, si adattava
meglio del marxismo a quei paesi e a quei ceti sociali che non avevano ancora conosciuto
la rivoluzione industriale e si innestava spesso sul tronco di un antico ribellismo
contadino. Fu questa la forza dell’anarchismo bakuniniano. Ma fu anche la causa del
suo inarrestabile declino di fronte allo sviluppo dell’industria e alla crescita di
una classe operaia moderna.
1.8. La Chiesa cattolica contro la modernità borghese
La difesa dell’ortodossia
Negli stessi anni in cui il movimento operaio internazionale muoveva i suoi primi
passi, anche il mondo cattolico assunse, sia pure da posizioni opposte, un atteggiamento
duramente critico nei confronti di una civiltà che si basava su presupposti laici
e individualistici e che tendeva a relegare la religione nell’ambito delle superstizioni
e delle credenze popolari. Alla testa di questa crociata ideologica fu quello stesso
papa Pio IX che inizialmente aveva suscitato tante speranze tra i cattolici liberali.
Ferito e disilluso dalle esperienze del ’48-49, Pio IX abbandonò qualsiasi ipotesi
innovatrice e, per il restante corso del suo lungo pontificato (morì nel 1878), si
preoccupò soprattutto di riaffermare la più rigida ortodossia dottrinaria e di incoraggiare
le pratiche di devozione, soprattutto quelle relative al culto mariano. Nel 1854 fu
proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione, con cui si stabiliva che la Vergine
era stata concepita libera dal peccato originale. Dal 1858, la cittadina francese
di Lourdes, luogo di una miracolosa apparizione della Madonna, divenne meta di ininterrotti
pellegrinaggi.
Il Sillabo e il Concilio Vaticano I
Lo scontro fra la Chiesa cattolica e la cultura laico-borghese ebbe il suo culmine
nel 1864, quando Pio IX emanò l’enciclica Quanta cura, nella quale accomunava in una condanna senza appello il liberalismo, la democrazia,
il socialismo e l’intera civiltà moderna. Per dare maggior forza alla condanna, il
papa fece pubblicare, assieme all’enciclica, una sorta di elenco – il Sillabo – degli «errori del secolo», dove in ottanta proposizioni erano raccolti tutti i
princìpi basilari della tradizione illuministica e della cultura liberale ottocentesca:
dalla sovranità popolare alla laicità dello Stato, alla libertà di stampa e di opinione.
La pubblicazione del Sillabo suscitò sorpresa e scalpore in tutta Europa, anche tra i cattolici e i loro alleati:
Napoleone III, per esempio, ne proibì la diffusione in Francia, poiché lo giudicava
imbarazzante e nocivo per la convivenza fra Chiesa e Stato. La frattura si allargò
ulteriormente pochi anni dopo quando, nel Concilio Vaticano I conclusosi nell’estate
del 1870, fu proclamato il dogma dell’infallibilità del papa nelle sue pronunce ufficiali in materia di fede
e di morale. Una decisione che rafforzava l’autorità del pontefice nei confronti dell’episcopato
e che anche per questo non piacque ai governi degli Stati cattolici, accentuando così
l’isolamento della Santa Sede. Quando, nel settembre 1870, le truppe italiane entreranno
a Roma per annetterla al Regno d’Italia e completare così l’unificazione della penisola,
nessuno dei governi europei si muoverà per salvare il potere temporale del papa [cfr. 6.5].
Il cristianesimo sociale
La condanna intransigente della civiltà borghese, se schiacciava e riduceva al silenzio
le correnti cattolico-liberali, lasciava in compenso un certo spazio ai movimenti
cristiano-sociali presenti in Belgio, Francia, Austria e Germania. Sostenitori di
un intervento dello Stato, sotto forma di iniziative assistenziali a favore dei lavoratori,
auspicavano lo sviluppo della cooperazione e del mutuo soccorso fra i lavoratori stessi.
Su questa base si realizzarono, soprattutto nei paesi dell’Europa centrale, i primi
esperimenti di un moderno associazionismo cattolico, fondato sulle unioni di mestiere, sulle cooperative, sulle casse rurali e artigiane:
una rete organizzativa che avrebbe in seguito permesso ai movimenti cattolici di contare
su una propria base organizzata, non solo fra i ceti rurali ma anche fra i lavoratori
urbani, soprattutto artigiani.
Sommario
Al conservatorismo politico che, dopo il fallimento delle rivoluzioni del ’48-49,
caratterizzava la situazione europea, faceva riscontro un processo di profondo mutamento
sociale. Il ventennio successivo al ’48 vide la crescita della borghesia: un ceto
sociale attraversato da notevoli differenziazioni interne e tuttavia portatore di
uno stile di vita e di un insieme di valori sostanzialmente unitari – merito individuale,
libera iniziativa, concorrenza, innovazione e, nella sfera familiare e privata, austerità,
moderazione, vocazione al risparmio – su cui sembrava poggiare la trasformazione in
atto nel campo dello sviluppo economico e del progresso scientifico.
Centrale, tra i valori borghesi, era la fede nel progresso generale dell’umanità,
che poggiava sull’imponente sviluppo economico e scientifico della seconda metà dell’800.
Sul piano culturale, il progresso scientifico diede origine a una nuova corrente filosofica,
il positivismo, che diventò l’ideologia della borghesia in ascesa e influenzò tutta
la mentalità dell’epoca. Il rappresentante più noto del nuovo spirito “positivo” fu
Darwin, cui si deve la teoria dell’evoluzione e della selezione naturale: come tutte
le specie viventi, la specie umana è – secondo Darwin – il risultato di un’evoluzione
da un unico organismo semplicissimo nella sua composizione cellulare; e, come altre
specie viventi, è riuscita a non estinguersi e a sopravvivere adattandosi al contesto
e perdendo, tra i suoi, gli individui con minore capacità di adattamento.
Dalla fine degli anni ’40, l’economia europea conobbe una fase di forte sviluppo durata
quasi un quarto di secolo. Lo sviluppo interessò anzitutto l’industria, principalmente
nei settori siderurgico e meccanico. Si generalizzò in quest’epoca l’impiego delle
macchine a vapore e del combustibile minerale. I fattori principali del boom industriale
degli anni ’50 e ’60 furono: la rimozione dei vincoli giuridici che ostacolavano le
attività economiche; l’affermarsi del libero scambio; il ruolo assunto dalle banche
nelle operazioni di investimento sul lungo e medio termine e la nascita di numerose
società per azioni.
Lo sviluppo di nuovi mezzi di trasporto, come navi a vapore e, soprattutto, ferrovie,
rendeva più agevoli la mobilità delle persone e lo scambio delle merci, alimentando
a sua volta il processo di industrializzazione: da una parte, infatti, la costruzione
di questi nuovi mezzi stimolava l’industria siderurgica e meccanica, dall’altra consentiva
un ampliamento dei mercati. Infine le innovazioni nel campo della comunicazione (per
esempio il telegrafo) consentivano alle notizie di viaggiare molto più velocemente,
dando impulso allo sviluppo della stampa, che rispose con la creazione di agenzie
specializzate per la raccolta e la diffusione delle informazioni. Questi ultimi fattori
di sviluppo mutavano per alcuni aspetti essenziali la vita dell’epoca e l’immagine
stessa che la gente aveva del mondo: esso appariva, ed era effettivamente, sempre
più unito.
Alla metà dell’800, in tutta l’Europa continentale erano i lavoratori della terra
a costituire la grande maggioranza della popolazione attiva. Diversi furono gli effetti
della privatizzazione delle terre: in alcune regioni la scomparsa del regime feudale
lasciò il posto alla piccola e media proprietà, in altre andò invece a vantaggio dei
grandi latifondisti; in altre ancora si crearono situazioni di convivenza fra azienda
capitalistica e piccola proprietà terriera, lavoro salariato e mezzadria. Ovunque,
in ogni caso, i lavoratori agricoli occupavano i gradini inferiori della scala sociale.
Fra il 1840 e il 1870 milioni di persone lasciarono i loro paesi per andare a dissodare
le terre vergini del Nord America o si trasferirono nelle aree urbane in cerca di
nuova occupazione. Nell’800 aumentò non solo la popolazione urbana ma anche il numero
delle grandi città. In Gran Bretagna, in particolare, per via della rivoluzione industriale,
piccoli centri si trasformarono in grandi città, in pochi decenni. Nella seconda metà
dell’800 furono soprattutto gli Stati Uniti a offrire un nuovo modello di sviluppo
della città, con la costruzione dei grattacieli e l’espansione dei sobborghi periferici.
In molti grandi centri punti di riferimento essenziali divennero le stazioni ferroviarie,
la Borsa, i centri commerciali, il tribunale, i palazzi dei ministeri. I ceti popolari
andarono ad addensarsi nelle grandi periferie, ben distinte dai quartieri residenziali
borghesi. Nello stesso periodo, quasi tutte le grandi città europee videro moltiplicarsi
le iniziative dei poteri pubblici per favorire lo sviluppo dei trasporti e per cercare
di risolvere i più urgenti problemi igienici.
La ristrutturazione di Parigi fu un esempio di intervento attuato dallo Stato. Haussmann
sventrò buona parte del centro medievale e aprì una serie di larghi viali. Princìpi
completamente diversi guidarono lo sviluppo di Londra. Qui l’intervento pubblico risultò
quasi assente: l’espansione della città rimase nelle mani dell’iniziativa privata.
Vienna rappresentò invece un modello urbanistico per la costruzione della Ringstrasse,
dove furono collocati i principali edifici pubblici e una serie di eleganti palazzi
privati. Alla fine dell’800 Chicago fu uno dei simboli più efficaci del dinamismo
americano. Distrutta da un incendio nel 1871, la città venne in breve tempo ricostruita
e da allora cominciò a espandersi a ritmi straordinari.
Si diffondeva, nello stesso periodo, la figura dell’operaio di fabbrica, le cui dure
condizioni di vita e di lavoro favorivano il formarsi di una coscienza di classe e
delle prime associazioni operaie, soprattutto in Gran Bretagna, Germania e Francia.
Nel 1864 venne fondata, a Londra, la prima Associazione internazionale dei lavoratori,
la cui storia fu caratterizzata dai contrasti fra le varie correnti – principalmente
tra marxisti e anarchici – che avrebbero presto condotto alla sua dissoluzione. Il
maggior teorico dell’anarchismo fu Bakunin, le cui teorie si distinguevano per alcuni
aspetti sostanziali da quelle di Marx. Bakunin, tra l’altro, riteneva che, una volta
abbattuto il potere statale, il comunismo si sarebbe instaurato spontaneamente, senza
dunque la fase di «dittatura del proletariato» prevista da Marx. Egli considerava,
inoltre, le masse diseredate (e non il proletariato industriale) il soggetto della
rivoluzione. Per quest’ultimo motivo il bakuninismo si diffuse soprattutto nei paesi
più arretrati e declinò progressivamente coll’avanzare dell’industrializzazione e
la crescita della classe operaia.
Di fronte alla società borghese, il mondo cattolico da un lato assunse un atteggiamento
di dura condanna – con Pio IX, che fece pubblicare il Sillabo degli «errori del secolo» (1864) –; dall’altro, si fece promotore, con i movimenti
cristiano-sociali, di un intervento dello Stato a favore dei lavoratori e dei primi
esperimenti di associazionismo cattolico.
Bibliografia
In generale, sulla definizione delle classi sociali, si vedano: R. Crompton, Classi sociali e stratificazione, Il Mulino, Bologna 1999 (ed. or. 1993) e P.N. Furbank, Quel piacere malizioso ovvero la retorica delle classi sociali, Il Mulino, Bologna 1988 (ed. or. 1985).
La migliore esposizione degli argomenti trattati in questo capitolo è fornita da E.J.
Hobsbawm, Il trionfo della borghesia 1848-1875, Laterza, Roma-Bari 2010 (ed. or. 1975). Per un quadro generale del periodo: G. Palmade
(a cura di), L’età della borghesia, Feltrinelli, Milano 1975. Su alcuni aspetti del modo di vita e della cultura borghese,
si vedano: il volume a cura di M. Perrot, L’Ottocento dell’opera collettanea P. Ariès-G. Duby (a cura di), La vita privata, Laterza, Roma-Bari 2001 (ed. or. 1987); J. Kocka (a cura di), Borghesie europee dell’Ottocento, Marsilio, Venezia 1995 (ed. or. 1988); U. Frevert-H.-G. Haupt (a cura di), L’uomo dell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 2000 (ed. or. 1999). Sull’evoluzionismo e Darwin: L. Eiseley,
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Per i problemi dello sviluppo economico: D.S. Landes, Prometeo liberato, Einaudi, Torino 2000 (ed. or. 1969); J. Osterhammel-N.P. Petersson, Storia della globalizzazione, Il Mulino, Bologna 2014 (ed. or. 2003); il vol. IV, t. 1, di P. Léon (a cura di),
Storia economica e sociale del mondo, intitolato Il capitalismo. 1840-1914, Laterza, Roma-Bari 1980. Per un’analisi comparata dell’industrializzazione nei paesi
europei: S. Pollard, La conquista pacifica. L’industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970, Il Mulino, Bologna 1998 (ed. or. 1981). Sullo sviluppo delle reti ferroviarie: W.
Schivelbusch, Storia dei viaggi in ferrovia, Einaudi, Torino 2003 (ed. or. 1979).
Per la storia del movimento operaio, del socialismo e del marxismo, si vedano i titoli
citati nella bibliografia del cap. 5.
Per i rapporti fra mondo cattolico e società borghese-liberale si vedano: R. Aubert,
Il pontificato di Pio IX (1846-1878), in A. Fliche-V. Martin (a cura di), Storia della Chiesa dalle origini ai nostri giorni, vol. XXI/1-2, Saie, Torino 1976 (ed. or. 1946); H. Jedin (a cura di), Storia della Chiesa, vol. XXI, Liberalismo e integralismo. Tra stati nazionali e diffusione missionaria 1830-1870, Jaca Book, Milano 1993 (ed. or. 1977); G. Martina, Pio IX (1867-1878), Pontificia Università Gregoriana, Roma 1986; F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Il Mulino, Bologna 2007; i saggi di F. Margiotta Broglio (Contro tutti:il Sillabo di Pio IX) e D. Menozzi (Il confronto della Chiesa con la modernità nell’età di Pio IX), in G. Fabre-K. Venturini(a cura di), La Chiesa tra Restaurazione e modernità, Il Mulino, Bologna 2018.
Sullo sviluppo della città e l’urbanizzazione: L. Benevolo, La città contemporanea, in Storia della città,vol. IV, Laterza, Roma-Bari 2006 (ed. or. 1975); P.M. Hohenberg-L. Hollen Lees, La città europea dal Medioevo a oggi, Laterza, Roma-Bari 1992 (ed. or. 1985); C. De Seta, La città europea: origini, sviluppo e crisi della civiltà urbana in età moderna e
contemporanea, Il Saggiatore, Milano 2010; G. Zucconi, La città dell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 2001; C. Zimmermann, L’era delle metropoli. Urbanizzazione e sviluppo della grande città, Il Mulino, Bologna 2004 (ed. or. 1996). Sulle migrazioni dalle campagne: K.J. Bade,
L’Europa in movimento, Laterza, Roma-Bari 2001 (ed. or. 2000).
2. La seconda rivoluzione industriale
2.1. Crisi e protezionismo
Tra il 1870 e il 1914 l’economia capitalistica subì una serie di trasformazioni di
tale profondità e di tale portata da giustificare, in riferimento a questo periodo,
la definizione di “seconda rivoluzione industriale”.
Sovrapproduzione e caduta dei prezzi
La nuova fase dell’economia ebbe inizio con una improvvisa crisi di sovrapproduzione
che, scoppiata nel 1873, continuò a far sentire i suoi effetti nei due decenni successivi,
caratterizzati da una prolungata caduta dei prezzi. In realtà la caduta dei prezzi
fu, più che un sintomo di crisi, un prodotto delle trasformazioni organizzative e
delle innovazioni tecnologiche che permisero di ridurre progressivamente i costi di
produzione. In nessun paese, infatti, si registrarono sostanziali diminuzioni della
produzione industriale. Il volume degli scambi commerciali continuò a crescere ovunque.
Il tenore di vita della popolazione nelle aree urbane non subì riduzioni: al contrario,
i lavoratori salariati si giovarono della diminuzione dei prezzi e riuscirono, grazie
anche all’azione delle organizzazioni di classe, a difendere meglio che in passato
il livello reale delle loro retribuzioni.
La crisi agraria in Europa
Il settore dell’economia europea in cui la caduta dei prezzi si fece sentire con maggiore
intensità e con effetti più drammatici fu senza dubbio quello agricolo. Quando i progressi
della navigazione a vapore, determinando un notevole abbassamento dei costi di trasporto,
consentirono ai prodotti dell’agricoltura nordamericana – che avevano prezzi competitivi
– di raggiungere l’Europa, tutta l’agricoltura europea, in particolare quella più
arretrata, ne ricevette un colpo durissimo. A partire dagli anni ’79-80, i prezzi
dei prodotti agricoli calarono bruscamente. Questo ribasso avvantaggiò i consumatori
delle città, ma provocò la rovina di molte aziende agricole piccole e grandi: e quindi
disoccupazione, fame, miseria crescente nelle campagne, soprattutto in quelle dove
le tecniche produttive erano rimaste più arretrate.
Si difesero meglio dalla crisi i settori agricoli presenti nell’Europa centro-settentrionale
in cui erano state introdotte nuove tecniche di coltivazione volte ad aumentare la
produttività: l’uso di concimi chimici; l’impiego di mietitrici e trebbiatrici a trazione
animale (l’uso del vapore, dell’elettricità e del motore a scoppio si sarebbe affermato
solo nel ’900); l’estensione delle opere di bonifica e di irrigazione; l’introduzione
di nuove colture (come la barbabietola da zucchero) e di nuovi sistemi di rotazione.
L’emigrazione europea
Conseguenza immediata della crisi fu l’intensificarsi dell’emigrazione verso le aree
industriali e verso i paesi d’oltreoceano, soprattutto l’America del Nord, ma anche
verso il Brasile e l’Argentina. Il flusso degli emigranti dall’Europa raggiunse le
500 mila unità annue intorno all’80, per superare le 800 mila alla fine del decennio
e per sfondare infine il tetto del milione nei primi anni del ’900. Mutò anche, progressivamente,
la provenienza geografica degli emigranti: fino a circa il 1880 erano stati in prevalenza
inglesi, irlandesi, tedeschi e scandinavi. Alla fine del secolo erano per due terzi
originari di paesi latini e slavi: qui, infatti, le conseguenze della crisi agraria
si erano fatte sentire più pesantemente e minori erano le capacità di assorbimento
della manodopera da parte dei settori industriali.
Il protezionismo
Fu anche per far fronte alle conseguenze della crisi agraria e per venire incontro
alle pressioni dei grandi proprietari, e degli agricoltori in genere, che i governi
europei finirono per imboccare la strada del protezionismo. Tutte le nuove tariffe
adottate dai vari Stati stabilivano dazi elevati per numerosi prodotti agricoli, in
particolare per i cereali. Ma le politiche protezionistiche ebbero anche come obiettivo la tutela delle produzioni
industriali dai rischi della concorrenza estera: tutti gli Stati europei adottarono
nuove misure protezionistiche, a cominciare dalla Germania nel 1879, seguita dalla
Russia (1881-82), dall’Italia (1887) e dalla Francia (1892). Accanto a questa politica
gli Stati diedero avvio a varie forme di sostegno diretto alla grande industria, attuato
per lo più mediante le commesse per l’esercito e la marina militare.
Solo la Gran Bretagna, patria del liberoscambismo e primo paese esportatore del mondo,
restò estranea alla tendenza generale, ma ne fu doppiamente danneggiata in quanto
vide ridursi gli sbocchi di mercato per le sue merci e dovette assistere allo sviluppo
delle industrie nei paesi concorrenti, protette dalle barriere doganali. Nell’ultimo
decennio del secolo, le industrie tedesche e statunitensi riuscirono a superare quelle
inglesi nella produzione di acciaio e si assicurarono un vantaggio decisivo in settori
nuovi e strategicamente importanti come quelli chimico ed elettrico. Fra il 1880 e
il 1914 la partecipazione britannica al commercio mondiale si dimezzò, passando dal
25 al 12%. Alla perdita del primato industriale e alla riduzione dei suoi spazi commerciali
in Europa, la Gran Bretagna reagì rinsaldando e ampliando il suo già vasto impero
d’oltremare e intensificando gli scambi con le colonie.
Il capitalismo finanziario
L’abbandono del liberismo non fu l’unico modo per aggirare le crescenti difficoltà
create alle imprese dal regime di prezzi calanti. Nacquero così grandi consociazioni
per il controllo finanziario di diverse imprese; consorzi – cartelli o pools – fra aziende dello stesso settore che si accordavano sulla produzione e sui prezzi;
infine vere e proprie concentrazioni, trusts, fra imprese prima indipendenti. Questi fenomeni assunsero dimensioni imponenti,
soprattutto negli Stati Uniti e in Germania, fino a determinare in qualche caso situazioni
di monopolio.
Un ruolo decisivo, in questi processi, fu svolto dalle istituzioni finanziarie. Solo
le grandi banche potevano assicurare i flussi di denaro necessari alla crescita dei
colossi industriali per i quali i profitti, per quanto elevati, non erano sufficienti
a ricostituire in tempi brevi il capitale di investimento. Fra banche e imprese si
venne così a creare uno stretto rapporto di compenetrazione: le imprese dipendevano
sempre più dalle banche per il loro sviluppo e le banche legavano in misura crescente
le loro fortune a quelle delle imprese. Le banche controllavano quote rilevanti dei
pacchetti azionari delle industrie, ma d’altro canto i magnati dell’industria sedevano
spesso nei consigli di amministrazione delle banche. Questo intreccio fra industria
e finanza fu definito dagli economisti marxisti «capitalismo finanziario».
2.2. Acciaio, chimica ed elettricità
Durante la seconda metà dell’800 e nei primi anni del ’900 si affermò in Europa e
in Nord America un processo, la seconda rivoluzione industriale, che fece sentire
i suoi effetti con una diffusione capillare, mutando le abitudini, i consumi e i comportamenti
di milioni di individui.
Se il cotone, il ferro, il carbone e la macchina a vapore erano stati i fattori trainanti
della prima rivoluzione industriale, nella seconda si affermarono l’acciaio, la chimica,
il motore a scoppio e l’elettricità.
L’età dell’acciaio
Le nuove tecniche di fabbricazione – il metodo Bessemer e il forno Martin-Siemens,
sperimentati già negli anni ’50 e ’60, quindi il procedimento Gilchrist Thomas, introdotto
nel 1879 – consentirono di produrre grandi quantità di acciaio a costi relativamente
modesti. Da allora l’acciaio vide crescere la sua produzione a ritmi rapidissimi (fra
il 1870 e il 1913 il consumo mondiale aumentò di circa ottanta volte) e trovò infinite
applicazioni nei campi più svariati. Fu usato per le rotaie delle ferrovie al posto
del ferro, per le corazze delle navi da guerra, per gli utensili domestici e per le
macchine industriali, che divennero più leggere, precise e potenti, dando così una
spinta decisiva ai processi di meccanizzazione. Ma fornì anche le strutture che resero possibile la costruzione di
grandi edifici e di grandi ponti, ancor prima che, nel 1892, fosse introdotto nell’ingegneria
civile l’uso del cemento armato, ossia del calcestruzzo rinforzato da barre di ferro.
Il primo palazzo con strutture in acciaio, il Tower Building di New York, alto dieci
piani, fu costruito nel 1889. Nello stesso anno, in occasione dell’Esposizione universale
di Parigi, l’ingegnere francese Alexandre-Gustave Eiffel realizzò una torre alta 300
metri e pesante 8 mila tonnellate, destinata a diventare il simbolo più celebre dell’età
dell’acciaio.
L’industria chimica
L’industria chimica abbracciava una grandissima varietà di produzioni: dalla carta
al vetro, dai medicinali ai concimi, dai saponi ai coloranti, dagli esplosivi al cemento,
dalla gomma alla ceramica. La stessa siderurgia, nel momento in cui usava procedimenti
chimici per combinare diversi elementi, poteva essere considerata un settore della
chimica applicata. Fu, per esempio, un processo chimico che, nel 1886, permise di
ricavare dalla bauxite l’alluminio, divenuto presto un utile sostituto del ferro e
dell’acciaio. Sotto la spinta incessante di nuove scoperte e invenzioni, intorno al
1870 fu sperimentata per la prima volta, in Gran Bretagna e soprattutto in Germania,
la produzione dei coloranti artificiali, i cui princìpi furono alla base di molti
successivi sviluppi della chimica organica. Nel 1875 un chimico svedese, Alfred Nobel,
depositò il brevetto della dinamite. Nel 1888 l’invenzione dello pneumatico da parte
dello scozzese John Boyd Dunlop aprì nuovi orizzonti all’industria della gomma. Fra
l’89 e il ’92, furono realizzate in Francia e in Gran Bretagna le prime fibre tessili artificiali, derivate dalla cellulosa.
La chimica ebbe un ruolo decisivo anche nel settore alimentare con l’invenzione di
nuovi metodi per la sterilizzazione, la conservazione e l’inscatolamento dei cibi,
e con lo sviluppo delle tecniche di refrigerazione. La diffusione degli alimenti in
scatola, più rapida negli Stati Uniti, molto più lenta in Europa, e la costruzione
dei vagoni e delle celle frigorifere rappresentarono un’autentica innovazione nell’ambito
della più generale rivoluzione dei trasporti. Per tutto il mondo industrializzato,
la possibilità di conservare cibi deperibili e di trasportarli a grande distanza dai
luoghi di produzione significava la liberazione definitiva dal rischio delle carestie.
Il motore a scoppio e il petrolio
Risultato di lunghi studi ed esperimenti, il motore a combustione interna o a scoppio
(quello in cui è il combustibile a fornire la spinta motrice, esplodendo ed espandendosi
in uno spazio limitato) vide una prima realizzazione ad opera del tedesco Nikolaus
Otto che, nel 1876, costruì un motore a quattro tempi. Successivamente due ingegneri
tedeschi, Gottlieb Daimler e Carl Friedrich Benz, riuscirono, separatamente, a montare
dei motori a scoppio su autoveicoli a ruote, realizzando così, nel 1885, le prime automobili. Il combustibile usato era un distillato del petrolio che prese poi
il nome di benzina, mentre, nel 1897, un altro ingegnere tedesco, Rudolf Diesel, inventò
il motore a gasolio che porta ancora il suo nome. Tuttavia la diffusione dell’automobile
fu lenta e avventurosa e solo all’inizio del ’900 si cominciarono a produrre autovetture
a motore abbastanza veloci e affidabili. Questo sviluppo limitato fu tuttavia sufficiente
a dare un impulso decisivo all’estrazione del petrolio, soprattutto negli Stati Uniti
dove, alla fine dell’800, era concentrata la metà della produzione mondiale. La diffusione
dei prodotti petroliferi, usati anche come lubrificanti e come combustibili da riscaldamento
e da illuminazione, era però ostacolata dagli alti costi di produzione: il prezzo
del petrolio era molto più alto di quello del carbone, che rimaneva il combustibile
di gran lunga più diffuso.
Una nuova fonte d’energia: l’elettricità
Oggetto di studi e di esperimenti fin dai tempi del primo generatore di energia elettrica
– la pila di Alessandro Volta (risalente al 1800 circa) – l’elettricità divenne una nuova e straordinaria
fonte di energia tra il 1860 e il 1880, quando fu possibile realizzare congegni in
grado di trasformare il movimento di un corpo entro un campo magnetico in corrente
elettrica (dinamo e generatori), di immagazzinarla (accumulatori), di trasmetterla
e distribuirla a grandi distanze, di utilizzarla per l’illuminazione o il riscaldamento
o di ritrasformarla in movimento (motori elettrici).
Ma l’invenzione decisiva per lo sviluppo dell’industria elettrica fu la lampadina
a filamento incandescente, ideata dallo statunitense Thomas Alva Edison nel 1879.
Nacquero così, all’inizio degli anni ’80, in Gran Bretagna, in Francia, in Germania,
negli Stati Uniti e anche in Italia, le prime centrali termiche (azionate cioè da
motori a vapore), capaci di fornire energia elettrica soprattutto all’illuminazione
privata. Più lenta fu l’affermazione dell’elettricità come mezzo di illuminazione
pubblica: ai primi del ’900, le principali città europee erano ancora illuminate con
lampade a gas. A partire dalla fine dell’800, comunque, l’energia elettrica cominciò
a essere adoperata anche per i mezzi di trasporto – come le tramvie – e per gli usi industriali: essa fornì alle fabbriche una nuova forza motrice e rese
possibili nuove lavorazioni nella chimica e nella metallurgia.
Contemporaneamente si fece strada l’idea di ricorrere per la produzione di elettricità,
anziché alle macchine a vapore, all’energia idraulica che sfrutta la caduta, naturale
o artificiale, dei corsi d’acqua. La costruzione di centrali idroelettriche ebbe impulso,
nell’ultimo decennio del secolo, soprattutto in quei paesi, come l’Italia del Nord,
che erano poveri di carbone ma ricchi di bacini idrici.
Telefono, grammofono e cinematografo
Sempre legate all’elettricità furono altre novità non meno rivoluzionarie: il telefono,
inventato nel 1871 dall’italiano Antonio Meucci e perfezionato pochi anni dopo in
Nord America dallo scozzese Alexander Graham Bell; il grammofono, ideato da Edison
nel 1876; e infine il cinematografo, sperimentato in Francia nel 1895 dai fratelli
Louis e Auguste Lumière. Queste invenzioni erano destinate a produrre i loro effetti
soprattutto nel ’900. Ma, già al loro apparire, fecero intravedere la possibilità
di nuovi sviluppi nel campo delle comunicazioni, e anche di nuovi linguaggi e di nuove
forme di espressione artistica.
2.3. Nuovi traguardi per la scienza medica
La medicina diventa una scienza
Negli ultimi decenni dell’800 la medicina si trasformò in una disciplina scientifica
abbandonando le pratiche empiriche della tradizione. Questa trasformazione si basava
su quattro princìpi: la diffusione delle pratiche igieniste e la conseguente adozione
di efficaci strategie di prevenzione e contenimento delle malattie epidemiche; lo
sviluppo della microscopia, che consentì di identificare i microrganismi responsabili
di alcune malattie infettive; i progressi della farmacologia che permise la sintesi
e l’estrazione di numerose sostanze in grado di modificare il corso naturale delle
malattie; la nuova ingegneria sanitaria, che rese possibile, con la costruzione dei
grandi “policlinici” (con reparti specializzati), l’osservazione sistematica del malato.
La diffusione delle pratiche igieniste
Partendo da osservazioni empiriche e dati statistici inoppugnabili e proponendo una
serie di interventi dimostratisi poi efficaci (la canalizzazione delle acque di scarico,
la lotta contro il sovraffollamento nelle abitazioni, la rigida circoscrizione dei
focolai di epidemie), gli igienisti riuscirono a diffondere alcune pratiche preventive
e a imporle, nonostante l’ostilità di gran parte della medicina “accademica”, all’attenzione
dei poteri pubblici. Il rispetto dell’igiene si diffuse gradualmente anche negli ospedali,
luoghi spesso di contagio e di infezione più che di cura, con l’adozione di alcune
pratiche, che oggi a noi paiono elementari, come quella di lavarsi le mani tra una
visita e l’altra.
Parallelamente il francese Louis Pasteur e il tedesco Robert Koch identificarono dei
microrganismi come agenti di alcune gravi malattie infettive: la peste, il colera
e la tubercolosi. Una scoperta che, accertando la responsabilità dei germi nella genesi
delle malattie infettive, dimostrava anche come le condizioni ambientali non fossero
di per sé sufficienti a provocare l’insorgere del male, e che fu usata da molti medici
per svalutare l’importanza dei fattori igienici.
Nuovi farmaci e nuovi ospedali
Un’ulteriore e decisiva spinta ai progressi della medicina venne, sempre nella seconda
metà dell’800, dalle scoperte della chimica, che consentirono di agire sui processi fisiologici con l’isolamento di una
serie di sostanze e la sintesi di numerosi farmaci. Già nel 1846, la scoperta degli
effetti anestetici dell’etere dietilico aveva aperto la strada alla pratica dell’anestesia
chirurgica. Nel 1860 fu la volta dell’acido acetilsalicilico, che dal 1875 avrebbe
costituito la base della più diffusa fra le medicine dei nostri tempi, l’aspirina.
Sempre al 1875 risale la sintesi del diclorodifeniltricloroetano (meglio noto come
Ddt), un potente insetticida che consentì progressi decisivi nella lotta contro la
malaria. Grazie a scoperte come queste, si sviluppò rapidamente una nuova industria
farmaceutica, le cui fortune coincisero in molti casi con le fortune personali di
celebri ricercatori come i tedeschi Friedrich Bayer e Heinrich Emanuel Merck.
La radicale trasformazione delle terapie andò di pari passo con la contemporanea evoluzione
subìta dagli ospedali, fino ad allora più ospizi per i poveri e i trovatelli che luoghi
di cura per malati. Le nuove strutture realizzate in Europa negli ultimi decenni del
secolo, i policlinici, si basavano su un’organizzazione razionale dello spazio, su
padiglioni con ampie stanze ventilate, sulla suddivisione dei pazienti in reparti
specializzati per tipi di malattie e sul rispetto delle più essenziali norme igieniche.
2.4. La crescita demografica
L’innalzamento della vita media
A partire dalla seconda metà dell’800, i progressi della medicina e dell’igiene, assieme
agli sviluppi dell’industria alimentare, determinarono un vistoso aumento della popolazione.
I grandi fattori che nei secoli precedenti avevano inciso negativamente sull’andamento
demografico (epidemie e carestie) sembravano ormai definitivamente eliminati, nonostante
alcuni episodi significativi ma marginali che ancora colpivano le aree più depresse,
come il colera a Napoli e a Palermo nel 1884-85. La vita media dell’uomo europeo,
che era di 30-35 anni prima della rivoluzione industriale, poté salire a 50 anni alla
fine del secolo. La popolazione europea, che fra il 1800 e il 1850 era passata da
190 a 270 milioni, raggiunse nel 1900 i 425 milioni: l’aumento fu dunque di quasi
il 60% in cinquant’anni, senza contare i circa 30 milioni di individui che avevano
abbandonato l’Europa e si erano in buona parte trasferiti negli Stati Uniti; qui l’immigrazione,
sommandosi all’incremento naturale della popolazione, fece quasi quadruplicare il
numero degli abitanti – da poco più di 20 milioni nel 1850 a quasi 80 nel 1900.
La diminuzione delle nascite
Questo aumento della popolazione fu tanto più notevole in quanto era dovuto soprattutto
alla diminuzione significativa della mortalità e si accompagnava a una progressiva
riduzione della natalità: questo duplice andamento individuava quella che i demografi
hanno chiamato la seconda transizione demografica tipica del mondo contemporaneo.
La tendenza al calo delle nascite, per effetto del controllo della fecondità e della
diffusione delle pratiche contraccettive, si era manifestata precocemente in Francia già alla fine del ’700 e si diffuse in
seguito in tutto l’Occidente. Questo comportamento demografico, proprio dei paesi
economicamente più avanzati, esprimeva un nuovo atteggiamento nei confronti della
vita e dei figli: un atteggiamento meno soggetto al tradizionale controllo delle norme
religiose e orientato invece a programmare razionalmente la famiglia e il suo futuro.
Agli inizi dell’età industriale i principali paesi europei avevano un tasso di natalità
medio che si aggirava intorno al 35‰ (ossia 35 nati per anno ogni mille abitanti).
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, in Gran Bretagna, in Germania e negli Stati
Uniti, il tasso scese sotto il 30‰. In Francia la natalità era inferiore al 30‰ già
nel decennio 1830-39. In Italia e in altri paesi mediterranei, ancora alla fine dell’800,
il tasso si manteneva invece ben al di sopra del 35‰: sarebbe sceso sotto il 30‰ solo
negli anni ’20 del ’900.
Per quanto riguarda l’Asia e l’Africa, anch’esse conobbero nella seconda metà dell’800,
nonostante il permanere di alti tassi di mortalità, un incremento della popolazione abbastanza consistente (rispettivamente del 30 e del 20%), anche se molto più limitato
di quello dell’Europa. Il rapporto fra la crescita demografica delle aree industrializzate
e quella dei paesi non ancora toccati dalla modernizzazione avrebbe cominciato a invertirsi
solo con l’inizio del ’900.
Sommario
L’ultimo trentennio dell’800 vide una profonda trasformazione economica. La crisi
di sovrapproduzione del 1873 diede inizio a una fase di rallentamento dello sviluppo
e di caduta dei prezzi – conseguenza soprattutto delle trasformazioni organizzative
e delle innovazioni tecnologiche. In Europa gli effetti più gravi della caduta dei
prezzi si ebbero nell’agricoltura, anche per la concorrenza dei prodotti americani,
più convenienti sul mercato. Si affermò nei vari Stati una politica di sostegno all’economia
nazionale attraverso il protezionismo. Anche la crisi agraria favorì l’affermazione
di politiche doganali per proteggere la produzione nazionale dalla concorrenza estera.
Un altro effetto della crisi fu l’ingente migrazione europea verso le aree industriali
d’oltreoceano. Solo la Gran Bretagna rimase estranea alla tendenza generale ad applicare
misure protezionistiche, venendone danneggiata: alla chiusura dei mercati europei
e allo sviluppo industriale di paesi concorrenti come Francia e Germania, reagì allargando
i commerci internazionali con le colonie. Sempre di ispirazione protezionista fu la
tendenza di varie imprese, spesso afferenti a uno stesso settore, a consociarsi e
accordarsi per una più efficace azione sul mercato (stabilendo, per esempio, il prezzo
dei prodotti per ridurre al minimo la concorrenza). Queste complesse operazioni finanziarie (cartelli, pools, trusts) richiedevano un ingente impiego di capitali, per cui sempre più determinante risultò
il sodalizio tra banche e industrie, che diede vita al cosiddetto capitalismo finanziario.
Mentre la prima rivoluzione industriale era stata dominata dal cotone e dal ferro,
caratteristica fondamentale della seconda rivoluzione industriale fu il rinnovamento
tecnologico nei nuovi settori dell’industria chimica, elettrica e dell’acciaio. Quest’ultimo,
in particolare, migliorato nella sua qualità dalla messa a punto di procedure sempre
più raffinate, conobbe applicazioni d’uso in svariati campi, da quello industriale
a quello della nuova edilizia urbana. Furono soprattutto gli sviluppi della chimica,
però, che aprirono nuove prospettive in quasi tutti i settori produttivi: dalla produzione
di alluminio a quella dei coloranti e delle fibre tessili artificiali, ai nuovi metodi
di conservazione degli alimenti. L’invenzione del motore a scoppio e la produzione
di energia elettrica furono, tuttavia, le novità che meglio rappresentano nell’immaginario
comune la seconda rivoluzione industriale: la prima diede l’impulso decisivo all’estrazione
del petrolio, mentre la seconda rivoluzionava – anzitutto con l’illuminazione – la
vita quotidiana e, dalla fine dell’800, forniva una nuova importante forza motrice
per gli usi industriali. Anche il campo delle comunicazioni venne rivoluzionato da
innovazioni epocali: basti pensare al telegrafo (che consentiva la trasmissione quasi
in tempo reale delle informazioni da un capo all’altro del mondo) e al grammofono
e al cinematografo (che consentivano una riproduzione di suoni e immagini in movimento).
La trasformazione scientifica della medicina poggiò su quattro fattori. In primo luogo
la prevenzione e il contenimento delle malattie epidemiche attraverso la diffusione
delle pratiche igieniste e l’identificazione dei microrganismi responsabili di malattie
infettive come il colera, il tifo e la malaria, quest’ultima neutralizzata da un potente
insetticida (il Ddt). Queste e altre malattie vennero, infatti, controllate e combattute
grazie ai progressi della farmacologia e alla nascita delle prime industrie farmaceutiche.
Infine, la nuova architettura ospedaliera garantì migliori condizioni di trattamento
e degenza ai malati, accolti ora in moderni ospedali (policlinici) organizzati in
reparti.
I progressi della medicina e dell’igiene, sommandosi allo sviluppo dell’industria
alimentare, favorirono in Europa una riduzione della mortalità, che a sua volta determinò
un sensibile aumento della popolazione, soprattutto in quei paesi, come gli Stati
Uniti, mete privilegiate dell’emigrazione oltreoceano. Ciò avvenne nonostante il calo
delle nascite verificatosi, nei paesi economicamente più avanzati, a causa della diffusione
di pratiche contraccettive e di una nuova mentalità tesa a programmare razionalmente
la famiglia.
Bibliografia
L’esposizione più chiara degli aspetti economici e tecnologici della seconda rivoluzione
industriale si trova nel volume di D.S. Landes, Prometeo liberato, Einaudi, Torino 2000 (ed. or. 1969). Più in generale, si vedano: il vol. V, I mercati e le guerre mondiali, 1870-1945 dell’opera a cura di E.S. Rosenberg, Storia del mondo, Einaudi, Torino 2015 (ed. or. 2012) e J. Mokyr, Il cambiamento tecnologico, 1750-1945, in P. Bairoch-E.J. Hobsbawm (a cura di), Storia d’Europa, V, L’età contemporanea. Secoli XIX-XX, Einaudi, Torino 1996.
Per gli sviluppi della medicina e dell’assistenza sanitaria in Italia: F. Della Peruta(a cura di), Malattia e medicina, vol. 7 degli Annali della Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1984; G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia, vol. I, Dalla peste europea alla prima guerra mondiale, 1348-1918, Laterza, Roma-Bari 1998 (ed or. 1987).
Sulle tendenze demografiche in Europa: M. Livi Bacci, La trasformazione demografica delle società europee, Loescher, Torino 1990 (ed. or. 1977); per l’Italia: L. Del Panta-M. Livi Bacci-G.
Pinto-E. Sonnino, La popolazione italiana dal Medioevo a oggi, Laterza, Roma-Bari 1996. Sulle migrazioni: P. Bevilacqua-A. De Clementi-E. Franzina(a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, Donzelli, Roma 2001-2002, 2 voll. e A. De Clementi, L’assalto al cielo. Donne e uomini nell’emigrazione italiana, Donzelli, Roma 2014.
3. Le grandi potenze europee
3.1. Le potenze continentali
Il ventennio 1850-70 fu caratterizzato da un elevato tasso di conflittualità e di
instabilità tra le tre principali potenze dell’Europa continentale: instabilità originata
soprattutto dal tentativo della Francia di Napoleone III di riaffermare la sua posizione
di massima potenza continentale europea (sullo scacchiere mondiale la superiorità
britannica era fuori discussione), rovesciando il sistema sancito dal congresso di
Vienna e contrapponendosi all’Impero asburgico, che di quel sistema era il cardine
principale. Ma l’indebolimento dell’Austria, derivato da un sostanziale immobilismo
politico e sociale, favorì l’ascesa della potenza prussiana. La crescita della Prussia e la sua aspirazione a riunire attorno a sé un grande Stato nazionale tedesco
costituivano una minaccia intollerabile per la Francia, che dalla pace di Vestfalia
del 1648 aveva fondato la sua egemonia continentale proprio sulla debolezza e sulla
frammentazione politica della Germania: la strada dell’unità tedesca passava quindi
inevitabilmente attraverso lo scontro con la Francia.
Nell’Europa di metà ’800 la Francia di Napoleone III rappresentava un caso anomalo.
Per molti aspetti, il nuovo regime (instaurato nel 1852) – che pure ricalcava le forme
istituzionali del Primo Impero napoleonico – inaugurò un modello politico di nuovo
genere, che da allora fu detto “bonapartismo”. Nel bonapartismo l’omaggio formale
al principio della sovranità popolare – espressa attraverso i plebisciti – legittimava
un potere fondato in realtà sulla forza delle armi, in cui il centralismo autoritario
si univa a una certa dose di riformismo sociale e il conservatorismo si mescolava
con la demagogia: tutti elementi che ritroveremo in molti regimi autoritari tipici
delle moderne società di massa. L’autoritarismo e il centralismo di Napoleone III
(all’imperatore, titolare del potere esecutivo, spettavano anche il controllo del
potere giudiziario, la facoltà di proporre leggi e il comando dell’esercito) si fondavano
su un vasto consenso popolare, derivante anche dalla tradizione napoleonica che si manteneva viva
in tutta la Francia. Oltre al sostegno delle campagne l’imperatore cercò e ottenne
quello della borghesia urbana, del mondo degli affari, della finanza e dell’industria.
Questa borghesia fu, negli anni del Secondo Impero, attiva e influente come non era
mai stata prima. Le costruzioni ferroviarie e le grandi opere pubbliche promosse dal
regime svolsero la funzione di motore dello sviluppo, sia per l’edilizia sia per i
settori di punta come il siderurgico e il meccanico. Conseguentemente, un aspetto
importante della cultura e della società del Secondo Impero fu quello che potremmo
definire “tecnocratico”: la tendenza cioè ad affidare sempre maggior potere ai tecnici
(scienziati, ingegneri, esperti di economia e finanza) e a vedere nel trionfo della
tecnica e della civiltà industriale la via più sicura per la realizzazione del bene
comune.
Ma la tradizione bonapartista portava inevitabilmente la Francia a intraprendere una
politica estera ambiziosa e aggressiva. La prima occasione fu la guerra di Crimea,
quando Gran Bretagna e Francia si impegnarono a difendere l’Impero ottomano dall’espansionismo
russo. Nell’estate del 1854 una flotta anglo-francese penetrò nel Mar Nero: gli eserciti
alleati sbarcarono nella penisola di Crimea e posero l’assedio alla piazzaforte russa
di Sebastopoli. La guerra, alla quale partecipò anche il Piemonte con un corpo di
spedizione, si risolse nel lunghissimo assedio di Sebastopoli, durato circa un anno
e conclusosi nel settembre 1855 con la caduta della città. Il successivo congresso
di Parigi confermò la neutralizzazione del Mar Nero, stabilendo che restasse chiuso
alle navi da guerra di tutti i paesi, compresa la Russia. L’Impero ottomano vide garantita
la sua integrità e confermata la sua sovranità nominale sui Principati autonomi di
Serbia, Moldavia e Valacchia: questi ultimi due si sarebbero uniti nel 1859 per formare
il nuovo Stato di Romania.
Una seconda occasione fu quella della vittoriosa guerra contro l’Austria al fianco
del Piemonte cavouriano nel 1859. Ma il risultato principale della guerra – la formazione
di uno Stato nazionale italiano sotto la guida del Piemonte – fu ben lontano dai progetti
di Napoleone III, che mirava in realtà a subentrare all’Austria come potenza egemone
in un’Italia che doveva rimanere divisa.
La guerra di Crimea, 1853-55
La debolezza dell’Impero d’Austria
Dopo le rivoluzioni del ’48-49, l’Impero asburgico si era riorganizzato sulla base
del vecchio sistema assolutistico: il potere tornò a concentrarsi nelle mani dell’imperatore,
l’apparato poliziesco fu consolidato, il centralismo amministrativo rafforzato. La
Costituzione concessa nel 1849, e mai realmente applicata, fu revocata nel 1851: solo
dieci anni dopo fu ricostituito un Parlamento bicamerale, dotato peraltro di poteri
molto limitati. Del resto, nonostante il persistere dei contrasti di nazionalità –
che erano stati aggravati dalle vicende del ’48 – il potere imperiale poteva contare
sul sostegno della maggioranza dei contadini, favoriti dall’abolizione della servitù
della gleba, e su quello della Chiesa cattolica. Appoggiandosi su queste forze, lo
Stato sacrificò le esigenze dei settori industriali (soprattutto quelli delle zone
più progredite, come la Boemia e la Lombardia), chiamati a pagare i costi di un imponente
apparato amministrativo e militare, e mancò in sostanza l’appuntamento con lo sviluppo
economico degli anni ’50 e ’60 senza peraltro mantenere, anche a causa delle ripetute
sconfitte militari, il ruolo da protagonista della scena europea che aveva prima del
’48.
La forza della Prussia
Negli stessi anni la Prussia proponeva con autorità la sua candidatura alla guida
della nazione tedesca, fidando soprattutto sulla forza trainante del suo sviluppo
industriale e sulla stretta integrazione della sua economia con quella degli altri
Stati germanici, uniti fin dal 1834 in una Lega doganale (Zollverein) da cui era invece esclusa l’Austria. La Prussia, infatti, si era sviluppata, a partire
dagli anni ’50, a un ritmo che non aveva uguali in Europa. Questa espansione industriale
e la crescita di una forte borghesia si concentrarono soprattutto nella parte occidentale
dello Stato prussiano (cioè nella Renania-Vestfalia). Lo sviluppo economico non era
stato accompagnato, però, da un’evoluzione delle istituzioni in senso liberal-parlamentare:
al contrario i vertici dello Stato continuavano a essere occupati dagli esponenti
degli Junker, gli aristocratici proprietari terrieri. Proprio il conservatorismo sociale
si rivelò una componente essenziale di quella “via prussiana” allo sviluppo, guidato
dall’alto e legato al potenziamento militare, che avrebbe finito col costituire una
sorta di modello alternativo a quello britannico. Inoltre, elementi di modernità come
un efficiente sistema di comunicazioni interne (strade, canali), una rete ferroviaria
relativamente sviluppata e un’alta diffusione dell’istruzione rappresentarono un fattore
decisivo per i successi della Prussia nel campo economico come in quello militare.
Così il tradizionalismo degli Junker e le aspirazioni nazionali della borghesia finirono
col trovare un terreno di convergenza nella politica di potenza dello Stato prussiano
e nel suo necessario complemento, ossia lo sviluppo di un forte esercito.
L’artefice principale di questa politica fu Otto von Bismarck, un tipico rappresentante degli Junker che non aveva mai fatto mistero
della sua avversione alla democrazia e al liberalismo. Nominato primo ministro nel
1862 dal re Guglielmo I, Bismarck si impegnò a realizzare, anche contro le riserve
del Parlamento, una riforma dell’esercito che prevedeva l’aumento degli organici e
il prolungamento del servizio di leva in funzione dell’obiettivo dell’unificazione.
Per raggiungere questo obiettivo la Prussia doveva sconfiggere sul campo di battaglia
Austria e Francia, i due nemici di un’unità tedesca a guida prussiana. Del resto il
programma politico di Bismarck era stato chiaramente enunciato quando aveva sostenuto
che le grandi questioni si sarebbero risolte «non con discorsi né con deliberazioni
della maggioranza – questo era stato l’errore del ’48-49 – bensì col ferro e col sangue».
3.2. Le guerre di Bismarck e l’unità tedesca
La guerra contro l’Austria
La contesa tra Austria e Prussia relativamente all’amministrazione dei Ducati di Schleswig,
Holstein e Lauenburg, sottratti dalle due potenze alla Danimarca nel 1864, costituì
il pretesto di una guerra nel 1866. Garantitasi la neutralità della Russia e della
Francia, e alleatasi con l’Italia, la Prussia sconfisse l’Austria nella grande battaglia campale di Sadowa in Boemia (3 luglio). A conferma della preponderante
superiorità militare prussiana, la guerra era durata solo tre settimane. Giocarono
a favore dei prussiani la perfetta organizzazione dell’esercito, guidato dal generale
von Moltke, la miglior qualità degli armamenti (le truppe erano dotate per la prima
volta di fucili a retrocarica, che consentivano una superiore rapidità di tiro), la
tempestività degli spostamenti dovuta a un razionale sfruttamento delle ferrovie.
Fu, quella del ’66, la prima delle numerose guerre di movimento che avrebbero reso celebre e temuta la macchina militare tedesca.
Nella successiva pace di Praga l’Austria non subì mutilazioni territoriali, salvo
quella del Veneto ceduto all’Italia [cfr. 6.5]. Ma dovette accettare lo scioglimento della vecchia Confederazione germanica, e dunque
la fine di ogni sua influenza nell’Europa centro-settentrionale, dove a nord del fiume
Meno si formò la nuova Confederazione della Germania del Nord a guida prussiana.
I nuovi equilibri spinsero l’Impero asburgico a spostare il centro dei suoi interessi
verso l’area danubiano-balcanica e a cercare una nuova soluzione per il problema delle
nazionalità che convivevano al suo interno. Nel 1867 l’Impero fu diviso in due Stati,
l’uno austriaco, l’altro ungherese (da ora in poi si parlerà infatti di Impero austro-ungarico), uniti fra loro nella
persona del sovrano, ma ciascuno con un proprio Parlamento e un proprio governo, salvo
che per i ministeri preposti agli affari di interesse comune (Esteri, Guerra e Finanze).
Col “compromesso” del ’67, la dinastia asburgica si accordava col gruppo nazionale
più forte e compatto, ma scontentava soprattutto gli slavi che avrebbero rappresentato
da allora il pericolo più grave per l’unità dell’Impero [cfr. 3.4].
La guerra franco-prussiana
Il cammino verso l’unificazione tedesca procedeva secondo un programma di politica
di potenza che la borghesia liberale era costretta ormai a subire e che era fuori
dal controllo del Parlamento, nel quale le posizioni liberali erano state sconfitte
dal rapporto diretto del cancelliere con il sovrano: sulle spese militari Bismarck
decise infatti di scavalcare il Parlamento e di farle approvare per decreto reale.
L’ultimo ostacolo sulla via dell’unità era rappresentato dalla Francia di Napoleone
III, deciso a non consentire ulteriori ingrandimenti alla Prussia.
L’occasione per il conflitto fu offerta da una questione dinastica. Nel 1868 il trono
di Spagna era rimasto vacante e la corona era stata offerta a un parente del re di
Prussia. La prospettiva di un principe tedesco sul trono di Spagna spaventava ovviamente
la Francia, che si sentiva minacciata di accerchiamento. L’opinione pubblica francese
insorse compatta e la reazione del governo fu fermissima. Bismarck esasperò abilmente
queste tendenze bellicose rilasciando, all’indomani di un incontro fra Guglielmo I
e l’ambasciatore francese, un comunicato stampa formulato in modo volutamente provocatorio:
vi si lasciava intendere che l’ambasciatore era stato messo alla porta dal re. Quel
comunicato provocò in Francia, e soprattutto a Parigi, un’ondata di furore nazionalistico. Il governo e lo stesso imperatore, fino ad allora esitante, si lasciarono trascinare
dalla spinta dell’opinione pubblica e, il 19 luglio 1870, dichiararono guerra alla
Prussia.
La Francia affrontò il conflitto in un clima di grande entusiasmo, ma con scarsa preparazione
militare. L’esercito, che pure poteva contare su un armamento moderno ed efficiente,
era nettamente inferiore a quello prussiano sia per il numero degli effettivi sia
per l’organizzazione. Come nella guerra contro l’Austria del ’66, le truppe comandate
dal generale von Moltke si mossero con grande rapidità: il 1° settembre, mentre metà
dell’esercito francese veniva circondata a Metz in Lorena, l’altra metà venne accerchiata
a Sedan, presso il confine col Belgio, e costretta ad arrendersi. Lo stesso imperatore
fu preso prigioniero dai tedeschi.
Pochi giorni dopo, nella capitale francese minacciata dai prussiani, abbattuto l’impero
e proclamata la repubblica, si formava un governo provvisorio. Invano il ministro
della Guerra Léon Gambetta, fuggito con un pallone aerostatico da Parigi assediata,
tentò di rianimare la resistenza organizzando la leva in massa nelle province e mobilitando
il popolo contro gli invasori (in questa occasione intervenne in difesa della nuova
Francia repubblicana anche un corpo di volontari italiano comandato da Garibaldi).
Dopo una serie di sconfitte il governo fu costretto a chiedere l’armistizio nel gennaio
1871.
L’unificazione tedesca e il desiderio di rivincita francese
Nel frattempo, il 9 dicembre 1870, era stato proclamato l’Impero tedesco – il secondo
Reich (“impero”, in tedesco) dopo il Sacro romano impero di Carlo Magno – che nasceva dalla
fusione della Prussia e degli Stati della Confederazione del Nord con gli Stati della
Germania meridionale tra cui il Regno di Baviera. Il 18 gennaio 1871 nella Reggia
di Versailles, luogo-simbolo della potenza dei re di Francia, Guglielmo I fu incoronato
imperatore tedesco (Deutscher Kaiser). L’unità tedesca era compiuta: un’unità calata dall’alto, attuata in seguito a una
guerra combattuta fuori dai confini nazionali contro il nemico tradizionale, soprattutto
per l’iniziativa di uno statista abile e autoritario; mai ratificata, dunque, da un
plebiscito o da una qualsiasi forma di consultazione popolare.
Con la successiva pace di Francoforte non solo la Francia fu costretta a corrispondere
una pesante indennità di guerra, ma dovette cedere al Reich l’Alsazia e la Lorena,
due regioni di confine di notevole importanza economica e strategica. La disfatta
di Sedan, l’invasione del paese, la caduta di Parigi e la perdita dell’Alsazia-Lorena
rappresentarono per la Francia molto più che una sconfitta militare. Si trattò di
una vera e propria umiliazione nazionale. Il desiderio di riparare a questa umiliazione
– il cosiddetto “revanscismo”, dal francese revanche, “rivincita” – avrebbe condizionato per quasi mezzo secolo la politica francese determinando
un’insanabile rivalità.
La formazione dell’Impero tedesco
3.3. La Comune di Parigi
Lo scontro tra la capitale e la Francia rurale
Dopo la battaglia di Sedan, che aveva sancito la vittoria prussiana, era stato il
popolo della capitale francese a insorgere, a costituire una Guardia nazionale e a
decretare la fine del regime napoleonico. Parigi aveva vissuto la caduta dell’Impero
come una nuova occasione rivoluzionaria e al tempo stesso come l’inizio di una riscossa
nazionale. Molto diverso era l’orientamento nelle campagne e nei centri minori, dove
prevalevano le tendenze conservatrici. La frattura si delineò con chiarezza dopo le
elezioni della nuova Assemblea nazionale, che si tennero nel febbraio 1871. Grazie al voto delle campagne,
l’Assemblea, che tenne le sue prime riunioni a Bordeaux, risultò composta in stragrande
maggioranza da moderati e conservatori. A presiedere il governo fu chiamato Adolphe
Thiers, un esponente della Francia moderata, già ministro di Luigi Filippo d’Orléans.
Appena entrato in carica, il nuovo governo si affrettò ad aprire trattative di pace.
Ma, quando furono note le durissime condizioni imposte da Bismarck (che prevedevano
fra l’altro l’ingresso delle truppe tedesche nella capitale), il popolo di Parigi
protestò in massa e decise di difendere la città. Lo scontro fra la Parigi rivoluzionaria
e la Francia rurale e conservatrice diventava inevitabile, né Thiers fece nulla per
evitarlo. Quando, a metà marzo, il governo ordinò la consegna delle armi raccolte
per la difesa della capitale, il comando della Guardia nazionale rifiutò di obbedire
e indisse le elezioni per il Consiglio della Comune.
L’esperienza rivoluzionaria della Comune
In queste elezioni, tenutesi in marzo, l’elettorato conservatore si astenne in gran
parte dalle urne – anche perché i ricchi avevano abbandonato in massa la capitale
– e il potere restò nelle mani dei gruppi di estrema sinistra, democratico-giacobini
ma anche socialisti e anarchici. Per quanto divisi da seri contrasti, i dirigenti
della Comune diedero vita nel giro di poche settimane a un esperimento radicale di
democrazia diretta. Fu abolita la distinzione fra potere esecutivo e legislativo,
tutti i funzionari furono resi elettivi e continuamente revocabili, l’esercito venne
sostituito da milizie popolari armate. Queste misure provocarono l’allarme dei conservatori
e dei moderati e suscitarono l’entusiasmo dei rivoluzionari di tutta Europa. Marx
e Bakunin [cfr. 1.7] videro nella Comune il primo esempio di gestione diretta del potere da parte delle
masse, quasi un modello per la futura società socialista.
Racchiusa entro i confini di una sola città, isolata dal resto del paese, occupato
per giunta da truppe straniere, la Comune non riuscì a coinvolgere anche i piccoli
centri e le campagne. Gli appelli lanciati da Parigi agli altri comuni di Francia
perché si associassero alla capitale in una libera federazione caddero nel vuoto.
E l’esperienza della Comune durò non più di due mesi: il tempo necessario a Thiers
per raccogliere, con l’assenso degli occupanti tedeschi, un esercito abbastanza forte
per muovere alla conquista della capitale. Fra il 21 e il 28 maggio le truppe governative
procedettero all’assalto di Parigi, che fu difesa strada per strada dalle milizie
popolari. La battaglia fu condotta da ambo le parti con estrema determinazione. Alle
esecuzioni sommarie – circa 20 mila uomini furono passati per le armi senza processo
durante la “settimana di sangue” – i difensori della Comune risposero con sanguinose
rappresaglie, che contribuirono ad accentuare nell’opinione pubblica moderata i sentimenti
di paura e odio per i rivoluzionari. Per la seconda volta in poco più di vent’anni,
il movimento rivoluzionario francese si ritrovava alla fine sconfitto e decimato.
3.4. L’Impero tedesco e la politica di Bismarck
Il trionfo della politica di potenza
All’inizio degli anni ’70, all’indomani della guerra franco-prussiana, una nuova concezione
dei rapporti internazionali si andò diffondendo in tutta Europa. Il modo stesso in
cui era stata preparata e realizzata l’unità tedesca aveva fatto tramontare, agli
occhi di molti uomini politici e di molti intellettuali, alcuni fra i princìpi fondamentali
della cultura liberal-democratica ottocentesca, come il diritto di nazionalità e la libertà dei popoli. Si affermava sempre più l’ideologia
della forza, del fatto compiuto, della pura politica di potenza, fondata sullo sviluppo
degli eserciti permanenti e degli armamenti di terra e di mare. A questo nuovo clima
contribuì il mutamento della congiuntura economica, che, come abbiamo visto [cfr. 2.1], indusse quasi tutti gli Stati europei a ripudiare la politica del libero scambio
e ad accentuare le misure protezionistiche.
Istituzioni politiche e classe dirigente del nuovo Reich
Con 40 milioni di abitanti, una vasta disponibilità di materie prime, un’economia
in continua crescita, un esercito di provata efficienza e un sistema di istruzione
altrettanto qualificato, il nuovo Stato tedesco si presentava come la maggiore potenza
continentale europea. Dal punto di vista istituzionale, il Reich ereditava la struttura
della vecchia Confederazione germanica: era infatti diviso in venticinque Stati –
alcuni vastissimi, come la Prussia, altri piccoli o piccolissimi – con propri governi
e Parlamenti (che avevano però funzioni prevalentemente amministrative) e in qualche
caso un proprio esercito, come la Baviera. La grande politica era di competenza del
governo centrale, presieduto da un cancelliere responsabile di fronte all’imperatore.
Il potere legislativo era esercitato dal Parlamento, diviso in due Camere, una Camera
elettiva, il Reichstag, eletta a suffragio universale, e un Consiglio federale, il
Bundesrat, composto da rappresentanti dei singoli Stati. Come nella Prussia preunitaria,
il Parlamento aveva limitate possibilità di condizionare il potere esecutivo, concentrato
nelle mani dell’imperatore e del cancelliere. Come in Prussia, il blocco sociale dominante
era costituito da una solida alleanza fra il mondo industriale e bancario e l’aristocrazia
terriera e militare: un blocco che fu rinsaldato dalla politica protezionista adottata
da Bismarck, a vantaggio soprattutto dell’industria pesante e della cerealicoltura.
I partiti politici
Una vivace dialettica politica caratterizzò la Germania con la nascita di nuovi e
forti movimenti politici di massa. Alle tradizionali formazioni liberali e conservatrici
che avevano dominato la scena parlamentare in Prussia negli anni ’60 – il Partito
conservatore, espressione degli Junker, il Partito nazional-liberale, che rappresentava
la borghesia industriale e commerciale, e il piccolo raggruppamento degli intellettuali
liberal-progressisti – si aggiunse, nel 1871, il partito cattolico del Centro. Nel
1875, dall’accordo fra la corrente marxista e quella che si ispirava a Lassalle, nacque
il Partito socialdemocratico tedesco (Spd). Mentre la socialdemocrazia traeva la sua forza dalla massiccia adesione operaia
delle regioni e città industriali, il Centro poggiava su una base sociale formata
per lo più da agricoltori e ceti medi urbani presenti in Renania e in Baviera.
Bismarck contro i cattolici e i socialdemocratici
Nei primi anni ’70 Bismarck iniziò una politica duramente anticattolica – il Kulturkampf, la “battaglia per la civiltà” – emanando una serie di misure volte non solo ad affermare
il carattere laico dello Stato (obbligo del matrimonio civile, abolizione di ogni
controllo religioso sull’insegnamento), ma anche a porre sotto sorveglianza l’attività del clero cattolico. La lotta scatenata da Bismarck ebbe però l’effetto di stimolare
l’orgoglio e la compattezza dei cattolici tedeschi, che, sotto la guida di un leader
di grandi capacità, Ludwig Windthorst, riuscirono nel giro di pochi anni a raddoppiare
la loro rappresentanza parlamentare. Bismarck fu costretto, così, ad attenuare le misure anticattoliche e a varare una
nuova legislazione ecclesiastica, molto più moderata della precedente.
L’abbandono del Kulturkampf fu imposto al cancelliere anche dalla necessità di fronteggiare la minaccia che veniva
dall’ascesa della socialdemocrazia. Già nel 1878, traendo pretesto da due attentati
falliti contro l’imperatore, il governo varò una serie di leggi eccezionali specificamente
rivolte contro il movimento socialdemocratico. Le «leggi contro le tendenze sovvertitrici»
ponevano gravi limitazioni alla libertà di stampa e di riunione e dichiaravano illegali
tutte le associazioni «aventi lo scopo di provocare il rovesciamento dell’ordinamento
statale o sociale esistente», costringendo così la socialdemocrazia a una condizione
di semiclandestinità.
Le leggi sociali
Nel tentativo di soffocare sul nascere lo sviluppo del movimento operaio, Bismarck
non si limitò però alle misure repressive. Fra il 1883 e il 1889 il Parlamento approvò,
su proposta del governo, alcune importanti leggi di tutela delle classi lavoratrici,
che istituivano assicurazioni obbligatorie per gli infortuni sul lavoro, le malattie
e la vecchiaia, facendone gravare il peso in parte sugli imprenditori, in parte sullo
Stato, in parte sui lavoratori stessi. In un’epoca in cui le attività previdenziali
e assistenziali erano affidate all’iniziativa dei privati o delle istituzioni religiose,
la legislazione sociale varata da Bismarck era obiettivamente molto avanzata. Dando
soddisfazione ad alcune delle esigenze più sentite dalla classe operaia e al tempo
stesso rifiutando di riconoscere legittimità alla sua rappresentanza organizzata,
Bismarck mirava a integrare le masse lavoratrici nello Stato in una posizione subalterna.
I successi della socialdemocrazia
Questa operazione andò però incontro a un insuccesso politico analogo a quello subìto
nella lotta contro i cattolici. Il varo della legislazione sociale non impedì la nascita,
alla fine degli anni ’80, di un forte movimento sindacale guidato dai socialdemocratici. D’altra parte le leggi eccezionali, prorogate periodicamente
fino al 1890, non riuscirono a bloccare la crescita elettorale della socialdemocrazia,
che passò dai circa 500 mila voti del 1878 a quasi 1 milione e mezzo (il 18% dei suffragi,
con 35 deputati al Reichstag) nel 1890. L’affermazione socialdemocratica sancì il
fallimento della politica bismarckiana nei confronti del movimento operaio e contribuì
a provocare, nel 1890, l’allontanamento dal governo dell’onnipotente cancelliere.
La politica estera e il sistema bismarckiano
Nel ventennio in cui rimase al potere Bismarck fu l’arbitro dell’equilibrio europeo.
Dopo la vittoria sulla Francia, infatti, il cancelliere tedesco costruì un sistema
di alleanze che aveva come scopo principale quello di impedire che la Francia potesse
uscire dal suo isolamento politico-diplomatico. A questo fine si alleò con l’Austria-Ungheria,
con la Russia e con l’Italia, contando sul fatto che la Gran Bretagna non si sarebbe
mai avvicinata alla Francia, sia per la sua riluttanza a impegnarsi sul continente
europeo, sia per la rivalità che opponeva le due potenze nell’espansione coloniale
in Africa [cfr. 5.2].
Fulcro iniziale del sistema bismarckiano fu il patto dei tre imperatori, stipulato
nel 1873 fra Germania, Austria-Ungheria e Russia: un patto difensivo che si fondava soprattutto sulla solidarietà fra le
tre monarchie autoritarie e aveva per obiettivo palese la tutela degli equilibri conservatori
all’interno dei singoli Stati. L’alleanza aveva però un punto debole: la vecchia rivalità fra Austria
e Russia nella penisola balcanica, dove le popolazioni slave erano in perenne ribellione
contro il dominio ottomano.
Fra il 1875 e il 1876 il governo turco represse con grande spargimento di sangue una
serie di rivolte scoppiate in Bosnia, in Erzegovina e in Bulgaria. Nella primavera
del ’77 la Russia, grande protettrice dei popoli slavi, dichiarò guerra alla Turchia
ottomana e la sconfisse, imponendole una pace quanto mai onerosa, che in pratica avrebbe
sancito l’egemonia russa nei Balcani. Come era avvenuto nel 1854, in occasione della
guerra di Crimea [cfr. 3.1], questa prospettiva allarmò le altre potenze europee. Austria-Ungheria e Gran Bretagna,
in particolare, minacciarono di intervenire contro la Russia.
Dal congresso di Berlino alla Triplice alleanza
A questo punto fu Bismarck a prendere l’iniziativa, nel ruolo del mediatore. Un congresso
delle potenze europee fu convocato a Berlino nell’estate del ’78, dove si giunse a
un accordo che limitava notevolmente i vantaggi ottenuti dalla Russia, pur ridisegnando
radicalmente gli equilibri della penisola balcanica. La Bulgaria ottenne l’indipendenza,
ma entro confini assai più ristretti rispetto a quelli determinati dall’esito del
conflitto russo-turco dell’anno precedente. La Bosnia e l’Erzegovina furono dichiarate autonome, ma affidate in “amministrazione
temporanea” all’Austria. La Gran Bretagna ottenne l’isola di Cipro, in posizione strategica
per il controllo del Canale di Suez che collega ancora oggi il Mediterraneo al Mar
Rosso [cfr. 5.4]. La Francia ebbe mano libera per una eventuale espansione in Tunisia nel Nord Africa.
In questo modo Bismarck non solo indirizzava verso obiettivi extraeuropei le velleità
espansionistiche della Francia, ma creava le premesse per un contrasto con l’Italia.
Scongiurato il pericolo di un conflitto, Bismarck cercò di ricucire l’alleanza con
l’Austria e la Russia. Ci riuscì nel 1881, quando fu rinnovato il patto dei tre imperatori.
Un anno dopo l’edificio fu completato con la stipulazione della Triplice alleanza, che inseriva nel sistema bismarckiano anche l’Italia come alleata della Germania
e dell’Austria.
3.5. La Repubblica in Francia
Dopo i traumi della sconfitta e la “settimana di sangue” con cui si chiuse l’esperienza
della Comune, la Francia non tardò a manifestare segni di ripresa. Nel luglio del ’72, quasi a dimostrare la volontà di rivincita del paese, l’Assemblea
nazionale decise l’introduzione del servizio militare obbligatorio. Nel settembre
’73 fu ultimato il pagamento dell’indennità di guerra dovuta ai tedeschi. Alla fine
degli anni ’70 la Francia aveva già recuperato buona parte del suo prestigio internazionale,
disponeva di un forte esercito e cominciava a incamminarsi con decisione sulla strada
delle conquiste coloniali.
La Terza Repubblica e la nuova Costituzione
Più travagliato fu il processo di stabilizzazione politica. La stessa forma di governo
repubblicana fu a lungo in forse, dato che i membri dell’Assemblea nazionale, incaricata
di redigere la nuova Costituzione, erano in maggioranza favorevoli alla restaurazione
della monarchia. Solo le fratture interne allo schieramento monarchico – diviso fra
i legittimisti, fautori di un ritorno dei Borbone, e gli orleanisti, che volevano
sul trono gli eredi di Luigi Filippo – e un accordo raggiunto in extremis fra orleanisti e repubblicani moderati consentirono il varo di una Costituzione repubblicana.
La Costituzione della Terza Repubblica del 1875 prevedeva che il potere legislativo
fosse esercitato da una Camera eletta a suffragio universale maschile e da un Senato
composto da membri in parte vitalizi e in parte elettivi. Un elemento di stabilità
era costituito dalla figura del presidente della Repubblica, capo dell’esecutivo, che veniva eletto dalle Camere riunite
e godeva in teoria di poteri molto ampi. La Carta costituzionale, così concepita,
rappresentava un compromesso fra una soluzione di tipo presidenziale, all’americana,
preferita dai moderati, e una di stampo parlamentare, sostenuta dai democratici: la
prima avrebbe conferito amplissimi poteri al presidente della Repubblica, la seconda
maggiori poteri al Parlamento. La Costituzione del 1875 rappresentò un indubbio successo
per i repubblicani francesi che, nelle elezioni del 1876, riuscirono a capovolgere
la tendenza conservatrice fino ad allora prevalente nell’elettorato e ad assicurarsi
una solida maggioranza.
Opportunisti e radicali
A dominare la scena politica furono i repubblicani dell’ala moderata, i cosiddetti
“opportunisti”, la cui forza stava essenzialmente in un solido legame con l’elettorato
“medio”, quello dei commercianti, degli impiegati e soprattutto dei piccoli agricoltori.
Di questo elettorato essi seppero interpretare la generica aspirazione al progresso,
ma anche le tendenze conservatrici in materia di rapporti sociali. Di qui le critiche
dei repubblicani più avanzati – o radicali, come allora si definirono in contrapposizione agli opportunisti – che costituirono
un forte raggruppamento autonomo capeggiato da Georges Clemenceau.
L’operato dei governi repubblicani
Fu comunque sotto la guida dei governi repubblicano-moderati che la Francia poté consolidare
le sue istituzioni democratiche e superare gradualmente le fratture provocate dalla
Comune del ’71. Nel 1880 fu approvata un’amnistia per i comunardi incarcerati o deportati,
che permise al movimento operaio francese di ricostituire lentamente le sue file.
Nel 1884 il Senato divenne completamente elettivo. Sempre nel 1884, furono approvate
tre leggi di notevole importanza: quella che garantiva la libertà di associazione
sindacale, quella che ampliava le autonomie locali, stabilendo fra l’altro l’elettività
dei sindaci, e quella che introduceva il divorzio.
L’azione dei governi repubblicani fu incisiva soprattutto nell’affermazione della
laicità dello Stato, in particolare nel settore della scuola, tradizionale terreno
di scontro fra cattolici e laici, fra democratici e conservatori. Con una serie di
leggi approvate fra l’80 e l’85, l’istruzione elementare fu resa obbligatoria e gratuita
e posta sotto il controllo statale, mentre le università e gli istituti superiori
gestiti dal clero furono privati del diritto di rilasciare titoli legali di studio.
Corruzione politica e speculazione finanziaria
L’indebolimento dei poteri del presidente della Repubblica a favore dell’instaurarsi
di una prassi di governo sempre più centrata sull’attività del Parlamento ebbe come
conseguenza negativa un’altissima instabilità degli esecutivi, aggravata dalla mancanza
di schieramenti politici compatti. Un altro male storico della Terza Repubblica fu
la corruzione diffusa nelle alte sfere del potere. Una corruzione che – come già nella
monarchia di Luigi Filippo e nel Secondo Impero – affondava le sue radici nello stretto
legame fra il mondo politico e gli ambienti della speculazione finanziaria, e che
trovava nuovo alimento nelle rapide possibilità di guadagno offerte dall’espansione
coloniale [cfr. 5.2 e 5.4]. Il susseguirsi di scandali politico-finanziari mise spesso a dura prova la solidità
delle istituzioni e seminò disagio e sfiducia in larghi settori dell’opinione pubblica.
Un segno eloquente di questo disagio si ebbe alla fine degli anni ’80, quando un generale
in fama di repubblicano, Georges Boulanger, si mise a capo di un vasto ed eterogeneo
movimento che invocava una riforma delle istituzioni in senso autoritario e antiparlamentare.
L’avventura neobonapartista di Boulanger ebbe breve durata: nel 1889, accusato di
aver preso parte a un complotto contro la Repubblica, il generale fuggì all’estero
dove si uccise poco dopo. L’episodio rivelava, tuttavia, che le tentazioni autoritarie
erano sempre vive nella società francese e toccavano anche settori politici diversi
dalla destra tradizionale.
3.6. Il liberalismo in Gran Bretagna
La Gran Bretagna a metà ’800
La Gran Bretagna rimaneva, alla metà dell’800, la più progredita fra le grandi potenze
europee. Produceva i due terzi del carbone e la metà del ferro di tutto il mondo.
Aveva la rete ferroviaria più sviluppata in relazione al territorio e una flotta mercantile
pari alla metà di quella di tutti gli altri paesi europei messi insieme. Era il centro
commerciale e finanziario cui facevano capo i traffici di tutti i continenti. Possedeva
un impero coloniale già vasto e, come vedremo, in via di ulteriore espansione. Aveva
un tasso di analfabetismo fra i più bassi del mondo. Aveva infine le istituzioni politiche
più libere d’Europa.
Il ventennio ’46-66, caratterizzato dalla presenza quasi ininterrotta dei liberali al governo, segnò un ulteriore consolidamento del sistema parlamentare, cioè
di quel sistema, nato proprio in Gran Bretagna, che subordinava la vita di un governo
alla fiducia del Parlamento e faceva di quest’ultimo l’arbitro indiscusso della vita
politica. Alla Corona era invece affidato un ruolo essenzialmente simbolico di personificazione
dell’identità nazionale, ruolo che si manifestò pienamente nel corso del lunghissimo
regno della regina Vittoria (dal 1837 al 1901). Il sistema parlamentare non era però
sinonimo di democrazia. In Gran Bretagna molti poteri spettavano ancora alla Camera
alta, ossia alla Camera dei Lord, alla quale si accedeva per diritto ereditario o
per nomina regia. La stessa Camera elettiva, la Camera dei Comuni, era espressione
di uno strato piuttosto ristretto della popolazione: in base alla legge elettorale del 1832, avevano diritto al voto negli anni ’60 circa
1.300.000 persone, ossia il 15% del totale dei maschi adulti. Inoltre la pratica del
voto palese, che sarebbe stata abolita solo nel 1872, rappresentava, soprattutto nelle
zone rurali, un potente mezzo di condizionamento a vantaggio dell’aristocrazia terriera.
Riforma elettorale e alternanza al governo di liberali e conservatori
Nel 1865 il leader dei liberali William Gladstone, facendosi interprete della parte
più dinamica della società britannica – la borghesia industriale alleata con le frange
più qualificate della classe operaia –, presentò un progetto di legge che prevedeva
una limitata estensione del diritto di voto. La proposta provocò però, nel 1866, la
caduta del governo liberale e il ritorno al potere dei conservatori. Ma furono proprio
i conservatori, sotto la spinta di un nuovo e dinamico leader, Benjamin Disraeli (un
ebreo di origine veneziana convertito adolescente all’anglicanesimo), ad assumere
l’iniziativa di una riforma elettorale più avanzata di quella proposta da Gladstone.
La nuova legge, o ReformAct, varata nel 1867, aumentava di quasi un milione la consistenza del corpo elettorale, ammettendo al
voto i lavoratori urbani a reddito più elevato. Spingendo i conservatori a farsi promotori
della riforma, Disraeli mostrava di riconoscere il peso che i lavoratori dell’industria
avevano assunto nella società britannica e cercava di allargare in quella direzione
la base di consenso del suo partito.
Fino alla fine degli anni ’70 Gladstone e Disraeli si alternarono al governo, distinguendosi
soprattutto per lo stile politico e per la diversa impostazione della politica estera:
più legato Gladstone agli ideali del liberalismo, più proiettato sugli obiettivi imperiali della politica britannica
Disraeli [cfr. 5.1], che cercò di assicurarsi un solido consenso popolare, promuovendo importanti riforme
sociali in tema di salute pubblica e di edilizia popolare. A partire dal 1880 i liberali
tornarono a dominare la scena politica promuovendo, nel 1884, una nuova riforma elettorale
che allargava ulteriormente il diritto di voto estendendolo alla maggioranza dei lavoratori
agricoli.
Il problema irlandese
In questa fase, però, il governo liberale fu costretto a dedicare buona parte delle
sue energie alla “questione irlandese”. Negli irlandesi convivevano infatti fedeltà
al cattolicesimo (e alla Chiesa di Roma) e tendenze indipendentiste di marca nazionalista,
entrambi fattori che mettevano in discussione l’appartenenza al Regno Unito. Alla
fine degli anni ’70, inoltre, l’Irlanda aveva visto aggravare le sue già disagiate
condizioni economiche a causa della grave crisi che aveva colpito l’agricoltura europea
[cfr. 2.1]. Alla pressione del movimento indipendentista – che si esprimeva sia con le lotte
parlamentari sia con gli atti terroristici – Gladstone rispose presentando in Parlamento
un progetto che prevedeva la concessione di ampie autonomie all’isola seppure nella
cornice istituzionale del Regno Unito. Questo progetto (Home Rule) provocò una forte opposizione nello stesso partito liberale e la secessione degli
esponenti unionisti, cioè contrari alla autonomia dell’Irlanda, guidati da Joseph Chamberlain, leader
della corrente di sinistra, che vantava forti legami con l’elettorato operaio. L’apporto
degli unionisti consentì ai conservatori di affermarsi nelle elezioni del 1886 e di
mantenere a lungo il potere rinnovando il tentativo, che era stato già di Disraeli,
di coniugare la politica imperialistica con una certa dose di riformismo sociale.
3.7. La Russia tra arretratezza e modernizzazione
Nella seconda metà dell’800, la Russia conservava, fra le grandi potenze europee,
il primato dell’arretratezza politica e civile. Era ancora uno Stato autocratico,
il cui controllo supremo era riposto nelle mani dello zar. Inoltre, all’inizio degli
anni ’50 più del 90% della popolazione era occupato nell’agricoltura e oltre 20 milioni
di contadini (su un totale di circa 60 milioni di abitanti) erano soggetti alla servitù
della gleba: erano cioè legati alla terra che coltivavano – dunque comprati e venduti
assieme a essa – e subordinati personalmente ai proprietari. Un’aristocrazia terriera
assenteista, propensa a consumare le proprie rendite in spese di prestigio più che
a investirle in impieghi produttivi, dominava ancora incontrastata come nell’Europa
dell’ancien régime.
All’immobilismo delle strutture politiche e sociali faceva singolare riscontro l’eccezionale
livello della vita intellettuale. L’800 fu il secolo d’oro della letteratura russa: grandi scrittori come Turgenev, Tolstoj, Dostoevskij,
echov ci offrono un quadro vivissimo di una società diversa in ogni suo aspetto da
quella dell’Europa occidentale e ci restituiscono gli echi di un dibattito ideologico
quanto mai vivace.
Lo zar Alessandro II
Nel 1855 salì sul trono imperiale Alessandro II. Il nuovo zar iniziò il suo regno
concedendo un’amnistia ai detenuti politici e varando una serie di riforme che avevano
lo scopo di introdurre elementi di modernizzazione nella burocrazia, nella scuola,
nel sistema giudiziario e nell’esercito. Ma la riforma di gran lunga più importante
cui Alessandro II legò il suo nome fu l’abolizione della servitù della gleba. Grazie
a una serie di decreti imperiali emanati nel febbraio 1861, i servi acquistarono la
libertà personale e la parità giuridica con gli altri cittadini e, contemporaneamente,
ebbero la possibilità di riscattare le terre che coltivavano e di trasformarsi così
in piccoli proprietari. L’assegnazione delle terre agli ex servi, tuttavia, avvenne
con criteri non uniformi, e comunque tali da salvaguardare le grandi proprietà. Agli
entusiasmi che avevano accompagnato l’inizio della riforma subentrò ben presto nelle
campagne un clima di delusione e di malcontento, rivolto soprattutto contro i signori
accusati (a torto) di aver deliberatamente travisato e tradito l’autentica volontà
dello zar. Vi furono proteste e vere e proprie ribellioni, represse con l’intervento
dell’esercito.
I populisti
Con le travagliate vicende legate all’emancipazione dei servi si chiuse la breve stagione
liberalizzante del regno di Alessandro II. Dopo il 1861 si assisté, infatti, a un
appesantimento del clima politico e a un nuovo inasprimento dei controlli polizieschi,
che accentuarono la frattura fra il potere statale e la borghesia colta. Fra le giovani
generazioni andò diffondendosi un atteggiamento di rifiuto totale dell’ordine costituito, unito a uno sforzo sincero di avvicinarsi ai
problemi delle classi subalterne. Fu questo il senso della parola d’ordine «andare
al popolo» che ebbe ampia eco fra i giovani negli anni ’60 e ’70: da questo slogan
derivò il nome di populisti (narodniki, da narod, “popolo”) col quale vennero designati gli intellettuali rivoluzionari che in questo
periodo tentarono, senza troppa fortuna, di compiere opera di educazione culturale
e di proselitismo politico fra le masse. Base fondamentale del loro programma era
l’utopia di un socialismo agrario che facesse leva sul proletariato delle campagne
e si inserisse nella tradizione comunitaria della società rurale russa. L’incomprensione
delle masse contadine e la durezza della repressione poliziesca finirono però con
l’isolare sempre più i narodniki e con lo spingerli verso la pratica cospiratoria. Quando, nel 1881, Alessandro II fu ucciso da un attentatore anarchico, le speranze
che avevano accompagnato i suoi primi anni di regno non erano ormai che un lontano
ricordo.
Sommario
Nella seconda metà del secolo XIX, le maggiori potenze europee si impegnarono nella
lotta per l’egemonia. Il ruolo più attivo fu svolto dalla Francia del Secondo Impero,
che però, nel suo tentativo di indebolire l’Austria con una politica estera ambiziosa
e aggressiva, finì col facilitare l’ascesa della Prussia. Una prima manifestazione
di questa strategia si ebbe con la guerra di Crimea (1854-55). La Prussia si incamminava,
invece, sulla via dell’unificazione, in particolare con l’ascesa al governo di Bismarck
(1862).
La guerra del ’66 tra Prussia e Austria portò alla formazione di una Confederazione
della Germania del Nord. Nel ’67 si giunse alla divisione dell’Impero asburgico, da
tempo in difficoltà, in due parti, una austriaca e l’altra ungherese. Nel 1870 Bismarck
riuscì a provocare una guerra con la Francia – ultimo ostacolo ai suoi progetti di
unificazione tedesca –, che fu rovinosamente sconfitta a Sedan. A Versailles nel 1871
nasceva il nuovo Reich tedesco. La sconfitta comportò per la Francia la caduta di
Napoleone III, la proclamazione della Repubblica e la cessione dell’Alsazia-Lorena.
Più in generale, rappresentò un’umiliazione nazionale che – per il desiderio di rivincita
che alimentava – avrebbe condizionato per quasi mezzo secolo la politica francese.
Tra le conseguenze della sconfitta militare francese vi fu la ribellione di Parigi
e la proclamazione della Comune, radicale e breve esperimento di democrazia diretta
rivoluzionaria (marzo-maggio 1871). Isolata dal resto del paese, la Comune tentò inutilmente
di coinvolgere nella rivolta la popolazione delle altre città e delle campagne per
lo più di tendenze conservatrici e moderate, e presto venne sconfitta dalle truppe
governative dopo durissimi combattimenti. Questa vicenda contribuì a diffondere nell’opinione
pubblica moderata un senso di paura e di odio per i rivoluzionari.
La Germania unita era il più potente Stato dell’Europa continentale. La supremazia
del potere esecutivo sul legislativo e un blocco sociale dominante formato dal mondo
dell’industria e della finanza e dall’aristocrazia degli Junker non impedirono la
nascita, negli anni ’70, di due nuovi partiti: il Centro cattolico e il Partito socialdemocratico.
In politica interna Bismarck lavorò per affermare il carattere laico dello Stato e
fronteggiare il nuovo pericolo rappresentato dalla socialdemocrazia affiancando alle
tendenze autoritarie una legislazione sociale molto avanzata, secondo un modello di
stampo paternalistico. In politica estera creò un sistema di alleanze per l’isolamento
della Francia. Fondato sul patto dei tre imperatori del 1873, questo sistema si scontrò
con le rivalità che opponevano nei Balcani gli altri due contraenti (Austria e Russia),
che determinarono la guerra russo-turca (1877) e il successivo congresso di Berlino
(1878). Nel 1882 la Germania stipulò il trattato della Triplice alleanza con Austria
e Italia.
La Francia si riprese rapidamente dalla sconfitta del 1870. La nuova Costituzione
diede alla Francia un sistema di governo di compromesso fra il modello presidenzialista
all’americana e quello parlamentare. La scena politica era dominata dai repubblicani
– “opportunisti” e radicali –, che riuscirono gradualmente a consolidare il nuovo
regime, spesso però messo a repentaglio dalla notevole instabilità dei governi e dalla
grande corruzione che dominava il mondo politico e finanziario.
In Gran Bretagna, gli anni dal 1850 al 1870 videro il rafforzamento del sistema parlamentare
– con una lunga presenza dei liberali al governo –, una notevole prosperità economica
e il varo di alcune importanti riforme, soprattutto quella elettorale – che allargava
di quasi un milione il numero degli aventi diritto al voto. Fra il ’66 e l’86 si alternarono
al potere il conservatore Disraeli, fautore di una politica imperialistica non priva
di aperture sociali, e il liberale Gladstone, che realizzò nuove riforme – fra cui
un ulteriore ampliamento del suffragio dopo quelli attuati da Disraeli – e tentò senza
fortuna di concedere l’autonomia all’Irlanda.
In Russia, all’arretratezza sociale e politica faceva riscontro una grande vivacità
della vita culturale e del dibattito ideologico. L’avvento al trono di Alessandro
II nel 1855 alimentò forti speranze di rinnovamento, soprattutto in conseguenza delle
riforme attuate dal nuovo sovrano, tra le quali – importantissima – l’abolizione della
servitù della gleba (1861). Presto, tuttavia, si tornò a un indirizzo autocratico,
con il conseguente accrescimento del distacco tra potere statale e borghesia colta.
Bibliografia
Per un quadro generale: E.J. Hobsbawm, L’età degli imperi 1875-1914, Laterza, Roma-Bari 2011 (ed. or. 1987). Per l’inquadramento degli aspetti politici
e diplomatici: A.J.P. Taylor, L’Europa delle grandi potenze, Laterza, Roma-Bari 1977 (ed. or. 1942).
Sulla Francia, si vedano i titoli citati nella bibliografia del cap. 6. Sulla Comune,
oltre al racconto di un contemporaneo, P.-O. Lissagaray, La Comune di Parigi. Le otto giornate di maggio dietro le barricate, Feltrinelli, Milano 1979, si veda la raccolta di saggi a cura di J. Bruhat-J. Dautry-E.
Tersen, La Comune del 1871, Editori Riuniti, Roma 1971 (ed. or. 1970).
Sulla Terza Repubblica francese: M. Winock, La febbre francese. Dalla Comune al maggio ’68, Laterza, Roma-Bari 1987 (ed. or. 1986) e, per gli aspetti sociali, E. Weber, Da contadini a francesi. La modernizzazione della Francia rurale1870-1914, Il Mulino, Bologna 1989 (ed. or. 1976).
Sull’Impero asburgico, oltre ai volumi citati nella bibliografia del cap. 6: J.W.
Mason, Il tramonto dell’impero asburgico, Il Mulino, Bologna 2008 (ed. or. 1985); M. Bellabarba, L’Impero asburgico, Il Mulino, Bologna 2014; P.M. Judson, The Habsburg Empire. A New History, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 2016.
Per l’ascesa della Prussia e il processo di unificazione tedesca, oltre ai titoli
citati nella bibliografia del cap. 6: J. Breuilly, La formazione dello stato nazionale tedesco (1800-1871), Il Mulino, Bologna 2004 (ed. or. 1996);G. Ritter, I militari e la politica nella Germania moderna, I. Da Federico il Grande alla prima guerra mondiale, Einaudi, Torino 1967 (ed. or. 1954); L. Gall, Bismarck, Rizzoli, Milano 1982 (ed. or. 1980); A.J.P. Taylor, Bismarck. L’uomo e lo statista, Laterza, Roma-Bari 2004 (ed. or. 1955); G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania
(1812-1933), Il Mulino, Bologna 2016 (ed. or. 1975).
Sulla Germania imperiale: H.U. Wehler, L’Impero guglielmino, 1871-1918, De Donato, Bari 1981 (ed. or. 1973); M. Stürmer, L’Impero inquieto. La Germania dal 1866 al 1918, Il Mulino, Bologna 2001 (ed. or. 1983) e S. Conrad, Globalisation and the Nation in Imperial Germany, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2011 (ed. or. 2006).
Sul Regno Unito, vedi: A. Briggs, L’Inghilterra vittoriana, Editori Riuniti, Roma 1978 (ed. or. 1954); G. Kitson Clark, L’Inghilterra vittoriana. Genesi e formazione, Jouvence, Roma 1980 (ed. or. 1965); E.J. Feuchtwanger, Democrazia e Impero. L’Inghilterra fra il 1865 e il 1914, Il Mulino, Bologna 1998 (ed. or. 1985). Sulla regina Vittoria: C. Hibbert, Queen Victoria: a personal history, Harper Collins, London 2000.
Sulla Russia: M. Raeff, La Russia degli Zar, Laterza, Roma-Bari 1999 (ed. or. 1982); D. Saunders, La Russia nell’età della nazione e delle riforme, 1801-1881, Il Mulino, Bologna 1997 (ed. or. 1992); F. Benvenuti, Storia della Russia contemporanea, 1853-1996, Laterza, Roma-Bari 1999.
4. Due nuove potenze: Stati Uniti e Giappone
Quanto avvenne oltreoceano, negli Stati Uniti e in Giappone, nella seconda metà dell’800
rivestì un’importanza pari alle trasformazioni che coinvolsero l’Europa descritte
nel capitolo precedente, soprattutto in relazione agli sviluppi successivi dei rapporti
internazionali, alle guerre e alle alleanze. Dopo una durissima guerra civile gli Stati Uniti approdarono, alla fine del secolo – ormai esaurita la spinta
verso la conquista della nuova frontiera continentale –, al ruolo di grande potenza proiettata
sui mari, nei Caraibi e nel Pacifico. Il Giappone iniziò nel 1868 una fase di modernizzazione uscendo da un regime feudale
e approdando anch’esso al ruolo di grande potenza economica e militare sul finire
del secolo.
4.1. Gli Stati Uniti a metà ’800
Lo sviluppo economico
Alla metà dell’800, gli Stati Uniti d’America erano un paese in crescente espansione
con una popolazione in costante aumento (23 milioni nel 1850, oltre 30 dieci anni
dopo), grazie soprattutto all’ininterrotto flusso migratorio proveniente dall’Europa.
I confini dell’Unione continuavano a spostarsi verso ovest, includendo vasti territori
ben presto attraversati da strade e linee ferroviarie. La produzione agricola progrediva
con ritmi molto elevati, sia per la messa a coltura di nuove terre nelle regioni di
recente colonizzazione, sia per lo sviluppo di una moderna agricoltura negli Stati
del Vicino Ovest (Midwest), di più antica colonizzazione. Contemporaneamente, la regione
del Nord-Est – in particolare la zona della costa atlantica – conosceva un rapido
sviluppo industriale. Ma a questa straordinaria espansione dell’economia facevano
riscontro profonde fratture interne. Negli Stati Uniti coesistevano infatti tre diverse società, corrispondenti alle diverse zone del paese, ciascuna col suo
sistema economico, i suoi valori, le sue tradizioni culturali.
Il Nord-Est
C’erano innanzitutto gli Stati del Nord-Est, sede delle prime colonie britanniche
e nucleo originario dell’Unione. Era la zona più progredita, più ricca e più industrializzata,
dove sorgevano i maggiori centri urbani (New York, Boston, Philadelphia), dove si
concentravano i commerci con l’Europa e dove principalmente si indirizzava l’ondata
migratoria proveniente dall’Europa. Un ambiente in continua trasformazione, profondamente
influenzato dai valori del capitalismo imprenditoriale, dominato dai gruppi industriali,
commerciali e bancari, e dalla presenza di un numeroso proletariato urbano.
Il Sud delle piantagioni
Quella degli Stati del Sud era invece una società agricola e profondamente tradizionalista,
che fondava la sua economia e la sua organizzazione sociale sulle grandi piantagioni di cotone e, in minor misura, di tabacco e canna da zucchero. La
manodopera che vi lavorava era costituita in gran parte da schiavi neri, discendenti
da quelli che erano stati forzatamente trapiantati in America nel ’700 (la tratta
era stata ufficialmente vietata negli Stati Uniti solo nel 1808). Nel 1860 vivevano
negli Stati del Sud quasi 4 milioni di schiavi neri, contro circa 6 milioni di bianchi,
in maggioranza piccoli e medi coltivatori. Il ceto dei grandi proprietari – che impiegavano
il grosso della manodopera servile – contava non più di 2 mila famiglie: una ristretta
minoranza, che però dominava la vita politica e sociale, forniva i migliori ufficiali
all’esercito federale e svolgeva, in un paese in cui non era mai esistita una vera
nobiltà, una funzione sociale simile a quella di un’aristocrazia. I grandi proprietari
vivevano in case ampie e lussuose, avevano il culto della tradizione e il gusto delle
buone maniere, si ispiravano a un’etica patriarcale e paternalistica. La stessa istituzione
della schiavitù veniva giustificata in questo contesto: anzi, la vita nella piantagione,
dove allo schiavo erano assicurati l’abitazione, il vitto giornaliero e l’istruzione
religiosa, era polemicamente contrapposta – trascurando di ricordarne il durissimo
sfruttamento e il diffuso abuso sessuale delle donne – alla venalità e all’insicurezza
che caratterizzavano i rapporti di lavoro delle realtà industriali.
Il West dei contadini e degli allevatori
A queste due società così diverse fra loro se ne contrapponeva una terza: quella dei
liberi agricoltori e allevatori di bestiame che popolavano gli Stati dell’Ovest. Era una società in rapida evoluzione:
man mano che la frontiera si spostava verso il West, le aziende stabili si sostituivano
agli insediamenti isolati dei pionieri introducendo un’agricoltura mercantile che
forniva derrate alimentari, carne e cereali, alle città del Nord-Est. Nonostante tutto
ciò, la società agricola dell’Ovest restava legata all’etica e ai valori della frontiera:
l’iniziativa individuale, l’indipendenza, l’uguaglianza delle opportunità.
Lo scontro sulla schiavitù
Le differenze tra Nord e Sud erano profonde e destinate inevitabilmente ad accentuarsi
fino a divenire insanabile contrasto. L’idea stessa della schiavitù non si conciliava
con la mentalità democratica diffusa fra le popolazioni del Nord dove era attivo da
tempo un vivace movimento abolizionista, ma era anche incompatibile con la filosofia
di un capitalismo moderno e con la sua esigenza di disporre di una manodopera mobile
per un mercato interno in espansione.
Quando, negli anni ’40 e ’50, lo sviluppo industriale si allargò a nuovi settori,
in particolare quello meccanico, e nel complesso dell’economia americana diminuì l’importanza
della produzione cotoniera, cruciale per il Sud, si fecero più strette le relazioni
fra il Nord-Est industriale e l’Ovest agricolo: quest’ultimo trovava infatti nelle
aree urbane in continua espansione ampi sbocchi per i suoi prodotti e costituiva a
sua volta un largo mercato per l’industria meccanica, che vi collocava soprattutto
macchine agricole. Su queste premesse si acutizzò lo scontro sulla schiavitù: l’estensione
dell’economia delle piantagioni – e dunque del lavoro servile – ai nuovi territori
era richiesta dai piantatori del Sud, che volevano portare la coltura del cotone nelle
terre vergini, ma incontrava forti opposizioni nell’opinione pubblica del Nord e fra
i coloni dell’Ovest, che chiedevano terre a buon mercato, o addirittura in uso gratuito,
per diffondervi la coltivazione dei cereali.
Il Partito repubblicano e Lincoln
Alle divisioni della società si aggiunsero i contrasti fra le forze politiche. Con
l’inizio degli anni ’50 i partiti tradizionali – democratici e Whigs (liberali) –
entrarono in una profonda crisi. I democratici si identificarono sempre più con la
causa dei grandi proprietari schiavisti, mentre dall’ala progressista del partito
whig nacque nel 1854 una nuova formazione politica, il Partito repubblicano, che assunse una posizione decisamente antischiavista e accolse nella sua piattaforma
politica sia le rivendicazioni della borghesia del Nord (dazi doganali più alti, che
avrebbero favorito la produzione industriale, ma danneggiato le esportazioni di cotone
dal Sud), sia quelle dei coloni dell’Ovest (distribuzione gratuita dei terreni demaniali).
Il nuovo partito conquistò un seguito sempre crescente finché, nelle elezioni del
1860, riuscì a portare alla presidenza un tipico uomo dell’Ovest, Abraham Lincoln,
un avvocato di salde convinzioni democratiche, proveniente da una famiglia di modesti
agricoltori del Kentucky.
Nonostante fosse un convinto avversario della schiavitù, Lincoln non era un abolizionista
radicale. Nella sua campagna elettorale aveva anzi negato qualsiasi intenzione di
abolire la schiavitù dove esisteva. Tuttavia, la vittoria repubblicana nelle elezioni
del ’60 fu sentita da una parte dell’opinione pubblica del Sud come l’inizio di un
processo irreversibile che avrebbe portato alla vittoria degli interessi industriali,
al rafforzamento del potere centrale, alla progressiva emarginazione degli Stati schiavisti.
4.2. La guerra civile americana
Dalla secessione al conflitto
Tra il dicembre ’60 e il febbraio ’61 i timori nei confronti della politica di Lincoln
spinsero dieci Stati del Sud a staccarsi dall’Unione e a costituirsi in una Confederazione
indipendente. Questa scelta secessionista, imposta da una minoranza intransigente
a una popolazione incerta e divisa, non poteva non suscitare la reazione del potere
federale: non vi era dunque alternativa alla guerra civile tra Unione e Confederazione, che ebbe inizio nell’aprile 1861. Scegliendo
la strada dello scontro, i confederati facevano assegnamento sulla migliore qualità
delle loro forze armate. Ma speravano anche in un intervento a loro favore della Gran
Bretagna, che era la principale importatrice del cotone del Sud e osteggiava i programmi
protezionisti dei repubblicani. Gli Stati del Nord confidavano invece nella schiacciante
superiorità numerica della loro popolazione e sul loro maggior potenziale economico.
Nelle fasi iniziali della guerra, il miglior addestramento delle forze sudiste e le
notevoli capacità del loro comandante, il generale Robert Lee, diedero ai confederati
una netta prevalenza. Ma, quando fu chiaro che gli Stati del Sud avrebbero dovuto
contare solo sulle loro forze – la Gran Bretagna e le altre potenze europee si astennero
infatti da ogni intervento – e che la guerra sarebbe stata lunga e logorante, il fattore
numerico e quello economico si rivelarono decisivi. La guerra si concluse infatti
nell’aprile del 1865 con la resa dei confederati al generale Ulysses Grant, comandante
delle forze del Nord. Pochi giorni dopo, il presidente Lincoln cadeva vittima di un
attentato per mano di un fanatico sudista.
Le conseguenze della guerra
La guerra era durata ben quattro anni, aveva visto impegnati nelle operazioni belliche
circa 3 milioni di uomini, era costata oltre 600 mila morti e aveva conosciuto battaglie
durissime come quella di Gettysburg vinta dai nordisti (luglio 1863). Era stata senza
dubbio la prima guerra totale dei nostri tempi: la prima cioè che avesse coinvolto
così a lungo la società civile di un grande paese moderno, la prima in cui fossero
stati utilizzati sistematicamente i nuovi mezzi offerti dallo sviluppo tecnologico
e industriale, a cominciare dalla ferrovia e dal telegrafo. Per vincerla, i nordisti dovettero non solo fare appello a tutte le loro risorse
economiche, ma anche spingersi oltre i programmi iniziali del presidente Lincoln.
Nel 1862 fu approvata una legge che assegnava gratuitamente quote di terre del demanio
statale ai cittadini che ne facessero richiesta. Lo stesso anno fu decretata a partire
dal 1º gennaio del 1863 la liberazione degli schiavi in tutti gli Stati del Sud, anche
per consentirne l’arruolamento nell’esercito dell’Unione.
Una rivoluzione sociale mancata
In realtà, la rivoluzione sociale implicita nell’esito della guerra di secessione
fu ben lontana dal compiersi interamente. La legge del ’62 sulla distribuzione delle
terre libere fu revocata pochi anni dopo la fine della guerra. Gli schiavi acquistarono
la libertà, ma le loro condizioni economiche non migliorarono. La vittoria nordista
e le innovazioni legislative non valsero a colmare le disuguaglianze sociali, né poterono
cancellare i pregiudizi razziali profondamente radicati nella società del Sud. Certo
non giovarono alla causa della democrazia e dell’integrazione razziale i metodi sbrigativi
e lo spirito talvolta vendicativo con cui i vincitori condussero l’opera di riunificazione
del paese. Negli anni successivi alla fine della guerra, il Sud fu sottoposto a un
regime di vera e propria occupazione militare. Il risultato fu una reazione di rigetto,
che prima si espresse in forma di lotta clandestina – fu creata allora l’organizzazione
paramilitare e razzista del Ku Klux Klan – e che più tardi determinò la riscossa del Partito democratico negli Stati del Sud.
Il ritorno alla normalità nel Sud, che poté considerarsi compiuto solo alla fine degli
anni ’70, significò anche il ritorno all’indiscussa supremazia dei bianchi e ad un regime di segregazione razziale di fatto, destinato a protrarsi, in molti
Stati, per buona parte del ’900.
Gli Stati Uniti al tempo della guerra civile
4.3. Gli Stati Uniti potenza mondiale
La colonizzazione dell’Ovest
All’indomani della guerra di secessione e della ricostruzione postbellica, riprese
con rinnovato slancio la colonizzazione dei territori dell’Ovest, ora favorita dallo
sviluppo della rete ferroviaria che nel 1869 raggiunse le coste della California.
Intorno al 1890 la conquista del West poteva considerarsi compiuta: la frontiera coincideva
ormai col Pacifico e gli Stati Uniti avevano raggiunto l’estensione attuale. Vittime
principali della corsa all’Ovest furono le tribù dei pellerossa, che videro restringersi
progressivamente gli spazi, un tempo sconfinati, in cui potevano muoversi in libertà.
I pellerossa cercarono di resistere alla conquista bianca e riuscirono anche a riportare
qualche isolato successo, ma dopo il 1890, decimati dalle guerre (il loro numero alla
fine del secolo non superava i 250 mila individui), furono confinati nelle riserve
e ridotti a un corpo estraneo e marginale.
La questione del Messico
Gli Stati Uniti non avevano mai tollerato ingerenze europee nella loro politica continentale.
Così, quando Napoleone III cercò di far nascere, sotto la protezione delle truppe
francesi, un impero del Messico, offrendone la corona a un principe di casa d’Austria,
Massimiliano d’Asburgo, fratello minore di Francesco Giuseppe, gli Stati Uniti sostennero
la guerriglia dei repubblicani messicani guidati da Benito Juárez fornendo armi e
appoggio politico. Nel 1867 i francesi si ritirarono, abbandonando a sé stesso lo
sfortunato Massimiliano, che fu catturato e fucilato. Fu un grave colpo per il prestigio
delle potenze europee, ma anche una eloquente e definitiva conferma della dottrina
Monroe.
Sviluppo e tensioni sociali
Dalla metà degli anni ’60 la società americana stava attraversando una fase di impetuoso
sviluppo capitalistico. La crescita più imponente si verificò nell’industria, in particolare
in alcuni settori-guida come il siderurgico, il meccanico, l’elettrico e il petrolifero,
dove dominavano le grandi concentrazioni (corporations) industriali e finanziarie [cfr. 2.1]: come la General Electric, la American Telephone Company, la Standard Oil nel settore
petrolifero, la DuPont in quello chimico e degli esplosivi o come il gigantesco trust dell’acciaio, la United Steel, costituitosi nel 1901. Alla fine dell’800, gli Stati
Uniti non solo avevano superato Gran Bretagna e Germania nel volume della produzione
industriale (raggiungendo quindi il primato mondiale), ma erano anche diventati un
paese esportatore di capitali e di prodotti industriali. Questo sviluppo fu reso possibile,
oltre che dall’abbondanza di risorse naturali, anche dall’esistenza di un mercato
interno in continua espansione, grazie all’afflusso di immigrati provenienti dall’Europa.
Tale era il bisogno di manodopera che, nel 1882, il governo federale spalancò le porte
all’immigrazione rendendo l’ingresso negli Stati Uniti libero a tutti, con le sole
eccezioni dei criminali comuni e dei malati di mente. La società americana diventò
così un immenso crogiolo, un melting pot, dove andarono a fondersi culture, tradizioni ed energie di tutti i paesi europei.
Il grande sviluppo materiale degli ultimi anni del secolo non fu privo di tensioni
sociali. Lo strapotere delle corporations e il rigido protezionismo alimentarono il malcontento dei contadini del Midwest, danneggiati
dagli alti prezzi dei manufatti. Notevole sviluppo ebbero in questo periodo anche
le organizzazioni operaie: nel 1886 venne fondata l’American Federation of Labor, una grande confederazione di sindacati autonomi priva di una precisa caratterizzazione
politica. Ma né la maggioranza delle organizzazioni sindacali né il movimento dei
contadini adottarono la strategia di classe dei movimenti socialisti europei o si
posero come obiettivo il rovesciamento del sistema capitalistico [cfr. 1.7].
L’espansionismo nei Caraibi e nel Pacifico
È in questo contesto che va considerata la nuova politica espansionistica messa in
atto dagli Stati Uniti oltre i propri confini territoriali a partire dalla fine dell’800.
La prima importante manifestazione di questa politica si ebbe con l’intervento a Cuba
dove, dal 1895, era in corso una violenta rivolta contro i dominatori spagnoli. Questi
ultimi avevano avviato una dura repressione che aveva suscitato vivaci reazioni nell’opinione
pubblica americana, ma anche notevoli preoccupazioni per la sorte dei cospicui interessi
economici che gli Stati Uniti avevano nelle piantagioni di canna da zucchero dell’isola.
Così, nel febbraio 1898, l’affondamento di una nave da guerra americana nel porto
dell’Avana condusse alla guerra con la Spagna, che fu rapidamente sconfitta sia nelle
Antille sia nel Pacifico. Cuba divenne una repubblica indipendente, sottoposta tuttavia
al controllo politico ed economico degli Stati Uniti. La Spagna fu inoltre costretta
a cedere Portorico e l’intero arcipelago delle Filippine. In questo modo gli Stati Uniti si
assicurarono, oltre all’egemonia nei Caraibi, anche un vasto dominio in Asia orientale.
Sempre nel ’98 la presenza americana nel Pacifico fu rafforzata dall’annessione delle
isole Hawaii, da tempo un importante punto di appoggio nelle rotte oceaniche. Nel
giro di pochi mesi gli Stati Uniti avevano compiuto un salto decisivo nella loro posizione
internazionale, assumendo a tutti gli effetti il ruolo di potenza mondiale.
L’espansionismo statunitense nei Caraibi e nel Pacifico
4.4. La via giapponese alla modernità
La fine dell’isolamento
Il Giappone, alla metà dell’800, conservava la struttura politica di tipo feudale
che si era consolidata con l’ascesa al potere degli shogun Tokugawa all’inizio del ’600. E dal 1639 aveva scelto l’isolamento commerciale dai paesi occidentali, salvo mantenere una linea di scambi
con la Cina. Furono gli Stati Uniti a rompere l’isolamento del Giappone, verso la
metà dell’800: nel 1854, inviarono una squadra navale nelle acque giapponesi e chiesero
formalmente allo shogun il libero accesso nei porti e l’apertura di relazioni commerciali.
L’iniziativa americana – cui subito si unirono Gran Bretagna, Francia e Russia – trovò
il Giappone del tutto impreparato. Lo shogun fu costretto a firmare nel 1858 una serie di accordi commerciali (i cosiddetti trattati
ineguali) che assicuravano alle potenze occidentali ampie possibilità di penetrazione
economica.
La restaurazione Meiji e la modernizzazione del paese
La firma dei “trattati ineguali” del ’58 suscitò in tutto il paese un’ondata di risentimento nazionalistico, che fu guidata
dai grandi feudatari (daimyo) e da una parte dei samurai, e si indirizzò contro lo shogun, principale responsabile della capitolazione. A esso fu contrapposta la figura dell’imperatore,
che in teoria rappresentava ancora la vera fonte del potere. I daimyo si resero sempre più indipendenti dal governo centrale e, nel gennaio del 1868, dichiararono
decaduto lo shogun, dando vita a un governo che aveva sede a Tokyo e si richiamava all’autorità dell’imperatore,
un ragazzo di quindici anni, Mutsuhito, salito da poco al trono.
Ma la cosiddetta “restaurazione Meiji”, dal nome dato all’imperatore dopo la sua morte
nel 1912, non si limitò a sostituire il potere dello shogun con quello dell’imperatore o a rafforzare l’autorità dei daimyo. La nuova élite dirigente – intellettuali, militari, funzionari provenienti dal ceto
dei samurai – era ben consapevole del legame esistente fra l’inferiorità politica
e militare del Giappone rispetto alle potenze occidentali e l’arretratezza delle sue
strutture economico-sociali: era dunque decisa a colmare il dislivello in tempi il
più possibile rapidi, senza paura di ricalcare i modelli degli Stati europei più avanzati.
La modernizzazione del paese fu condotta con risolutezza eccezionale. Nel giro di
pochi anni, senza sommovimenti sociali, il Giappone compì quella transizione dal sistema
feudale allo Stato moderno, che nella maggior parte dei paesi europei si era realizzata
in tempi lunghissimi, accelerati solo da traumatiche svolte rivoluzionarie. Nel 1871
furono proclamate l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini, l’abolizione dei diritti
feudali e la trasformazione dei feudi in circoscrizioni amministrative. I feudatari
vennero indennizzati, mentre ai samurai fu assegnata una pensione vitalizia. Negli
anni seguenti fu introdotto l’obbligo dell’istruzione elementare, venne unificata
la moneta, fu creato un sistema fiscale moderno in luogo dei vecchi tributi in natura,
venne organizzato un esercito nazionale basato sulla coscrizione obbligatoria.
Eccezionale fu anche la crescita dell’industria, che si sviluppò praticamente da zero
grazie al massiccio investimento di capitali statali – ricavati in parte dalla vendita
delle terre sequestrate allo shogun – e alla rapidissima importazione di tecnologia straniera (acquisto di brevetti,
assunzione di esperti occidentali, invio di giovani all’estero per soggiorni di studio).
Non meno rapida fu la crescita delle infrastrutture: dalle ferrovie – la prima linea
fu aperta nel ’71 – alle comunicazioni telegrafiche, all’organizzazione bancaria.
Nell’ultimo ventennio del secolo il Giappone vantava un tasso di crescita del prodotto interno lordo fra i più alti del mondo e, pur restando
ancora distante dai paesi occidentali più avanzati, aveva sviluppato un suo consistente
nucleo di industrie moderne, soprattutto nei settori tessile e meccanico.
Il modello giapponese
Quella che si compì in Giappone dopo il 1868 fu una vera e propria “rivoluzione dall’alto”,
realizzata senza alcuna partecipazione attiva delle classi inferiori, non preparata,
com’era avvenuto in Occidente, da un’autonoma crescita della borghesia e non seguita
da uno sviluppo delle istituzioni liberali e della democrazia politica: solo nel 1889
il Giappone ebbe un suo Parlamento, eletto a suffragio ristretto e con poteri molto
limitati. Furono le classi dirigenti tradizionali a guidare la trasformazione e a
gestirla in prima persona, spogliandosi spontaneamente dei loro antichi diritti, senza
per questo perdere la loro posizione privilegiata nella società, investendo le loro
rendite nella terra, nelle banche o nell’industria protetta, convertendosi insomma
da oligarchia feudale in oligarchia industriale e finanziaria. Il processo di rapida
modernizzazione sul piano delle strutture economiche e politiche risultò tanto più
straordinario in quanto si accompagnò alla conservazione dei tradizionali valori culturali
e religiosi.
Per alcuni aspetti l’esperienza giapponese è stata accostata a quella della Germania
bismarckiana, dove il passaggio dalle strutture tradizionali a quelle della società
industriale si effettuò senza che fosse messo in pericolo il potere dell’aristocrazia
terriera e militare. Ma, per quante analogie si possano istituire, l’esperienza del Giappone dopo la “restaurazione Meiji” resta un caso assolutamente
unico. Non era mai accaduto che un paese passasse, in pochi decenni, da una condizione
di estrema debolezza e di assoluta emarginazione a una realtà di grande potenza, quale il Giappone si sarebbe rivelato già alla fine dell’800.
Sommario
Alla metà dell’800 gli Stati Uniti erano un paese in crescente espansione, benché
attraversato da forti differenze tra le diverse zone: il Nord-Est industrializzato,
il Sud agricolo e tradizionalista, nelle cui grandi piantagioni lavoravano gli schiavi
neri, gli Stati dell’Ovest con una popolazione di liberi agricoltori e di allevatori
di bestiame. Il dibattito sull’estensione della schiavitù ai nuovi territori dell’Unione
determinò una contrapposizione tra gli Stati dell’Ovest e del Nord-Est e quelli del
Sud. Al Nord, in particolare, aveva attecchito un capitalismo moderno, che spingeva
a cercare manodopera operaia, soprattutto per la fiorente industria meccanica. Le
divisioni trovarono riscontro nella crisi del Partito democratico, che restò su posizioni
schiaviste, e nella nascita del Partito repubblicano tendenzialmente abolizionista.
Tra il ’60 e il ’61 gli Stati del Sud si separarono dal resto dell’Unione attuando
una scelta secessionista e si confederarono. Scoppiò così la guerra civile (1861-65),
che si concluse con la vittoria degli “unionisti”, superiori numericamente ed economicamente.
La liberazione degli schiavi fu uno dei risultati più rilevanti della guerra, benché
si riproducesse presto, per la popolazione nera, una situazione di segregazione di
fatto.
Superati i traumi della guerra civile, gli Stati Uniti si concentrarono soprattutto
sullo sviluppo dell’economia e sull’espansione a ovest, che fu completata intorno
al 1890 dopo una serie di conflitti con i pellerossa. In politica estera gli Stati
Uniti scelsero la via dell’espansionismo consolidando la loro presenza nei Caraibi,
in particolare dopo la guerra con la Spagna (1898), che rese l’isola di Cuba una repubblica
controllata dagli Usa, e nel Pacifico (Filippine, Hawaii).
A metà dell’800 la società giapponese era ancora organizzata secondo uno schema tipicamente
feudale. La penetrazione commerciale delle potenze occidentali, imposta con i “trattati
ineguali” del 1858, fu vissuta dai grandi feudatari, dai giovani nobili di corte e
dai samurai come un’umiliazione del paese e scatenò una rivolta contro lo shogun, che di fatto esercitava il potere di sovrano assoluto, a favore del ripristino dell’autorità
dell’imperatore. La cosiddetta “restaurazione Meiji” (1868) avviò una modernizzazione
accelerata dello Stato e dell’intera società giapponese, guidata dall’alto. Nell’ultimo
ventennio dell’800 il Giappone raggiunse un tasso di crescita del prodotto interno
lordo fra i più alti del mondo.
Bibliografia
Fra le opere generali sugli Stati Uniti, si vedano: E. Foner, Storia degli Stati Uniti d’America, Donzelli, Roma 2017 (ed. or. 1994); O. Bergamini, Storia degli Stati Uniti, Laterza, Roma-Bari 2010 (ed. or. 2002): M. Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo, 1776-2016, Laterza, Bari-Roma 2017 (ed. or. 2008). In particolare, sul periodo: D.B. Davis-D.H.
Donald, Espansione e conflitto. Gli Stati Uniti dal 1820 al 1877, Il Mulino, Bologna 1997 (ed. or. 1985); A. Stephanson, Destino manifesto. L’espansionismo americano e l’Impero del Bene, Feltrinelli, Milano 2004 (ed. or. 1995); A. Testi, La formazione degli Stati Uniti, Il Mulino, Bologna 2013 (ed. or. 2003). Sulla schiavitù: E.D. Genovese, L’economia politica della schiavitù, Einaudi, Torino 1972 (ed. or. 1961) e, in una prospettiva più ampia, S. Beckert,
L’impero del cotone. Una storia globale, Einaudi, Torino 2016 (ed. or. 2014).
Sulla guerra civile americana: R. Luraghi, Storia della guerra civile americana, Mondadori, Milano 2011 (ed. or. 1966); R. Mitchell, La guerra civile americana, Il Mulino, Bologna 2015 (ed. or. 2000); B. Levine, La guerra civile americana. Una nuova storia, Einaudi, Torino 2015 (ed. or. 2013). Sulla figura di Abraham Lincoln: T. Bonazzi,
Abraham Lincoln. Un dramma americano, Il Mulino, Bologna 2016. Sugli Stati del Sud, si veda R. Luraghi, La spada e le magnolie. Il Sud nella storia degli Stati Uniti, Donzelli, Roma 2007.
Sul Giappone: E.O. Reischauer, Storia del Giappone, Bompiani, Milano 2010 (ed. or. 1939); E.K. Tipton, Il Giappone moderno. Una storia politica e sociale, Einaudi, Torino 2011 (ed. or. 2001); D. Keene, Emperor of Japan. Meiji and His World, 1852-1912, Columbia University Press, New York 2002; R. Caroli-F. Gatti, Storia del Giappone, Laterza, Bari-Roma 2018 (ed. or. 2004).
Per una analisi comparativa dei processi di modernizzazione in Europa, Asia e America
del Nord, vedi B. Moore jr., Le origini sociali della dittatura e della democrazia. Proprietari e contadini nella
formazione del mondo moderno, Edizioni di Comunità, Torino 1998 (ed. or. 1966).
5. Gli imperi coloniali
5.1. L’Imperialismo
I caratteri del nuovo colonialismo
Fin dai tempi delle grandi scoperte geografiche, l’Europa si era lanciata alla conquista
del mondo, disseminando in tutti i continenti soldati e missionari, commercianti e
coloni. Ma negli ultimi decenni dell’800, questo processo raggiunse il suo apice,
con dimensioni nuove e forme diverse. Fu questo uno degli aspetti più evidenti di
quel grande fenomeno di espansione economica e politica noto come imperialismo. Se
la colonizzazione tradizionale era rimasta legata soprattutto all’iniziativa delle
grandi compagnie mercantili, la nuova espansione venne assunta sempre più come un
obiettivo di politica nazionale da parte dei governi. Alla penetrazione commerciale
subentrò un disegno più sistematico di assoggettamento politico e di sfruttamento
economico. La tendenza prevalente divenne quella di imporre un controllo a vastissimi territori
dell’Africa, dell’Asia e del Pacifico, che furono ridotti alla condizione di vere
e proprie colonie o di protettorati.
I territori detenuti dalle potenze europee vennero enormemente ampliati nel giro di
pochi decenni – un’espansione che si avvalse anche della supremazia tecnologica occidentale,
per esempio nel campo degli armamenti e dei trasporti. Tra il 1876 e il 1914, la Gran
Bretagna aggiunse al suo già vastissimo impero 11 milioni di km2 (con 142 milioni di abitanti), raggiungendo così un’estensione complessiva di circa
30 milioni di km2, quasi cento volte la superficie del Regno Unito. Nello stesso periodo la Francia
acquistò nuovi possedimenti per 10 milioni di km2 (con 50 milioni di abitanti). Alla competizione coloniale si unirono anche Stati
privi di una tradizione imperiale o con una storia unitaria molto recente: la Germania,
malgrado l’iniziale scetticismo di Bismarck sull’utilità delle colonie, il Belgio,
l’Italia – fra le potenze europee, l’unica assente di rilievo fu l’Austria-Ungheria
– e, negli ultimi anni del secolo, anche il Giappone e gli Stati Uniti.
Interessi economici e motivazioni politico-ideologiche
Le ragioni di questo fenomeno erano numerose e complesse ed erano legate principalmente
agli interessi economici. Un ruolo fondamentale ebbero, in questa direzione, la spinta
all’accaparramento di materie prime a basso costo e la ricerca di sbocchi commerciali,
che erano sempre stati i moventi principali della politica coloniale e che vennero
assumendo un nuovo peso in coincidenza con la svolta protezionistica adottata dai paesi europei [cfr. 2.1]. Più recente era la spinta proveniente dall’accumulazione di capitali finanziari,
alla ricerca di occasioni di investimenti ad alto profitto nei territori d’oltremare.
Questi aspetti non devono però essere sopravvalutati: alla vigilia della prima guerra
mondiale (1914-18), la Gran Bretagna indirizzava verso le nuove colonie conquistate
dopo il 1870 appena il 3% dei suoi investimenti, la Francia il 9%. Inoltre, anche
nell’età dell’imperialismo, gran parte del commercio mondiale si svolse tra i paesi
industrializzati. Ciò non toglie nulla al fatto che proprio la prospettiva dei benefici
economici ottenibili dalle colonie – teorizzati nelle opere di illustri economisti
e al centro delle discussioni politiche e dell’opinione pubblica – finì con l’influenzare
in modo decisivo le scelte dei governanti europei.
Le motivazioni politico-ideologiche ebbero spesso un’importanza pari a quelle economiche.
Esse affondavano le loro radici in una mescolanza di nazionalismo e di politica di
potenza, di razzismo e di spirito missionario. In Gran Bretagna, per esempio, l’idea
di appartenere a una nazione eletta, che il premier conservatore Disraeli chiamava
«una razza dominatrice, destinata dalle sue virtù a spargersi per il mondo», fu comune
a scrittori come Thomas Carlyle e Rudyard Kipling e a uomini politici anche di estrazione
liberale, come Joseph Chamberlain. Questo mito di una vocazione imperiale delle singole
nazioni si legò a quello di una missione nel mondo della civiltà europea nel suo complesso.
Kipling, per esempio, parlava di un «fardello dell’uomo bianco», ovvero del dovere
dei bianchi europei di civilizzare le “popolazioni selvagge”. Così, il paternalismo si univa a un razzismo di matrice positivistica.
Spesso l’azione coloniale era determinata anche dall’intento di prevenire e controbattere
le iniziative di potenze concorrenti, senza che ciò rispondesse a un piano di conquista
prestabilito. Il risultato fu comunque che, alla fine del processo di espansione,
il mondo intero risultò spartito in imperi e zone di influenza fra le maggiori potenze.
Esplorazioni e conquiste
L’interesse dell’opinione pubblica europea nei confronti delle colonie – già sollecitato
dall’opera, per molti versi anticipatrice, dei missionari, da tempo impegnati nell’evangelizzazione
dei popoli non cristiani – fu fortemente alimentato dall’eco delle grandi esplorazioni
che, a partire dalla metà del secolo, ebbero per teatro soprattutto l’Africa. In questo
interesse confluivano la prospettiva di grandi ricchezze nascoste nei territori da
esplorare, la curiosità scientifico-geografica tipica della cultura del positivismo,
la moda dell’esotismo presente in molta letteratura della seconda metà dell’800, l’alone
romantico da cui erano circondate – grazie anche all’amplificazione che la stampa
faceva delle loro imprese – le figure dei grandi esploratori: il missionario scozzese
David Livingstone che, già all’inizio degli anni ’50, esplorò per primo la zona del
fiume Zambesi, nel cuore dell’Africa meridionale, e, nei vent’anni successivi, attraversò
tutta l’Africa centro-meridionale, da un oceano all’altro; il giornalista americano
di origine britannica Henry Morton Stanley che negli anni ’70 esplorò, per incarico del re del Belgio, il bacino del fiume Congo
e pose le basi per la successiva conquista belga della regione, di cui divenne governatore;
l’italo-francese Pietro Savorgnan di Brazzà che, nel decennio successivo, aprì la
strada alla penetrazione francese in Africa equatoriale; il tedesco Karl Peters che,
nello stesso periodo, esplorò l’Africa orientale per conto del governo tedesco.
5.2. La conquista dell’Africa
Colonizzatori e missionari
Gli sviluppi più spettacolari dell’espansione coloniale di fine ’800 si ebbero nel
continente africano. Nel 1870 i paesi europei ne controllavano appena un decimo: i
francesi occupavano l’Algeria e il Senegal, i portoghesi l’Angola e il Mozambico,
i britannici la Colonia del Capo, ossia la parte meridionale dell’odierna Repubblica
Sudafricana. Meno di quarant’anni dopo, i possedimenti europei comprendevano più dei
nove decimi del continente.
Contestualmente all’espansione coloniale europea, si assistette, nella seconda metà
dell’800, a un rilancio dell’attività missionaria, soprattutto nelle zone di nuova colonizzazione come l’Africa centrale e meridionale.
La Chiesa cattolica strinse accordi con diversi paesi europei, come Francia, Belgio
e Italia, per partecipare con personale missionario alle rispettive avventure coloniali.
L’Africa settentrionale: Tunisia ed Egitto
I primi atti della nuova espansione, che contribuirono in buona parte a innescare
la gara di conquista che ne seguì, furono l’occupazione francese della Tunisia, nel
1881, e l’anno successivo quella britannica dell’Egitto. In entrambi i paesi, nominalmente
appartenenti ancora all’Impero ottomano, ma di fatto resi indipendenti dai rispettivi
governanti (il bey di Tunisi e il khedivè d’Egitto), le potenze europee avevano consistenti interessi economici e strategici.
La Tunisia era rivendicata dalla Francia, già padrona della vicina Algeria, nonostante
la presenza di consistenti interessi italiani. L’Egitto aveva acquistato un’importanza
fondamentale per la Gran Bretagna dopo che, nel 1869, era stato aperto il Canale di
Suez tra il Mediterraneo e il Mar Rosso, che permetteva di raggiungere rapidamente
l’Asia, e i possedimenti britannici in India, senza dover più circumnavigare l’intero
continente africano. Negli anni ’70 sia l’Egitto sia la Tunisia si erano lanciati in ambiziosi programmi di modernizzazione che però avevano finito
per provocare il dissesto delle finanze dei due paesi costringendo i governi, tra
le proteste popolari, ad aumentare la pressione fiscale per far fronte ai debiti contratti
con le banche europee.
Proprio per tutelarsi contro il rischio di una bancarotta, Francia e Gran Bretagna,
principali paesi creditori, scelsero la strada dell’intervento militare. La prima
a muoversi fu la Francia che, avendo avuto mano libera dalle altre grandi potenze
nel congresso di Berlino del 1878 [cfr. 3.4], trasse pretesto da un incidente avvenuto nel 1881 alla frontiera con l’Algeria per
inviare un contingente militare a Tunisi e imporre al bey un regime di protettorato.
Gli avvenimenti tunisini ebbero immediate ripercussioni in Egitto, dove la nascita di un forte movimento nazionalista, guidato dal colonnello
Arabi Pascià, sembrò mettere in pericolo non solo il recupero dei crediti esteri,
ma anche il controllo internazionale sul Canale di Suez. Nell’estate 1882, in seguito
allo scoppio di moti anti-europei ad Alessandria, il governo britannico inviò in Egitto
un corpo di spedizione che sconfisse gli egiziani e assunse il controllo del paese.
Da allora l’Egitto, pur conservando la sua indipendenza formale, divenne di fatto
una sorta di colonia britannica.
Il Sudan
Ben presto la Gran Bretagna si trovò impegnata nel Sudan, un vastissimo territorio
sotto il controllo egiziano, dove era scoppiata una rivolta capeggiata dal Mahdi (profeta) Mohammed Ahmed, un carismatico leader islamico, fautore di una teocrazia musulmana che mirava ad allargare a tutto il mondo arabo. Il Mahdi lanciò le truppe sudanesi in una guerra santa contro le forze anglo-egiziane sconfiggendole
a più riprese, conquistando la città di Khartum nel 1885 e fondando un proprio Stato
che i britannici sarebbero riusciti a rovesciare solo nel 1898.
La conquista belga del Congo
L’azione unilaterale della Gran Bretagna in Egitto provocò il risentimento della Francia,
suscitando tra le due potenze una rivalità destinata a durare per quasi un ventennio,
e contribuì a scatenare la corsa alla conquista dell’Africa nera. I primi contrasti
tra i conquistatori europei si delinearono nel bacino del Congo. Qui re Leopoldo II
del Belgio, sotto la copertura di una Associazione internazionale africana fondata
nel 1876 con scopi apparentemente umanitari (evangelizzazione e lotta contro la tratta
degli schiavi), si era costruito una sorta di impero personale. Dopo la scoperta di
importanti giacimenti minerari nella regione del Katanga, il sovrano belga cercò di
consolidare il suo dominio attraverso uno sbocco sull’Atlantico, ma suscitò l’opposizione del Portogallo, che rivendicava la foce del Congo per la contiguità con
la sua antica colonia dell’Angola.
La conferenza di Berlino e la spartizione dell’Africa
La questione del Congo fu oggetto di una conferenza internazionale convocata a Berlino,
per iniziativa di Bismarck, nel 1884-85. Questa conferenza, oltre a dare una prima
sanzione alla spartizione dell’Africa, codificò le norme che avrebbero dovuto regolarla
anche nell’avvenire. Il principio adottato fu quello dell’effettiva occupazione, ufficialmente
notificata agli altri Stati, come unico titolo valido per legittimare il possesso
di un territorio. Questo principio, in realtà, lasciava larghi margini di incertezza
– allora le occupazioni “effettive” si limitavano spesso a pochi scali commerciali
posti nelle zone costiere – e stimolò anche un’accelerazione della corsa all’occupazione
di territori ritenuti di qualche interesse economico o strategico. In concreto, la
conferenza di Berlino riconobbe la sovranità personale di re Leopoldo sull’immenso
territorio che poi sarebbe stato denominato Congo belga (dopo l’indipendenza Zaire e nel 1996 Repubblica democratica del Congo), ma che allora
venne chiamato Stato libero del Congo – un paradossale eufemismo per indicare quella
che fu, per il trattamento delle popolazioni e lo sfruttamento delle risorse, una
delle forme più rapaci e disumane di dominio coloniale –, e gli assegnò un piccolo
sbocco sull’Atlantico. Alla Francia andarono i territori sulla riva destra del fiume
(l’attuale Repubblica del Congo). In Africa occidentale, la Germania, ultima arrivata
nella corsa alle colonie, si vide riconosciuto il protettorato sul Togo e sul Camerun.
La Gran Bretagna ebbe il controllo del basso Niger (l’attuale Nigeria), mentre la
Francia si assicurò il possesso dell’alto corso del fiume. Partendo da questa regione,
in dieci anni di sanguinose guerre di conquista contro gli Stati musulmani del Sahara,
i francesi riuscirono ad assicurarsi il possesso di territori immensi, anche se in
gran parte desertici, che si estendevano dall’Atlantico al Sudan, dal bacino del Congo
al Mediterraneo.
Le linee direttrici dell’espansione britannica
La Gran Bretagna non si oppose alle conquiste francesi, che considerava di scarso
interesse, e concentrò invece le sue mire sull’Africa sud-orientale, importante per
il controllo dell’Oceano Indiano – e dunque per la sicurezza dei traffici con l’India. Fra il 1885 e il 1895, partendo
dalla Colonia del Capo e muovendosi per lo più in appoggio alle iniziative delle grandi
compagnie private, i britannici risalirono il continente fino al bacino dello Zambesi
e al lago Niassa, mentre più a nord si impadronivano del Kenya e dell’Uganda, ossia
dei territori compresi fra le sorgenti del Nilo, il lago Vittoria e l’Oceano Indiano.
La tendenza era quella di saldare i possedimenti britannici a sud dell’equatore con
quelli della regione del Nilo, assicurandosi un dominio ininterrotto dall’estremità
meridionale a quella settentrionale del continente. Questo disegno, però, si scontrava
con la presenza della Germania che dal 1885 si era assicurata il controllo dell’area
a est del lago Tanganika e a sud del lago Vittoria. Il contrasto fu regolato da un
accordo nel 1890: la Gran Bretagna riconobbe l’Africa orientale tedesca, rinunciando
al sogno del dominio «dal Capo al Cairo», ricevendo in compenso l’isola di Zanzibar,
nodo importantissimo delle rotte commerciali nell’Oceano Indiano, e ottenendo di tener
lontana la Germania dalla regione dell’alto Nilo, considerata essenziale per il controllo
dell’Egitto.
L’Africa del Sud nel 1899
Tensioni tra Francia e Gran Bretagna
Proprio in questa regione i britannici si trovarono in rotta di collisione con i francesi
che, nella loro marcia dalla costa atlantica verso l’interno dell’Africa, si erano
spinti fino al Sudan. Nel settembre del 1898 un contingente dell’esercito britannico,
allora impegnato nella riconquista del Sudan, si incontrò con una colonna francese
che aveva occupato la fortezza di Fashoda sul Nilo. L’incontro rischiò di trasformarsi
in un conflitto dalle conseguenze imprevedibili. Ma il governo francese, che non era
preparato a una guerra, ritirò le sue truppe e rinunciò alle sue mire sulla regione.
Ne seguì una distensione nei rapporti franco-britannici, che avrebbe poi aperto la
strada a una più stretta intesa fra le due potenze.
All’inizio del ’900 la spartizione dell’Africa era pressoché completa. Oltre alla
piccola Repubblica di Liberia (fondata nel 1822 da ex schiavi neri degli Stati Uniti),
restavano indipendenti solo l’Impero etiopico e, ancora non per molto, la Libia (sotto
il dominio ottomano), il Marocco e le Repubbliche boere del Sudafrica. Tutto il resto
del continente era diviso in colonie e in protettorati di nome o di fatto, separati
da confini spesso arbitrari, tracciati sulla carta geografica – a volte in corrispondenza
di meridiani e paralleli – senza tenere alcun conto delle divisioni tribali e delle
preesistenti realtà etnico-linguistiche.
L’Africa nel 1914
5.3. Le guerre boere
In Africa australe (o meridionale) l’imperialismo della Gran Bretagna si scontrò con
un nazionalismo locale anch’esso di origine europea, quello boero, scatenando un inedito
conflitto coloniale tra due popoli bianchi e cristiani.
Le Repubbliche boere
I boeri erano i discendenti degli agricoltori olandesi che nel ’600 avevano colonizzato
la regione del Capo di Buona Speranza – che fu denominata Colonia del Capo –, ai quali
si erano aggiunti immigrati ugonotti francesi, ed erano caduti sotto la sovranità
della Gran Bretagna quando questa aveva ottenuto la colonia al tempo delle guerre
napoleoniche. Per sfuggire alla sottomissione, molti di loro avevano dato vita a un
massiccio esodo verso nord – il cosiddetto Grande Trek, ossia “grande marcia” –, dove
avevano fondato le due Repubbliche dell’Orange (1845) e del Transvaal (1852). Alla fine degli anni ’60 la scoperta di importanti
giacimenti di diamanti nel Transvaal risvegliò l’interesse della Gran Bretagna, che
lasciò mano libera alla politica aggressiva della classe dirigente della Colonia del
Capo, minacciata dalla crescita economica delle due repubbliche.
Il progetto imperialista della Gran Bretagna
Se nella prima guerra boera (1880-81) i britannici vennero sconfitti e il Transvaal
riuscì a mantenere una propria autonomia, nel periodo successivo la politica britannica
si fece più aggressiva. Protagonista e promotore principale se ne fece Cecil Rhodes,
politico e uomo d’affari, presidente e padrone della British South Africa Company,
primo ministro della Colonia del Capo fra il 1890 e il 1898. Rhodes mise una colossale
fortuna personale, accumulata con il quasi-monopolio della produzione diamantifera,
al servizio di un disegno imperiale: sua fu l’idea di estendere la sovranità britannica
«dal Capo al Cairo». Proprio grazie alla sua frenetica attività, la Gran Bretagna
poté espandere i suoi domìni in buona parte dell’Africa meridionale, fino alla zona
dello Zambesi – che appunto da Rhodes avrebbe avuto il nome di Rhodesia –, circondando
completamente le due Repubbliche boere. Un ulteriore elemento di tensione fu costituito
dalla scoperta, nel 1885-86, di nuovi giacimenti auriferi nell’Orange e nel Transvaal,
che attirò nelle due repubbliche un gran numero di immigrati (uitlanders), soprattutto di origine britannica. In questo afflusso di forestieri i boeri videro
l’inizio di un processo che minacciava di stravolgere il carattere patriarcale e contadino
della loro società: una società che coltivava il mito della propria indipendenza e
superiorità, che si ispirava a un calvinismo rigidamente conservatore e si fondava
sull’imposizione agli indigeni di un regime di semischiavitù, avversato invece dai
britannici. Gli uitlanders furono duramente discriminati e Rhodes ne appoggiò la protesta.
La sconfitta dei boeri
La tensione crebbe ulteriormente finché, nell’ottobre del 1899, il presidente del
Transvaal, Paul Krüger, dichiarò guerra alla Gran Bretagna. La seconda guerra boera
fu lunga e sanguinosa. I boeri combatterono con grande tenacia, riportando all’inizio
notevoli successi e suscitando un’ondata di simpatie nell’opinione pubblica europea,
soprattutto in quella tedesca. Anche dopo la sconfitta – che si consumò nel maggio
1902 e fu seguita dall’annessione del Transvaal e dell’Orange all’Impero britannico
– i boeri condussero un’accanita lotta di resistenza che durò vari anni e fu piegata
dai britannici solo con una serie di spietate azioni antiguerriglia. In seguito l’Orange
e il Transvaal ottennero uno statuto di autonomia simile a quello della Colonia del
Capo, alla quale vennero uniti nel 1910, dando vita all’Unione sudafricana. Britannici
e boeri avrebbero poi trovato un terreno concreto di collaborazione nello sfruttamento
delle immense risorse del paese e nella politica di dura segregazione praticata ai
danni della popolazione nera.
5.4. La conquista dell’Asia
La presenza europea in Asia
A differenza di quanto accadeva in Africa, agli inizi dell’età dell’imperialismo gli
europei avevano già messo radici profonde nel continente asiatico. I britannici, oltre
all’India, possedevano Ceylon (attuale Sri Lanka), Hong Kong, Singapore e numerose
basi nell’Oceano Indiano e nel Sud-Est asiatico. Gli olandesi dominavano l’arcipelago
indonesiano. I portoghesi controllavano Macao in Cina, Goa in India e una parte dell’isola
di Timor. La Spagna possedeva le Filippine (che passarono agli Stati Uniti nel 1898:
cfr. 4.3). La Russia aveva avviato da oltre un secolo la sua espansione verso la Siberia e
l’Asia centrale. La Francia, ultima a giungere sul continente, aveva gettato negli
anni ’50 le basi di un vasto dominio nella penisola indocinese. A dare nuovo impulso
alla corsa verso oriente contribuì potentemente l’inaugurazione del Canale di Suez,
avvenuta nel novembre 1869 dopo dieci anni di lavori: questo canale artificiale, che
tagliò l’istmo di Suez, mise in comunicazione il Mediterraneo con il Mar Rosso, abbreviando
di parecchie settimane i collegamenti marittimi fra l’Europa e l’Asia. La nuova via
d’acqua, gestita da una compagnia internazionale controllata da Francia e Gran Bretagna, sanzionava e simboleggiava
la supremazia tecnica e commerciale dell’Europa e ne facilitava l’espansione verso
il continente asiatico.
L’India britannica
L’India fu a lungo amministrata dalla Compagnia delle Indie orientali, che agiva come
un rappresentante del governo britannico. A metà ’800 il territorio controllato era
vastissimo – si estendeva su buona parte dell’area oggi occupata da India, Pakistan
e Bangladesh – e, con una popolazione in continua crescita (130 milioni nel 1845,
oltre 200 nel 1881), offriva ampi sbocchi di mercato per i manufatti provenienti dalla
Gran Bretagna, verso la quale venivano invece esportati grandi quantità di tè e di
cotone. Cent’anni di dominazione britannica non avevano mutato di molto i caratteri
della società indiana. L’effetto principale della presenza britannica era stato quello
di distruggere, con l’importazione di tessuti dal Regno Unito, l’industria cotoniera
locale, abbastanza estesa anche se a livello artigianale. Il potere statale, formalmente
ancora rappresentato dall’antico Impero Moghul, era carente o addirittura assente:
il senso dell’appartenenza alla casta o alla comunità locale prevaleva su qualsiasi
legame con l’autorità centrale.
I colonizzatori britannici si erano appoggiati sulle gerarchie sociali preesistenti – i signori locali, i sacerdoti induisti (brahmini) – per assicurare il mantenimento
dell’ordine e la riscossione delle imposte. I loro tentativi di avviare un prudente
processo di modernizzazione, diffondendo la cultura occidentale e combattendo alcune
delle pratiche più crudeli della tradizione induista – come l’usanza di bruciare le
vedove insieme con i cadaveri dei mariti –, provocarono reazioni di stampo tradizionalistico-religioso.
La più importante fu la cosiddetta rivolta dei Sepoys, scatenata nel 1857 da un ammutinamento
dei reparti indigeni dell’esercito (chiamati appunto Sepoys). Questa rivolta, che
richiese una lunga e sanguinosa repressione, indusse il governo britannico a riorganizzare
la propria presenza in India. Nel 1858 la Compagnia delle Indie fu soppressa e il
paese passò sotto la diretta amministrazione della Corona, rappresentata da un viceré.
L’esercito e la burocrazia vennero ristrutturati: furono promossi gli elementi indigeni
e i notabili fedeli al Regno Unito, affiancandoli a elementi britannici. La costruzione
di nuove ferrovie consentì non solo un incremento degli scambi, ma anche un più stretto
controllo militare su tutto il territorio indiano. Nel 1876, a coronamento di quest’opera di riorganizzazione, la regina Vittoria fu proclamata
imperatrice delle Indie.
L’India britannica a metà ’800
La Francia in Indocina
Negli anni ’50 i francesi, spinti dalla concorrenza con i britannici, cominciarono
ad avanzare in Indocina. La penisola indocinese, abitata da popolazioni di religione
buddista, era divisa in una serie di regni dipendenti dall’Impero cinese: i più importanti
erano quello dell’Annam (oggi Vietnam), quello del Siam (oggi Thailandia) e quello
della Cambogia. All’inizio i francesi si limitarono a costruire qualche stazione commerciale
accanto alle numerose missioni cattoliche già da tempo presenti nella regione. Furono
proprio le persecuzioni contro i missionari a fornire alla Francia il pretesto per
un intervento militare: nel 1862 venne occupata la Cocincina, ossia la parte meridionale
del Regno dell’Annam e, l’anno dopo, fu imposto il protettorato alla Cambogia.
Una seconda fase dell’espansione francese in Indocina si aprì all’inizio degli anni
’80. Dopo una guerra con la Cina (1883-85), la Francia riuscì a estendere il suo protettorato
a tutto l’Annam. Dal canto suo la Gran Bretagna, per evitare che i possedimenti francesi giungessero
a ridosso dell’India, tra il 1885 e il 1887 procedette all’occupazione del Regno di
Birmania. La Francia rispose, nel 1893, assicurandosi il controllo del Laos. Quanto
al Siam, Gran Bretagna e Francia si accordarono per mantenerlo indipendente come Stato-cuscinetto.
La colonizzazione russa e la spartizione degli arcipelaghi del Pacifico
Intanto l’Impero russo seguiva in Asia due direttrici di espansione: la prima verso
la Siberia e l’Estremo Oriente, la seconda verso l’Asia centrale. La colonizzazione
della Siberia, che ebbe un decisivo impulso già a partire dagli anni ’30, fu realizzata
soprattutto sotto la spinta e il controllo dell’autorità statale, contrariamente a
quanto avveniva negli Stati Uniti, dove l’espansione verso ovest era dovuta alla libera
iniziativa individuale. I risultati furono comunque notevoli: nella prima metà dell’800
la Siberia vide più che raddoppiata la sua popolazione e notevolmente incrementate
le attività produttive e commerciali. La Russia cercò anche di consolidare le proprie
posizioni strategiche verso la Cina e il Pacifico: nel 1860 impose alla Cina la cessione
di due distretti – Ussuri e Amur – e avviò la costruzione del porto di Vladivostok
sul Mar dell’Est o Mar del Giappone. Il governo zarista ritenne invece opportuno rinunciare
all’Alaska, dove fin dal 1799 operava una compagnia privata russa: il territorio,
il cui controllo fu giudicato troppo costoso dal punto di vista economico e militare,
venne venduto agli Stati Uniti nel 1867 per 7 milioni di dollari. Nel 1891, quasi
a sancire il completamento di uno sterminato impero che si estendeva senza soluzione
di continuità dal Baltico al Pacifico, fu avviata la costruzione della ferrovia Transiberiana,
la più lunga del mondo che, una volta completata nel 1904, collegò Mosca a Vladivostok
con un percorso di oltre 9 mila km.
In Asia centrale l’Impero zarista riuscì a incamerare, fra 1876 e 1885, l’intera regione
del Turchestan: una zona importante in quanto forte produttrice di cotone, ma pericolosamente
vicina alle frontiere dell’India. Proprio in questa area, tra Turchestan, Afghanistan
e Pakistan, Russia e Gran Bretagna si fronteggiarono a lungo fino a quando, nel 1885,
giunsero a un accordo per definire le frontiere tra il Turchestan e il Regno dell’Afghanistan,
che restò indipendente, ma sotto l’influenza britannica.
Mentre si compiva la spartizione dell’Asia, anche gli arcipelaghi del Pacifico vennero
inglobati negli imperi coloniali, soprattutto in quelli britannico e tedesco. La Gran
Bretagna, che già dominava su Australia e Nuova Zelanda, occupò le isole Fiji, le
Salomone e le Marianne, mentre la Nuova Guinea fu divisa fra tedeschi e britannici.
Inoltre alla colonizzazione nell’area del Pacifico parteciparono anche gli Stati Uniti e il Giappone.
5.5. Gli europei in Cina
L’isolamento cinese
Dall’inizio dell’800 l’Impero cinese era rimasto pressoché inaccessibile ai viaggiatori
e ai commercianti occidentali. Non aveva neanche relazioni diplomatiche con l’esterno,
in omaggio all’idea che l’imperatore fosse l’unica fonte di potere sulla Terra e che
gli altri sovrani potessero avere con lui solo rapporti di vassallaggio. Agli stranieri
era consentito di operare solo nel porto di Canton, nella Cina meridionale. Questo
orgoglioso isolamento mascherava in realtà una profonda debolezza. Da tempo ormai
la società cinese, irrigidita e chiusa in sé stessa, aveva perso quel primato scientifico
e tecnologico di cui aveva goduto fino al ’700. Il ceto burocratico dei mandarini,
profondamente tradizionalista e legato alla propria formazione filosofico-letteraria,
ostacolava ogni mutamento nelle tecniche produttive e nei sistemi di governo. Il risultato
fu che, al primo traumatico scontro con l’Occidente, la Cina imperiale entrò in una
crisi irreversibile.
Le guerre dell’oppio
Occasione dello scontro fu il contrasto scoppiato alla fine degli anni ’30 fra il
governo imperiale e la Gran Bretagna a proposito del commercio dell’oppio. La droga, prodotta in grandi quantità nelle
piantagioni indiane, veniva esportata clandestinamente in Cina, dove il suo consumo
era largamente diffuso, benché ufficialmente proibito da oltre un secolo. Era nata
così un’acuta tensione tra la Cina e la Gran Bretagna, la principale responsabile
e beneficiaria del traffico. Quando, nel 1839, un funzionario cinese fece sequestrare
il carico di tutte le navi straniere nel porto di Canton, il governo britannico decise
di intervenire militarmente.
Dopo una guerra durata più di due anni, i britannici ebbero partita vinta, conquistando
tutti gli accessi agli estuari dei grandi fiumi e dei porti cinesi. Con il trattato
di Nanchino del 1842, la Cina dovette cedere alla Gran Bretagna la città di Hong Kong,
situata su un’isola costiera vicina al grande porto fluviale di Canton, e aprire al
commercio straniero altri quattro porti, fra cui Shanghai. Questa prima guerra dell’oppio,
mettendo a nudo la debolezza militare della Cina e aprendola alla penetrazione commerciale
europea, ebbe il duplice effetto di sconvolgere gli equilibri sociali su cui si reggeva
l’Impero e di far convergere su di esso le mire espansionistiche di altre potenze.
Così, nel decennio 1850-60, la Cina si trovò ad affrontare contemporaneamente una
gravissima crisi interna – culminata nella lunga e sanguinosissima ribellione contadina
nota come rivolta dei Taiping – e un nuovo sfortunato scontro con la Gran Bretagna,
coadiuvata questa volta dalla Francia. Il conflitto, chiamato impropriamente seconda guerra dell’oppio, cominciò nel 1856 in seguito all’attacco a una nave britannica
nel porto di Canton e si concluse quattro anni dopo con una nuova capitolazione della
Cina, costretta ad aprire al commercio straniero anche le vie fluviali interne e a
stabilire normali rapporti diplomatici con gli Stati occidentali.
5.6. Il dominio coloniale
I caratteri della conquista
Nel corso della sua espansione coloniale, l’Europa portò in tutto il mondo l’impronta
della sua tecnica, della sua economia e, più in generale, della sua civiltà. Di solito
non ne portò la faccia migliore. Quasi tutte le conquiste coloniali furono segnate
dall’uso sistematico e indiscriminato della violenza contro le popolazioni indigene,
da un campionario di crudeltà sconosciuto agli ultimi conflitti combattuti sul Vecchio
Continente. Soprattutto nell’Africa nera, dove più schiacciante era la superiorità
tecnologica degli europei, le frequenti rivolte delle popolazioni locali contro i
nuovi dominatori si concludevano spesso con veri e propri massacri: fu terribile,
per esempio, quello perpetrato dai tedeschi nell’Africa del Sud-Ovest ai danni della
tribù bantu degli Herero, che venne quasi completamente sterminata.
Sviluppo e sfruttamento
Dal punto di vista economico, l’esperienza coloniale ebbe alcuni effetti positivi
sui paesi che ne furono investiti: vennero messe a coltura nuove terre, introdotte
nuove tecniche agricole, costruite infrastrutture, avviate attività industriali e
commerciali, esportati migliori ordinamenti amministrativi e finanziari. Ma tutto
ciò avveniva a prezzo di un continuo impoverimento di risorse materiali e umane, ovvero
di un vero e proprio sfruttamento coloniale: i lavoratori indigeni, infatti, venivano
pagati per lo più con salari irrisori, quando non erano costretti a forme di lavoro
forzato. La trasformazione delle economie dei paesi sottomessi, che furono generalmente
orientate verso l’esportazione, ebbe un doppio esito: in molti casi portò alla rottura
di sistemi economici di pura sussistenza, basati sul circolo vizioso dell’autoconsumo
e della povertà; in altri, invece, stravolse un meccanismo produttivo modellato in
funzione del mercato interno. Fu comunque messo in moto un processo di sviluppo in
funzione degli interessi dei colonizzatori. Nuovi paesi entrarono in un più vasto
mercato mondiale, ma vi entrarono in una posizione dipendente: passarono cioè dalla povertà al sottosviluppo.
Politica della razza e stratificazioni sociali
Il razzismo condizionò la politica degli Stati europei nelle colonie. Ovunque furono
“censite le razze” e accentuate le divisioni all’interno delle società indigene anche
allo scopo di controllare meglio i colonizzati. Le nuove città coloniali furono spesso
caratterizzate da quartieri separati e dalla creazione di “confini” che dividevano
la vita degli indigeni da quella degli europei: anche in alcuni centri fondati dagli
italiani in Eritrea e Libia, per esempio, furono tracciate “linee” per separare gli
spazi destinati agli africani da quelli destinati ai bianchi. In generale, dunque,
il razzismo era largamente diffuso nelle società coloniali.
Non bisogna però immaginare i rapporti tra colonizzatori e colonizzati dominati esclusivamente
da pregiudizi razzisti. Nelle colonie, a volte, si instaurarono legami di solidarietà
tra i funzionari europei e i notabili locali proprio in virtù della comune appartenenza
agli strati superiori delle rispettive società. Accadde così, per esempio, nell’India
britannica di fine ’800, dove gli aristocratici inviati dalla Corona ad amministrare
la colonia non esitavano a considerare i notabili indiani “superiori” ai britannici
di basso ceto. Per molti aspetti, infatti, i governatori cercarono di riprodurre in
India la stessa rigida struttura di distinzione di classe presente nel Regno Unito,
preoccupandosi di trattare con riguardo gli elementi locali che consideravano loro
pari rango.
L’impatto sociale e culturale della colonizzazione
Gli effetti della colonizzazione sulle culture dei paesi afro-asiatici furono drammatici,
pur variando a seconda delle diverse realtà locali e delle diverse politiche attuate
dai paesi colonizzatori: quella britannica, per esempio, fu più rispettosa degli usi
locali, mentre quella francese risultò più oppressiva nel tentativo di introdurre
elementi di modernizzazione forzata. I sistemi culturali legati a strutture politico-sociali e religiose bene organizzate
e con una solida tradizione alle spalle – come quelli dell’Asia e del Nord Africa
– si difesero meglio, opponendo una resistenza più consapevole e assimilando in qualche
misura gli apporti esterni. Ben diverso, invece, fu il caso dell’Africa più arcaica
e animista. Qui l’effetto dell’incontro con la civiltà del colonizzatore fu dirompente:
le trasformazioni economiche, tecnologiche, sociali, religiose e linguistiche prodotte
dalla presenza degli europei alterarono dalle fondamenta non solo gli equilibri secolari
delle comunità di tribù e di villaggio, ma gli stessi universi culturali che ne erano
espressione. Interi sistemi di vita, di riti e di credenze, di costumi e di valori
entrarono rapidamente in crisi. Nei molti casi in cui mancava una tradizione scritta,
rimasero a malapena tracce delle culture “cancellate”. Sul piano politico, però, l’espansione
coloniale finì per favorire, in tempi più o meno lunghi, la formazione o il risveglio
di nazionalismi locali a opera soprattutto di nuovi dirigenti formatisi proprio nelle
scuole europee, dove avevano avuto la possibilità di assorbire gli ideali democratici
e i princìpi del nazionalismo. L’Europa si trovò così a esportare quello che meno
avrebbe desiderato: il bisogno di autogovernarsi e di decidere il proprio destino.
Sommario
Diverse furono le cause della corsa alla conquista coloniale che, negli ultimi decenni
dell’800, connotò la politica estera di molti Stati europei, presto affiancati dalle
potenze emergenti di Stati Uniti e Giappone. Vi fu certamente la spinta esercitata
dagli interessi economici – materie prime a basso costo, sbocchi per i prodotti industriali
e i capitali d’investimento –, ma non meno importante fu l’affermarsi di tendenze
politico-ideologiche che affiancavano a un acceso nazionalismo la convinzione nella
missione civilizzatrice dell’uomo bianco. L’opinione pubblica, infine, fu particolarmente
colpita e influenzata dalle notizie sui viaggi in Africa compiuti da esploratori,
viaggiatori, missionari.
Fu in Africa che l’espansione coloniale si realizzò con la velocità più sorprendente,
portando nel giro di pochi decenni alla conquista quasi completa di tutto il continente,
sotto forma di colonie o protettorati. Francia e Inghilterra occuparono rispettivamente
Tunisia (1881) ed Egitto (1882). Poco dopo, la conferenza di Berlino (1884-85), convocata
per risolvere i contrasti internazionali suscitati dall’espansione belga in Congo,
stabilì i princìpi della spartizione dell’Africa (in primo luogo quello dell’effettiva
occupazione) e riconobbe il possesso di vari territori a Belgio, Francia, Germania
e Gran Bretagna. Nel 1900 i territori africani rimasti indipendenti erano pochi: l’Impero
etiopico, la Libia (ottomana), il Marocco (fino al 1912), la piccola Liberia e le
Repubbliche boere del Sudafrica.
In Sudafrica la Gran Bretagna, soprattutto attraverso la politica di Cecil Rhodes,
politico e proprietario della British South Africa Company, mirò a estendere il dominio
britannico dalla Colonia del Capo alle due Repubbliche boere dell’Orange e del Transvaal,
ricche di giacimenti d’oro e di diamanti. Il disegno poté realizzarsi solo dopo due
lunghe e sanguinose guerre contro i boeri (1880-81 e 1899-1902). Nel 1910 l’Orange
e il Transvaal confluirono nell’Unione sudafricana insieme alla Colonia del Capo.
Agli inizi dell’età dell’imperialismo, gli europei avevano già numerosi possedimenti
in Asia. In India, da tempo affidata al controllo della Compagnia delle Indie, gli
inglesi tentarono di introdurre elementi di modernizzazione provocando però violente
reazioni. La colonia fu allora riorganizzata sotto la diretta amministrazione della
Corona britannica. L’apertura del Canale di Suez (1869) diede nuovo impulso alla penetrazione
europea in Asia. In questo periodo ci furono la conquista francese dell’Indocina,
la spartizione del Pacifico e lo sviluppo della colonizzazione russa della Siberia.
L’altra direttrice dell’espansionismo russo – quella verso l’Asia centrale – portò
l’Impero zarista a un duro contrasto con la Gran Bretagna, molto attiva anche nel
consolidamento della sua presenza nel Pacifico, insieme a Germania, Stati Uniti e
Giappone.
A metà ’800 l’isolamento della Cina dal resto del mondo fu interrotto dalla pressione
degli Stati europei e in particolare dal conflitto nato con la Gran Bretagna per il
commercio dell’oppio, vietato in Cina ma molto lucroso per i trafficanti britannici.
Dopo due guerre (1839-42 e 1856-60) venne imposta al paese l’apertura al commercio
straniero, prima attraverso l’accesso ai principali porti, poi con l’accesso anche
alle vie fluviali interne.
Le potenze conquistatrici fecero generalmente un uso indiscriminato della forza contro
le popolazioni indigene, sconvolsero l’economia dei paesi afro-asiatici sottoponendola
a un sistematico sfruttamento finalizzato all’esportazione di materie prime e, in
questo modo, colpirono, spesso irrimediabilmente, antiche culture, danneggiando inoltre
il mercato interno. Gli effetti della conquista, tuttavia, non furono sempre e solo
negativi. Sul piano economico ci fu, in molti casi, un inizio di modernizzazione,
sia pur finalizzata agli interessi dei dominatori. Su quello culturale, alcuni paesi
con tradizioni e strutture politico-sociali più solide riuscirono a difendere la loro
identità, ovvero ad assimilare alcuni aspetti della cultura dei dominatori. Sul piano
politico, infine, la colonizzazione favorì, a più o meno lunga scadenza, la formazione
di nazionalismi locali che avrebbero successivamente alimentato le lotte per l’indipendenza.
Bibliografia
Per una rapida introduzione agli aspetti teorici dell’imperialismo: T. Kemp, Teorie dell’imperialismo, Einaudi, Torino 1969 (ed. or. 1967); M. Barratt Brown, L’economia dell’imperialismo, Laterza, Roma-Bari 1977 (ed. or. 1974). Si veda anche P. Chiantera-Stutte, Il pensiero geopolitico. Spazio, potere e imperialismo tra Otto e Novecento, Carocci, Roma 2014.
Sull’espansione coloniale e l’imperialismo: D.K. Fieldhouse, L’età dell’imperialismo 1830-1914, Laterza, Roma-Bari 1996 (ed. or. 1973); Id., Politica ed economia del colonialismo, 1870-1945, Laterza, Roma-Bari 1996 (ed. or. 1976); R.F. Betts, L’alba illusoria. L’imperialismo europeo nell’Ottocento, Il Mulino, Bologna 2008 (ed. or. 1975); H. Wesseling, La spartizione dell’Africa 1880-1914, Corbaccio, Milano 2001 (ed. or. 1991); W. Reinhard, Storia del colonialismo, Einaudi, Torino 2002 (ed. or. 1996); D.R. Headrick, Il predominio dell’Occidente. Tecnologia, ambiente, imperialismo, Il Mulino, Bologna 2011 (ed. or. 2010). In particolare, sull’impero coloniale del
Regno Unito: P. Wende, L’impero britannico. Storia di una potenza mondiale, Einaudi, Torino 2009 (ed. or. 2008).
Sulla penetrazione europea in Asia: J. Chesneaux, L’Asia orientale nell’età dell’imperialismo: Cina, Giappone, India e Sud-est asiatico
nei secoli XIX e XX, Einaudi, Torino 1975 (ed. or. 1966); G. Borsa, La nascita del mondo moderno in Asia orientale. La penetrazione europea e la crisi
delle società tradizionali in India, Cina e Giappone, Rizzoli, Milano 1977; E. Collotti Pischel, Storia dell’Asia orientale, 1850-1949, Carocci, Roma 2004 (ed. or. 1994). Per la Cina: M. Sabattini-P. Santangelo, Storia della Cina, Laterza, Bari-Roma 2017 (ed. or. 1986); J. Osterhammel, Storia della Cina moderna (secoli XVIII-XX), Torino, Einaudi 1992 (ed. or. 1989); J.A.G. Roberts, Storia della Cina, Il Mulino, Bologna 2013 (ed. or. 1999); La Cina, III, Verso la modernità, a cura di G. Samarani e M. Scarpari, Einaudi, Torino 2009. Sul Giappone si vedano
i titoli citati nella bibliografia del cap. 13. Sull’India: M. Torri, Storia dell’India, Laterza, Roma-Bari 2010 (ed. or. 2000); D. Rothermund, Storia dell’India, Il Mulino, Bologna 2007 (ed. or. 2002); D. Ludden, Storia dell’India e dell’Asia del Sud, Einaudi, Torino 2011 (ed. or. 2002).
Sull’Africa: J. Ki-Zerbo, Storia dell’Africa nera, Einaudi, Torino 1977 (ed. or. 1972); A.M. Gentili, Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa sub-sahariana, Carocci, Roma 2008 (ed. or. 1995); G.P. Calchi Novati-P. Valsecchi, Africa: la storia ritrovata. Dalle prime forme politiche agli Stati nazionali, Carocci, Roma 2016 (ed. or. 2005); W. Speitkamp, Breve storia dell’Africa, Einaudi, Torino 2010 (ed. or. 2007); S. Bellucci, Africa contemporanea. Politica, cultura, istituzioni a sud del Sahara, Carocci, Roma 2010.
Per uno sguardo sulle rappresentazioni coloniali, si veda E. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano 2016 (ed. or. 1978).
6. Governare l’Italia unita
6.1. Demografia, economia e società
Popolazione e alfabetizzazione
Al momento dell’Unità gli italiani erano circa 22 milioni (arrivavano a poco più di
25 calcolando anche il Veneto e il Lazio). La percentuale degli analfabeti, di quanti
cioè non sapevano né leggere né scrivere, era molto alta, il 75% (ma nei decenni successivi
diminuì costantemente). L’analfabetismo era inoltre molto più diffuso tra le donne. Solo il 10% degli italiani
era da considerare “italofono”, ossia parlava la lingua italiana, mentre tutti gli
altri comunicavano attraverso i dialetti, di cui la stessa minoranza colta si serviva
nella comunicazione familiare e nei rapporti con la gente del popolo (pratica largamente
diffusa fino a tempi recenti). Inoltre, nonostante da tempo l’italiano fosse impiegato
dalla Chiesa nella predicazione, i dialetti affiancavano la lingua colta nelle scuole
elementari. Nell’insieme la grande maggioranza degli italiani non possedeva ancora
una lingua comune. Misurata sul terreno delle conoscenze di base, l’Italia era dunque
molto meno istruita di paesi come la Prussia e la Francia, dove gli alfabetizzati
erano rispettivamente il 70% e il 50% della popolazione.
Città e campagne
Intorno al 1860 l’Italia era, come già in passato, uno dei paesi europei con il maggior
numero di città. Una decina erano i centri con più di 100 mila abitanti – il più grande
era Napoli con 450 mila, seguivano Torino, Palermo, Milano e Roma con circa 200 mila
– e la popolazione urbana propriamente detta (quella che viveva in comuni con oltre
20 mila abitanti) era pari al 20% del totale. La grande maggioranza degli italiani
viveva nelle campagne e nei piccoli centri rurali e traeva i suoi mezzi di sostentamento
dalle attività agricole: era quindi costituita prevalentemente da contadini. L’agricoltura
occupava infatti il 70% della popolazione attiva (cioè di quelli in età lavorativa)
contro il 18% dell’industria e dell’artigianato e il 12% del settore terziario (che
comprende commercio e servizi), contribuendo per il 58% al prodotto interno lordo di tutto il paese, mentre industria e settore terziario vi contribuivano ciascuno
per il 20% circa. E le attività agricole fornivano i principali prodotti di esportazione:
seta grezza dalle regioni settentrionali, e i prodotti delle colture specializzate
come agrumi, frutta secca, vino e olio (per fini industriali) da quelle meridionali.
Contrariamente a quanto una tradizione, prevalentemente letteraria, aveva tramandato,
l’agricoltura italiana nel suo complesso non era affatto favorita dalle condizioni naturali. Le zone pianeggianti,
le più adatte all’agricoltura intensiva, costituivano poco più del 20%, mentre tutto
il resto era terreno collinare o montagnoso. Inoltre il 20% della superficie del paese
era occupato da terre incolte o da terreni paludosi infestati dalla malaria.
Paesaggio agrario e assetti produttivi
In generale, quella italiana era prevalentemente un’agricoltura povera, caratterizzata da una grande varietà di colture e di tipologie di proprietà fondiaria.
Solo nella zona irrigua della Pianura padana si erano ormai sviluppate numerose aziende
agricole moderne che univano l’agricoltura all’allevamento bovino, erano condotte
con criteri capitalistici, producevano per il mercato e impiegavano soprattutto manodopera
salariata. Accanto a esse coesistevano, nelle regioni del Nord, le grandi proprietà
coltivate a cereali e le piccole unità produttive in affitto a conduzione familiare,
diffuse queste ultime soprattutto nelle zone collinari del Piemonte, della Lombardia
e del Veneto.
Nell’Appennino e in tutta l’Italia centrale, in particolare in Toscana, Marche e Umbria,
dominava invece la mezzadria. La terra era divisa in poderi, prevalentemente di piccole
e medie dimensioni, dove le colture cerealicole si mescolavano agli olivi, alle viti
e agli alberi da frutto. Ciascun podere produceva quanto era necessario per il mantenimento
della famiglia che viveva sul fondo e per il pagamento del canone in natura, pari
alla metà del prodotto, dovuto al padrone. Il mezzadro era tenuto inoltre a concorrere
alle spese di manutenzione e a quelle per gli attrezzi agricoli e il bestiame. Il
contratto di mezzadria, con la sua rigida ripartizione delle spese, non favoriva gli
investimenti e le innovazioni tecniche in funzione dello sviluppo di un’agricoltura
moderna, orientata verso il mercato. In compenso consentiva una relativa pace sociale
– per questo era apprezzato da molti conservatori – e assicurava un certo grado di tutela del territorio: ne è testimonianza
il tipico paesaggio vario e ordinato, che ancora oggi sopravvive in buona parte dell’Italia
centrale.
In molte zone dell’Italia meridionale, oltre che nella vasta campagna intorno a Roma,
la coltivazione prevalente era il latifondo: grandi distese, per lo più seminate a
grano o lasciate alla pastorizia, con la popolazione concentrata in pochi e grossi
borghi rurali. Le tracce dell’ordinamento feudale si facevano sentire pesantemente
negli arcaici contratti agrari – basati spesso su compensi di quota parte del raccolto
– e nei rapporti fra i proprietari e i contadini, caratterizzati da forme di dipendenza
personale, ma anche da ricorrenti contrasti derivanti dall’irrisolto problema della
utilizzazione contadina delle terre soggette agli usi civici. Non mancavano tuttavia
nel Mezzogiorno, per esempio in Campania, in Puglia e in Sicilia, zone fertili e pianeggianti
dove erano diffuse le colture specializzate – ortaggi, frutta, agrumi, vino, olio
– destinate all’esportazione.
Una parte molto estesa dell’Italia, soprattutto nelle zone altocollinari o montane,
continuava a praticare un’agricoltura di pura sussistenza, dove l’autoconsumo era
la regola.
Le condizioni di vita delle popolazioni rurali
Tutto ciò si rifletteva nel bassissimo livello di vita della popolazione rurale. I contadini italiani, nella loro grande maggioranza, vivevano ai limiti della sussistenza
fisica. Si nutrivano quasi esclusivamente di pane – per lo più non di frumento, ma
di cereali “inferiori” come granturco, avena e segale – e di pochi legumi: andavano
quindi soggetti alle malattie da denutrizione, prima fra tutte la pellagra. Vivevano,
soprattutto nel Sud, ammucchiati in abitazioni piccole e malsane, non di rado in capanne
o in caverne che spesso servivano da ricovero anche per gli animali.
Il divario tra Nord e Sud
Per gran parte sconosciute alla classe dirigente del paese erano le condizioni economiche
e sociali del Mezzogiorno. Lo stesso Cavour non si era mai spinto a sud di Firenze.
Quando, nell’autunno del 1860, il romagnolo Luigi Carlo Farini fu inviato nelle province
meridionali in qualità di luogotenente generale (cioè rappresentante del governo)
non seppe nascondere il proprio stupore e il proprio disprezzo: «Che barbarie! – scriveva
in una lettera a Cavour – Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro
di questi caffoni, sono fior di virtù civili». Impressioni che, se da un lato segnalavano
pregiudizi e incomprensioni destinati a durare nel tempo, dall’altro poggiavano su
un reale divario tra Nord e Sud del paese e ne testimoniavano anche la distanza culturale
e la diversità di comportamenti e mentalità.
Al momento dell’Unità questo divario si misurava anche sul piano della disponibilità
di infrastrutture, della produttività agricola e dell’istruzione di base. Se al Nord, nella Pianura padana e in particolare in Piemonte,
esisteva già una rete ferroviaria sviluppata, al Sud, salvo qualche breve tratto intorno
a Napoli, le ferrovie erano inesistenti. Il valore della produzione agricola per ettaro
era al Sud pari a un terzo di quello della Lombardia e a metà di quello del Piemonte.
Molto significativo risultava inoltre il differenziale di alfabetizzazione: in Piemonte
e in Lombardia gli analfabeti erano intorno al 54%, in Puglia salivano all’86% e in
Sicilia all’89%.
Il divario tra Nord e Sud segnalava già l’emergere di un problema nazionale che sarebbe
stato definito in seguito come «questione meridionale»: tuttavia allora nel confronto
con l’Europa le differenze tra le “due Italie” risultavano appiattite e accomunate
da una generale arretratezza rispetto ai paesi più sviluppati del continente.
6.2. La classe politica e i primi provvedimenti legislativi
Tutt’altro che agevole fu governare l’Italia dopo la sua unificazione. L’improvvisa
e precoce morte di Cavour (giugno 1861) lasciava priva di guida la classe dirigente
moderata, anche se i successori di Cavour si attennero sostanzialmente alla politica
da lui già impostata nelle grandi linee: una politica rispettosa delle libertà costituzionali
e insieme accentratrice, liberista in campo economico, laica in materia di rapporti
fra Stato e Chiesa.
La Destra storica
Il gruppo dirigente che governò ininterrottamente il paese nel primo quindicennio
non era molto diverso da quello che si era formato dopo il ’49 in Piemonte. Il nucleo
centrale era costituito dai moderati piemontesi, cioè dalla vecchia maggioranza della Camera subalpina. A essa si erano uniti i gruppi
moderati lombardi, emiliani e toscani. Meno numerosa era la rappresentanza delle regioni
meridionali, che pure contava personalità di tutto rilievo.
Diversi per provenienza geografica, per formazione culturale e per esperienze politiche,
questi uomini formavano tuttavia un gruppo abbastanza omogeneo, sia dal punto di vista
sociale – appartenevano prevalentemente ai ceti superiori – sia sotto il profilo politico.
Nei primi Parlamenti dell’Italia unita, la maggioranza si collocava a destra e come
Destra essa venne definita nel linguaggio politico corrente (l’aggettivo «storica»
fu aggiunto più tardi, per sottolineare la funzione decisiva svolta da quella classe
dirigente nella storia d’Italia). In realtà, più che una forza di destra, essa costituiva
un gruppo di centro moderato: la vera destra – quella dei clericali e dei nostalgici
dei vecchi regimi – si era infatti autoesclusa dalle istituzioni in quanto non riconosceva
la legittimità del nuovo Stato.
La Sinistra
Anche i mazziniani di stretta osservanza e, in genere, i repubblicani intransigenti
rifiutarono di partecipare all’attività politica ufficiale. Sui banchi dell’opposizione
in Parlamento sedettero gli esponenti della vecchia sinistra piemontese, insieme con
un numero via via crescente di patrioti mazziniani o garibaldini che avevano deciso
di inserirsi nelle istituzioni monarchiche, sia pure per cambiarle: essi formavano
la cosiddetta Sinistra. Rispetto alla Destra, la Sinistra si appoggiava su una base
sociale più ampia e composita, formata essenzialmente dai gruppi borghesi delle città – professionisti e intellettuali, ma anche commercianti e imprenditori – e comprendeva
anche gruppi di operai e artigiani del Nord, esclusi dall’elettorato. Nei primi anni
dopo l’Unità, la Sinistra fece proprie e portò avanti le rivendicazioni democratiche
risorgimentali: il suffragio universale, il decentramento amministrativo (che comportava
la concessione di margini di autonomia alle comunità locali) e soprattutto il completamento
dell’Unità, da raggiungersi tramite la ripresa dell’iniziativa popolare.
Il sistema elettorale
Destra e Sinistra erano comunque entrambe espressione di una classe dirigente molto
ristretta, di un “paese legale” assai poco rappresentativo del “paese reale”. La
legge elettorale piemontese, estesa a tutto il Regno, concedeva infatti il diritto
di voto solo a quei cittadini maschi che avessero compiuto i 25 anni, sapessero leggere
e scrivere e pagassero almeno 40 lire di imposte all’anno. Nelle prime elezioni dell’Italia
unita gli iscritti nelle liste elettorali erano circa 400 mila, meno del 2% della
popolazione totale e del 7% dei maschi adulti. Se poi si calcola che la percentuale
di coloro che si astenevano era molto elevata – sfiorando spesso il 50% – si capirà
come, grazie anche al sistema del collegio uninominale, bastassero poche centinaia
o addirittura poche decine di voti per eleggere un deputato. La vita politica assumeva
così un carattere oligarchico e personalistico. Nell’assenza di partiti organizzati nel senso
moderno del termine, la lotta politica si imperniava su singole personalità più che
su programmi definiti: era dominata da pochi notabili in grado di sfruttare la propria
influenza e le proprie relazioni per ottenere i voti necessari all’elezione e pesantemente
condizionata dal potere esecutivo che facilmente poteva favorire la riuscita dei candidati
“governativi”, indirizzando il voto dei militari e degli impiegati nella pubblica
amministrazione.
Per quanto ristretta, la classe dirigente era tuttavia convinta di rappresentare la
parte migliore del paese: e, in effetti, gli uomini della Destra storica si distinsero
per onestà e per rigore, tanto da costituire, da questo punto di vista, un esempio
mai più superato nella storia dell’Italia unita.
La scelta dell’accentramento
D’altro canto, gli esponenti della Destra storica furono portati a identificare le
sorti del proprio gruppo politico con quelle delle istituzioni statali, sottoposte
alla duplice minaccia dei “neri” e dei “rossi”, ossia dei clericali reazionari e dei
repubblicani rivoluzionari, e a considerare i fermenti e le inquietudini della società
come attentati al bene supremo dell’unità appena raggiunta. La preoccupazione quasi
ossessiva dell’unità da salvaguardare contro nemici veri o presunti condizionò pesantemente
le scelte dei primi governi postunitari e determinò in larga parte la stessa fisionomia
del nuovo Stato. I leader della Destra, ammiratori dell’esempio britannico, erano
disposti a riconoscere in teoria la validità di un sistema decentrato, basato sull’autogoverno
(self-government) delle comunità locali. Nei fatti, però, prevalsero le esigenze pratiche immediate,
che spingevano i governanti a stabilire un controllo il più possibile stretto e capillare
su tutto il paese e dunque a scegliere un modello di Stato accentrato molto vicino a quello napoleonico: basato cioè su ordinamenti uniformi
per tutto il Regno e su una rigida gerarchia di funzionari dipendenti dal centro.
L’accentramento era anche il risultato inevitabile della unificazione, ottenuta attraverso
l’annessione delle varie province al Regno di Sardegna e la conseguente adesione al
suo impianto istituzionale e alle sue leggi. Tra il giugno ’59 e il gennaio ’60, grazie
ai poteri straordinari conferiti al governo dallo stato di guerra con l’Austria, erano
state varate senza alcun controllo parlamentare numerose leggi riguardanti i settori
chiave della vita del paese: oltre ad estendere, con piccole modifiche, le leggi piemontesi
alle province appena annesse (così fu, ad esempio, per la legge elettorale), furono
emanate leggi nuove: la legge Casati sull’istruzione, che creava un sistema scolastico
nazionale e stabiliva il principio dell’istruzione elementare obbligatoria (demandandone
però l’attuazione ai comuni); la legge Rattazzi sull’ordinamento comunale e provinciale,
che affidava il governo dei comuni a un consiglio eletto a suffragio ristretto e a
un sindaco di nomina regia. Il territorio nazionale era suddiviso in province, che rappresentavano le circoscrizioni amministrative più importanti, poste sotto
lo stretto controllo dei prefetti, rappresentanti del potere esecutivo centrale su
tutto il paese. Anche questa legge fu successivamente estesa, con poche modifiche,
a tutto il Regno.
Tra i motivi che spinsero la classe politica a scegliere l’accentramento e ad accantonare
ogni progetto di decentramento amministrativo, il principale fu costituito certamente
dalla situazione che si era venuta a creare nel Mezzogiorno. Nelle province meridionali
liberate dal regime borbonico, il malessere antico delle masse contadine si sommò
a una diffusa ostilità verso il nuovo ordine politico, che non aveva portato alcun mutamento radicale
nella sfera dei rapporti sociali, anzi aveva visto la borghesia rurale schierarsi
dalla parte dei “conquistatori”. E a questo si erano aggiunte la nuova pesante fiscalità
e la leva militare obbligatoria osteggiate duramente dal mondo contadino. Già nell’ultima
fase dell’impresa garibaldina erano scoppiate, soprattutto in Campania, rivolte contadine
di una certa gravità: rapidamente i disordini si fecero più estesi e più frequenti,
fino a trasformarsi in una generale insorgenza, incoraggiata da una parte del clero
e finanziata dalla corte borbonica in esilio a Roma.
Il brigantaggio
Dall’estate del 1861, in tutte le regioni del Mezzogiorno continentale si erano formate
bande di irregolari, dove i contadini insorti si mescolavano agli ex militari borbonici
(per i quali la fine del Regno delle Due Sicilie si era trasformata in una catastrofe
personale), ai cospiratori legittimisti italiani e stranieri, ai banditi veri e propri.
Le bande assalivano di preferenza i piccoli centri e li occupavano per giorni, massacrando
i notabili liberali e incendiando gli archivi comunali: quindi si ritiravano sulle
montagne per attaccare subito dopo altrove. A queste aggressioni, che parevano mettere
in gioco il controllo territoriale di intere regioni, il governo reagì con spietata
energia, rafforzando in primo luogo la presenza militare nel Sud. Fin dai primi tempi
di queste sollevazioni si registrarono, in risposta agli eccidi delle bande, rappresaglie
indiscriminate compiute dall’esercito: come quella di Pontelandolfo, nei pressi di
Benevento, dove nell’agosto 1861 furono uccisi 400 civili e incendiato il paese.
Nel 1863 il Parlamento approvò una legge che istituiva, nelle province dichiarate
in stato di “brigantaggio”, un vero e proprio regime di guerra: tribunali militari per giudicare i ribelli e fucilazione immediata per chi avesse
opposto resistenza con le armi. Sia per l’efficacia delle misure repressive, sia per
la stanchezza della popolazione, il brigantaggio fu sconfitto nel giro di qualche
anno, e nel 1865 le bande più importanti erano state isolate e distrutte.
Il problema della terra
Rimasero però irrisolti i nodi politici e sociali che avevano reso possibile la diffusione
del fenomeno. Mancò ai governi della Destra la capacità o la volontà di attuare una
politica per il Mezzogiorno capace di ridurre le cause del malcontento: cause legate
in gran parte alla mancata realizzazione delle secolari aspirazioni contadine alla
proprietà della terra. La divisione dei terreni demaniali – ossia delle terre pubbliche
di origine feudale o comunale – fu portata avanti con scarsa incisività, mentre la
vendita dei terreni dell’asse ecclesiastico, attuata col sistema delle vendite all’asta,
non migliorò la situazione dei piccoli proprietari e dei contadini senza terra, che
non erano in grado di concorrere all’acquisto dei fondi, e si risolse in tutta Italia
in un rafforzamento della grande proprietà. In generale le scelte di politica economica
della Destra accentuarono il divario fra le regioni del Sud e quelle del Centro-Nord.
6.4. L’economia e la politica fiscale
L’unificazione economica
Parallelamente all’unificazione amministrativa e legislativa, i governi della Destra
dovettero affrontare il complesso problema dell’unificazione economica del paese.
Vennero uniformati a quello del Piemonte i diversi sistemi monetari presenti nella
penisola, con l’adozione di un’unica moneta, la lira italiana, e fu creato un unico
regime fiscale. La legislazione doganale liberista vigente nel Regno sardo, basata
su dazi di entrata molto bassi, fu estesa a tutta l’Italia, penalizzando, come vedremo,
il Mezzogiorno fino ad allora inserito in un sistema protezionistico. Molto rapido
fu lo sviluppo delle vie di comunicazione stradali e ferroviarie, premessa indispensabile
per la formazione di un mercato nazionale ma anche simbolo visibile di modernità e
di progresso civile: in particolare della rete ferroviaria che nel primo decennio
unitario passò da poco più di 2 mila a circa 6 mila chilometri, collegando il Nord
al Sud. Anche se la nuova rete ferroviaria, per gli alti costi, rimase inizialmente
poco utilizzata: per le lunghe distanze si continuò a preferire il trasporto delle
merci via mare.
L’industria e l’agricoltura
Nei primi decenni dopo l’Unità il settore agricolo conobbe un significativo incremento
di produttività di cui si avvantaggiarono soprattutto le colture specializzate del
Mezzogiorno e la produzione della seta greggia (ossia di quella giunta solo allo stadio
della filatura), principali voci dell’esportazione italiana. Invece il settore industriale
fu nel complesso penalizzato dall’accresciuta concorrenza internazionale favorita
dalla politica liberista. Declinarono la produzione laniera e, cosa ancora più grave,
i settori siderurgico e meccanico, ancora lontanissimi dal potersi giovare dell’occasione
che in altri paesi era stata offerta dallo sviluppo delle ferrovie, la cui costruzione
si avvalse di materiali d’importazione e di imprese prevalentemente straniere. Gli
effetti negativi della scelta liberista colpirono soprattutto i pochi nuclei industriali
del Mezzogiorno, inesorabilmente cancellati dalla caduta dei dazi protettivi che ne
avevano sostenuto lo sviluppo.
Le attività industriali non erano del resto al centro dell’attenzione degli uomini
politici italiani, tanto della Destra quanto della Sinistra, convinti che la vocazione
dell’Italia risiedesse nell’agricoltura, base del suo sviluppo economico, mentre lo
sviluppo industriale sarebbe venuto semmai più tardi. L’espansione dell’agricoltura
degli anni ’60 e ’70, derivante da queste scelte, consentì un’accumulazione di capitali
che rese possibile un ulteriore potenziamento delle infrastrutture (strade, ferrovie),
indispensabile per il futuro sviluppo industriale del paese. Ma nel complesso, dopo
un ventennio di vita unitaria, l’Italia aveva perso terreno nei confronti dei paesi
più progrediti e il tenore di vita della maggioranza dei suoi abitanti non aveva registrato
mutamenti di rilievo: anzi, in alcuni casi, era addirittura peggiorato.
Una pesante fiscalità
Responsabile principale di questa situazione fu la durissima politica fiscale, legata
alla necessità di coprire i costi dell’unificazione. La costruzione del nuovo Stato
aveva infatti comportato spese altissime, sia nel campo delle comunicazioni sia in
quelli dell’amministrazione pubblica, dell’istruzione e dell’esercito. Per far fronte
a queste spese, i governi della Destra dovettero ricorrere a una serie di inasprimenti
fiscali, che colpivano sia i redditi e i patrimoni sia i consumi (tasse su sali e
tabacchi, dazi locali sui generi alimentari). La situazione si aggravò ulteriormente
dopo il 1866, in conseguenza delle spese sostenute per la guerra contro l’Austria
(la terza guerra d’indipendenza, di cui si dirà nel paragrafo successivo). Nell’estate
del 1868 fu introdotta infatti una tassa sulla macinazione dei cereali, meglio nota
come tassa sul macinato: si trattava in pratica di una tassa sul pane, cioè sul consumo
popolare per eccellenza, che colpiva duramente le classi più povere, tanto da scatenare
all’inizio del 1869 le prime agitazioni sociali su scala nazionale della storia dell’Italia unita. Scoppiati spontaneamente un po’
in tutto il paese, i moti contro la tassa sul macinato assunsero dimensioni preoccupanti
soprattutto nelle campagne padane. La repressione fu anche in questo caso durissima.
6.5. La conquista del Veneto e la presa di Roma
A pochi anni dalla proclamazione dell’Italia unita la Destra e la Sinistra avevano
il comune obiettivo di completare il processo di unificazione annettendo il Veneto
e soprattutto il Lazio con Roma. Mentre i leader della Destra si affidavano ai tempi
lunghi delle vie diplomatiche, la Sinistra restava fedele all’idea della guerra popolare
e vedeva nella lotta per la liberazione di Roma l’occasione per un rilancio dell’iniziativa
democratica.
In realtà, le acquisizioni del Veneto e di Roma, che avvennero rispettivamente nel
1866 e nel 1870, furono fortemente condizionate dal mutare degli equilibri europei
sui quali pesò il rinnovato dinamismo politico e militare della Prussia [cfr. 3.1 e 3.2].
La questione romana
Il nodo più difficile da sciogliere era rappresentato dalla questione di Roma, proclamata
formalmente capitale del nuovo Stato già nel marzo 1861, ma sede di un pontificato
ostile all’Unità e difesa dalle truppe francesi. La questione romana andava risolta
con prudenza perché da un lato la Francia rimaneva l’alleato più sicuro e il principale
partner economico dell’Italia, dall’altro il paese era cattolico al 99% e il clero
continuava a svolgere un ruolo decisivo nel controllo sociale e culturale delle campagne.
Lo stesso Cavour era stato dell’avviso di muoversi con cautela: fedele al principio «libera Chiesa
in libero Stato», aveva avviato trattative in vista di una soluzione che assicurasse
al papa e al clero piena libertà di esercitare il proprio magistero spirituale in
cambio della rinuncia al potere temporale e del riconoscimento del nuovo Stato. Su
questa stessa linea si mossero i governi italiani anche in seguito, registrando tuttavia
l’impraticabilità di una conciliazione osteggiata fermamente da Pio IX.
Il fallimento dei tentativi garibaldini
Di fronte a questa situazione di stallo apparve possibile una ripresa della mobilitazione
patriottica democratica guidata ancora una volta da Garibaldi. Ma i due tentativi
del 1862 e del 1867 si rivelarono male organizzati, in larga misura velleitari e destinati
all’insuccesso. Nel 1862 Garibaldi raccolse in Sicilia qualche migliaio di volontari,
varcò lo Stretto di Messina ma fu fermato (e ferito) sull’Aspromonte dalle truppe
regie intervenute ad arrestare la spedizione che minacciava di provocare un intervento
militare della Francia di Napoleone III.
Due anni dopo, nel 1864, fu trovato un accordo con la Francia – la cosiddetta Convenzione
di settembre – in base al quale l’Italia si impegnava a garantire il rispetto dei
confini dello Stato della Chiesa, ottenendo in cambio il ritiro delle truppe francesi
dal Lazio. A garanzia del suo impegno, il governo decideva di trasferire la capitale
da Torino a Firenze in quella che sembrava una rinuncia a Roma. La decisione suscitò
nella città piemontese violenti disordini popolari che vennero duramente repressi
dai militari causando oltre 50 morti.
Nel 1867 prese avvio una nuova iniziativa garibaldina, che avrebbe dovuto appoggiarsi
su un’insurrezione preparata dai patrioti romani. Si sperava in tal modo di giustificare
il colpo di mano, presentandolo come un atto di volontà popolare, e di evitare l’intervento
francese. Napoleone III inviò invece un corpo di spedizione nel Lazio, mentre l’insurrezione
a Roma falliva per la sorveglianza della polizia e per la scarsa partecipazione popolare.
Il 3 novembre 1867, le truppe francesi da poco sbarcate a Civitavecchia si scontrarono
presso Mentana, alle porte di Roma, con i volontari garibaldini e li sconfissero dopo un duro combattimento.
La terza guerra d’indipendenza e la conquista del Veneto
Intanto, l’anno precedente alla sconfitta di Mentana l’Italia era riuscita ad assicurarsi
il possesso del Veneto. Nel 1866 il governo italiano aveva infatti accettato la proposta
di alleanza militare con la Prussia rivolta da Bismarck, che si apprestava ad affrontare
la guerra con l’Impero asburgico. La partecipazione italiana fu decisiva per l’esito
del conflitto, in quanto impegnò una parte dell’esercito austriaco agevolando la vittoria
prussiana. Ma, per le forze armate nazionali chiamate alla loro prima prova impegnativa,
la guerra si risolse in un clamoroso insuccesso. Gli italiani, infatti, furono sconfitti
sia per terra, a Custoza, sia per mare, presso l’isola di Lissa, nonostante le forze
austriache fossero inferiori di numero: gravi errori di valutazione dei comandi trasformarono
in dure sconfitte quelli che in realtà erano stati degli scontri brevi e confusi,
con perdite limitate da ambo le parti. Solo Garibaldi, con i suoi volontari, era riuscito
ad aprirsi la via verso Trento, ma aveva dovuto fermarsi perché i prussiani, raggiunti
i loro obiettivi, avevano stipulato l’armistizio con gli austriaci. Dalla successiva
pace di Vienna (ottobre 1866) l’Italia ottenne, non direttamente ma con la mediazione
della Francia, solo il Veneto e i territori del Friuli fino a Udine. L’ultima delle guerre di indipendenza
si concludeva così con un bilancio deludente: rimanevano sotto l’Austria il Trentino
e la Venezia Giulia. Ciò avrebbe costituito, ancora per mezzo secolo, un ricorrente
motivo di agitazione patriottica. La sconfitta, poi, non solo aveva chiaramente dimostrato
l’impreparazione militare italiana, ma aveva diffuso in larga parte dell’opinione
pubblica l’amara convinzione che il nuovo Stato non era ancora pronto a inserirsi
fra le potenze europee su un piano di parità.
Roma capitale
Anche la presa di Roma dipese direttamente dai successi militari della Prussia. Questa
volta fu la Francia a essere sconfitta [cfr. 3.2]. Nel settembre 1870, subito dopo la battaglia di Sedan, il governo italiano, non
sentendosi più vincolato ai patti sottoscritti con Napoleone III, decise di inviare
un corpo di spedizione nel Lazio. Contemporaneamente cercò un accordo col pontefice,
ma Pio IX respinse ogni proposta, deciso a mostrare al mondo intero di essere stato
costretto a cedere alla violenza. Il 20 settembre le truppe italiane, dopo aver aperto con l’artiglieria una breccia nelle mura presso
Porta Pia e dopo un breve combattimento, entravano in città accolte festosamente dalla
popolazione. Pochi giorni dopo, un plebiscito confermava a schiacciante maggioranza
l’annessione di Roma e del Lazio.
Il 20 settembre 1870 rappresenta una data epocale non solo per l’Italia unita che
otteneva la sua capitale, ma soprattutto per la Chiesa cattolica. Quel giorno poneva
fine al potere temporale dei papi durato oltre un millennio – dal 752 – e dava inizio
a una nuova storia per il cattolicesimo romano.
Il trasferimento della capitale e il non expedit
Nell’estate del 1871 la capitale con tutte le sue strutture politiche e amministrative – Parlamento, governo,
ministeri – fu trasferita da Firenze a Roma. Nel frattempo era stata approvata una
legge detta delle Guarentigie, cioè delle “garanzie”, con la quale il Regno d’Italia
si impegnava unilateralmente a garantire al pontefice le condizioni per il libero
svolgimento del suo magistero spirituale, secondo le linee del progetto cavouriano.
Al papa venivano riconosciute prerogative simili a quelle di un capo di Stato: onori
sovrani, facoltà di tenere un corpo di guardie armate, diritto di rappresentanza diplomatica,
extraterritorialità per i palazzi del Vaticano e del Laterano, libertà di comunicazioni
postali e telegrafiche col resto del mondo. Pur rifiutando la legge e con essa la
somma annuale che lo Stato italiano aveva previsto di corrispondere alla Santa Sede,
Pio IX di fatto si avvalse delle prerogative assicurate dalle Guarentigie.
Non per questo si ridusse l’ostilità di Pio IX nei confronti del Regno d’Italia. Anzi,
l’invito ad astenersi da ogni partecipazione alla vita politica dello Stato rivolto
dal clero ai cittadini italiani all’indomani dell’Unità si trasformò, nel 1874, in
un esplicito divieto di partecipare alle elezioni politiche con la formula del non expedit, che significa “non giova, non è opportuno”. L’acquisto di Roma, nel momento stesso
in cui coronava il processo di unificazione nazionale, lasciava aperto un conflitto
con la Chiesa che sarebbe stato sanato solo nel 1929 con i Patti lateranensi.
6.6. Il governo della Sinistra
La fine del governo della Destra
Nel 1876 il governo passò dalla Destra alla Sinistra. L’anno precedente, grazie alla
severa politica fiscale impostata dal ministro delle Finanze Quintino Sella, era stato
raggiunto il pareggio nel bilancio statale. Ma ormai, in Parlamento e nel paese, erano
molti a chiedere una politica meno rigida e restrittiva, che lasciasse più ampi margini
alla formazione della ricchezza privata.
Furono comunque le divisioni della Destra ad aprire alla Sinistra la via del governo.
Nel marzo 1876 il governo Minghetti, messo in minoranza sul suo progetto di passaggio
alla gestione statale delle ferrovie, fino ad allora affidate ai privati, presentò
le dimissioni. Pochi giorni dopo, il re chiamò a formare il nuovo governo Agostino
Depretis, leader della Sinistra all’opposizione, che costituì un ministero interamente
composto da uomini della Sinistra. Nelle elezioni politiche del novembre di quell’anno,
il successo della Sinistra fu nettissimo e confermò il carattere irreversibile del
declino della Destra.
La Sinistra e i governi Depretis
Col 1876 si apriva una nuova fase nella storia politica dell’Italia unita. Giungeva
al potere un ceto dirigente quasi del tutto nuovo a esperienze di governo, diverso
per formazione e per estrazione sociale da quello che aveva retto il paese nel primo
quindicennio di vita unitaria.
La Sinistra parlamentare aveva in realtà fortemente attenuato la sua originaria connotazione
radical-democratica e aveva accolto nel suo seno componenti moderate o addirittura
conservatrici. Ciononostante, la nuova classe dirigente riuscì a esprimere il desiderio di democratizzazione della vita politica diffuso in larga parte della società:
tentò infatti, pur con molte incertezze e cautele, di ampliare le basi della politica
e seppe venire incontro alle esigenze di una borghesia in crescita.
Il protagonista indiscusso di questa fase, Agostino Depretis, fu capo del governo,
salvo brevi interruzioni, per oltre dieci anni. Mazziniano in gioventù, approdato
poi a posizioni più moderate, parlamentare espertissimo, Depretis riuscì a contemperare
con molta abilità le spinte progressiste e le tendenze conservatrici presenti nella
nuova maggioranza. Il programma della Sinistra era basato su pochi punti fondamentali:
ampliamento del suffragio elettorale, maggiore sostegno all’istruzione elementare,
sgravi fiscali soprattutto nel settore delle imposte indirette, decentramento amministrativo.
Quest’ultimo impegno fu accantonato mentre gli altri ebbero attuazione, anche se a
volte tardiva.
La riforma dell’istruzione elementare
La prima riforma fu quella dell’istruzione elementare. Una legge del 1877 – nota come
legge Coppino dal nome del ministro che la presentò – prolungò l’obbligo della frequenza scolastica a nove anni di età e inasprì le sanzioni per i
genitori inadempienti. Tuttavia, a causa delle ristrettezze in cui versava la maggioranza
delle famiglie italiane e della scarsa capacità dei comuni di provvedere ai compiti
loro spettanti, non ci fu una reale attuazione dell’obbligo scolastico: fino alla
fine del secolo la percentuale di analfabeti si mantenne molto elevata, pur diminuendo
costantemente.
La riforma elettorale del 1882
Legato al problema dell’istruzione era quello dell’ampliamento del suffragio. La nuova
legge elettorale, approvata dalla Camera all’inizio del 1882, introduceva infatti
come requisito fondamentale l’istruzione, concedendo il diritto di voto a tutti i
cittadini che avessero compiuto il ventunesimo anno d’età – la legge precedente fissava
l’età minima a 25 anni – e avessero superato l’esame finale del corso elementare obbligatorio,
o dimostrassero comunque di saper leggere e scrivere. Il requisito del censo era mantenuto,
in alternativa a quello dell’istruzione, e abbassato di circa la metà (da 40 a 20
lire di imposte annue pagate).
A causa dell’alto tasso di analfabetismo, la consistenza numerica dell’elettorato
restava sempre piuttosto esigua: poco più di 2 milioni, pari al 7% della popolazione
e a circa un quarto dei maschi maggiorenni. Il corpo elettorale risultava tuttavia
più che triplicato rispetto alle ultime consultazioni e, quel che più conta, profondamente
modificato nella composizione. Grazie alla nuova legge accedeva alle urne anche una
frangia non trascurabile di artigiani e operai del Nord. Per questo, le prime elezioni
a suffragio allargato (ottobre 1882) videro l’ingresso alla Camera del primo deputato
socialista, il romagnolo Andrea Costa.
Il trasformismo
La riforma elettorale dell’82 segnò il coronamento, ma anche il punto terminale, della
breve stagione di riforme della Sinistra. Furono proprio le preoccupazioni suscitate
dall’ampliamento del suffragio e dal conseguente prevedibile rafforzamento dell’estrema
Sinistra a favorire quel processo di convergenza fra le forze moderate di entrambi
gli schieramenti, che nacque da un accordo elettorale fra Depretis e il leader della
Destra Minghetti e che prese il nome di trasformismo. La sostanza del trasformismo
non stava – come sosteneva Depretis – nella “trasformazione” dei moderati in progressisti,
ma piuttosto nel venir meno delle tradizionali distinzioni ideologiche fra Destra
e Sinistra e nella rinuncia, da parte di quest’ultima, a una precisa caratterizzazione.
Si compiva così un mutamento irreversibile nella fisionomia della Camera e nei caratteri
stessi della lotta politica. A un modello “bipartitico” di stampo inglese – Destra
contro Sinistra, maggioranza contro opposizione, conservatori contro progressisti
– se ne sostituiva un altro basato su un grande Centro che tendeva a inglobare le
opposizioni moderate e a emarginare le ali estreme (i conservatori più intransigenti
da un lato, l’estrema Sinistra dall’altro). La maggioranza non era più definita sulla
base di discriminanti programmatiche, ma veniva “costruita” giorno per giorno a forza
di compromessi e patteggiamenti: una situazione che provocava un sostanziale rallentamento
nell’azione di governo, oltre che un netto scadimento nella qualità della vita politica.
I radicali
La svolta moderata di Depretis ebbe come conseguenza il definitivo distacco dalla
maggioranza dei gruppi democratici più avanzati che, pur avendo accantonato la pregiudiziale
repubblicana, continuavano a battersi per il suffragio universale, per una politica
estera antiaustriaca, per una politica ecclesiastica più decisamente anticlericale
e per un più vasto impegno in favore delle classi disagiate. Sotto la guida di Agostino Bertani, e poi di Felice Cavallotti, questo gruppo – che, con termine mutuato
dalla Francia della Terza Repubblica [cfr. 3.5], fu chiamato radicale – svolse negli anni ’80 un ruolo di combattiva opposizione
contro le maggioranze trasformiste.
6.7. La crisi agraria e la politica economica protezionista
Sgravi fiscali e spesa pubblica
In campo economico, la Sinistra allentò la dura politica fiscale fino ad allora praticata:
la contestata tassa sul macinato fu considerevolmente ridotta nel 1880, per essere
poi del tutto abolita nell’84 [cfr. 6.4]. Venne contemporaneamente aumentata la spesa pubblica, sia per coprire le accresciute esigenze militari sia per accontentare
le richieste dei vari gruppi di interesse su cui si reggeva la maggioranza. Questa
politica provocò, fin dall’inizio degli anni ’80, la ricomparsa di un crescente deficit
nel bilancio statale, senza peraltro riuscire a superare le difficoltà economiche
dovute in primo luogo all’arretratezza del settore agricolo.
La crisi agraria
I pochi miglioramenti avevano riguardato infatti le zone e i settori già relativamente
progrediti: le terre irrigue della pianura lombarda e le colture specializzate del
Mezzogiorno (olivi, agrumi e soprattutto uva da vino). Altri mutamenti significativi
si erano avuti, fin dall’inizio degli anni ’70, in alcune zone della Bassa padana,
in particolare nel Ferrarese: qui grandi lavori di bonifica promossi da imprenditori
capitalisti avevano trasformato la fisionomia del paesaggio agrario e attirato vaste
masse di braccianti. In tutto il resto d’Italia la situazione dell’agricoltura non
era molto cambiata rispetto ai primi anni dell’Unità né erano migliorate le condizioni
dei lavoratori delle campagne, oppressi da contratti arcaici, sottopagati, malnutriti,
analfabeti nella stragrande maggioranza.
L’Inchiesta Jacini
Questa realtà fu ampiamente documentata dalla grande Inchiesta agraria deliberata dal Parlamento nel 1877 e presieduta dal senatore lombardo Stefano Jacini.
Dall’Inchiesta, che fu conclusa nel 1884, emergeva un quadro drammatico dello stato
dell’agricoltura italiana. Nella relazione finale si indicavano come rimedi un’estensione
delle opere di bonifica e di irrigazione, un più razionale avvicendamento delle colture
e una loro maggior diversificazione. Ma ciò richiedeva abbondanza di capitali e disponibilità
all’investimento da parte dei privati: tutte condizioni che allora mancavano, soprattutto
nel Mezzogiorno.
Gli effetti della congiuntura negativa europea
La situazione si aggravò quando, a partire dal 1881, l’Italia cominciò a risentire
gli effetti della crisi che investì in quegli anni l’agricoltura europea [cfr. 2.1]: un brusco abbassamento dei prezzi colpì in primo luogo i cereali e poi tutto l’insieme
dei prodotti agricoli, a eccezione delle colture da esportazione che non subivano
la concorrenza d’oltreoceano. Al calo dei prezzi seguì un calo della produzione, con
conseguenze gravissime per tutte le categorie produttive legate all’agricoltura. Anche
gli effetti sociali della crisi agraria furono analoghi a quelli già osservati per
l’insieme dei paesi europei: aumento della conflittualità nelle campagne e rapido
incremento dei flussi migratori verso i centri urbani e soprattutto verso l’estero.
Fra il 1881 e il 1901 abbandonarono definitivamente l’Italia più di 2 milioni di persone.
La crisi non solo distolse capitali dal settore agricolo, indirizzandoli verso altri
impieghi, ma fece cadere le illusioni di chi ancora credeva che lo sviluppo economico
italiano potesse fondarsi solo sull’agricoltura e sull’esportazione dei prodotti della
terra.
La svolta protezionistica
Gli esponenti della Sinistra erano, come i loro predecessori, avversi in linea di
principio all’intervento dello Stato nell’economia. Queste convinzioni liberiste furono
però scosse dall’andamento tutt’altro che brillante dell’economia nazionale e dall’esempio
che veniva dagli altri Stati europei, soprattutto dalla Germania. Una decisa svolta
in senso protezionistico era del resto invocata ormai da quasi tutti gli industriali
e dagli stessi proprietari terrieri, un tempo incondizionatamente favorevoli al liberismo
ma ora colpiti dalle conseguenze della crisi agraria.
Si giunse così nel 1887 al varo di una nuova tariffa doganale che proteggeva dalla concorrenza straniera importanti settori
dell’industria nazionale (i più favoriti, oltre al siderurgico, furono il laniero,
il cotoniero e lo zuccheriero), colpendo le merci di importazione con pesanti dazi
di entrata. In campo agricolo, il nuovo regime doganale fu esteso ai cereali: il dazio
sul grano fu quasi triplicato fra l’87 e l’89. La tariffa dell’87 segnava una rottura
definitiva con la prassi liberoscambista seguita negli anni ’60 e ’70 e poneva le
basi di un nuovo blocco di potere economico fondato sull’alleanza fra l’industria
protetta e i grandi proprietari terrieri (settentrionali e meridionali) e sull’intreccio
non sempre limpido fra i maggiori gruppi di interesse e i poteri statali.
Gli effetti negativi
È ormai opinione comune che la scelta protezionistica costituisse per l’Italia una
sorta di passaggio obbligato sulla strada di quel decollo industriale poi realizzatosi
a partire dagli ultimi anni dell’800. È certo tuttavia che, almeno nell’immediato,
la tariffa dell’87 produsse una serie di conseguenze negative e accentuò gli squilibri
fra i vari settori dell’economia e fra le varie zone del paese. I dazi doganali non
proteggevano in modo uniforme i diversi comparti produttivi. Al forte sostegno accordato
alla siderurgia, anche per motivi strategici legati agli armamenti, faceva riscontro
la scarsa protezione di cui godeva l’industria meccanica (danneggiata oltretutto dal
rialzo dei prezzi dei prodotti siderurgici). Per quanto riguarda l’agricoltura, l’introduzione
del dazio sul grano provocò un immediato rialzo del prezzo dei cereali che, se da
un lato rappresentò una boccata d’ossigeno per le aziende in crisi, dall’altro danneggiò
i consumatori e contribuì a tenere in vita, soprattutto nel Mezzogiorno, arretrate
realtà produttive. Contemporaneamente l’agricoltura meridionale veniva colpita nel suo settore più moderno: quello delle colture
specializzate, che si reggeva soprattutto sulle esportazioni e che vide bruscamente
chiudersi il suo principale mercato di sbocco. La tariffa dell’87 ebbe infatti come
conseguenza una rottura commerciale, poi degenerata in vera e propria guerra doganale
con la Francia, che era stata fino ad allora il principale partner economico dell’Italia
e il maggior acquirente dei prodotti agricoli italiani (soprattutto seta e vino),
la cui esportazione diminuì di oltre il 50%.
6.8. La politica estera e il colonialismo
La Triplice alleanza
Anche per la politica estera italiana gli anni della Sinistra segnarono una svolta
decisiva: nel maggio 1882 il governo Depretis stipulò con la Germania e l’Austria-Ungheria
il trattato della Triplice alleanza [cfr. 3.4]. Questa scelta rappresentava una netta rottura, poiché abbandonava la politica seguita
dai governi precedenti basata sul mantenimento di buone relazioni con le grandi potenze
e sul rapporto preferenziale con la Francia. La motivazione principale di questa decisione
fu il desiderio di uscire da una situazione di isolamento diplomatico che appariva
insopportabile in un’epoca dominata dalla logica di potenza.
Questo isolamento era apparso chiaramente nel 1881 quando la Francia, col consenso
delle altre potenze, aveva occupato la Tunisia [cfr. 5.2] e l’Italia – che da tempo nutriva aspirazioni su quel territorio, anche per la presenza
di una forte comunità di emigrati italiani – non aveva potuto far nulla per opporsi.
Ne era seguito un grave deterioramento dei rapporti italo-francesi, destinato a far
sentire i suoi effetti per oltre un quindicennio. Per uscire dall’isolamento, l’Italia
non aveva dunque altra strada se non quella dell’accordo con Germania e Austria, insistentemente
sollecitato da Bismarck.
La Triplice era un’alleanza di carattere difensivo, che impegnava gli Stati firmatari a garantirsi reciproca assistenza in caso di aggressione
da parte di altre potenze. In concreto, l’Italia veniva coinvolta nel sistema di sicurezza
bismarckiano senza ottenere dai nuovi alleati alcun vantaggio immediato, anzi rinunciando
implicitamente alla rivendicazione storica sul Trentino, la Venezia Giulia e Trieste,
le terre irredente, cioè “non redente” ovvero non liberate dal dominio austriaco [cfr. 6.5]. Un problema questo che fu drammaticamente riproposto dal caso di Guglielmo Oberdan,
un giovane triestino impiccato nel dicembre 1882 per aver progettato di attentare
alla vita dell’imperatore austriaco Francesco Giuseppe.
La Triplice fu rinnovata a più riprese, ma le garanzie ottenute sulla carta dall’Italia
nel 1887 – in particolare la clausola secondo cui ogni eventuale espansione austriaca
nei Balcani doveva essere bilanciata da adeguati “compensi” per l’Italia – non vennero
praticamente mai applicate. Come si sarebbe visto nel 1908 con l’annessione austriaca
della Bosnia e dell’Erzegovina.
L’espansione coloniale in Africa orientale
Contemporaneamente alla stipulazione della Triplice, il governo Depretis, spinto da
considerazioni di prestigio e dalla pressione di ristretti gruppi di interesse, aveva
ritenuto opportuno porre le basi per una piccola iniziativa coloniale in Africa orientale.
Il punto di partenza fu costituito dall’acquisto, nel 1882, della Baia di Assab, sulla
costa occidentale del Mar Rosso. Tre anni dopo fu inviato un corpo di spedizione che
occupò una striscia di territorio tra la Baia di Assab e la città di Massaua. Questa zona, abitata da popolazioni nomadi, confinava con l’Impero etiopico, il
più forte e il più vasto fra gli Stati africani indipendenti. L’Etiopia (o Abissinia,
come veniva allora chiamata in Italia) era un paese economicamente molto arretrato,
con una popolazione di fede cristiana e di confessione copta (secondo la tradizione
dell’antica Chiesa cristiana d’Egitto); dedita in prevalenza alla pastorizia, essa
aveva un’organizzazione di tipo feudale in cui l’autorità dell’imperatore, il negus, era fortemente limitata da quella dei signori locali, i ras, che disponevano di propri eserciti. In un primo tempo gli italiani cercarono di
stabilire buoni rapporti con gli etiopi e di avviare una penetrazione commerciale.
Ma, quando tentarono di ampliare il loro controllo territoriale verso l’interno, dovettero
scontrarsi con la reazione del negus e dei ras locali. Nel gennaio 1887 una colonna di 500 militari italiani fu sorpresa dalle truppe
abissine del ras Alula e sterminata nei pressi di Dogali. La notizia della disfatta suscitò un’ondata
di proteste in tutto il paese, in particolare tra i gruppi di estrema sinistra che
si erano sempre opposti alla politica coloniale. Prevalse però l’esigenza di tutelare
il prestigio nazionale: così la Camera accordò al governo i finanziamenti richiesti
per l’invio di rinforzi e per il consolidamento della presenza italiana sulla fascia
costiera.
L’Italia in Africa orientale
6.9. Socialisti e cattolici
Le società di mutuo soccorso
Il ritardo nello sviluppo industriale e la conseguente assenza di un proletariato
di fabbrica numericamente consistente rallentarono in Italia la crescita di un movimento
operaio organizzato. Del resto gli oltre 3 milioni di individui (pari al 20% della
popolazione attiva) che il censimento del 1871 indicava come addetti all’industria
erano per gran parte lavoranti di botteghe artigiane. Anche nelle unità produttive
di maggiori dimensioni (specie nel settore tessile, dove era molto numerosa la manodopera
femminile e minorile) accadeva spesso che gli operai alternassero stagionalmente il
lavoro in fabbrica con quello nei campi; e molto diffuso, sempre nel settore tessile,
restava il lavoro a domicilio.
Fino all’inizio degli anni ’70, l’unica organizzazione operaia di una certa consistenza
diffusa in tutto il paese fu quella delle società di mutuo soccorso, associazioni
in parte controllate dai mazziniani e in parte organizzate da esponenti moderati.
Concepite come strumenti di educazione del popolo più che come organismi di lotta,
le società di mutuo soccorso avevano essenzialmente scopi di solidarietà, rifiutavano
la lotta di classe e lo sciopero. Era dunque naturale che perdessero terreno quando
cominciò a diffondersi nel paese l’internazionalismo socialista, che in Italia si
ispirò, almeno in un primo tempo, più alle teorie anarchiche di Bakunin che a quelle
di Marx [cfr. 1.7].
Anarchici e operaisti
La crescita del movimento internazionalista si dovette soprattutto all’opera di alcuni
instancabili agitatori, come Carlo Cafiero, Andrea Costa, Errico Malatesta, che, fedeli
a Bakunin, concentrarono i loro sforzi nell’organizzazione di moti insurrezionali,
facendo leva soprattutto sul proletariato delle campagne. Il completo fallimento di
questi tentativi convinse Andrea Costa che era necessario elaborare un programma concreto,
impegnandosi nelle lotte di tutti i giorni e dando vita a un vero e proprio partito.
La “svolta” di Costa trovò una prima attuazione con la nascita, nell’estate del 1881,
del Partito socialista rivoluzionario di Romagna, che rese possibile l’elezione di Costa nell’82. In realtà il partito rimase sempre
una formazione locale, priva di legami con i nuclei operai più maturi e avanzati che
intanto si andavano costituendo soprattutto in Lombardia. Fin dall’inizio degli anni
’70, circoli operai e leghe di resistenza (queste ultime esplicitamente finalizzate
alla organizzazione degli scioperi) erano venuti sorgendo in numerosi centri industriali
e avevano dato un forte impulso all’azione rivendicativa dei lavoratori. Nell’82 alcune
associazioni operaie milanesi decisero di dar vita a una formazione politica autonoma
che prese il nome di Partito operaio italiano e che si presentò come un organismo
rigidamente classista. Fermissimi nel respingere ogni apporto borghese, gli “operaisti”
cercarono di stabilire un contatto con quel proletariato rurale della Bassa padana
che fu protagonista dei primi grandi scioperi agricoli nella storia dell’Italia unita:
particolarmente imponenti quelli che si svolsero nel Mantovano e nel Polesine nel
1884-85.
Filippo Turati
Fra il 1887 e il 1893 sorsero le prime organizzazioni sindacali a carattere nazionale
– le federazioni di mestiere –, vennero fondate le prime Camere del lavoro (organizzazioni
sindacali a base locale), si accelerò anche la penetrazione del socialismo fra i lavoratori
della terra grazie al movimento associativo fra i braccianti e i contadini della Val
Padana. Per tutto il movimento di classe si poneva a questo punto il problema di una
organizzazione politica unitaria capace di guidare e coordinare le lotte a livello
nazionale. Il problema non era di facile soluzione a causa della frammentazione organizzativa
e ideologica del movimento operaio italiano. Le opere di Marx erano peraltro poco
conosciute e l’unico autentico e originale teorico marxista allora attivo in Italia
era il filosofo napoletano Antonio Labriola, amico e corrispondente di Engels. Ma
Labriola era una figura sostanzialmente isolata tra i leader socialisti.
Fu invece un intellettuale milanese, Filippo Turati, il principale protagonista delle
vicende che portarono alla fondazione del Partito socialista italiano. Nato nel 1857
da una famiglia dell’alta borghesia lombarda, Turati aveva militato da giovane nelle
file della democrazia radicale. Decisivo per la sua formazione politica era stato
l’incontro con Anna Kuliscioff, una giovane esule russa che aveva già alle spalle
una notevole esperienza politica e una larga conoscenza del mondo socialista europeo.
Ma non meno decisivo fu il contatto con l’ambiente operaio di Milano, già allora indiscussa
capitale economica d’Italia e sede degli esperimenti più avanzati di associazionismo
fra i lavoratori. La posizione di Turati, meno rigorosa sul piano teorico di quella
di Labriola, fu molto chiara nelle scelte politiche di fondo: l’affermazione dell’autonomia
del movimento operaio dalla democrazia borghese; il rifiuto dell’insurrezionalismo
anarchico; il riconoscimento del carattere prioritario delle lotte economiche; l’esigenza
di collegare queste lotte con quelle politiche e di inquadrarle in un progetto generale
che aveva come obiettivo finale la socializzazione dei mezzi di produzione.
La fondazione del Partito socialista italiano
Nell’agosto del 1892 si riunirono a Genova i delegati di circa 300 fra società operaie,
leghe contadine, circoli politici e associazioni di varia natura. Subito si delineò
la frattura tra una maggioranza favorevole all’immediata costituzione di un partito
e una minoranza contraria, formata dagli anarchici e da una parte degli aderenti al
Partito operaio. Vista l’impossibilità di trovare un accordo, i delegati della maggioranza,
guidati da Turati, abbandonarono la sala del congresso e, riunitisi in altra sede,
dichiararono costituito il Partito dei lavoratori italiani, approvandone subito il
programma e lo statuto. Il programma indicava come fine la «gestione sociale» dei
mezzi di produzione e, come mezzo atto a raggiungerlo, «l’azione del proletariato
organizzato in partito [...] esplicantesi sotto il doppio aspetto: 1) della lotta
di mestieri per i miglioramenti immediati della vita operaia [...]; 2) di una lotta
più ampia intesa a conquistare i poteri pubblici». Divenuto Partito socialista dei
lavoratori italiani nel ’93, due anni dopo il partito assunse il nome definitivo di
Partito socialista italiano.
I cattolici
Se per la classe dirigente liberal-moderata il movimento socialista rappresentava
una presenza minacciosa, sull’opposto versante politico non meno preoccupante era
l’atteggiamento della massa dei cattolici militanti, fermi nella fedeltà al papa e
nel conseguente rifiuto dello Stato uscito dal Risorgimento. I cattolici costituivano
dunque una forza eversiva nei confronti delle istituzioni unitarie di cui non riconoscevano
la legittimità: una forza tanto più pericolosa in quanto profondamente radicata nel
tessuto sociale, in particolare nel mondo delle campagne. Il divieto papale di partecipare
alle elezioni, formulato col non expedit del 1874, non si applicava alle elezioni amministrative né significava per il movimento
cattolico la rinuncia a una presenza autonoma nella vita del paese. Proprio nel 1874,
in un convegno tenuto a Venezia, un gruppo di autorevoli esponenti del mondo cattolico
italiano (ecclesiastici e laici) decise di dar vita a un’organizzazione nazionale
che fu chiamata Opera dei congressi: saldamente controllata dal clero, ebbe il compito
di convocare periodicamente congressi delle associazioni cattoliche operanti in Italia,
assicurando loro un più stretto collegamento. Il suo programma si riduceva a una dichiarazione
di ostilità nei confronti del liberalismo laico, della democrazia e del socialismo,
a una professione di fedeltà al magistero del pontefice e alla dottrina cattolica.
Qualche segno di apertura si ebbe dopo il 1878, in coincidenza con l’avvento al soglio
pontificio di papa Leone XIII. Sotto il suo pontificato il movimento cattolico italiano
accentuò il suo impegno sul terreno sociale, cui lo spingeva fatalmente la stessa
tendenza a raccogliere una base di massa [cfr. 1.8]. Sorsero così, soprattutto in Lombardia e nel Veneto, società di mutuo soccorso,
cooperative agricole e artigiane controllate dal clero e ispirate alla dottrina sociale
cattolica.
6.10. Crispi: rafforzamento dello Stato e tentazioni autoritarie
Il primo governo Crispi: riforme e repressione
Alla morte di Depretis, nel 1887, fu nominato presidente del Consiglio Francesco Crispi,
la personalità più rilevante della Sinistra. Siciliano, temperamento forte e autoritario,
primo meridionale a salire alla presidenza del Consiglio, Crispi poteva contare, in
virtù del suo passato mazziniano e garibaldino, su ampie simpatie a sinistra, ma anche
sulla fiducia dei gruppi conservatori, attratti dalle sue promesse di uno stile di
governo più deciso ed efficiente, di chiara impronta “bismarckiana”.
Accentrando nella sua persona per quasi quattro anni, oltre alla presidenza del Consiglio,
i Ministeri dell’Interno e degli Esteri, Crispi impresse in effetti una svolta all’azione
di governo: si fece promotore di un’opera di riorganizzazione e di razionalizzazione
dell’apparato statale, ma accentuò anche le spinte autoritarie e repressive.
Nel 1888 fu approvata una legge comunale e provinciale che ampliava il diritto di
voto per le elezioni amministrative e rendeva elettivi i sindaci dei comuni con più
di 10 mila abitanti (fino ad allora di nomina regia). Nel 1889 fu varato un nuovo
Codice penale – noto come Codice Zanardelli, dal nome dell’allora ministro della Giustizia – che aboliva la pena di morte, ancora
in vigore in tutti i maggiori Stati europei, e non negava il diritto di sciopero,
riconoscendone implicitamente la legittimità. Questo riconoscimento fu di fatto contraddetto
dalla nuova legge di Pubblica sicurezza che poneva gravi limiti alla libertà sindacale
e lasciava alla polizia ampi poteri discrezionali, come quello di inviare al domicilio
coatto, senza l’autorizzazione della magistratura, gli elementi ritenuti pericolosi.
Di questi poteri Crispi si avvalse con molta frequenza, intervenendo duramente contro
il movimento operaio, ma anche contro le organizzazioni cattoliche e contro i circoli
irredentisti di ispirazione repubblicana.
I progetti coloniali di Crispi
Crispi fu anche sostenitore dell’ascesa dell’Italia a grande potenza coloniale. Per
realizzare il suo programma, puntò sul rafforzamento della Triplice alleanza e, all’interno
di essa, sul consolidamento dei legami con l’Impero tedesco. Nelle intenzioni di Crispi,
la Triplice doveva non solo garantire l’Italia da nuove iniziative francesi nel Mediterraneo,
ma anche servire da base per una più attiva presenza in Africa. Nel 1890 i possedimenti
italiani furono ampliati e riorganizzati col nome di Colonia Eritrea, mentre venivano
poste le basi per una nuova espansione sulle coste della vicina Somalia. La politica coloniale di Crispi suscitava, però, perplessità in seno alla stessa
maggioranza, in quanto risultava troppo costosa per il bilancio dello Stato. Messo
in minoranza, Crispi si dimise all’inizio del 1891.
Il primo governo Giolitti
Nel maggio 1892, la presidenza del Consiglio passò al piemontese Giovanni Giolitti.
Figura centrale del successivo trentennio di storia italiana, Giolitti, allora cinquantenne,
si presentava con un programma piuttosto avanzato. In politica finanziaria mirava
a una più equa ripartizione del carico fiscale, che risparmiasse i ceti disagiati
e colpisse con aliquote più alte i redditi maggiori secondo il principio della progressività
delle imposte (oggi universalmente accettato). In politica interna aveva idee innovatrici,
contrarie all’intervento repressivo contro il movimento operaio e le organizzazioni
popolari. Si rifiutò infatti di ricorrere a misure eccezionali contro i Fasci dei
lavoratori, associazioni popolari (il termine “fascio” stava per “unione”) sviluppatesi
in Sicilia, che protestavano contro le tasse troppo pesanti e il malgoverno locale
e chiedevano per i contadini terre da coltivare e patti agrari più vantaggiosi. Non
si trattava di un movimento rivoluzionario, anche se diede luogo ad alcune manifestazioni
violente, né di un movimento socialista in senso stretto, ma suscitò tuttavia forti
preoccupazioni fra i conservatori, ai quali non piacque l’atteggiamento, ritenuto
debole, del presidente del Consiglio. L’ostilità dei conservatori – contrari anche
ai progetti giolittiani di riforma fiscale – contribuì a indebolire il governo e ad
accelerarne la caduta, che fu dovuta tuttavia alle conseguenze del grave scandalo
della Banca Romana, responsabile dell’emissione fraudolenta di carta moneta e di finanziamento
occulto di uomini politici e giornalisti per influenzare la stampa e l’opinione pubblica
in occasione delle campagne elettorali. Giolitti, implicato nello scandalo, cadde
e fu sostituito da Crispi, anche lui coinvolto nelle vicende della banca, ma ritenuto
l’uomo forte, capace di rimettere ordine nel paese e di arrestare la crescita delle
organizzazioni operaie.
Il ritorno di Crispi e le leggi antisocialiste
Tornato al governo nel dicembre del 1893, Crispi affrontò con risolutezza una situazione
che vedeva l’opinione pubblica allarmata dalla crisi economica, sconcertata dagli
scandali bancari, spaventata dall’intensificarsi delle agitazioni in Sicilia. In campo
economico il nuovo governo avviò una politica di risanamento del bilancio basata su
pesanti inasprimenti fiscali e completò la riorganizzazione del dissestato sistema
bancario, già iniziata da Giolitti, con una legge che istituiva la Banca d’Italia. Questa, nel 1926, avrebbe ottenuto il monopolio
della emissione di carta moneta (e, a partire dal 1947, avrebbe svolto compiti di
controllo sull’intero sistema bancario). In materia di ordine pubblico Crispi non
esitò a ricorrere a misure eccezionali, convinto com’era che le agitazioni sociali
costituissero un pericolo non solo per l’ordine costituito, ma per la stessa sicurezza
dello Stato uscito dal Risorgimento.
Ai primi di gennaio del 1894 lo stato d’assedio – ossia il trasferimento all’esercito del controllo dell’ordine pubblico – fu proclamato in Sicilia e successivamente esteso alla Lunigiana, tra Toscana e Liguria,
dove si era verificato, senza alcun nesso con gli avvenimenti siciliani, un tentativo
di insurrezione anarchica. La repressione militare fu dura e sanguinosa e venne accompagnata
da una più generale repressione poliziesca estesa a tutto il paese e rivolta soprattutto
contro circoli, leghe e giornali facenti capo al Partito socialista, che pure non
aveva responsabilità dirette nel moto siciliano. Nel luglio 1894 il governo volle
dare alla sua azione repressiva un carattere organico, facendo approvare dal Parlamento
un complesso di leggi limitative della libertà di stampa, di riunione e di associazione.
Queste leggi, definite “antianarchiche”, avevano in realtà come obiettivo principale
il Partito socialista, che nell’ottobre fu dichiarato fuori legge: un provvedimento
simile a quello varato da Bismarck nel 1878 [cfr. 3.4]. Gli effetti non furono però quelli sperati da Crispi. Le persecuzioni, infatti,
non riuscirono a distruggere la già solida rete organizzativa del partito e accrebbero
i favori di cui i socialisti godevano nella sinistra democratica e soprattutto negli
ambienti intellettuali.
Adua e la caduta di Crispi
Ma il colpo definitivo per Crispi venne dal fallimento della sua politica coloniale.
Già durante il suo primo governo, Crispi aveva cercato di stabilire una qualche forma
di protettorato sull’Etiopia, intavolando col nuovo negus Menelik trattative che portarono, nel 1889, alla firma del trattato di Uccialli.
Ma questo trattato, considerato dagli italiani come un implicito riconoscimento del
loro protettorato, fu interpretato diversamente dagli etiopi, che reagirono energicamente
ai tentativi italiani di penetrazione ripresi dopo il ritorno al potere di Crispi.
Fra Italia ed Etiopia si giunse così allo scontro armato, culminato nel disastro di
Adua del 1° marzo 1896, quando un contingente italiano di 20 mila uomini (comprese le truppe coloniali)
venne praticamente annientato dalle forze etiopiche. La sconfitta ebbe immediate ripercussioni
in Italia: violente manifestazioni contro la guerra d’Africa scoppiarono a Roma, a
Milano e in molte altre città, mentre Crispi fu costretto a dimettersi e uscì dalla
scena politica.
L’episodio di Adua e le reazioni che ne erano seguite avevano dimostrato quanto la
guerra coloniale fosse poco sentita dalle masse popolari e da larghi strati della
stessa classe dirigente e quanto illusorio fosse stato il tentativo di Crispi di cogliere
successi di prestigio, per sé e per il paese, in un’avventura imperialistica a cui
mancavano le indispensabili premesse ideologiche, politiche ed economiche.
Sommario
Al momento dell’Unità la grande maggioranza degli italiani era analfabeta. Soltanto
il 20% della popolazione viveva in città; l’agricoltura era l’attività economica prevalente,
ma si trattava di un’agricoltura per lo più povera, caratterizzata da una grande varietà
negli assetti produttivi: aziende agricole moderne (Pianura padana), mezzadria (Italia
centrale), latifondo (Mezzogiorno). La condizione di vita dei contadini era generalmente
ai limiti della sussistenza fisica. Questa realtà di arretratezza economica e disagio
sociale era assai poco conosciuta dalla classe dirigente nazionale. Inoltre, pur essendoci
un divario reale tra il Nord e il Sud del paese (in termini di sviluppo, infrastrutture,
produttività e istruzione), al confronto con i paesi più sviluppati d’Europa, tutta
l’Italia appariva complessivamente arretrata.
Morto Cavour (giugno ’61), il gruppo dirigente che tenne le redini del paese proseguendone
l’opera fu quello della Destra, poi detta “storica”, e composta in realtà dai rappresentanti
della classe dirigente moderata. Le si contrapponeva la Sinistra, che faceva proprie
le rivendicazioni della democrazia risorgimentale: suffragio universale, decentramento
amministrativo, completamento dell’Unità attraverso l’iniziativa popolare. Destra
e Sinistra erano espressione d’una classe dirigente molto ristretta – solo 400 mila
persone avevano il diritto di voto – che diede un carattere accentrato alla vita politica.
I leader della Destra realizzarono, sul piano amministrativo e legislativo, una rigida
centralizzazione, temendo le conseguenze disgregatrici dei fermenti sociali e facendo
proprio il modello di Stato accentrato napoleonico.
Tra le circostanze che spinsero il governo verso la centralizzazione va ricordata
soprattutto la situazione del Mezzogiorno, dove l’ostilità delle masse contadine verso
i “conquistatori” assunse col brigantaggio caratteristiche di vera e propria guerriglia.
Il brigantaggio fu sconfitto grazie a un massiccio impiego dell’esercito. Restò tuttavia
irrisolto il problema di fondo del Mezzogiorno, cioè quello della distribuzione delle
proprietà agricole: né la divisione dei terreni demaniali né la vendita dei beni ecclesiastici
favorirono i contadini, al contrario quest’ultima in particolare rafforzò la grande
proprietà terriera.
Sul piano economico, la linea liberistica seguita dal governo produsse un’intensificazione
degli scambi che favorì lo sviluppo dell’agricoltura. Fu importante anche l’impegno
del governo nella creazione delle infrastrutture necessarie allo sviluppo economico
(strade, ferrovie). L’idea dei politici italiani che il paese avesse essenzialmente
una vocazione agricola, tuttavia, non giovò affatto allo sviluppo industriale accrescendo
il divario fra l’Italia e i paesi più progrediti. Nell’immediato, infatti, il tenore
di vita della popolazione non migliorò e diminuì il peso percentuale delle attività
industriali. La distanza tra la classe dirigente e il “paese reale” fu aumentata dalla
dura politica fiscale seguita dalla Destra. Particolarmente impopolare fu la tassa
sul macinato, che provocò violente agitazioni sociali in tutta la penisola.
Il completamento dell’Unità costituì uno dei problemi più difficili per la nuova classe
dirigente nazionale. Falliti i tentativi di conciliazione con la Chiesa, riacquistò
spazio l’iniziativa dei democratici: nel 1862 l’iniziativa garibaldina di una spedizione
di volontari si risolse in uno scontro con l’esercito regolare (Aspromonte). Nel 1864
fu firmata la Convenzione di settembre con la Francia, che prevedeva il trasferimento
della capitale a Firenze, ma anche il ritiro delle truppe francesi dal Lazio. L’alleanza
con la Prussia contro l’Austria e la vittoria prussiana consentirono all’Italia l’acquisto
del Veneto, nonostante le sconfitte subìte a Lissa e a Custoza (1866). Il problema
della conquista di Roma – fallito a Mentana (1867) un nuovo tentativo garibaldino
– si risolse al momento della sconfitta inflitta dalla Prussia al Secondo Impero di
Napoleone III, che permise al governo italiano di approfittare delle difficoltà francesi
per prendere la città (20 settembre 1870). Finiva il potere temporale dei papi e Roma
diveniva capitale del Regno d’Italia. Con la legge delle Guarentigie lo Stato italiano
si impegnava a garantire al pontefice le condizioni per il libero svolgimento del
suo magistero spirituale. L’intransigenza di Pio IX, tuttavia, si manifestò nel divieto
per i cattolici italiani di partecipare alle elezioni politiche: un ulteriore ostacolo
che si frapponeva al processo di reale unificazione del paese.
Nel marzo 1876 il governo della Destra fu battuto alla Camera su un progetto di legge
relativo alla statalizzazione delle ferrovie. L’avvento al potere della Sinistra segnò
l’inizio di una nuova fase con una classe dirigente più giovane, che avrebbe perso
le componenti radical-democratiche. Approvate la legge Coppino sull’istruzione e la
riforma elettorale del 1882, gran parte del programma riformatore della Sinistra fu
accantonato. Il sistema politico italiano perse, col trasformismo di Depretis (l’allora
leader della Sinistra), il suo carattere bipartitico, finendo con l’essere dominato
da un grande Centro che emarginava le ali estreme.
La Sinistra abolì la tassa sul macinato e aumentò la spesa pubblica. Ma non riuscì
a fronteggiare la grave crisi agraria che investiva anche l’Italia. Se si escludono
le zone più sviluppate del Nord, infatti, l’agricoltura italiana versava in condizioni
assai arretrate, e questa situazione fu ulteriormente aggravata dalle ripercussioni
della crisi. Tra gli effetti della crisi vi fu un rapido incremento dell’emigrazione
e, in tempi più lunghi, il decollo industriale italiano. Questo dimostrò quanto fosse
illusoria l’idea che lo sviluppo economico del paese potesse basarsi solo sull’agricoltura.
Si affermò invece una linea di appoggio dello Stato all’industria con l’adozione di
tariffe protezionistiche (1887). Ne derivarono però anche alcuni importanti effetti
negativi: la guerra doganale con la Francia, l’aumento degli squilibri tra Nord e
Sud, la penalizzazione delle esportazioni agricole.
La stipulazione della Triplice alleanza con Germania e Austria-Ungheria (1882) segnò
nella politica estera italiana una svolta, determinata sia dal timore di un isolamento
internazionale sia dal trauma rappresentato dall’occupazione francese della Tunisia,
su cui puntavano anche i progetti espansionistici italiani. Il trattato costringeva
l’Italia a rinunciare implicitamente alla rivendicazione di Trentino, Venezia Giulia
e Trieste, le cosiddette “terre irredente” ancora in mano agli austriaci. Fu anche
avviata in quegli anni un’espansione coloniale sulle coste del Mar Rosso, in Africa,
ma il tentativo di estendersi verso l’interno portò al contrasto con l’Etiopia e all’eccidio
di Dogali (1887).
Dati i ritardi nello sviluppo industriale, la classe operaia italiana era costituita
solo per una minoranza da proletariato di fabbrica. Le società di mutuo soccorso,
inizialmente dominate da mazziniani e moderati, persero via via terreno a favore del
movimento internazionalista che in Italia ebbe essenzialmente indirizzo anarchico.
Gli anni ’80 videro una notevole crescita del movimento operaio, con la fondazione
di federazioni di mestiere e Camere del lavoro. Nel 1892 fu fondato il Partito dei
lavoratori italiani (poi Partito socialista). Benché il non expedit (1874) vietasse la partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche, la presenza
cattolica nella società italiana, soprattutto nelle campagne, era massiccia. L’Opera
dei congressi sorse proprio per organizzare tale presenza, secondo una linea di rigida
opposizione al liberalismo e al socialismo. L’elezione di papa Leone XIII (1878),
più aperto ai problemi della società moderna, favorì l’impegno sociale dei cattolici
e lo sviluppo delle loro organizzazioni.
Alla morte di Depretis (1887) divenne presidente del Consiglio Crispi: la sua politica
autoritaria e repressiva si accompagnò a un’importante riorganizzazione dell’apparato
statale. Nettamente diversa fu la politica di Giolitti, capo del governo nel ’92-93:
l’azione di Giolitti fu imperniata su una linea non repressiva nei confronti dei conflitti
sociali. Il rifiuto di Giolitti di adottare misure eccezionali contro i Fasci siciliani
e lo scandalo della Banca Romana provocarono però le sue dimissioni. Il ritorno di
Crispi al governo (1893) fu caratterizzato, quindi, da un orientamento nettamente
diverso, che si concretizzò nella riforma bancaria (nascita della Banca d’Italia),
nella proclamazione dello stato d’assedio in Sicilia e Lunigiana, nelle leggi antisocialiste
e nell’ulteriore spinta all’azione colonialista, che portò alla guerra con l’Etiopia:
una nuova disastrosa sconfitta, ad Adua (1896), determinò la fine politica dello statista
siciliano.
Bibliografia
Per la storia dell’Italia unita fino al 1915, accanto alle classiche interpretazioni
– «liberale» di Benedetto Croce (Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Milano, Adelphi 2004, ed. or. 1928) e «nazionalista» di Gioacchino Volpe (nei tre
volumi dell’Italia moderna, Le Lettere, Firenze 2002, ed. or. 1943-52), tuttora ricche di suggestioni –, si vedano il V e il VI volume della Storia dell’Italia moderna di G. Candeloro: La costruzione dello Stato unitario e Lo sviluppo del capitalismo e del movimento operaio, Feltrinelli, Milano 1994 (ed. or. 1968 e 1970); R. Romanelli, L’Italia liberale (1861-1900), Il Mulino, Bologna 1997 (ed. or. 1979); G. Sabbatucci-V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, II, Il nuovo Stato e la società civile (1861-1887), Laterza, Roma-Bari 1995; F. Cammarano, Storia dell’Italia liberale, Laterza, Roma-Bari 2011. Ricordiamo inoltre, tra le storie generali dell’Italia
unita, i tre tomi del IV volume, Dall’unità a oggi, di R. Romano-C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1975-76. In una prospettiva di più lungo periodo, G. Pécout, Il lungo Risorgimento. La nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), Mondadori, Milano 2011 (ed. or. 1997).
Sugli aspetti istituzionali: C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia. 1848/1994, Laterza, Roma-Bari 2015 (ed. or. 2002); R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, Donzelli, Roma 2002 (ed. or. 1995); G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), Il Mulino, Bologna 1996 e Id., Fare lo Stato per fare gli italiani, Il Mulino, Bologna 2014.
Per la storia economica, vedi: G. Toniolo, Storia economica dell’Italia liberale 1850-1918, Il Mulino, Bologna 1998 (ed. or. 1988); L. Cafagna, Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 1989; V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia (1861-1981), Il Mulino, Bologna 2008 (ed. or. 1990); G. Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo economico, Laterza, Roma-Bari 2007 (ed. or. 1998) e S. Fenoaltea, L’economia italiana dall’Unità alla Grande Guerra, Laterza, Roma-Bari 2006. In particolare, sul problema dell’industrializzazione:
R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Laterza, Roma-Bari 2008 (ed. or. 1959); Id., Breve storia della grande industria in Italia 1861-1961, Il Saggiatore, Milano 1991 (ed. or. 1961); G. Pescosolido, Agricoltura e industria nell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2004 (ed. or. 1993) e i saggi raccolti in A. Caracciolo (a cura
di), La formazione dell’Italia industriale, Laterza, Roma-Bari 1977 (ed. or. 1963).
Sulla questione meridionale: R. Villari (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, Laterza, Roma-Bari 1988 (ed. or. 1961); P. Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale, Donzelli, Roma 1990; C. Petraccone, Le “due Italie”. La questione meridionale tra realtà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari 2005 e F. Barbagallo, La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi, Laterza, Bari-Roma 2017 (ed. or. 2013).
Sui ceti dirigenti, vedi A.M. Banti, Storia della borghesia italiana. L’età liberale, Donzelli, Roma 1996.
Sui rapporti tra classe dirigente e “paese reale”, vedi R. Romanelli, Il comando impossibile, Il Mulino, Bologna 1995 (ed. or. 1988). Su scuola e cultura: S. Soldani-G. Turi(a cura di), Fare gli italiani, vol. I, La nascita dello Stato nazionale, Il Mulino, Bologna 1996 (ed. or. 1993). Sulla politica estera, ma anche sull’atmosfera
politica e culturale dell’epoca, si veda il classico studio di F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. Le premesse, Laterza, Roma-Bari 1997 (ed. or. 1951).
Su Depretis: G. Carocci, Agostino Depretis e la politica interna italiana dal 1876 al 1887, Einaudi, Torino 1956. Su Crispi: C. Duggan, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Laterza, Roma-Bari 2000 e G. Astuto, «Io sono Crispi». Adua, 1° marzo 1896: governo forte. Fallimento di un progetto, Il Mulino, Bologna 2005.
Per la storia del movimento operaio e del socialismo: G. Arfè, Storia del socialismo italiano (1892-1926), Einaudi, Torino 1992 (ed. or. 1965); G. Manacorda(a cura di), Il socialismo nella storia d’Italia. Storia documentaria dal Risorgimento alla Repubblica, Laterza, Roma-Bari 1975 (ed. or. 1966); M. Ridolfi, Il PSI e la nascita del partito di massa, Laterza, Roma-Bari 1992; R. Zangheri, Storia del socialismo italiano. Dalle prime lotte nella Valle Padana ai fasci siciliani, Einaudi, Torino 1997. Sulla formazione della classe operaia e sulla nascita delle
organizzazioni di classe vedi S. Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano, 1880-1900, La Nuova Italia, Firenze 1984 (ed. or. 1972). Sui Fasci siciliani: F. Renda, I Fasci siciliani 1892-94, Einaudi, Torino 1977.
Sui cattolici: G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 1982 (ed. or. 1953); G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, vol. I, Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Laterza, Roma-Bari 1996 (ed. or. 1966) e G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Dal Risorgimento a oggi, Il Mulino, Bologna 2010.
Sul colonialismo italiano: A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, I, Dall’Unità alla marcia su Roma, Mondadori, Milano 2002 (ed. or. 1976); N. Labanca, In marcia verso Adua, Einaudi, Torino 1993; Id., Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Il Mulino, Bologna 2007; G.P. Calchi Novati, L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Carocci, Roma 2011.
7. La società di massa
7.1. «La moltitudine s’è fatta visibile»
Masse e individui
«Le città sono piene di gente. Le case piene di inquilini. Gli alberghi pieni di ospiti.
I treni pieni di viaggiatori. I caffè pieni di consumatori. Le strade piene di passanti.
Le anticamere dei medici piene di ammalati. Gli spettacoli [...] pieni di spettatori.
[...] La moltitudine, improvvisamente, s’è fatta visibile [...]. Prima, se esisteva,
passava inavvertita, occupava il fondo dello scenario sociale; adesso s’è avanzata
nelle prime linee, è essa stessa il personaggio principale. Ormai non ci sono più
protagonisti: c’è soltanto un coro». Questo passo è tratto dal celebre libro La ribellione delle masse dello spagnolo José Ortega y Gasset, pubblicato nel 1930. Ma il fenomeno che vi è
descritto aveva radici molto lontane.
Di “massa” o di “masse”, nel senso di moltitudine indifferenziata, di aggregato in
cui gli individui tendono a scomparire rispetto al gruppo, si cominciò a parlare con toni allarmati fin dai primi anni dell’800, dopo che la
Rivoluzione francese aveva visto il “popolo” entrare per la prima volta da protagonista
sulla scena politica. I problemi del rapporto fra massa e individuo e i pericoli che
l’ascesa delle masse portava all’ordine sociale tradizionale, ma anche a quello liberal-borghese,
erano stati al centro della riflessione di molti pensatori ottocenteschi. Ma è solo
alla fine dell’800, con la seconda rivoluzione industriale e i connessi fenomeni di
urbanizzazione, e solo nei paesi economicamente più avanzati dell’Europa occidentale
e del Nord America, che si vennero delineando i contorni di quella che oggi chiamiamo
“società di massa”.
I nuovi rapporti sociali
Nella società di massa la maggioranza dei cittadini vive in grandi e medi agglomerati
urbani; gli uomini sono quindi a più stretto contatto gli uni con gli altri; entrano in
rapporto fra loro con maggiore frequenza e facilità, grazie anche alla disponibilità
di mezzi di trasporto, di comunicazione, di informazione e di svago (negli ultimi
anni dell’800 nascono le prime sale cinematografiche). Ma questi rapporti hanno spesso
un carattere anonimo e impersonale: il sistema delle relazioni sociali, infatti, non
passa più attraverso le comunità tradizionali (locali, religiose, di mestiere), ma
fa capo alle grandi istituzioni nazionali, agli apparati statali, all’esercito, ai
partiti e in genere alle organizzazioni “di massa”, che esercitano un peso crescente
sulle decisioni pubbliche e sulle stesse scelte individuali. Il grosso della popolazione
è uscito dalla dimensione dell’autoconsumo e quasi tutti sono entrati, come produttori
o come consumatori di beni e di servizi, nel circolo dell’economia di mercato. I comportamenti
e le mentalità tendono a uniformarsi secondo nuovi modelli generali: consumi e stili di vita un tempo riservati a un’esigua minoranza
si diffondono fra strati sociali sempre più larghi.
Le due facce della società di massa
La società di massa è il risultato dell’intreccio di una serie di processi economici,
di trasformazioni politiche, di mutamenti culturali. Una realtà che ha suscitato resistenze
e reazioni d’ogni sorta e che è stata dipinta ora con tratti ottimistici – l’ascesa
delle masse come frutto della democratizzazione e della diffusione del benessere –,
ora con accenti di angosciata preoccupazione – il dominio delle masse come appiattimento
generale e come minaccia per le libertà individuali. Comunque lo si voglia considerare,
l’avvento della società di massa è un fenomeno che ha segnato come forse nessun altro
il mondo contemporaneo.
L’espansione dei ceti medi
Gli esordi della società di massa, se da un lato tendevano a creare uniformità nei
comportamenti e nei modelli culturali, dall’altro rendevano più mobile e più complessa
la stratificazione sociale. Nella classe operaia si veniva accentuando la distinzione
fra la manodopera generica e i lavoratori qualificati (specializzati in alcune mansioni),
fra la “base” del proletariato e le cosiddette “aristocrazie operaie”, che partecipavano
in misura maggiore ai vantaggi dello sviluppo industriale. Contemporaneamente, l’espansione
del settore terziario e la crescita degli apparati burocratici facevano aumentare
la consistenza di un ceto medio urbano che andava sempre più distanziandosi dagli
strati superiori della borghesia. A ingrossare le file di questo ceto medio contribuivano
sia il settore del lavoro autonomo – liberi professionisti, artigiani, commercianti
– sia quello del lavoro dipendente. In quest’ultimo settore la categoria dei dipendenti
pubblici si allargava di pari passo con l’aumento dei compiti dello Stato e delle
amministrazioni locali in materia di sanità, di istruzione, di trasporti e di altri
servizi. Ancora più rapidamente cresceva la massa degli addetti al settore privato – tecnici, impiegati, commessi – che svolgevano mansioni non manuali: quelli che
più tardi sarebbero stati chiamati colletti bianchi, per sottolineare il contrasto
con i “colletti blu” delle tute degli operai.
La piccola borghesia impiegatizia
Già alla vigilia della prima guerra mondiale, nei paesi più industrializzati e più
toccati dai processi di modernizzazione produttiva, colletti bianchi e impiegati statali
costituivano una massa abbastanza omogenea e numerosa, anche se non paragonabile per
consistenza a quella dei lavoratori manuali. Nella scala dei redditi, i ceti medi
impiegatizi occupavano una posizione molto distante da quella dell’alta borghesia
e tendenzialmente più vicina a quella degli strati “privilegiati” della classe operaia.
Dal punto di vista della cultura, della mentalità, dei comportamenti sociali, la distinzione
fra piccola borghesia e proletariato era però molto netta. I ceti medi rifiutavano
ogni identificazione con le classi lavoratrici, erano per lo più ostili alle organizzazioni
sindacali e puntavano sul merito individuale per progredire nella scala sociale. Agli
ideali tipici della tradizione operaia – la solidarietà, lo spirito di classe, l’internazionalismo
– contrapponevano i valori storici della borghesia: l’individualismo e la rispettabilità,
la proprietà privata e il risparmio, il rispetto delle gerarchie e il patriottismo.
Anzi, si atteggiavano a difensori di questi valori in polemica con l’alta borghesia
industriale e bancaria, che tendeva a diventare cosmopolita e adottava modelli di
comportamento tipici delle classi aristocratiche.
La piccola borghesia impiegatizia era destinata, man mano che cresceva in consistenza
numerica, a svolgere un ruolo di primo piano: sia nel campo economico, in quanto principale destinataria di una serie di beni
di consumo prodotti dall’industria, sia in quello politico, come elettorato di massa,
capace, a seconda delle sue oscillazioni, di far pendere la bilancia dalla parte delle
forze conservatrici o di quelle progressiste.
7.2. Sviluppo industriale e organizzazione del lavoro
La crescita economica
Dagli ultimi anni dell’800 allo scoppio della prima guerra mondiale (1914), l’economia
dei paesi industrializzati conobbe una fase di espansione intensa e prolungata, interrotta
solo da una breve crisi nel 1907-8. Se il periodo 1873-95 era stato caratterizzato
soprattutto dalle innovazioni tecnologiche, dalla affermazione di settori “giovani”
– acciaio, chimica, elettricità – e dalla crescita di nuove potenze industriali –
Germania e Stati Uniti –, gli anni 1896-1913 furono segnati da uno sviluppo generalizzato
della produzione che interessò quasi tutti i settori e toccò anche paesi “nuovi arrivati”
come la Russia e l’Italia. In questo periodo, l’indice della produzione industriale
e quello del commercio mondiale risultarono più o meno raddoppiati. I prezzi, che
erano stati sempre calanti a partire dal 1873, crebbero costantemente, anche se lentamente,
dopo il 1896. Ma crebbe anche, e in misura più consistente, il livello medio dei salari,
e il prodotto pro capite dei paesi industrializzati aumentò nonostante il contemporaneo,
cospicuo aumento della popolazione.
Produzione in serie e nuovi consumi
La crescita dei redditi determinò a sua volta l’ampliamento del mercato. Le industrie
produttrici di beni di consumo e di servizi si trovarono per la prima volta a dover
soddisfare una domanda che sempre più assumeva dimensioni di massa. Beni la cui produzione
era stata fino ad allora assicurata solo dal piccolo artigianato o dall’industria
domestica – abiti e calzature, utensili e mobili – cominciarono a essere prodotti
in serie e venduti attraverso una rete commerciale sempre più estesa e ramificata:
nelle città, ma anche nei piccoli centri, si moltiplicarono i negozi; i grandi magazzini
crebbero in numero e in dimensioni; si aprirono nuovi canali di vendita a domicilio
e per corrispondenza, con forme di pagamento rateale che rendevano gli acquisti più
accessibili ai ceti meno abbienti; i muri dei palazzi e le pagine dei giornali si
riempirono di annunci e cartelloni pubblicitari.
La catena di montaggio
Le esigenze della produzione in serie per un mercato di massa spinsero le imprese
ad accelerare i processi di meccanizzazione e di razionalizzazione produttiva. Nel
1913, nelle officine automobilistiche Ford di Detroit, fu introdotta la prima catena
di montaggio: un’innovazione rivoluzionaria che consentiva di ridurre notevolmente
i tempi di lavoro ma, frammentando il processo produttivo in una serie di piccole
operazioni affidate ciascuna a un singolo operaio, rendeva il lavoro ripetitivo e
spersonalizzato. La catena di montaggio fu, del resto, il culmine di una serie di
tentativi volti a migliorare la produttività non solo mediante l’introduzione di nuove
macchine, ma anche attraverso un più razionale controllo e sfruttamento del lavoro
umano.
Taylorismo e fordismo
Il tentativo più organico e più fortunato in questo senso si dovette a un ingegnere
statunitense, Frederick W. Taylor, autore nel 1911 di un libro intitolato Princìpi di organizzazione scientifica del lavoro. Il metodo di Taylor si basava sullo studio sistematico del lavoro in fabbrica, sulla rilevazione dei tempi standard necessari
per compiere le singole operazioni e sulla fissazione, in base ad essi, di regole
e ritmi cui gli operai avrebbero dovuto uniformarsi, eliminando le pause ingiustificate
e gli sprechi di tempo. Applicate con un certo successo in molte grandi imprese americane
e – soprattutto dopo la prima guerra mondiale – anche europee, le tecniche del taylorismo
assicurarono notevoli progressi in termini di produttività e permisero alle imprese
che le adottarono di innalzare il livello delle retribuzioni. Tipico fu il caso della
Ford, l’industria di Detroit che fu la prima a produrre automobili in grande serie,
legando il suo nome a una nuova filosofia imprenditoriale – il fordismo – basata sui
consumi di massa, sui prezzi competitivi e sugli alti salari. I sistemi tayloristici
incontrarono però una diffusa ostilità fra i lavoratori che si sentivano spossessati
di qualsiasi autonomia, oltre che di qualsiasi orgoglio professionale, e vedevano
subordinato il loro lavoro agli automatismi delle macchine.
7.3. La nazionalizzazione delle masse: scuola, esercito e suffragio universale
Come diffondere i valori nazionali
Nel corso dell’800, e soprattutto nella seconda metà del secolo, prese forma, ad opera
dei singoli Stati, quella politica di educazione ai valori nazionali che gli storici
avrebbero definito in seguito come “nazionalizzazione delle masse”. L’estraneità di
una larga parte delle popolazioni ai princìpi e agli obiettivi politici delle classi
dirigenti al potere andava superata grazie al ruolo svolto dalla scuola, dall’esercito
e, in seguito, dall’allargamento del suffragio. Costituirono potenti fattori di costruzione
di un’identità nazionale la scuola elementare obbligatoria, che attraverso la pratica della lettura e della scrittura promuoveva lo studio delle
tradizioni patriottiche, e il servizio militare che, svolto in luoghi lontani da quelli
di origine, favoriva l’amalgama con soldati di altra provenienza. Ad essi si aggiunse,
alla fine del secolo, la diffusione del suffragio universale maschile che consentì
a masse sempre più ampie la partecipazione alla vita politica rappresentativa.
L’istruzione per tutti
In questo periodo si cercò ovunque di dare attuazione pratica al principio secondo
cui l’istruzione non era un bene riservato ai membri di una élite sociale – destinata
per nascita a comandare altri uomini, ad amministrare i culti, a esercitare arti e
professioni – ma costituiva un’opportunità da cui nessuno doveva essere escluso, un
servizio reso alla collettività. Per assicurare questo servizio non poteva essere
sufficiente l’impegno della Chiesa e delle istituzioni filantropiche, ma era necessario
l’intervento dello Stato e delle amministrazioni locali. L’idea di una scuola aperta
a tutti e controllata dai poteri pubblici, se provocava la resistenza degli ambienti
più legati a una visione tradizionale della società (che vedevano nell’istruzione
popolare un’arma pericolosa in mano alle classi subalterne), presentava non pochi
motivi di interesse per le classi dirigenti: la scolarizzazione diffusa poteva rappresentare,
infatti, non solo uno strumento pacifico di promozione sociale, un mezzo per educare
il popolo e per ridurre la criminalità, ma anche un canale attraverso cui lo Stato
poteva diffondere i suoi valori tra le giovani generazioni.
La scuola pubblica
A partire dagli anni ’70 dell’800, pertanto, tutti i governi d’Europa si impegnarono
per rendere l’istruzione elementare obbligatoria e gratuita, per sviluppare quella
media e superiore e per portare l’insegnamento sotto il controllo pubblico. Il processo
di laicizzazione e di statalizzazione del sistema scolastico ebbe tempi, forme e risultati diversi
a seconda dei paesi. Fu meno spinto in Gran Bretagna, dove la Chiesa anglicana e le
istituzioni private conservarono spazi abbastanza ampi, più radicale in Francia, dove
la questione scolastica diede luogo ad aspri conflitti fra Chiesa e Stato. In generale
lo sviluppo della scuola statale fu più rapido in quegli Stati, come la Francia e
la Germania, in cui esisteva già da tempo un’alfabetizzazione diffusa, più lento nei
paesi mediterranei e nell’Europa orientale, dove le condizioni di partenza erano più
sfavorevoli dal punto di vista sociale ed economico. L’effetto più immediato di questo
sforzo fu un aumento generalizzato della frequenza scolastica: alla vigilia della
prima guerra mondiale andare a scuola era diventata la regola per i bambini europei
sotto i dieci anni. Lo sviluppo dell’istruzione elementare determinò una rapida diminuzione
del tasso di analfabetismo, che già ai primi del ’900 era sceso a percentuali poco
più che marginali (intorno al 10%) nelle aree più avanzate e tendeva a calare anche
in quelle più arretrate (dove spesso superava ancora il 50%) relativamente alle classi
di età più giovani.
I giornali
Strettamente legato ai progressi dell’alfabetizzazione fu l’incremento nella diffusione
della stampa quotidiana e periodica. All’inizio del ’900, infatti, i quotidiani divennero
più vivaci: aumentarono le notizie di cronaca cittadina e crebbe l’interesse per gli
spettacoli e gli avvenimenti mondani. Nei paesi più industrializzati si moltiplicarono
lettori e tirature: in questo periodo, per esempio, il «Daily Mail» in Gran Bretagna
e il «Petit Journal» in Francia superarono il milione di copie quotidiane. I giornali
più importanti potevano contare su numerosi corrispondenti sparsi nelle altre città
del paese e nelle capitali estere da dove inviavano quotidianamente servizi sulle
principali notizie del giorno. Questa straordinaria espansione dei quotidiani all’inizio
del ’900 fu favorita anche dai progressi tecnologici: dalla diffusione delle rotative
e delle linotype (la macchina per la composizione dei caratteri) all’uso sempre più
frequente del telefono, che consentì di aumentare quantità e rapidità nella circolazione
delle informazioni. La crescita del numero dei lettori determinò quindi un progressivo
allargamento dell’area di coloro che contribuivano a formare l’opinione pubblica:
per un numero crescente di cittadini, infatti, diventò più facile accedere alle informazioni
di interesse generale, farsi una propria opinione sulle questioni più importanti e
far pesare questa opinione nelle scelte politiche.
Il servizio militare obbligatorio
Un contributo notevole allo sviluppo della società di massa venne anche dalle riforme
degli ordinamenti militari che furono realizzate in tutta Europa – con l’unica eccezione
della Gran Bretagna – a partire dagli anni ’70 dell’800. Il principio su cui si fondavano
queste riforme era quello del servizio militare obbligatorio per la popolazione maschile,
ossia la trasformazione degli eserciti a lunga ferma, composti in pratica da professionisti,
in eserciti a ferma più o meno breve formati da “cittadini in armi”.
Nonostante gli ostacoli di natura economica (un esercito di tali dimensioni comportava
una spesa considerevole per gli Stati) e politica (addestrare all’uso delle armi masse
potenzialmente rivoluzionarie poteva diventare una minaccia all’ordine costituito),
due importanti fattori spingevano per la trasformazione degli eserciti. Uno era di
carattere politico-militare: la disponibilità di grandi masse consentiva agli Stati
di dotarsi di eserciti abbastanza numerosi da poter assolvere quella funzione deterrente che ne faceva uno strumento indispensabile anche in tempo di pace. L’altro era dato
dal fatto che la tecnologia e l’industria consentivano la produzione in serie di armi,
munizioni ed equipaggiamenti in misura tale da coprire le esigenze di grandi eserciti,
mentre lo sviluppo delle ferrovie offriva a questi eserciti la possibilità di spostamenti
veloci, riducendo di molto i tempi di mobilitazione, di radunata e di schieramento.
A tutto ciò vanno aggiunte le pressioni esercitate sui governi dai gruppi industriali
interessati alle forniture militari. Fra il 1870 e il 1914, l’impegno crescente di
governi e stati maggiori nell’organizzare la mobilitazione e l’armamento di grandi
quantità di coscritti non solo rese possibile la nascita dei moderni eserciti di massa,
che sarebbero stati i protagonisti del primo conflitto mondiale, ma servì anche a
estendere la capacità di controllo dei poteri statali sulla società civile.
L’estensione del diritto di voto
La coscrizione obbligatoria si legava tuttavia all’inevitabile estensione del suffragio:
come si poteva negare infatti il diritto di voto a coloro ai quali lo Stato chiedeva
di mettere a repentaglio la propria vita? E in effetti in Europa, tra la fine dell’800
e l’inizio del ’900, il cammino verso la società di massa si accompagnò alla tendenza
costante verso l’allargamento del diritto di voto. Nel 1890 il suffragio universale
maschile era adottato solo in Francia, in Germania e in Svizzera. Nei venticinque
anni successivi, in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale furono approvate leggi
che allargavano il corpo elettorale fino a comprendervi la totalità o la stragrande
maggioranza dei cittadini maschi maggiorenni, indipendentemente dal censo. Il suffragio
universale maschile fu introdotto in Spagna nel 1890, in Belgio nel 1893, in Norvegia
nel 1898, in Austria e nel Granducato di Finlandia, allora parte dell’Impero russo,
nel 1907 (Norvegia e Finlandia furono i primi paesi a concedere il voto anche alle
donne), in Italia – con alcune limitazioni – nel 1912. Gran Bretagna e Olanda furono
le ultime ad adeguarsi e lo fecero immediatamente dopo la prima guerra mondiale.
7.4. Partiti di massa, sindacati e riforme sociali
I partiti di massa
L’allargamento del diritto di voto alle grandi masse determinò dappertutto mutamenti
di rilievo nelle forme organizzative e nei meccanismi della lotta politica. Tutti
i gruppi – anche i più conservatori – furono costretti a sperimentare nuove tecniche
per conquistare e mantenere il consenso popolare. Si affermò il nuovo modello del
partito di massa: quello realizzato per la prima volta dai socialdemocratici tedeschi
(poi imitato dai socialisti degli altri paesi e in minor misura dai cattolici), basato
sull’inquadramento di larghi strati della popolazione attraverso una struttura permanente,
articolata in organizzazioni locali – sezioni, federazioni – e facente capo a un unico
centro dirigente. Già alla vigilia della prima guerra mondiale appariva chiaro come
in nessun paese dell’Europa occidentale la vita pubblica potesse più essere considerata
un terreno riservato a ristretti gruppi di notabili che traevano la loro forza dalla
loro posizione sociale; e come nuovi centri di potere si andassero affiancando a quelli
tradizionali presenti nei sistemi politici liberali.
La difficile affermazione dei sindacati
Un altro segno delle nuove dimensioni assunte dalla lotta politica e sociale – e un
altro canale efficacissimo di nazionalizzazione delle masse – fu costituito dalla
rapida crescita delle organizzazioni sindacali. Sino alla fine dell’800 il sindacalismo
operaio era una realtà solida e consistente solo in Gran Bretagna, dove le Trade Unions,
intorno al 1890, contavano già un milione e mezzo di iscritti. Negli ultimi anni dell’800,
grazie all’impulso decisivo del movimento socialista, le organizzazioni dei lavoratori
crebbero in numero e in consistenza in tutti i paesi europei, ma anche negli Stati
Uniti, in Australia e in America Latina: quasi ovunque riuscirono a far valere il
proprio diritto all’esistenza contro l’opposizione degli imprenditori e delle classi
dirigenti conservatrici e contro i pregiudizi della dottrina liberista, che vedeva
nei sindacati un ostacolo al libero gioco della contrattazione.
Nati e sviluppatisi in forme diverse a seconda dei paesi, i sindacati si federarono,
sull’esempio delle Trade Unions britanniche, in grandi organismi nazionali. I più
importanti furono quelli di ispirazione socialista, come la Commissione centrale dei
sindacati liberi tedeschi, fondata nel 1890, la francese Confédération générale du travail (Cgt, Confederazione generale del lavoro), nata nel 1895, o la Confederazione generale
del lavoro (Cgl), costituita in Italia nel 1906. Ma un notevole sviluppo ebbero anche
le associazioni sindacali cattoliche e, in Germania e in Francia, non mancarono nemmeno
le organizzazioni a guida liberale o conservatrice. Alla vigilia della prima guerra
mondiale, i lavoratori iscritti ai sindacati erano 4 milioni in Gran Bretagna, quasi
3 milioni in Germania, oltre 2 milioni in Francia, poco più di 500 mila in Italia:
si trattava del più vasto fenomeno di associazionismo popolare cui mai si fosse assistito
nella storia d’Europa.
Le riforme sociali
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, grazie anche alla pressione delle organizzazioni
sindacali, furono introdotte nei maggiori Stati europei alcune forme di legislazione
sociale: furono istituiti sistemi di assicurazione contro gli infortuni e di previdenza
per la vecchiaia e, in alcuni casi, anche sussidi per i disoccupati. Si stabilirono
controlli, in realtà poco efficaci, sulla sicurezza e l’igiene nelle fabbriche. Si
cercò di impedire il lavoro dei fanciulli in età scolare. Furono introdotte limitazioni
agli orari giornalieri degli operai – la media non scese comunque sotto le dieci ore
– e fu sancito il diritto al riposo settimanale.
Servizi pubblici e nuovo sistema fiscale
All’azione dei governi si affiancò quella delle amministrazioni locali, soprattutto
nei grandi centri urbani. Qui il fatto nuovo fu costituito dalla progressiva estensione
dei servizi pubblici – gas, acqua, trasporti – a opera degli stessi comuni, che in
molti casi ne assunsero la gestione tramite aziende pubbliche appositamente create.
L’iniziativa degli organi di governo locale si concretizzò anche nel campo dell’istruzione
(scuole, biblioteche, musei), dell’assistenza (ospedali, ospizi, asili d’infanzia)
e dell’edilizia popolare. Per sopperire all’aumento delle spese, governi centrali
e amministrazioni locali ricorsero a nuove forme di imposizione fiscale per accrescere
le entrate. La tendenza sostenuta dalle forze politiche più avanzate fu quella di
aumentare il peso delle imposte dirette (ossia sul reddito o sul patrimonio di persone
o società) a vantaggio di quelle indirette (cioè di quelle che colpiscono i consumi
e le attività economiche e che gravano soprattutto sui ceti popolari), introducendo
anche il principio della progressività del carico fiscale, in relazione all’aumento
del reddito. Si andava così lentamente affermando l’idea che compito dello Stato fosse
anche quello di assicurare una più equa distribuzione della ricchezza all’interno
della popolazione.
7.5. Il movimento operaio e la Seconda Internazionale
I partiti socialisti
Fino agli anni ’70-80 dell’800, i movimenti socialisti costituivano dappertutto delle
piccole minoranze emarginate – e spesso perseguitate – e per lo più puntavano a un
radicale sconvolgimento rivoluzionario che colpisse alla radice la società capitalistico-borghese
e tutte le sue ingiustizie e permettesse la costruzione di una società nuova e più
giusta, fondata sui valori della solidarietà e della uguaglianza.
Alla fine dell’800 la situazione era mutata: in tutti i più importanti paesi europei,
e anche fuori d’Europa, nacquero partiti socialisti che cercavano di organizzarsi
sul piano nazionale, che affiancavano al proselitismo rivoluzionario un’azione legale
all’interno delle istituzioni, che partecipavano alle elezioni inviando loro rappresentanti
nei Parlamenti, e che, in qualche caso, cominciarono a discutere circa la possibilità
di una loro partecipazione a governi “borghesi”. Furono proprio i partiti socialisti
a realizzare per primi il modello di quel partito di massa che si sarebbe affermato
come la forma di organizzazione politica più diffusa nelle democrazie europee.
La socialdemocrazia tedesca
Il primo e il più importante di questi partiti fu quello socialdemocratico tedesco
(Spd), nato nel 1875. L’efficienza organizzativa, i successi elettorali, la compattezza
ideologica fornita dal marxismo, assunto come dottrina ufficiale, ne fecero un esempio
e un modello per gli altri partiti nazionali che nacquero nell’ultimo ventennio del
secolo. Più lenta e laboriosa fu la formazione di un partito socialista unitario in
Francia, dove la Sfio (Sezione francese dell’Internazionale operaia) si costituì solo
nel 1905.
Il laburismo
Ancora diversa era la situazione in Gran Bretagna, dove i gruppi marxisti non riuscirono
a imporre la loro egemonia sul forte movimento sindacale delle Trade Unions. Furono
comunque gli stessi dirigenti dei sindacati a creare una formazione politica che aveva
l’obiettivo di rappresentare l’intero movimento operaio britannico, al di là delle
divisioni dottrinarie. Nacque così, nel 1906, il Partito laburista (Labour Party), che si fondava sull’adesione collettiva delle organizzazioni sindacali
ed era privo di una netta caratterizzazione ideologica.
La Seconda Internazionale
All’inizio del ’900, al di là delle diversità organizzative e delle divergenze ideologiche,
i partiti operai europei, compresi i laburisti, avevano elaborato programmi in larga
parte simili: tutti si proponevano il superamento del sistema capitalistico e la gestione
sociale dell’economia; tutti si ispiravano a ideali internazionalisti e pacifisti;
tutti infine facevano capo a un’organizzazione socialista internazionale, erede di
quella che si era dissolta nel 1876.
La nascita della Seconda Internazionale risaliva al 1889, quando i rappresentanti
di numerosi partiti europei, per lo più di ispirazione marxista, si riunirono a Parigi
e approvarono alcune importanti deliberazioni, fra cui quella che fissava come obiettivo
primario del movimento operaio la giornata lavorativa di otto ore e proclamava a tale
scopo una giornata mondiale di lotta per il primo maggio di ogni anno. Nel 1891, inoltre,
vennero esclusi dall’organizzazione gli anarchici e quanti rifiutavano pregiudizialmente
la partecipazione all’attività politico-parlamentare. Diversamente dalla Prima Internazionale,
che aveva cercato di imporsi come una specie di nucleo dirigente della classe lavoratrice
di tutto il mondo, la Seconda Internazionale fu più che altro una federazione di partiti
nazionali autonomi e sovrani. Essa svolse tuttavia un’importante funzione di coordinamento
e i suoi congressi costituirono un fondamentale luogo di incontro e di discussione
sui problemi di interesse comune (lo sciopero generale, la lotta contro la guerra,
la questione coloniale), la sede naturale dei grandi dibattiti ideologici che animarono
il movimento operaio europeo all’inizio del ’900.
Le correnti del marxismo
La Seconda Internazionale ebbe nel marxismo – nella versione divulgata da Engels e
fatta propria dai più autorevoli esponenti della Spd, come Karl Kautsky – la sua dottrina
ufficiale. Inizialmente la posizione di Engels e Kautsky – che, senza porre in discussione
le finalità rivoluzionarie della lotta di classe, insistevano soprattutto sulle esigenze
concrete e sulle battaglie quotidiane del movimento operaio – fu fatta propria dalla
maggioranza dei leader socialisti europei. Tuttavia in seguito presero corpo due opposti
orientamenti: da un lato la tendenza a prendere atto dei mutamenti intervenuti nella
situazione politica e sociale per valorizzare l’aspetto democratico-riformistico dell’azione
socialista; dall’altro il tentativo di bloccare le tentazioni legalitarie e parlamentaristiche
recuperando l’originaria impostazione rivoluzionaria del marxismo.
Il revisionismo
L’interprete più coerente della prima tendenza fu il tedesco Eduard Bernstein. In alcuni scritti pubblicati nel 1899, Bernstein partiva dalla constatazione di
una serie di fatti che andavano in senso contrario alle previsioni di Marx: il proletariato
non si impoveriva, ma migliorava lentamente la sua condizione; il capitalismo rivelava
una notevole capacità di modificarsi e di superare le crisi; lo Stato borghese diventava
sempre più democratico.
In questa situazione, i partiti operai dovevano accantonare gli aspetti più radicali
dell’ideologia marxista e collaborare con le altre forze progressiste: la società
socialista sarebbe nata non da una rottura rivoluzionaria, ma da una trasformazione
graduale realizzata grazie al lavoro quotidiano delle organizzazioni operaie e soprattutto
del movimento sindacale. Le tesi di Bernstein – che furono definite revisioniste in
quanto implicavano una profonda revisione della teoria marxista – suscitarono un acceso
dibattito in seno al movimento socialista internazionale, ma furono respinte da tutti
i maggiori esponenti del marxismo “ortodosso”.
Le posizioni rivoluzionarie
Negli stessi anni in cui si sviluppava il dibattito sul revisionismo, il movimento
operaio vide emergere nuove correnti di estrema sinistra che contestavano la politica
“centrista” dei dirigenti socialdemocratici tedeschi ed europei, accusati di mascherare,
dietro un’apparente fedeltà agli ideali rivoluzionari, una pratica riformista e legalitaria.
In Germania un’agguerrita minoranza di sinistra si creò attorno a Karl Liebknecht
e a Rosa Luxemburg, una giovane intellettuale di origine polacca, mentre gruppi analoghi si formarono
in tutti i più importanti partiti europei, giungendo in qualche caso a minacciare
l’egemonia delle correnti centriste.
Lenin e la socialdemocrazia russa
Un’ulteriore dissidenza fu quella che si sviluppò nella socialdemocrazia russa e che
ebbe per protagonista l’allora poco più che trentenne Vladimir Il’iUl’janov, più noto con lo pseudonimo di Nikolaj Lenin (1870-1924). Lenin contestava
il modello organizzativo della socialdemocrazia tedesca, e gli contrapponeva il progetto
di un partito tutto votato alla lotta, formato da militanti scelti e guidato da “rivoluzionari
di professione”, con una direzione fortemente accentrata. Questa concezione contrastava
con le tradizioni del movimento operaio occidentale, ma si adattava alla situazione
di un partito come quello russo, costretto alla quasi completa clandestinità. In un
congresso della socialdemocrazia russa, svoltosi in esilio a Londra nel 1903, le tesi
di Lenin ottennero, sia pur di stretta misura, la maggioranza dei consensi. Il partito
si spaccò allora in due correnti: quella bolscevica (cioè maggioritaria) guidata da Lenin e quella menscevica (ossia minoritaria); una
divisione che sul momento non destò molto interesse, poiché riguardava un partito
fra i meno importanti della Seconda Internazionale.
Sorel e il sindacalismo rivoluzionario
Un importante dibattito fu invece suscitato da un’altra dissidenza di sinistra, che
ebbe origine in Francia e prese il nome di sindacalismo rivoluzionario. Furono i dirigenti
sindacali francesi a formulare la teoria secondo cui il momento più importante dell’azione
operaia era lo sciopero, visto come una “ginnastica rivoluzionaria” utile a rendere
i lavoratori consapevoli della loro forza e a prepararli al grande sciopero generale
che avrebbe segnato la fine del sistema borghese. Queste idee trovarono il loro interprete
più autorevole in un intellettuale francese, Georges Sorel, che nel volume Considerazioni sulla violenza, del 1908, esaltò la funzione liberatoria della violenza proletaria e insistette
sull’importanza dello sciopero generale come mito capace di trascinare gli operai
alla lotta.
Il sindacalismo rivoluzionario non riuscì a trovare consensi nei principali partiti
socialisti, ma esercitò una forte suggestione su molti intellettuali e anche su frange
consistenti della classe operaia, soprattutto nei paesi latini (dove si legò alla
tradizione anarchica), contribuendo alla radicalizzazione dello scontro sociale che
si verificò in Europa negli anni precedenti la prima guerra mondiale.
7.6. I primi movimenti femministi
La condizione femminile: tra subalternità e impegno
Negli anni fra ’800 e ’900 cominciò a emergere – in forme ancora frammentarie – la
“questione femminile”. Il problema dell’inferiorità economica, politica e giuridica
delle donne, in una parola della subalternità femminile, era rimasto, con poche eccezioni,
estraneo agli orizzonti del pensiero liberale e democratico ottocentesco. John Stuart
Mill era stato uno dei pochi intellettuali a richiamare l’attenzione sul tema in un
libro intitolato La servitù delle donne, pubblicato nel 1869. Del resto, i primi movimenti di emancipazione femminile, nati
alla fine del ’700 nella Francia rivoluzionaria, avevano avuto scarsissimo seguito.
Così, alla fine dell’800, le donne erano ancora escluse dappertutto dall’elettorato
attivo e passivo e, in molti paesi, anche dalla possibilità di accedere agli studi
universitari e alle professioni e, se sposate, di disporre liberamente dei loro beni. Quando lavoravano, ricevevano
un trattamento economico nettamente inferiore a quello degli uomini.
Le donne e il lavoro
Per le donne, il lavoro extradomestico non era un’emancipazione, ma piuttosto una
dura necessità, quasi una naturale prosecuzione del lavoro svolto da sempre nei campi
o entro le pareti domestiche, e non significava nemmeno (allora come oggi) la liberazione
dai tradizionali obblighi familiari. Tuttavia i maggiori contatti col mondo esterno,
le esperienze collettive, la partecipazione alle agitazioni sociali portarono le donne
lavoratrici a una più viva coscienza dei loro diritti e delle loro rivendicazioni
nei confronti dell’intera società. In tutti i paesi industrializzati, infatti, la
manodopera femminile fu protagonista di episodi salienti nella lotta sindacale e questa
mobilitazione contribuì a consolidare i legami tra le donne, ad accrescere la consapevolezza
dell’esistenza di un problema specifico all’interno della questione più generale del
miglioramento delle condizioni di lavoro.
Le suffragette
Nonostante questo ruolo attivo nel mondo del lavoro, il movimento per l’emancipazione
femminile rimase a lungo ristretto a minoranze operaie e intellettuali, a circoli
e leghe prive di un seguito consistente. Solo in Gran Bretagna il movimento, sotto
la guida di Emmeline Pankhurst – fondatrice nel 1903 della Women’s Social and Political
Union –, riuscì a imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica, concentrando la sua attività
nell’agitazione per il diritto al suffragio (donde il nome di “suffragette” dato alle
sue militanti) e ricorrendo non di rado a forme di protesta quanto mai decise: dimostrazioni
di piazza, marce sul Parlamento, scioperi della fame e anche attentati a edifici pubblici.
La lotta delle suffragette – che nel 1918 avrebbe portato, in Gran Bretagna, alla
concessione del voto alle donne – trovò qualche appoggio tra i parlamentari laburisti. Nel complesso, però,
il movimento operaio non si mostrò troppo sensibile nei confronti delle rivendicazioni femministe.
L’isolamento dei movimenti femminili
Molti dirigenti socialisti guardavano con sospetto al voto delle donne, perché temevano
che ciò avrebbe significato, almeno a breve scadenza, un vantaggio per i partiti di
ispirazione cristiana: si riteneva, infatti, che questi riscuotessero maggiori simpatie
in un elettorato femminile. Diffusa era poi, fra i socialisti, la tendenza a privilegiare
gli aspetti economico-retributivi del problema del lavoro femminile, o a vederne la
soluzione nel ritorno delle donne ai loro compiti “naturali” in seno alla famiglia.
Certo è che quasi dappertutto i movimenti femminili furono lasciati soli a combattere
le loro battaglie, ricevendo tutt’al più qualche generico incoraggiamento. Allo scoppio
della prima guerra mondiale, le donne europee avevano visto cadere alcune delle preclusioni
più gravi, relative all’istruzione superiore e all’accesso alle professioni, ma restavano
ancora escluse dal diritto di voto – salvo che in Norvegia e Finlandia – e pesantemente
discriminate sui luoghi di lavoro.
7.7. La Chiesa e la società di massa
I cattolici e l’impegno sociale
Di fronte all’avanzata inarrestabile dell’industrialismo, alla crescita del movimento
operaio e alle prime manifestazioni della società di massa, la Chiesa di Roma e il
mondo cattolico reagirono in modo complesso e articolato. Accanto al rifiuto tradizionale
della società industriale, alla duplice condanna lanciata nei confronti dell’individualismo
borghese e delle ideologie socialiste, vi fu anche il tentativo, in parte riuscito,
di rilanciare la missione della Chiesa, adeguandone le forme alle mutate condizioni
storiche.
La Chiesa, infatti, fu l’unica istituzione a poter supplire ai fenomeni di disgregazione
sociale e di perdita di identità indotti dall’urbanizzazione con una struttura organizzativa
capillare e collaudata: quella delle parrocchie, delle associazioni caritative, dei movimenti di azione cattolica. L’esistenza di queste strutture permise anzi ai cattolici
di impegnarsi con un certo successo nell’inquadramento dei lavoratori in organismi
di massa, capaci di porsi in concorrenza con quelli di ispirazione socialista e classista.
L’impegno dei cattolici su questo terreno si era cominciato a manifestare già durante
il pontificato di Pio IX, ma ebbe un impulso decisivo con Leone XIII (1878-1903).
Questi, pur senza attenuare l’intransigenza dottrinaria del suo predecessore, si mostrò
politico assai più duttile: favorì il riavvicinamento fra i cattolici e le classi
dirigenti di quei paesi (come la Germania e la Francia, ma non l’Italia) dove maggiore
era la tensione fra Stato e Chiesa; incoraggiò la nascita di nuovi partiti cattolici
in Belgio (1884) e in Austria (1887); ma soprattutto cercò di riqualificare il ruolo
della Chiesa in materia di questione sociale.
La Rerum novarum di Leone XIII
Il documento più importante e più emblematico di questo sforzo fu l’enciclica Rerum novarum, emanata da Leone XIII nel maggio 1891 ed espressamente dedicata ai problemi della condizione operaia. L’enciclica non conteneva novità rilevanti sul
piano dottrinario: ribadiva la condanna del socialismo e riaffermava l’ideale della
concordia fra le classi. Ma indicava anche, come condizione di questa concordia, il
rispetto dei doveri spettanti alle parti sociali: e, se i doveri degli operai erano
la laboriosità, la frugalità e il rispetto delle gerarchie, il dovere degli imprenditori
stava nel retribuire i lavoratori con la «giusta mercede», nel rispettarne la dignità
umana, nel non considerare la loro fatica come una merce da pagare al minor prezzo
possibile.
L’associazionismo cattolico
La parte più innovativa dell’enciclica era quella che riguardava il movimento associativo
fra i lavoratori. Veniva apertamente incoraggiata la creazione di società operaie
e artigiane ispirate ai princìpi cristiani e tutti i cattolici erano invitati a impegnarsi
su questo terreno.
Ciò che conferì all’enciclica un’enorme risonanza fu il fatto che l’incoraggiamento
venisse dalla più alta autorità della Chiesa e fosse sancito in un documento ufficiale.
La Rerum novarum, infatti, si muoveva all’interno di una concezione tradizionalista, venata di nostalgia
per la società preindustriale, e vedeva nelle associazioni cattoliche uno strumento
di collaborazione fra le classi, qualcosa di simile alle antiche corporazioni di arti
e mestieri. Nella pratica, però, questi ideali si rivelarono di difficile attuazione:
i sindacati cattolici si svilupparono soprattutto su basi di classe – cioè raccogliendo
solo i lavoratori dipendenti – e in seguito avrebbero adottato metodi di lotta non
troppo diversi da quelli dei sindacati socialisti.
Contro la democrazia cristiana e il modernismo
Parallelamente, negli ultimi anni dell’800, venne emergendo, in particolare in Francia
e in Italia, una nuova tendenza politica che fu definita “democrazia cristiana” e
che mirava a conciliare la dottrina cattolica non solo con l’impegno sociale, ma anche
con la prassi e gli istituti della democrazia. La nascita dei movimenti democratico-cristiani
coincise, e in parte si collegò, col sorgere di una corrente di riforma religiosa
che prese il nome di modernismo, in quanto si proponeva di reinterpretare la dottrina
cattolica in chiave appunto “moderna”, applicando i metodi della critica storica e
filologica allo studio delle Sacre Scritture. Anche il modernismo – che ebbe tra i
suoi maggiori teorici il francese Alfred Loisy e l’italiano Ernesto Buonaiuti – aspirava
sul piano dottrinario a uno scopo simile a quello perseguito sul piano politico dalla
democrazia cristiana: conciliare l’insegnamento della Chiesa col progresso filosofico
e scientifico e, più in generale, con la civiltà moderna. Ma la Chiesa era tutt’altro
che disponibile ad aprirsi a queste innovazioni, resistendo ostinatamente al processo
di secolarizzazione della società (esemplari, a questo proposito, le posizioni dei cattolici intransigenti sul voto
alle donne). Dopo una fase di relativa tolleranza, il nuovo pontefice Pio X proibì
ai democratici cristiani ogni azione politica indipendente dalle gerarchie ecclesiastiche
e, nel 1907, scomunicò i modernisti. Mentre sul terreno religioso la condanna pontificia
riuscì a bloccare la diffusione delle voci riformatrici, sul piano politico non si
arrestarono gli sviluppi del movimento democratico-cristiano, che aveva ormai una
sua base sociale e un suo spazio ben definiti nella vita politica europea.
Fra il 1815 e il 1870 il nazionalismo era stato soprattutto il principio ispiratore
di movimenti di liberazione che combattevano contro l’ordine costituito: si era così
collegato all’idea di sovranità popolare e si era alleato col liberalismo e con la
democrazia. Le cose cambiarono dopo l’unificazione tedesca – realizzata nel 1871 da
Bismarck «col ferro e col sangue» – e soprattutto con l’imperialismo coloniale, che legava la grandezza nazionale alle
guerre di conquista a danno di altri popoli ritenuti inferiori. Inoltre, la crescita
dei movimenti socialisti, che si ispiravano a ideali internazionalisti e pacifisti,
suscitò per reazione un ritorno di sentimenti patriottici e guerrieri in seno ai ceti
conservatori. La battaglia per i valori nazionali o per gli interessi del proprio
paese finì spesso col legarsi alla lotta contro il socialismo e alla difesa dell’ordine
sociale esistente.
Le teorie razziste
In altri termini, il nazionalismo tendeva a spostarsi a destra, sganciandosi dalle
sue matrici illuministiche e democratiche per riscoprire quelle tradizionaliste fondate
sui miti della terra e del sangue e per collegarsi in qualche caso alle teorie razziste
allora in voga: quelle che pretendevano di stabilire una gerarchia fra “razze superiori” e “razze inferiori” e di affermare su questa base la superiorità
di un popolo, o di un gruppo di popoli, su tutti gli altri. Queste teorie, che avevano
avuto il loro precursore nel francese Arthur de Gobineau (autore nel 1855 di un Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane), si fondavano su argomentazioni pseudoscientifiche di origine positivistica, ma
in realtà non facevano altro che rielaborare antichi pregiudizi (la tradizionale diffidenza
per l’estraneo e per il “diverso”) e proprio per questo avevano una forte capacità
di suggestione anche fra le classi popolari.
Più in generale, il successo del nuovo nazionalismo si può spiegare in buona parte
con l’appello alle componenti irrazionali della psicologia collettiva, oltre che col
ricorso a strumenti tipici della società di massa (stampa popolare, comizi, manifestazioni
di piazza) e a tecniche di lotta tipiche della tradizione sovversiva.
Il nazionalismo francese
In Francia il nazionalismo coniugava lo spirito di rivincita nei confronti della Germania,
innescato dalla sconfitta subita nel 1870, con la polemica contro una classe dirigente repubblicano-moderata considerata mediocre e
corrotta e quindi incapace di tutelare gli interessi e le tradizioni del paese. Il
nazionalismo dei gruppi più oltranzisti (il più noto fu quello che si raccolse intorno
alla rivista «Action française» fondata nel 1899) era rivolto non tanto contro i “nemici
esterni” (i tedeschi), quanto contro i supposti “nemici interni”: i protestanti, gli
immigrati e soprattutto gli ebrei, considerati come un corpo estraneo alla nazione
e identificati con gli ambienti dell’affarismo e della speculazione bancaria.
Il nazionalismo tedesco
Una forte componente antiebraica, unita a un’impostazione popolareggiante e a una
sottile vena anticapitalistica e antiborghese, fu presente anche nei movimenti nazionalisti
dei paesi di lingua tedesca, nei quali l’antisemitismo (che in Francia si legava soprattutto
a una tradizione cattolico-reazionaria) si appoggiava su presupposti apertamente razzisti.
Fu proprio in Germania che le teorie della razza conobbero, già alla fine dell’800,
le loro formulazioni più organiche e più popolari: come quella contenuta nel libro
I fondamenti del XIX secolo, uscito nel 1899, dello scrittore di origine inglese Houston Stewart Chamberlain.
Chamberlain riprendeva da Gobineau il mito di una razza ariana depositaria delle virtù
più nobili e ne vedeva l’incarnazione più pura nel popolo tedesco. Anche il nazionalismo
tedesco aveva lo sguardo rivolto al passato e cercava le sue basi nel mito del popolo
(Volk), concepito come comunità di sangue e come legame quasi mistico con la terra d’origine.
Questo mito, che aveva le sue radici nella cultura romantica ed era stato fatto rivivere,
nella seconda metà dell’800, dalle opere del grande compositore (e radicale antisemita)
Richard Wagner, fornì la base alle ideologie e ai movimenti pangermanisti, che auspicavano
cioè il ricongiungimento in un unico Stato di tutte le popolazioni tedesche, comprese
quelle che erano rimaste escluse dall’unificazione del 1871.
L’antisemitismo in Europa orientale
Un movimento contrapposto al pangermanismo, ma ad esso affine per molti aspetti, fu
il panslavismo, che nacque in Russia alla fine dell’800 e si diffuse nei paesi slavi dell’Europa
orientale come strumento della politica imperiale zarista. Il panslavismo si basava
su ideologie tradizionaliste e largamente intrise di antisemitismo. Infatti, nell’Europa
orientale – dove le comunità ebraiche erano più numerose, ma anche meno integrate
nella società e nella cultura dei paesi ospitanti – l’antisemitismo aveva profonde
radici popolari. Nell’Impero russo (dove vivevano alla fine dell’800 oltre cinque
milioni di ebrei) era addirittura sancito da leggi discriminatorie e ufficialmente
tollerato, quando non incoraggiato, dalle autorità, che se ne servivano come di un
classico diversivo per lasciar sfogare il malcontento delle classi subalterne. Di
qui la barbara pratica del pogrom, ossia di periodiche e impunite violenze contro i beni e le persone degli ebrei.
Fu inoltre la polizia segreta zarista a confezionare, all’inizio del ’900, uno dei
più clamorosi falsi della storia: i cosiddetti Protocolli dei Savi anziani di Sion, in cui un immaginario consiglio ebraico mondiale avrebbe esposto i suoi progetti
di dominio.
La nascita del sionismo
Una reazione all’antisemitismo – ma anche una manifestazione fra le più significative
di quel fenomeno di risveglio nazionalistico che attraversò tutta l’Europa di fine
’800 – fu la nascita del sionismo: cioè di quel movimento, fondato nel 1897 a Basilea
dal giornalista e scrittore ebreo ungherese Theodor Herzl, che si proponeva di restituire
un’identità nazionale alle popolazioni israelite sparse per il mondo e di promuovere la costituzione di uno Stato ebraico in Palestina
(il nome “sionismo” viene dalla collina di Sion su cui sorge Gerusalemme). Movimento
complesso, ai confini fra il politico, il religioso e il sociale (non senza una componente
di stampo colonialistico), il sionismo stentò all’inizio ad affermarsi, anche perché
l’alta e media borghesia ebraica era prevalentemente “assimilazionista”, tendeva cioè,
pur senza rinnegare le sue origini, a integrarsi, ove possibile, nelle società dei
paesi d’appartenenza. All’inizio del ’900, tuttavia, grazie all’attività instancabile
dei suoi sostenitori, il movimento riuscì a imporsi all’attenzione delle comunità
ebraiche e a trovare qualche autorevole appoggio anche nelle classi dirigenti dell’Europa
occidentale.
7.9. La crisi del positivismo e le nuove scienze
La crisi della fiducia nel progresso
A partire dalla fine dell’800, il modello interpretativo offerto dal positivismo apparve
sempre più inadeguato non solo a spiegare i fenomeni politici, economici e sociali,
ma anche a tener dietro all’evoluzione delle scienze. Il positivismo restò per molti
un metodo di ricerca e di conoscenza della realtà, ma si incrinò la fiducia nella
sua capacità di offrire un’organica visione del mondo, legata all’idea di un progresso
necessario e costante. Sul piano filosofico si assisté alla nascita di nuove correnti
irrazionalistiche e vitalistiche, diverse fra loro ma tutte convergenti nel ricondurre
i meccanismi della conoscenza e dell’attività umana a fattori che sfuggivano al controllo
razionale, come l’istinto, la volontà o lo “slancio vitale”; l’oggetto principale
dell’indagine condotta da queste nuove correnti diventava la realtà psicologica: una realtà anch’essa “oggettiva”, e dunque conoscibile,
ma dotata di sue proprie leggi e di un suo tempo – quello della memoria, del vissuto
– diverso da quello fisico-quantitativo delle scienze esatte.
Friedrich Nietzsche e la critica alla cultura borghese
Primo e principale interprete della critica al positivismo fu il filosofo e letterato
tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900). Alla concezione lineare del tempo Nietzsche
oppose quella ciclica dell’eterno ritorno mettendo in discussione il concetto di tempo
come lo concepiva la civiltà occidentale. All’ottimismo progressivo delle filosofie
borghesi – considerato come il risultato ultimo e negativo dell’intera tradizione
ebraico-cristiana giunta ormai alla sua estrema decadenza – contrappose l’idea dell’uomo
nuovo, il superuomo, nato dalle ceneri della vecchia civiltà e capace di esprimere
e realizzare la propria individualità al di fuori della morale corrente. Le teorie
nietzschiane conobbero una larghissima popolarità alla fine del XIX secolo: ad esse
si sarebbero poi richiamati, più o meno arbitrariamente, i movimenti nazionalisti
e totalitari.
La ripresa dell’idealismo in Germania e Italia
In Germania, però, la reazione al positivismo si espresse soprattutto in una ripresa
della filosofia kantiana e idealistica, in una più approfondita riflessione sui problemi
della conoscenza storica, in un ritorno alla distinzione fra “scienze dello spirito” e “scienze
della natura”. In questo clima culturale operarono filosofi come Wilhelm Dilthey,
considerato il fondatore dello storicismo moderno, storici come Friedrich Meinecke,
sociologi come Werner Sombart.
Anche in Italia, a partire dall’inizio del ’900, vi fu una rinascita dell’idealismo,
che ebbe per protagonisti Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Filosofo, storico e
uomo di lettere, protagonista di oltre mezzo secolo di storia della cultura italiana,
Croce partì da una critica al materialismo marxista e giunse a elaborare un complesso sistema filosofico che tendeva a risolvere tutta
la realtà nella dimensione storica. Gentile portò la filosofia idealistica alle sue
estreme conseguenze riducendo tutta la realtà all’“atto” pensante del soggetto (attualismo).
Bergson e la scoperta del tempo interiore
In Francia la reazione al positivismo trovò la sua espressione più organica nella
filosofia di Henri Bergson, che concepiva la realtà come creazione continua, mossa
da uno “slancio vitale” e conoscibile nella sua pienezza solo attraverso l’intuizione,
contrapponendo alla concezione del tempo “spazializzato” – quello dell’orologio o
della clessidra – l’idea di un tempo “vissuto” internamente nella coscienza.
Il pragmatismo di James e Dewey
Nei paesi anglosassoni, invece, soprattutto negli Stati Uniti, la corrente di pensiero
dominante fu quella conosciuta col nome di pragmatismo, che si diffuse largamente
anche in Europa nei primi anni del ’900 ed ebbe i suoi rappresentanti più noti in
William James e in John Dewey. Il pragmatismo considerava determinante il rapporto di reciproca
verifica fra teoria e pratica e fra individuo e natura: rivalutava così, inserendole
nel campo filosofico, scienze “pratiche” come la psicologia e la pedagogia.
Gli sviluppi del pensiero scientifico
Anche gli sviluppi del pensiero scientifico contribuirono a mettere in crisi il quadro
di certezze su cui la cultura positivistica si era fondata. Si pensi alla nascita
della fisica atomica, dovuta soprattutto alle scoperte degli inglesi Joseph Thomson
ed Ernest Rutherford; alla formulazione, nel 1900, della teoria quantistica da parte del tedesco Max Planck; all’enunciazione, nel 1905, della
teoria della relatività di Albert Einstein: teoria che non solo metteva in discussione
i fondamenti della fisica classica, ma sconvolgeva alcuni pilastri della scienza tradizionale,
come la distinzione fra materia ed energia e il carattere “assoluto” dei concetti
di spazio e di tempo. L’idea di un tempo “relativo” – i cui parametri di misurazione
potessero, cioè, cambiare in funzione di altre variabili come la velocità – rappresentò
una sorta di filo comune, attraverso il quale la fisica einsteiniana si legò ad altre
fondamentali esperienze intellettuali dell’epoca, nei campi del pensiero filosofico,
della psicologia, delle lettere e delle arti.
La psicanalisi
L’importanza dell’irrazionale trovò un riscontro di eccezionale rilievo nell’opera
del medico viennese Sigmund Freud (1856-1939), fondatore della teoria psicanalitica.
Nelle sue opere (in particolare nell’Interpretazione dei sogni del 1900 e nei Tre saggi sulla teoria della sessualità del 1905), Freud poneva alla base dei processi psichici il concetto di una vita “inconscia”
(Es), dominata da leggi diverse da quelle della vita cosciente (Io). L’esigenza di “rimuovere” (ossia di reprimere, di allontanare dalla coscienza)
gli istinti primari dell’inconscio è, secondo Freud, essenziale per lo sviluppo normale
dell’individuo e della stessa civiltà; ma può creare – se gli istinti non vengono
“sublimati” nelle realizzazioni sociali (ossia nella sfera del Super-io) – delle turbe
psichiche (nevrosi). Da qui la necessità di una tecnica terapeutica che riporti alla
luce i processi inconsci attraverso l’analisi dell’attività onirica. Accolte all’inizio
con diffidenza, le teorie freudiane avrebbero non solo rivoluzionato la terapia delle
malattie mentali, ma anche influenzato profondamente, soprattutto nella seconda metà
del ’900, la cultura e la mentalità delle società occidentali.
Il metodo delle scienze sociali
Un ulteriore tratto distintivo della cultura europea negli anni a cavallo fra i due
secoli fu la riflessione sulla relatività e sulla soggettività della conoscenza: più
esattamente, il problema dell’influenza delle inclinazioni personali, dei “valori”
dell’osservatore sul modo di studiare e di rappresentare il fenomeno osservato. Un
problema che interessò i filosofi, ma anche i cultori delle cosiddette “scienze umane”
(sociologia, psicologia, scienza politica, antropologia) e che trovò le sue formulazioni
più lucide nell’opera del tedesco Max Weber (1864-1920). Sociologo, filosofo e storico,
Weber approfondì soprattutto i problemi relativi al metodo delle scienze sociali (o
scienze umane): pur muovendo inevitabilmente da un punto di partenza soggettivo (costituito
dagli interessi personali e dalla situazione culturale dello studioso), le scienze
sociali possono dare risultati scientificamente validi purché adottino procedimenti
logici e criteri esplicativi corretti.
La scienza politica
I nuovi orientamenti della filosofia e delle scienze umane influenzarono profondamente
anche il pensiero politico, dove dominante fu la tendenza a penetrare oltre la facciata
delle formule ideologiche per ricostruire i meccanismi reali e svelare i moventi autentici
dell’agire politico. Si spiega così la notevole fortuna incontrata dalla “teoria della
classe politica”, formulata per la prima volta alla fine dell’800 dall’italiano Gaetano
Mosca. In contrasto con la dottrina democratica della sovranità popolare, Mosca sosteneva
che, in qualsiasi ordinamento, il potere effettivo è destinato a restare comunque
nelle mani di una ristretta minoranza di politici di professione, la classe politica,
appunto, o classe dirigente. Questa teoria fu ripresa, all’inizio del ’900, dal sociologo
Vilfredo Pareto, che vedeva nella politica soprattutto uno scontro di élite (ossia
minoranze qualificate, oligarchie), nel quale la borghesia liberale sarebbe stata
presto sostituita da nuove élite più giovani e più aggressive. A questo stesso filone
di pensiero si collegava il sociologo tedesco Robert Michels che, nella sua opera
più nota, la Sociologia del partito politico del 1910, stabiliva un nesso inscindibile fra la tendenza all’organizzazione, tipica
dei grandi partiti di massa, e la creazione di oligarchie burocratiche praticamente
inamovibili. Anche per Weber la tendenza alla crescita degli apparati burocratici
era inarrestabile in quanto espressione della fase più evoluta dello sviluppo della
società, ma conteneva in sé gravi pericoli per il destino delle libertà individuali.
La critica della democrazia
È facile notare come queste analisi avessero in comune un accentuato pessimismo sulla
sorte degli ordinamenti democratici. Certo è che, indipendentemente dalle personali
convinzioni dei loro autori, esse contribuirono a determinare quel clima di insofferenza
e sfiducia verso la democrazia, i suoi faticosi meccanismi e le sue complesse istituzioni, che si diffuse negli
ambienti intellettuali europei proprio nel periodo in cui la partecipazione alla vita
politica si ampliava incessantemente e si muovevano i primi passi verso la società
di massa.
Sommario
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 cominciarono a delinearsi, nell’Europa occidentale
e negli Stati Uniti, i caratteri della moderna “società di massa”. La maggioranza
della popolazione viveva ormai nei centri urbani ed era inserita nel circolo dell’economia
di mercato: così i rapporti sociali si fecero più intensi e si basarono non più sulle
comunità tradizionali bensì sulle grandi istituzioni nazionali (apparati statali e
organizzazioni di massa). Nella classe operaia si accentuò la distinzione fra la manodopera
generica e i lavoratori qualificati. Contemporaneamente aumentò la consistenza di
un ceto medio urbano che andava sempre più distinguendosi dagli strati superiori della
borghesia: si allargò la categoria dei dipendenti pubblici e si moltiplicò la massa
degli addetti al settore privato che svolgevano mansioni non manuali, i “colletti
bianchi”. Dal punto di vista della cultura, della mentalità, dei comportamenti sociali,
la distinzione fra piccola borghesia e proletariato era molto netta.
Gli anni 1896-1913 furono, per i paesi industrializzati, un periodo di intensa espansione
economica, cui si accompagnò un aumento del prodotto pro capite. Le dimensioni di
massa assunte dalla domanda stimolarono la produzione industriale in serie, nonché
la diffusione di processi di meccanizzazione e razionalizzazione produttiva (catena
di montaggio, taylorismo), che resero più efficienti i ritmi produttivi, ma incontrarono
la diffidenza degli operai, il cui lavoro diveniva sempre più ripetitivo per l’automatismo
delle macchine.
Tra il XIX e gli inizi del XX secolo gli Stati avviarono un processo di “nazionalizzazione
delle masse”, finalizzato a educare i cittadini ai valori nazionali. A partire dagli
anni ’70 dell’800 tutti i governi d’Europa, seppure in tempi diversi, si impegnarono
per rendere l’istruzione elementare obbligatoria e gratuita, per sviluppare quella
media e superiore e per portare l’insegnamento sotto il controllo pubblico. L’effetto
più immediato di questo sforzo fu comunque un aumento generalizzato della frequenza
scolastica. Strettamente legato ai progressi dell’istruzione fu l’incremento dei lettori
e delle tirature dei giornali. Un contributo notevole allo sviluppo della società
di massa venne anche dalle riforme degli ordinamenti militari, fondate sul principio
del servizio militare obbligatorio per la popolazione maschile. Tra il 1890 e il 1915,
in quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale furono approvate leggi che allargavano
il corpo elettorale fino a comprendervi la totalità o la stragrande maggioranza dei
cittadini maschi maggiorenni.
Con l’allargamento del diritto di voto si affermarono i partiti di massa e le confederazioni
sindacali nazionali, che trasformarono profondamente le forme della lotta politica
e sociale. I partiti si diedero una struttura centralizzata, sviluppando però organizzazioni
locali cui avevano accesso ampi strati della cittadinanza. Tra la fine dell’800 e
l’inizio del ’900, grazie anche alla pressione delle organizzazioni sindacali, furono
introdotte nei maggiori Stati europei forme di legislazione sociale. All’azione dei
governi si affiancò quella delle amministrazioni locali, soprattutto nei grandi centri
urbani, dove per gestire servizi essenziali sempre più complessi furono create aziende
a carattere pubblico. Per sopperire all’aumento delle spese, governi centrali e amministrazioni
locali dovettero ricorrere a nuove forme di imposizione fiscale per accrescere le
entrate.
Alla fine dell’800 sorsero, nei principali paesi europei, partiti socialisti che si
ispiravano per lo più al modello della socialdemocrazia tedesca e facevano capo alla
Seconda Internazionale, fondata nel 1889. Negli anni della Seconda Internazionale
il marxismo divenne la dottrina ufficiale del movimento operaio. Col passare del tempo,
però, presero corpo due diverse tendenze: da un lato la valorizzazione dell’aspetto
democratico-riformistico dell’azione socialista (Bernstein), dall’altro il tentativo
di recuperare l’originaria impostazione rivoluzionaria del marxismo (Liebknecht, Luxemburg).
Dissidenze del tutto particolari furono quelle che si svilupparono nella socialdemocrazia
russa (Lenin) e nel movimento sindacale francese (Sorel).
Tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 cominciò a emergere una “questione femminile”.
I maggiori contatti col mondo esterno, le esperienze collettive, la partecipazione
alle agitazioni sociali portarono le donne lavoratrici a una più viva coscienza dei
loro diritti e delle loro rivendicazioni nei confronti della società. Il movimento
per l’emancipazione femminile rimase a lungo ristretto a minoranze operaie e intellettuali.
Solo in Gran Bretagna riuscì a imporsi all’attenzione dell’opinione pubblica, concentrando
la sua attività nell’agitazione per il diritto al suffragio (“suffragette”).
Leone XIII favorì il riavvicinamento fra i cattolici e le classi dirigenti di quei
paesi dove maggiore era la tensione fra Stato e Chiesa, incoraggiò la nascita di nuovi
partiti cattolici e cercò soprattutto di riqualificare il ruolo della Chiesa in materia
di questione sociale. Il documento più emblematico di questo sforzo fu l’enciclica
Rerum novarum (1891). Parallelamente emerse una nuova tendenza politica, definita democrazia cristiana,
che mirava a conciliare la dottrina cattolica con la prassi e gli istituti della democrazia.
E sorse anche una corrente di riforma religiosa che prese il nome di modernismo, poiché
si proponeva di reinterpretare la dottrina cattolica in chiave appunto “moderna”,
applicando i metodi della critica storica e filologica allo studio delle Sacre Scritture.
Quando però salì al soglio pontificio Pio X, i democratico-cristiani si videro proibita
ogni azione politica indipendente dalle gerarchie ecclesiastiche, mentre il modernismo
fu colpito da scomunica.
Alla fine dell’800 il nazionalismo finì spesso col legarsi alla lotta contro il socialismo
e alla difesa dell’ordine sociale esistente, collegandosi spesso anche alle teorie
razziste allora in voga. In Francia il vessillo del nazionalismo fu innalzato sia
dai nostalgici del militarismo bonapartista sia dai gruppi reazionari e antisemiti.
Una forte componente antiebraica fu presente anche nei movimenti nazionalisti dei
paesi di lingua tedesca, nei quali l’antisemitismo si appoggiava su presupposti razzisti.
In Germania si svilupparono i movimenti pangermanisti, mentre in Russia e nei paesi
dell’Europa orientale quelli panslavisti: entrambi si basavano su ideologie tradizionaliste
e largamente intrise di razzismo. Una reazione all’antisemitismo fu la nascita del
sionismo, che si proponeva di restituire un’identità nazionale alle popolazioni israelite
sparse per il mondo e di promuovere la costituzione di uno Stato ebraico in Palestina.
Alla fine dell’800 il positivismo apparve sempre più inadeguato non solo a spiegare
i fenomeni politici, economici e sociali, ma anche a tener dietro all’evoluzione delle
scienze. Nacquero allora nuove correnti filosofiche irrazionalistiche e vitalistiche,
di cui il principale interprete fu Nietzsche. In Germania la reazione al positivismo
si espresse in una ripresa della filosofia kantiana e idealistica e in una più approfondita
riflessione sui problemi della conoscenza storica. Anche in Italia, a partire dall’inizio
del ’900, vi fu una rinascita idealistica, che ebbe per protagonisti Croce e Gentile.
In Francia, intanto, divenne popolare la filosofia di Bergson, mentre nei paesi anglosassoni
si affermò il pragmatismo. Anche gli sviluppi del pensiero scientifico misero in crisi
il quadro di certezze della cultura positivista: le teorie di Einstein demolirono
i fondamenti della fisica classica e le idee di Freud rivoluzionarono la terapia delle
malattie nervose. Profonde trasformazioni avvennero anche nelle scienze umane, dalla
sociologia alla scienza politica, condizionando la stessa vita politica europea. Gli
scienziati politici, in particolare, analizzarono i processi di formazione delle classi
dirigenti e la tendenza alla crescita degli apparati burocratici.
Bibliografia
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Sulle nuove correnti culturali e la società politica di fine secolo: J.W. Burrow,
La crisi della ragione. Il pensiero europeo 1848-1914, Il Mulino, Bologna 2002 (ed. or. 2000); R. Koselleck, Il vocabolario della modernità, Il Mulino, Bologna 2009 (ed. or. 2006); S. Eisenstadt, Sulla modernità, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.
8. L’Europa e il mondo agli inizi del ’900
8.1. Le contraddizioni della belle époque
Sviluppo e insicurezza
Negli anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, l’Europa
visse una fase di forti contraddizioni. Furono anni di intenso sviluppo economico
e di continua crescita del commercio mondiale, ma anche di inasprimento delle tensioni
internazionali e della conflittualità sociale all’interno dei singoli Stati; di frenetico
riarmo da parte delle grandi potenze e di rinnovate spinte pacifiste; di nazionalismi
esasperatamente aggressivi e di utopie internazionaliste e rivoluzionarie; di incessante
progresso scientifico e tecnologico e di critica nei confronti del progressismo positivista
che aveva improntato di sé la cultura tardo-ottocentesca. Le spinte alla democratizzazione, che in molti paesi portarono all’allargamento del diritto di voto [cfr. 7.3], incontrarono dappertutto la resistenza ostinata dei gruppi conservatori e in alcuni
casi furono duramente represse, come in Russia, o bloccate entro le vecchie strutture
autoritarie, come in Germania e nell’Impero asburgico.
Le radici della guerra
Questa compresenza di spinte diverse e fra loro contraddittorie ha fatto sì che della
realtà europea di quest’epoca si costruissero due rappresentazioni contrapposte. Da
un lato quella idilliaca e nostalgica di un’età di progresso e di spensieratezza,
di pace e di benessere: la belle époque, l’“epoca bella”, come sarebbe stata definita successivamente in implicito confronto
con le tragedie del primo conflitto mondiale e con gli anni agitati del dopoguerra.
Dall’altro quella di una stagione dominata dal militarismo, dall’imperialismo e dalla
più spietata logica di potenza: dunque irreversibilmente avviata verso lo scontro
fratricida e suicida della Grande Guerra.
È facile osservare che entrambe le immagini risultano distorte e unilaterali, influenzate
come sono dalla conoscenza degli eventi successivi. C’erano nell’Europa del primo
’900 forze che lavoravano, più o meno consapevolmente, per la guerra e altre che vi
si opponevano. Lo sviluppo del capitalismo finanziario, indicato dai teorici marxisti
come sicura premessa di guerra, era considerato da molti una garanzia di pace, visti
i legami sempre più stretti che univano il mondo industriale e bancario al di là delle frontiere nazionali. Persino la corsa agli armamenti fu vista di volta in volta
come un fattore di scontro e, all’opposto, come un deterrente che avrebbe sconsigliato
l’uso degli strumenti distruttivi prodotti dalla moderna tecnologia.
In realtà, la guerra non fu né il portato inevitabile di un’epoca o di un sistema
economico né una catastrofe accidentale e imprevedibile: fu piuttosto il prodotto
della combinazione di eventi casuali e di cause profonde. E queste ultime vanno ricercate principalmente negli storici contrasti fra le grandi potenze europee e
nella nuova configurazione del sistema di alleanze, quale si venne delineando a partire dall’ultimo decennio del XIX secolo.
8.2. Nuove alleanze in Europa e nuovi equilibri mondiali
La fine dell’equilibrio bismarckiano
Dopo il 1890, con l’uscita di scena del cancelliere tedesco Bismarck, i rapporti fra
le grandi potenze che dominavano la politica europea e mondiale subirono radicali
mutamenti. Si ruppero infatti gli equilibri internazionali, che nei vent’anni precedenti
erano rimasti inseriti in una rete di alleanze con al centro la Germania bismarckiana,
e si formò un nuovo assetto bipolare fondato sulla contrapposizione fra due blocchi
di potenze europee: la Germania, l’Impero austro-ungarico con l’Italia da una parte,
la Francia, la Russia e la Gran Bretagna dall’altra. A mettere in crisi il vecchio
sistema di alleanze furono soprattutto due fattori: la scelta dell’imperatore tedesco
Guglielmo II in favore di una politica più dinamica e aggressiva di quella praticata
da Bismarck dopo il 1870; e la crescente, obiettiva difficoltà per la Germania di
tenere uniti i suoi due maggiori alleati, gli Imperi austro-ungarico e russo, in perenne contrasto nel settore balcanico.
L’alleanza franco-russa
Mentre Bismarck era riuscito in qualche modo a legare a sé entrambe le potenze, i
suoi successori decisero di privilegiare l’alleanza con l’Austria e non rinnovarono
quella con la Russia, nella convinzione che l’Impero zarista non avrebbe mai stretto
alleanza con la Francia repubblicana. Ma queste due potenze, diversissime e distanti
sotto tutti i punti di vista, avevano almeno una cosa in comune: la necessità di trovare
un alleato. Si giunse così, nell’estate del 1891, a un primo accordo franco-russo,
trasformatosi poi, nel 1894, in vera e propria alleanza militare. Contemporaneamente
la Francia si impegnò in una serie di ingenti prestiti alla Russia, che stava cercando
di avviare un processo di industrializzazione. Con la stipulazione della Duplice franco-russa
veniva meno il principale pilastro su cui si era fondato il sistema bismarckiano,
l’isolamento della Francia, e la Germania era costretta a premunirsi contro l’eventualità,
sempre temuta, di una guerra su due fronti.
La corsa agli armamenti navali
Pochi anni dopo, la decisione presa dal governo tedesco di dare il via alla costruzione
di una potente flotta da guerra capace di contrastare la superiorità britannica nel
Mare del Nord provocava un inasprimento dei rapporti – fino ad allora abbastanza cordiali – fra Germania e Gran
Bretagna. Nelle intenzioni dei suoi fautori, il riarmo navale doveva servire a incutere
rispetto nella maggiore potenza marittima e a renderla più malleabile in vista di
un’intesa generale. Ma l’effetto fu quello di indurre i britannici, decisi a mantenere
la propria superiorità, a impegnarsi a loro volta in una vera e propria corsa agli
armamenti navali, che avrebbe toccato il suo culmine fra il 1907 e il 1914.
Triplice alleanza e Triplice intesa
Frattanto aveva inizio fra Gran Bretagna e Francia quel processo di graduale riavvicinamento
che portò le due potenze a regolare i rispettivi interessi coloniali in Africa e a
stipulare, nel 1904, un accordo che prese il nome di Intesa cordiale. L’Intesa non
era una vera e propria alleanza militare, ma costituiva ugualmente una sconfitta diplomatica
per la Germania e un notevole successo per la Francia, che diventava il perno di un
nuovo sistema di alleanze. Quando, nel 1907, anche Gran Bretagna e Russia regolarono
i loro contrasti in Asia con un accordo che limitava le rispettive sfere di influenza,
il capovolgimento della situazione antecedente il 1890 poté dirsi completo. Del sistema di alleanze bismarckiano restava
in piedi soltanto il blocco fra i due Imperi centrali, con l’appendice dell’Italia
(che peraltro tendeva a riservarsi una sempre maggiore autonomia all’interno della
Triplice alleanza). A questo blocco se ne contrapponeva un altro, quello che poi fu
chiamato Triplice intesa, politicamente meno omogeneo e meno compatto dal punto di
vista diplomatico, ma potenzialmente più forte per risorse e per popolazione e unito,
se non altro, dalla preoccupazione per la crescente potenza tedesca.
L’aggressività tedesca
In Germania, d’altro canto, questa situazione – che pure era dovuta in massima parte
agli errori della classe dirigente tedesca – determinò una sorta di complesso di accerchiamento.
E ciò fu causa a sua volta di una maggiore aggressività in politica estera, di una
più accentuata spinta al riarmo, di una pericolosa inclinazione – diffusa soprattutto
nelle alte sfere militari – verso la guerra “preventiva”. Tendenze aggressive e spinte
nazionalistiche si manifestavano, del resto, anche negli altri Stati; e convergevano
nel creare un clima di sempre maggiore tensione internazionale.
Gli inizi del declino europeo
Alle paure di un conflitto generalizzato fra le grandi potenze europee si aggiungevano
le ansie suscitate da possibili sfide esterne. Nel primo quindicennio del ’900 si
cominciarono ad avvertire i sintomi di un ridimensionamento dell’Europa in rapporto
al resto del mondo; e l’idea di una minaccia portata alla supremazia europea dall’emergere
di nuovi popoli e nuove nazioni cominciò a farsi strada in alcuni settori dell’opinione
pubblica. A suggerire questi timori non era tanto l’ascesa degli Stati Uniti, visti
pur sempre come un’appendice dell’Europa, quanto il risveglio dei popoli dell’Estremo
Oriente: il Giappone innanzitutto, ormai lanciato in una politica imperialista che
lo portò a scontrarsi con la Russia; ma anche la Cina, sempre più insofferente dello stato di subordinazione impostole dalle grandi potenze.
Si trattava di paure largamente irrazionali, fondate non solo su fattori di ordine
politico-militare, ma anche sulle tendenze dello sviluppo demografico. La popolazione
europea continuava a crescere, ma non al punto da ridurre significativamente il divario
con i popolosissimi paesi asiatici: la crescita di questi ultimi fu sentita da molti
come una minaccia demografica all’egemonia europea e, più in generale, alla supremazia
dei popoli «bianchi». Fu allora che in Europa si cominciò a parlare sempre più insistentemente
di un «pericolo giallo»: un’espressione coniata dall’imperatore di Germania Guglielmo
II e diventata d’attualità soprattutto dopo la guerra russo-giapponese del 1904-5
[cfr. 8.6].
8.3. I focolai di crisi
I contrasti fra le potenze
Nel decennio che precedette lo scoppio della prima guerra mondiale, i due blocchi
di potenze che si erano venuti a formare nell’Europa di inizio secolo si fronteggiarono
in un contesto internazionale sempre più inquieto, dove ai vecchi motivi di contrasto
(il revanscismo francese nei confronti della Germania, la rivalità austro-russa nei
Balcani) si sommavano le nuove tensioni derivanti dalla politica sempre più aggressiva
dell’Impero tedesco e dalla sua competizione con la Gran Bretagna per la superiorità
navale. In queste condizioni accadeva di frequente che le tensioni vecchie e nuove
si traducessero in crisi acute, ognuna delle quali rischiava di innescare il meccanismo
di un conflitto generale.
La contesa tra Francia e Germania per il Marocco
Due furono in questo periodo i più pericolosi punti di frizione. Il primo e il più
importante riguardava l’assetto dei Balcani. Il secondo era costituito dal Marocco,
uno degli ultimi Stati africani indipendenti, da secoli governato da dinastie islamiche,
oggetto delle mire francesi e proprio per questo scelto dalla Germania come ultimo
possibile terreno di scontro per contrastare lo strapotere delle rivali in campo coloniale.
Per due volte, nel 1905 e nel 1911, il contrasto franco-tedesco sul Marocco sembrò
portare l’Europa sull’orlo della guerra. Alla fine la Francia riuscì a spuntarla,
grazie alla solidarietà dei suoi alleati, e si vide riconosciuto un formale protettorato
sul territorio conteso.
La rivoluzione in Turchia
I pericoli maggiori per la pace sul continente vennero in questo periodo dalla zona
balcanica. A mettere in movimento una situazione già precaria fu, nel 1908, una profonda
trasformazione interna all’Impero ottomano: la cosiddetta rivoluzione dei “Giovani
turchi”, un movimento composto in prevalenza da intellettuali e da ufficiali che si
proponevano la trasformazione dell’Impero, retto da istituzioni autocratiche e arretrato
sul piano economico, in una moderna monarchia costituzionale. Nell’estate del 1908,
un gruppo di ufficiali marciò con le proprie truppe sulla capitale, costringendo il
sultano Abdul Hamid a concedere una Costituzione e, l’anno successivo, a lasciare il trono al fratello Maometto V. Il nuovo regime
tentò di realizzare, con qualche successo, un’opera di modernizzazione dello Stato.
Ma non si mostrò in grado di risolvere il problema dei rapporti con i popoli europei
ancora soggetti all’Impero, in stato di diffusa rivolta. Al contrario, i “Giovani
turchi” cercarono di attuare un ordinamento amministrativo più centralizzato di quello,
inefficiente, del vecchio regime; ma ottennero l’effetto di accentuare le spinte indipendentiste
e di accelerare la fine della presenza ottomana in Europa.
La crisi bosniaca
Della crisi interna all’Impero ottomano approfittò subito l’Austria-Ungheria per procedere,
nell’ottobre 1908, all’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina, che le erano state affidate in amministrazione temporanea al congresso di Berlino
del 1878: ciò provocò un immediato inasprimento dei rapporti con la Serbia – che mirava
a unificare sotto il suo regno gli slavi del Sud – e con la stessa Russia, che della
Serbia era la grande protettrice. Appoggiata dall’alleata Germania, l’Austria riuscì
però a far accettare alle altre potenze il fatto compiuto. I due Imperi centrali ottennero
così un successo diplomatico; ma lo pagarono con una radicalizzazione del nazionalismo
sud-slavo e con un indebolimento della Triplice alleanza: l’Italia, infatti, subì
a malincuore l’iniziativa austriaca.
Le guerre balcaniche
Pochi anni dopo, nel 1912, l’occupazione italiana della Libia provocò una guerra fra
l’Italia e la Turchia, che subì l’ennesima sconfitta [cfr. 9.6]. La sconfitta turca favorì a sua volta le mire degli Stati balcanici: i Regni di
Grecia, Serbia, Montenegro e Bulgaria, coalizzati, attaccarono l’Impero ottomano e
lo sconfissero (prima guerra balcanica), strappandogli quanto restava dei suoi territori europei, salvo una piccola zona
della Tracia che consentiva il controllo degli stretti. Sulla costa meridionale dell’Adriatico
nasceva un nuovo piccolo Stato, il Principato di Albania, voluto dall’Austria e dall’Italia
per impedire alla Serbia lo sbocco al mare.
Ma, al momento della spartizione dei territori conquistati, l’alleanza fra gli Stati
balcanici si ruppe. Nel 1913 la Bulgaria, che aveva sostenuto il maggior peso nella
guerra contro la Turchia e si riteneva sacrificata nella divisione del bottino, attaccò
improvvisamente la Grecia e la Serbia. Contro l’aggressione bulgara si formò una nuova
coalizione. Alla Serbia e alla Grecia si unirono la Romania, che non aveva partecipato
alla guerra precedente, e la stessa Turchia (seconda guerra balcanica). La Bulgaria,
sconfitta, dovette restituire alla Turchia una parte della Tracia e cedere alla Romania
una striscia di territorio sul Mar Nero.
I Balcani nel 1913
Il nodo balcanico e la minaccia della guerra
Si trattò, in entrambi i casi, di guerre sanguinose, che colpirono pesantemente le
popolazioni civili, anticipando gli orrori che avrebbero segnato quei territori nel
corso del XX secolo. Dal punto di vista degli equilibri internazionali, il bilancio
finale delle due guerre balcaniche risultava sfavorevole per gli Imperi centrali.
Il loro maggiore alleato, l’Impero turco, era stato praticamente estromesso dall’Europa.
La Serbia, vera spina nel fianco della monarchia austro-ungarica, si era considerevolmente
rafforzata raddoppiando quasi il suo territorio senza per questo attenuare la sua
ostilità verso l’Impero asburgico, che le aveva precluso lo sbocco sull’Adriatico
e ostacolava i suoi disegni di unificazione dei popoli slavi. In queste condizioni
si faceva sempre più forte nei circoli dirigenti austriaci, e soprattutto fra i militari,
la tentazione di liquidare una volta per tutte i conti con la Serbia.
Ma se l’Austria avesse attaccato la Serbia, come avrebbe reagito la Russia? E, in caso di conflitto austro-russo, come si sarebbero comportate
la Germania e la Francia, legate da stretti vincoli di alleanza militare rispettivamente
all’Impero degli Asburgo e a quello degli zar? Le rivalità fra gli Stati minori del
Sud-Est europeo si intrecciavano dunque pericolosamente con il confronto fra i due
blocchi contrapposti delle grandi potenze.
8.4. Le democrazie occidentali: Francia e Gran Bretagna
I modelli politici
Negli anni a cavallo fra ’800 e ’900, le maggiori potenze europee si differenziavano
e si contrapponevano anche sul piano degli ordinamenti interni. Mentre in Francia
e in Gran Bretagna le istituzioni rappresentative si rafforzavano ed evolvevano, pur
tra forti contrasti, verso forme più avanzate di democrazia, nei due imperi del Centro
Europa, Germania e Austria-Ungheria, i poteri del Parlamento restavano subordinati
a quelli dei sovrani, dei governi e delle gerarchie militari, nonostante la crescita
dei nuovi partiti di massa. A Est, l’Impero russo, pur alleato delle democrazie occidentali,
restava sostanzialmente legato al vecchio modello autocratico.
La Francia repubblicana
Dopo la sconfitta nella guerra con la Germania e il ritorno alla Repubblica, la Francia
aveva compiuto progressi sostanziali sulla strada della democrazia. Eppure le istituzioni
repubblicane continuavano a essere oggetto di una insidiosa contestazione, che ora
prendeva le forme di un esasperato nazionalismo, ora quelle della reazione clericale, ora quelle di un demagogico
antisemitismo. Alla fine dell’800 queste correnti, facendo blocco con una parte delle
forze moderate, misero a serio rischio la vita stessa delle istituzioni repubblicane.
Il “caso Dreyfus”
L’offensiva nazionalista partì da un clamoroso caso giudiziario: quello di Alfred
Dreyfus, un ufficiale ebreo condannato ai lavori forzati nel 1894 con l’accusa di
aver fornito documenti riservati all’ambasciata tedesca. La sentenza, che fornì alla
stampa di destra il pretesto per una violenta campagna antisemita, era basata su indizi
falsi o inconsistenti. Ma le alte sfere militari si rifiutarono di procedere a una
revisione del processo, giungendo al punto di falsificare documenti e di coprire i
veri colpevoli. Quando, nel gennaio del 1898, il celebre scrittore Émile Zola pubblicò
un esplicito atto d’accusa contro i tentativi messi in atto per nascondere la verità,
fu processato e condannato per offese all’esercito. Sul caso, l’opinione pubblica
francese si divise in due schieramenti contrapposti. Socialisti, radicali e una parte
dei repubblicani moderati, assieme a un nutrito gruppo di intellettuali, si batterono perché venisse riconosciuta
l’innocenza dell’ufficiale condannato. Clericali, monarchici, nazionalisti di destra
e non pochi moderati insistettero sulla tesi della colpevolezza e sulla difesa a ogni
costo del prestigio delle forze armate. Il contrasto superò ben presto i confini del
caso giudiziario per trasformarsi in uno scontro politico. Dreyfus fu infine graziato
dal presidente della Repubblica e ufficialmente riabilitato solo nel 1906.
I sostenitori di Dreyfus ebbero partita vinta anche sul terreno politico. L’esito
delle elezioni del 1899 fu favorevole ai radicali e alle altre forze progressiste
e consentì la formazione di un governo di “coalizione repubblicana” appoggiato anche
dai socialisti. Alcune associazioni di estrema destra vennero sciolte e i loro capi
arrestati. Fu avviata un’epurazione negli alti gradi dell’esercito e, soprattutto,
riprese con rinnovato vigore la battaglia contro le posizioni di potere ancora detenute
dal clero cattolico: allo scioglimento di oltre cento congregazioni religiose seguirono,
nel 1905, la rottura delle relazioni diplomatiche tra Francia e Santa Sede, la denuncia
del concordato in vigore dal 1803 e la completa separazione fra Stato e Chiesa. La battaglia anticlericale, condotta non senza eccessi e faziosità, suscitò nel
paese nuove profonde divisioni, ma si concluse con un sostanziale successo e con un
netto rafforzamento dei gruppi radicali.
I governi radicali
La Francia del primo ’900, all’avanguardia in materia di democrazia politica e di
laicità dello Stato, non lo era affatto sul piano della legislazione sociale né su
quello dell’ordinamento fiscale, che era basato in larga parte sulla tassazione indiretta.
I governi a direzione radicale che si succedettero fra il 1906 e il 1911, sotto la
guida di Georges Clemenceau e dell’ex socialista Aristide Briand, condussero in porto
alcune importanti riforme sociali, come la limitazione dell’orario di lavoro, la legge
sul riposo settimanale e le pensioni di vecchiaia, ma non riuscirono a far passare
un progetto di imposta generale sul reddito; per questo dovettero scontrarsi, anche
duramente, con la protesta di una classe lavoratrice che aveva beneficiato solo marginalmente
dei progressi economici compiuti dal paese ed era quindi sensibile agli appelli delle
correnti rivoluzionarie. Lo spostamento a sinistra del movimento sindacale e della stessa Sfio [cfr. 7.5] provocò la rottura dell’alleanza fra socialisti e radicali e, alla lunga, ridiede
spazio alle correnti repubblicano-moderate che riuscirono a tornare al potere fra
il 1912 e il 1914 con il loro leader più prestigioso, Raymond Poincaré. Il dibattito
politico, accantonati i temi delle riforme, si sarebbe concentrato sul problema delle
spese militari e del rafforzamento dell’esercito, in vista di quella rivincita sulla
Germania a cui larghi strati dell’opinione pubblica francese non avevano mai cessato
di pensare.
I governi conservatori in Gran Bretagna
Per un ventennio, fra il 1886 e il 1906, la Gran Bretagna fu governata dalla coalizione
fra i conservatori di Robert Salisbury e gli “unionisti” di Joseph Chamberlain, che si erano separati
dai liberali perché contrari alla concessione dell’autogoverno all’Irlanda. In questi
anni – gli ultimi del lungo regno della regina Vittoria, morta nel 1901 – i governi
si impegnarono soprattutto sul fronte delle imprese coloniali, ma cercarono al tempo
stesso di contemperare le spinte imperialiste con una certa dose di riformismo sociale.
Fra il 1897 e il 1905 furono varate leggi che aumentavano i finanziamenti per le scuole
elementari e medie e favorivano il collocamento dei lavoratori disoccupati. A mettere
in crisi l’egemonia della coalizione di governo fu il progetto, sostenuto da Chamberlain,
sotto la pressione di una parte degli industriali, di introdurre anche nell’Impero
britannico il protezionismo doganale, sconvolgendo così una tradizione liberoscambista
che durava ormai da più di mezzo secolo.
I liberali e lo scontro con i Lord
Nelle elezioni del 1906 i liberali conquistarono un’ampia maggioranza, mentre per
la prima volta faceva il suo ingresso alla Camera un gruppo di trenta deputati laburisti.
I liberali adottarono una linea meno aggressiva in campo coloniale e una più organica politica di riforme
sociali. Ma l’aspetto più nuovo e coraggioso della loro azione fu la proposta di introdurre
una politica fiscale fortemente progressiva [cfr. 7.4], che imponeva cioè una tassazione via via più onerosa in rapporto alle dimensioni
della ricchezza e mirava a colpire soprattutto i grandi patrimoni. Il tentativo si
scontrò con la reazione della Camera dei Lord, roccaforte dell’aristocrazia, che aveva
il diritto di respingere le leggi votate dalla Camera dei Comuni. Il diritto di veto,
però, non si applicava per tradizione alle leggi finanziarie, la cui mancata approvazione
avrebbe provocato il blocco della macchina statale. Quando, nel 1909, i Lord violarono
questa prassi respingendo il bilancio preventivo presentato dal governo ne nacque
un conflitto costituzionale che vide contrapposte le due Camere, l’una a maggioranza
liberale, l’altra dominata dai conservatori. I liberali presentarono allora un “progetto
di legge parlamentare” (Parliamentary Bill), che negava ai Lord il diritto di respingere le leggi di bilancio e lasciava loro,
per tutte le altre leggi, solo la facoltà di rinviarle due volte alla Camera dei Comuni
(dopodiché sarebbero state comunque approvate).
Nel 1911, dopo un braccio di ferro durato due anni e dopo due successive elezioni
anticipate vinte (sia pure di stretta misura) dai liberali, i Lord, grazie anche alle
pressioni del nuovo re Giorgio V, si piegarono ad accettare una riforma che impediva loro di respingere le
leggi di bilancio.
La questione irlandese
Nello stesso anno, il governo decise di affrontare la questione irlandese e presentò
un nuovo progetto di Home Rule (“autogoverno”), che prevedeva un’Irlanda autonoma, con un proprio governo e un proprio
parlamento, ma pur sempre legata alla Corona britannica. La soluzione proposta scontentava
sia i nazionalisti irlandesi, che miravano alla piena indipendenza, sia i protestanti
dell’Ulster (Irlanda del Nord), che organizzarono un movimento clandestino armato
per opporsi all’autonomia. Dopo un lungo e tormentato dibattito, il progetto, avversato
anche da una parte dei liberali, fu approvato nel maggio 1914, ma la sua applicazione
fu subito sospesa a causa dello scoppio della guerra.
8.5. Gli imperi centrali: Germania e Austria-Ungheria
La Germania guglielmina e il “nuovo corso”
La fine del lunghissimo cancellierato di Otto von Bismarck, nel 1890, parve segnare
una svolta nella politica tedesca. Erano stati soprattutto motivi interni – in particolare
i successi dei socialdemocratici nelle elezioni del 1890 – a determinare la caduta
del “cancelliere di ferro”. Lo stesso imperatore Guglielmo II, salito al trono nel
1888, aveva annunciato un “nuovo corso” nella vita del paese e aveva criticato le
leggi eccezionali contro i socialisti (che in effetti non furono più rinnovate dopo
il 1890).
Le speranze in una evoluzione liberale del sistema andarono però deluse. L’imperatore
mostrò ben presto una chiara inclinazione alle soluzioni autoritarie e all’esercizio
personale del potere. L’unico mutamento di rilievo fu costituito dal fatto che nessuno
dei cancellieri succedutisi alla guida del governo ebbe le capacità e la personalità
che avevano permesso a Bismarck di imporsi allo stesso potere imperiale: i cancellieri continuarono a governare “al di sopra dei partiti” e a render conto
del loro operato all’imperatore e allo stato maggiore, più che al Parlamento. Insomma,
il passaggio dall’età bismarckiana all’età “guglielmina” non comportò nessun mutamento
sostanziale, se non una maggiore influenza dei vertici militari sulle scelte di governo.
La “politica mondiale”
A partire dagli ultimi anni dell’800 la Germania imboccò la via della Weltpolitik (“politica mondiale”) e diede il via al riarmo navale che doveva consentirle di reggere
il confronto con la Gran Bretagna [cfr. 8.2]; la politica del riarmo, inoltre, rappresentò un importante stimolo per l’economia
tedesca, e contribuì a rinsaldare l’alleanza fra la casta agraria e militare degli
Junker e gli ambienti della grande industria. Un’industria che era sempre più dominata
dalle grandi concentrazioni e dalle imprese giganti (come la Krupp nel settore siderurgico
e degli armamenti) e che vantava ritmi di sviluppo tecnologico e di crescita produttiva paragonabili
solo ai contemporanei progressi dell’industria statunitense. La coscienza di questa
superiorità accentuò nella classe dirigente, ma anche nei ceti popolari, le tendenze
nazionaliste e imperialiste. Pur essendo un paese ricco di risorse naturali, infatti,
la Germania, priva com’era di un grande impero coloniale, non aveva una disponibilità
di materie prime paragonabile a quella dell’Impero britannico, degli Stati Uniti o
dello stesso Impero russo. Da qui la volontà di modificare a proprio vantaggio la
distribuzione mondiale delle risorse e gli equilibri sullo scacchiere planetario:
il che, essendo ormai compiuta la spartizione dei continenti extraeuropei, portava
fatalmente la Germania ad assumere una posizione antagonistica rispetto alle altre
potenze imperialiste, come si è visto nel caso del Marocco [cfr. 8.3].
La socialdemocrazia
La spinta nazionalista e aggressiva insita nella politica estera tedesca finì col
coinvolgere in varia misura tutte le maggiori forze politiche. L’unica autentica forza
di opposizione, la socialdemocrazia, restò per tutta l’età guglielmina in una condizione
di isolamento che le precludeva qualsiasi influenza sulla condotta degli affari di
Stato. L’esclusione dall’area di governo, tuttavia, non le impedì di aumentare continuamente
la massa dei propri iscritti (più di un milione nel 1914), incrementando il proprio seguito elettorale (nel 1913 la Spd si affermò addirittura come gruppo
di maggioranza relativa col 34% dei voti e 110 seggi al Reichstag) e ampliando il
proprio controllo sulle organizzazioni collaterali, come sindacati, cooperative, circoli
ricreativi e culturali. A lungo andare però – nonostante la riaffermata fedeltà ai
princìpi della dottrina marxista – anche la socialdemocrazia ammorbidì i toni e le
forme della sua opposizione e venne tacitamente a patti con le ideologie nazional-imperialistiche
cui nemmeno la classe operaia era del tutto insensibile.
Sviluppo e arretratezza nell’Impero asburgico
Nei decenni che precedettero la prima guerra mondiale, l’Impero asburgico vide aggravarsi
il declino delineatosi a partire dal 1848 e dovuto, oltre che al ritardo nello sviluppo
dell’economia, ai sempre più forti contrasti fra le diverse nazionalità. Dal punto
di vista economico, l’Impero era ancora complessivamente più povero della Germania
e della Francia e poco più ricco dell’Italia, ma con alcune isole altamente urbanizzate
e industrializzate: la regione gravitante attorno alla capitale Vienna, la Boemia
(in particolare la zona di Praga), il porto di Trieste, nodo commerciale di primaria
importanza fra il Centro Europa e il Mediterraneo. Allo sviluppo economico e civile
dei grandi centri, alla eccezionale vitalità culturale che si manifestò in questo periodo a Vienna – una delle maggiori
capitali europee della musica, delle arti figurative e della letteratura –, alla crescita
dei grandi partiti di massa (socialdemocratici e cristiano-sociali) facevano riscontro il sostanziale immobilismo del sistema politico e la persistenza delle strutture
sociali tradizionali nelle province contadine, dominate dalla Chiesa e dai grandi proprietari.
I conflitti nazionali
Ma il principale motivo di crisi era costituito dai conflitti nazionali. Mentre l’Impero
tedesco trovava nella compattezza etnica un potentissimo elemento di coesione, in
Austria-Ungheria le tensioni fra i diversi gruppi nazionali costituivano un fattore
di logoramento e di disgregazione per una compagine statale che aveva come principali
elementi unificanti la Corona, l’esercito e la burocrazia. Con la soluzione “dualistica”
che nel 1867 aveva diviso l’Impero in due parti (Austria e Ungheria), la monarchia
asburgica aveva scelto la strada del compromesso col gruppo nazionale più forte, quello
ungherese, che aveva conquistato nella parte sud-orientale dell’Impero una posizione
privilegiata, simile a quella detenuta dagli austriaci nella parte nord-occidentale.
Fino alla fine del secolo il potere imperiale riuscì a controllare la situazione appoggiandosi
agli elementi conservatori e all’aristocrazia agraria delle varie nazionalità, con qualche
concessione alle masse contadine. Ma tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 si assisté
a una crescita dei movimenti nazionali: tutti in forte contrasto gli uni con gli altri,
ma uniti dall’ostilità al centralismo imperiale e dalla tendenza a radicalizzarsi,
passando dal piano delle rivendicazioni autonomistiche a quello dell’indipendentismo.
I più irrequieti erano naturalmente i popoli slavi, i grandi sacrificati dal compromesso
del ’67. Fra i cechi della Boemia e della Moravia – che erano inclusi nella zona di
competenza austriaca – si affermò, nell’ultimo decennio dell’800, il movimento dei
“Giovani cechi” che si batteva contro la politica di germanizzazione del governo di
Vienna. Tendenze nazionaliste ancora più radicali si cominciarono a manifestare nello
stesso periodo fra gli “slavi del Sud”, serbi e croati, che erano soggetti al dominio
ungherese (più duro di quello austriaco) e subivano l’attrazione del vicino Regno
di Serbia. Persino fra gli ungheresi sorse, all’inizio del ’900, un movimento che
rivendicava totale autonomia dall’Austria anche in materia di tariffe doganali e di
organizzazione dell’esercito.
Principali popolazioni dell’Impero austro-ungarico
Il progetto di un polo slavo
Una parte della classe dirigente e dei circoli di corte si orientò verso l’idea di
trasformare la monarchia da “dualistica” in “trialistica”: di staccare cioè gli slavi
del Sud dall’Ungheria e di creare così un terzo polo nazionale accanto a quelli tedesco e magiaro. Questo progetto, che aveva il suo sostenitore
più autorevole nell’arciduca ereditario Francesco Ferdinando (nipote di Francesco
Giuseppe), si scontrava però con l’opposizione degli ungheresi e ancor più con quella
dei nazionalisti serbi e croati, che miravano con tutti i mezzi – compresi quelli
terroristici – alla fondazione di un unico Stato slavo indipendente ed erano palesemente
appoggiati dalla Serbia (a sua volta protetta dalla Russia). Da questo pericoloso
focolaio di tensione sarebbe scoccata nel 1914 la scintilla che portò allo scoppio
della prima guerra mondiale e alla dissoluzione dell’Impero austro-ungarico.
8.6. La Russia: la rivoluzione del 1905 e la guerra col Giappone
Autocrazia e industrializzazione
Fra le grandi potenze europee la Russia era la sola che, alla fine dell’800, si reggesse
ancora su un sistema autocratico, nemmeno mitigato da quelle forme di limitato costituzionalismo
che si stavano affermando in Germania e in Austria-Ungheria. Ciò non impedì all’Impero zarista di avviare il suo primo tentativo di decollo industriale.
Cominciato all’inizio degli anni ’90 sotto lo stimolo delle grandi costruzioni ferroviarie,
il processo di industrializzazione ebbe un impulso decisivo dalla politica di Sergej
Vitte, ministro delle Finanze dal 1892 al 1903 e successivamente primo ministro. Le
politiche economiche messe in atto in questi anni dal governo russo, da una parte,
mirarono ad aumentare il sostegno dello Stato alla produzione nazionale, inasprendo
il protezionismo e moltiplicando gli investimenti pubblici; dall’altra, incoraggiarono
l’afflusso di capitali stranieri (soprattutto francesi), cui la repressione dei conflitti
sociali e la conseguente compressione dei salari offrivano la possibilità di elevati
profitti. Affidata all’iniziativa dello Stato e del capitale straniero, più che all’autonoma
crescita di una borghesia imprenditoriale, l’industrializzazione risultò come calata
dall’alto e fortemente concentrata sia per la dislocazione geografica sia per le dimensioni
delle imprese.
Una società arretrata
Pertanto anche la classe operaia russa si concentrò in poche aree – la capitale Pietroburgo, la zona di Mosca, i distretti
minerari degli Urali, la regione petrolifera di Baku sul Mar Caspio – e rimase isolata
in un contesto sociale ancora dominato dall’agricoltura, che occupava circa il 70%
della popolazione attiva e versava ancora in uno stato di estrema arretratezza. Il
decollo industriale di fine secolo non cambiò dunque i tratti fondamentali della società
russa, né elevò in misura significativa il tenore di vita di una popolazione che cresceva
con un ritmo fra i più rapidi del mondo. All’inizio del ’900 la Russia era in testa
alle classifiche europee dell’analfabetismo e della mortalità infantile, mentre il
suo prodotto pro capite era meno della metà di quello della Francia o della Germania.
I gruppi rivoluzionari
In queste condizioni era naturale che la tensione politica crescesse e che le manifestazioni
di malcontento, anche violente, si moltiplicassero in tutti i settori della società.
Del resto, in questi stessi anni si accentuò in modo determinante la penetrazione
delle correnti rivoluzionarie fra i ceti popolari. Mentre la classe operaia subiva
l’influenza del Partito socialdemocratico, fondato nel 1898 da Georgij Plechanov e
aderente alla Seconda Internazionale, fra i contadini riscuoteva qualche successo
la propaganda del Partito socialista rivoluzionario, nato nel 1900 dalla confluenza
di gruppi anarchici e populisti, dai quali riprendeva il progetto di un socialismo
agrario legato alle tradizioni russe. Priva di canali legali attraverso cui esprimersi,
la protesta politica e sociale finì col coagularsi, nella Russia zarista, in un moto
rivoluzionario: il più ampio e sanguinoso cui l’Europa avesse mai assistito dai tempi
della Comune di Parigi del 1871.
La “domenica di sangue”
A far precipitare gli eventi contribuì, come vedremo fra poco, lo scoppio, nel 1904,
della guerra col Giappone, che fece immediatamente salire la tensione sociale nelle
città provocando fra l’altro un brusco aumento dei prezzi. In una domenica di gennaio
del 1905, a Pietroburgo, un corteo di 150 mila persone si diresse verso il Palazzo
d’Inverno, residenza dello zar Nicola II, per presentare al sovrano una petizione
in cui si chiedevano maggiori libertà politiche e interventi per alleviare il disagio
delle classi popolari. I manifestanti furono accolti a fucilate dall’esercito: i morti furono più di 100 e oltre 2000 i feriti. La brutale
repressione scatenò in tutto il paese un’ondata di agitazioni, di vere e proprie sommosse,
di ammutinamenti nelle stesse forze armate.
La nascita dei soviet
Fra la primavera e l’autunno del 1905, la Russia visse in uno stato di semianarchia.
Di fronte alla crisi dei poteri costituiti – incapaci di riportare l’ordine, anche
perché il grosso dell’esercito era impegnato in Estremo Oriente – sorsero spontaneamente
in molti centri nuovi organismi rivoluzionari, i soviet, rappresentanze popolari elette sui luoghi di lavoro e costituite da membri continuamente
revocabili, secondo un principio di democrazia diretta ispirato all’esperienza della
Comune parigina del 1871. Il più importante di questi soviet, quello di Pietroburgo, assunse la guida del movimento rivoluzionario. Fra novembre
e dicembre però – dopo che era stata conclusa la pace col Giappone e le truppe erano
rientrate dal fronte – la Corona e il governo passarono risolutamente alla controffensiva
facendo arrestare quasi tutti i membri del soviet di Pietroburgo e schiacciando con durezza le rivolte successivamente scoppiate nella
capitale e a Mosca.
Il fallimento della Duma e la restaurazione autoritaria
Una volta ristabilito l’ordine, restava, come unico risultato del moto rivoluzionario,
l’impegno dello zar di convocare un’assemblea rappresentativa (Duma). Le attese di un’evoluzione parlamentare del regime andarono comunque deluse. Eletta
nell’aprile 1906, a suffragio universale ma con un complicato sistema che privilegiava
i proprietari terrieri, la prima Duma rappresentò ugualmente un ostacolo sulla via
della restaurazione assolutista e fu sciolta dopo poche settimane. Uguale sorte subì
una seconda Duma eletta nel febbraio 1907 e rivelatasi ancor meno governabile della
prima, in quanto le elezioni avevano rafforzato le ali estreme (destra reazionaria
e socialisti rivoluzionari) ai danni del centro rappresentato dai costituzionali-democratici
(cadetti). A questo punto (estate 1907) il governo modificò la legge elettorale in
senso fortemente classista (il voto di un grande proprietario contava cinquecento
volte quello di un operaio) e poté finalmente disporre di un’assemblea più docile,
composta in gran parte da aristocratici. Con questo colpo di mano, gli strascichi
della rivoluzione del 1905 potevano considerarsi liquidati e la Russia tornava a essere
un regime sostanzialmente assolutista.
La riforma agraria
Artefice principale della restaurazione fu il conte Pëtr Stolypin, diventato primo
ministro nel 1906. Stolypin legò il suo nome alla spietata repressione di ogni opposizione
politica, ma al tempo stesso si pose il problema di riguadagnare al regime una base
di consenso: avviò pertanto una riforma agraria, in base alla quale i contadini ebbero
la facoltà di divenire proprietari della terra che coltivavano, e di godere di facilitazioni
creditizie per l’acquisto di altre terre sottratte al demanio statale o cedute dai
latifondisti. Lo scopo era quello di creare un ceto di piccola borghesia rurale che
fosse al tempo stesso fattore di modernizzazione economica e di stabilità politica,
ma il progetto riuscì solo in parte: dei nuovi piccoli proprietari creati dalla riforma
(circa sette milioni fra il 1906 e il 1914), una parte andò a ingrossare il numero
dei kulaki, i contadini ricchi o relativamente agiati; ma i più non trovarono nei loro piccoli
appezzamenti la possibilità di condizioni di vita accettabili.
Come abbiamo visto, nel 1905, mentre era ancora scossa dalla rivoluzione, la Russia
aveva subito una severa sconfitta militare ad opera del Giappone che, già alla fine
dell’800, si era affacciato prepotentemente sulla scena della competizione imperialistica
in Asia: aveva infatti mosso guerra all’Impero cinese (1894) e lo aveva sconfitto
dando una prima prova della sua efficienza bellica. Subito dopo il Giappone entrò
in diretta concorrenza con la Russia per il controllo delle regioni del Nord-Est asiatico.
Nel 1903, le due potenze non trovarono un accordo sulla spartizione della Manciuria.
Nel febbraio del 1904, senza alcuna dichiarazione di guerra, la flotta nipponica attaccò
quella russa nel Mar Giallo e strinse d’assedio la base di Port Arthur, all’estremità
meridionale della Manciuria. L’assedio durò quasi un anno. All’inizio del 1905, caduta
Port Arthur, le forze giapponesi penetrarono in Manciuria e, in marzo, sconfissero
l’esercito russo nella battaglia di Mukden. Anche la flotta russa, giunta in maggio
dal Mar Baltico, fu distrutta in una grande battaglia navale nello Stretto di Tsushima,
tra il Giappone e la Corea. Alla Russia non restò che accettare la mediazione offerta
dagli Stati Uniti e firmare, in settembre, il trattato di Portsmouth, in base al quale il Giappone otteneva la Manciuria meridionale
e una parte dell’isola di Sakhalin, situata di fronte alle coste della Siberia, e
si vedeva riconosciuto il protettorato sulla Corea (che già deteneva di fatto dal
1895).
La guerra col Giappone
La fine del mito della superiorità europea
Per l’Impero zarista la sfortunata guerra contro il Giappone significò un ridimensionamento
della propria posizione internazionale. Ma per l’Europa intera, la sconfitta della
Russia rappresentò un trauma di proporzioni difficilmente immaginabili. Per la prima
volta nell’età moderna un paese asiatico batteva in un’autentica guerra una grande
potenza europea, distruggendo in un sol colpo il mito della supremazia militare e
tecnologica europea e quello di una presunta superiorità della “razza bianca”. L’Estremo
Oriente cessava di essere campo d’azione incontrastato per le potenze europee e si
avviava a diventare terreno di competizione fra i due nuovi imperialismi in ascesa:
quello giapponese e quello statunitense.
8.7. La Cina dall’Impero alla Repubblica
La rivolta dei boxer
Dopo la vittoria del Giappone sulla Russia nel 1905, presero vigore le lotte nazionali
e anticoloniali dei popoli asiatici. Movimenti indipendentisti si svilupparono nell’Indocina
francese, nell’Indonesia olandese, nelle Filippine, da poco passate sotto il controllo
degli Stati Uniti, e nell’India britannica. Ma fu soprattutto la Cina a subire in
maniera determinante l’influsso del vicino Giappone, visto a un tempo come minaccia
all’indipendenza nazionale e come modello da imitare sul piano dello sviluppo economico
e dell’emancipazione politica. Da decenni ormai l’Impero cinese era oggetto della
pressione commerciale e militare delle potenze europee, che miravano a spartirne il
territorio in zone di influenza. La sconfitta nella guerra del 1894 col Giappone non
fece che accelerare la crisi e provocò, per reazione, la nascita di un movimento conservatore
e xenofobo che si proponeva di restaurare integralmente le antiche tradizioni imperiali. Questo movimento trovò il suo braccio armato in una società segreta e paramilitare,
i cui aderenti furono chiamati in Occidente boxer, ossia pugili (dal nome di una antica
società ginnica denominata “Pugni della giustizia e dell’armonia”). Nel 1900, in seguito
a una serie di violenze compiute dai boxercontro i simboli e gli stessi rappresentanti della presenza straniera, le grandi potenze,
compresi Stati Uniti e Giappone, si accordarono per un intervento militare congiunto
(cui prese parte anche l’Italia). In due settimane la rivolta fu sedata e Pechino
venne occupata dalle truppe alleate. Le potenze vincitrici, compresa l’Italia, ottennero
concessioni territoriali e autonomie amministrative a Tientsin (oggi Tianjin), la
città portuale di Pechino, in quartieri separati riservati agli europei e presidiati
da una costante presenza militare.
L’avvio delle riforme
La rivolta però non rimase senza effetto. Da un lato essa mostrò la persistenza di
un nazionalismo cinese che rendeva impraticabile una spartizione politica dell’Impero.
Dall’altro, la sconfitta del nazionalismo tradizionalista e il crescente discredito
della dinastia Qing Manciù prepararono il terreno allo sviluppo di un movimento democratico
e occidentalizzante, che avrebbe cercato di collegare, come era avvenuto in Giappone,
la lotta contro gli stranieri a quella per la modernizzazione del paese. Tra la fine
dell’800 e l’inizio del nuovo secolo, importanti riforme, come la libertà di espressione
e di stampa, oltre a un limitato diritto di voto, furono introdotte dalla imperatrice
vedova Cixi (o Tzu-hsi), che governò il paese fino al 1908.
Sun Yat-sen
In coincidenza con questo rinnovamento politico e civile, nel 1905 nacque il Tung meng hui (lega di alleanza giurata), una organizzazione segreta fondata da un medico di Canton,
Sun Yat-sen, che aveva soggiornato a lungo in Europa e in Giappone. Il programma era
basato sui tre princìpi del popolo, modellati sulla tradizione democratica occidentale: l’indipendenza
nazionale, la democrazia rappresentativa, il benessere del popolo. La lega di Sun
Yat-sen fece proseliti soprattutto fra gli intellettuali, gli ufficiali dell’esercito
e i nuclei di proletariato industriale. Al movimento andarono anche le simpatie di
una parte della ancora esigua borghesia imprenditoriale, quella meno legata agli interessi
commerciali delle potenze straniere.
La rivoluzione del 1911 e la fine dell’impero Qing
Nell’ottobre del 1911 la decisione del governo di affidare a imprese straniere il
controllo della rete ferroviaria cinese provocò una serie di sommosse nelle province
centro-meridionali e l’ammutinamento di alcuni reparti dell’esercito. Nel gennaio
del 1912 un’assemblea rivoluzionaria dichiarò decaduta la dinastia Qing ed elesse
Sun Yat-sen alla presidenza della Repubblica. In aprile il generale Yuan Shi-kai,
inviato dal governo di Pechino a domare la rivolta, si schierò dalla parte dei repubblicani
e ottenne in cambio di essere nominato presidente in luogo di Sun Yat-sen. Il più
antico impero del mondo – aveva alle spalle circa 3 mila anni di storia – crollava
così ingloriosamente. Ma la nuova Repubblica era destinata a una vita quanto mai travagliata.
La dittatura di Yuan Shi-kai
Il fragile compromesso raggiunto tra le forze democratiche organizzate nel nuovo Partito
nazionale – il Kuomintang – e i gruppi conservatori che facevano capo a Yuan Shi-kai, ostili a ogni riforma
che minacciasse i tradizionali equilibri sociali nelle campagne, si ruppe nel giro
di pochi mesi. Nel 1913 il nuovo presidente sciolse il Parlamento appena eletto, mise
fuori legge il Kuomintang, costrinse Sun Yat-sen all’esilio e instaurò una dittatura
personale appoggiata dalle potenze straniere, i cui privilegi rimasero naturalmente
intatti. Cominciava per la Cina una lunga stagione di guerre civili che si sarebbe
conclusa solo nel 1949 con la vittoria della rivoluzione comunista.
L’Asia nel 1914
8.8. L’imperialismo statunitense
Lo sviluppo economico
Mentre l’Asia orientale assisteva alla crescita inarrestabile della potenza nipponica,
favorita anche dal crollo dell’Impero cinese, sull’altra sponda del Pacifico si andava
progressivamente rafforzando il ruolo egemonico degli Stati Uniti: un ruolo fondato
essenzialmente su uno sviluppo economico che non aveva paragone, per ritmo e intensità,
in nessun altro paese del mondo. La crescita più imponente si verificò nell’industria,
dove dominavano le grandi concentrazioni industriali e finanziarie (corporations), come il gigantesco trust dell’acciaio, la United Steel Corporation, costituitosi nel 1901. Alla fine del XIX
secolo, gli Usa avevano raggiunto il primato mondiale nella produzione industriale,
superando Gran Bretagna e Germania. Progressi decisivi furono compiuti anche nel settore
dell’agricoltura e in quello dell’allevamento. Soprattutto nelle grandi praterie del Midwest, proseguì
quella rivoluzione agricola che sempre più faceva degli Stati Uniti il granaio del
mondo.
La presidenza Roosevelt
Dopo l’espansione nel Pacifico con la conquista delle Filippine e l’annessione delle
Hawaii, fino alla prima guerra mondiale l’imperialismo statunitense si rivolse soprattutto
verso l’America centrale. Qui la presenza degli Stati Uniti si fece sentire in forme
quanto mai pesanti, soprattutto negli anni della presidenza di Theodore Roosevelt.
Esponente dell’ala progressista del Partito repubblicano, salito al potere nel 1901,
Roosevelt mostrò grande decisione nella difesa degli interessi americani nel mondo,
alternando con disinvoltura la pressione economica alle minacce di interventi armati,
la “diplomazia del dollaro” alla politica del “grosso bastone” (big stick), secondo un’eloquente espressione da lui stesso coniata.
Il Canale di Panama
Un esempio significativo di questa politica fu la vicenda del Canale di Panama. Nel
1901 gli Stati Uniti avevano ottenuto dal governo della Colombia l’autorizzazione
a costruire e a gestire per un periodo di cento anni un canale che tagliasse l’istmo
di Panama (allora facente parte della Repubblica colombiana), aprendo un passaggio
fra il Pacifico e il Mar dei Caraibi. Quando, nel 1903, il senato colombiano rifiutò di ratificare l’accordo, gli Stati
Uniti organizzarono una sommossa a Panama e minacciarono un intervento armato. Panama,
come già Cuba, divenne una repubblica indipendente sotto la tutela americana. Il canale
fu realizzato nel giro di dieci anni e la sua apertura, nel 1914, consentì di mettere
in comunicazione i due settori – l’Oceano Pacifico e i mari del Centro America – su
cui si esercitava allora la spinta espansionistica degli Stati Uniti.
Le riforme sociali ed economiche di Roosevelt
Imperialista e aggressiva all’estero, la linea di Roosevelt si caratterizzò in politica
interna per un’apertura ai problemi sociali sconosciuta alle precedenti amministrazioni,
sia repubblicane sia democratiche. Si dovettero a Roosevelt i primi, limitati provvedimenti
del governo federale nel campo della legislazione sociale (limitazioni di orario,
tutela del lavoro minorile, assicurazioni contro gli infortuni) e le prime energiche
affermazioni del diritto di intervento dei pubblici poteri nel mondo dell’economia.
Pur senza mai mettere in discussione i princìpi-cardine del capitalismo americano
e senza modificare la politica protezionistica ereditata dai suoi predecessori, Roosevelt
cercò di limitare il potere dei grandi trusts, interpretando così le esigenze della piccola e media borghesia urbana, dei piccoli
produttori indipendenti e degli stessi sindacati operai.
L’elezione di Wilson
Ma, una volta che Roosevelt ebbe lasciato la presidenza, nel 1908, il Partito repubblicano si spaccò in un’ala progressista e una conservatrice. Nelle elezioni
del 1912, la divisione tra le file repubblicane favorì il successo del candidato democratico,
Woodrow Wilson. Professore di Scienze politiche, molto lontano da Roosevelt per formazione
e per temperamento, Wilson ne riprese l’impegno sociale inserendolo però in un quadro
ideologico e politico completamente diverso. Mentre Roosevelt aveva lasciato inalterato
il regime doganale protezionistico, Wilson impostò la lotta contro i grandi monopoli
sull’abbassamento delle tariffe protettive, che furono considerevolmente ridotte nel
1913. Anche nella politica estera Wilson portò uno stile nuovo, più prudente e rispettoso
delle norme della convivenza internazionale, anche se non meno attento alla tutela
degli interessi statunitensi nel mondo. Era infatti convinto che il ruolo degli Stati
Uniti dovesse fondarsi, più che sulla forza delle armi, sulla capacità espansiva dell’economia
e sulla fedeltà ai princìpi basilari della tradizione democratica. Paradossalmente fu proprio in base a questi princìpi che, nel 1917, Wilson avrebbe
condotto il suo paese a intervenire per la prima volta in un conflitto fra potenze
europee: la prima guerra mondiale.
8.9. L’America Latina e la rivoluzione messicana
La dipendenza economica dall’Occidente
Nel trentennio che precedette la prima guerra mondiale, i paesi dell’America Latina
conobbero uno sviluppo economico di notevoli proporzioni, basato principalmente sull’esportazione
di materie prime e di prodotti agricoli verso l’Europa industrializzata. Questo sviluppo
attirò un consistente flusso migratorio dall’Europa e favorì la crescita di grandi
centri urbani come Buenos Aires, Rio de Janeiro e Città del Messico. L’aumento delle
esportazioni, però, finì con l’accentuare il carattere di subalternità dell’economia
latino-americana, sempre più dipendente dagli investimenti e dai mercati esteri. Fu
infatti favorita la tendenza delle agricolture dei singoli paesi a concentrarsi sulle
monocolture, scelte in base alla richiesta del mercato internazionale: il caffè in
Brasile, il grano in Argentina, la canna da zucchero a Cuba. E, dal momento che l’industria
manifatturiera era assente quasi ovunque, mentre il settore estrattivo era in gran
parte controllato da compagnie straniere, l’oligarchia terriera riuscì a mantenere
una posizione dominante nella vita sociale e politica.
I sistemi politici
Dal punto di vista istituzionale, gli Stati latino-americani erano retti da regimi
parlamentari e repubblicani ispirati ai modelli del liberalismo ottocentesco: l’ultima
monarchia, quella brasiliana, fu rovesciata da un colpo di Stato nel 1889. La facciata
istituzionale liberal-parlamentare, però, copriva una realtà di corruzione e di esclusione
delle masse dalla vita politica che, in alcuni casi, degenerò in forme più o meno
evidenti di dittatura personale.
La vittoria dei progressisti in Argentina
Negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, importanti rivolgimenti
politici ebbero luogo in due fra gli Stati più vasti e popolosi: l’Argentina e il
Messico. Nel caso dell’Argentina si trattò di un rivolgimento pacifico, originato
dall’introduzione del suffragio universale, nel 1912, e dalla successiva ascesa al
potere dell’Unione radicale, espressione delle classi medie di orientamento progressista.
La rivoluzione messicana
In Messico, invece, la spinta alla democratizzazione politica e sociale sfociò in
una lotta rivoluzionaria fra le più lunghe e sanguinose della storia del ’900. La
rivolta scoppiò nel 1910 contro il regime semidittatoriale del presidente Porfirio
Díaz, un generale che governava dal 1876 appoggiandosi soprattutto sull’oligarchia
terriera. Promotori dell’insurrezione furono i gruppi liberal-progressisti guidati
da Francisco Madero, subito affiancati però da un vasto moto contadino, organizzato da
improvvisati e popolarissimi capi rivoluzionari come Emiliano Zapata e Pancho Villa.
Nell’autunno del 1911, Díaz fu costretto ad abbandonare il paese mentre Madero venne
eletto presidente. A questo punto però cominciò a manifestarsi in modo drammatico
il contrasto fra le due componenti del fronte rivoluzionario: quella borghese e moderata,
che mirava soprattutto a una liberalizzazione delle istituzioni politiche, e quella
contadina, che aveva come obiettivo fondamentale una radicale riforma agraria. Un
tema fortemente sentito, e altrettanto fortemente temuto, in un paese in cui la proprietà
della terra era concentrata nelle mani di un migliaio di latifondisti, mentre circa
tre quarti della popolazione erano costituiti da braccianti senza terra (peones), quasi tutti analfabeti e poverissimi.
Nel 1913 il presidente Madero fu ucciso durante un colpo di Stato militare che portò
al potere il generale Victoriano Huerta e aprì la strada a un regime di spietata reazione.
La guerra civile riprese da allora con rinnovata violenza e si protrasse, in un susseguirsi
di rivolte e colpi di Stato, fino all’inizio degli anni ’20, per concludersi infine
con l’assunzione della presidenza da parte del progressista Álvaro Obregón (1921)
e con il varo di una Costituzione democratica e laica aperta alle istanze di riforma
sociale, la cui attuazione si sarebbe però rivelata lenta e difficile.
Sommario
Negli anni che precedettero lo scoppio della prima guerra mondiale, nel 1914, l’Europa
visse una fase di forti contraddizioni: furono anni di sviluppo economico e crescita
del commercio mondiale, ma anche di tensioni internazionali e conflittualità sociale.
Questa compresenza di aspetti contraddittori è all’origine di due rappresentazioni
contrapposte della realtà europea di questi anni: da un lato quella di un’età di progresso
e di spensieratezza, di pace e di benessere, la belle époque; dall’altro quella di una stagione dominata dall’imperialismo e dalla più spietata
logica di potenza, inevitabili premesse della Grande Guerra.
In seguito alla crisi del sistema bismarckiano le alleanze in Europa cambiarono. Con
l’alleanza tra Francia e Russia, l’Intesa cordiale franco-inglese e l’accordo anglo-russo sulle questioni asiatiche,
si venne a costituire in Europa uno schieramento – poi detto Triplice intesa – che
comprendeva Francia, Russia e Gran Bretagna e si contrapponeva alla Triplice alleanza,
che univa invece Germania, Impero austro-ungarico e Italia. Il primo quindicennio
del ’900 vide inoltre manifestarsi i primi segni di declino dell’Europa di fronte
all’emergere di popoli extraeuropei. Preoccupava in particolare la crescita dei paesi
asiatici (Cina e Giappone), che fece parlare di un “pericolo giallo”.
Il decennio precedente la prima guerra mondiale (1914-18) registrò un’accentuazione
dei contrasti internazionali. Dalle due crisi marocchine (1905 e 1911) la Germania
uscì sconfitta, mentre la Francia ottenne un protettorato sul Marocco. L’annessione
della Bosnia-Erzegovina (1908) da parte dell’Austria, e poi la guerra italo-turca
(1911-12) e le due guerre balcaniche (1912-13) segnarono un profondo rivolgimento
degli equilibri nell’Europa sud-orientale. L’Impero ottomano – dove nel 1908 era scoppiata
la rivoluzione dei “Giovani turchi” – veniva così definitivamente estromesso dall’Europa, mentre si faceva sempre più acuto il contrasto tra Austria e Serbia,
quest’ultima protetta dalla Russia che aspirava all’egemonia nei Balcani.
In Francia restavano forti le correnti contrarie alle istituzioni repubblicane. Tra
la fine dell’800 e l’inizio del ’900, queste correnti si coagularono intorno al caso
del capitano Dreyfus – un ufficiale ebreo ingiustamente condannato per spionaggio
– che divenne simbolo della spaccatura dell’opinione pubblica. Le forze progressiste,
la cui mobilitazione contribuì alla liberazione di Dreyfus, ebbero una vittoria anche
sul piano elettorale, che diede inizio a un periodo di governi a direzione radicale.
In Gran Bretagna, invece, a cavallo fra i due secoli, la vita politica fu dominata
dai conservatori, che cercarono di unire all’espansione imperialistica una politica
di riforme sociali. Il successo dei liberali (1906) segnò un mutamento in senso progressista,
che trovò il suo momento più importante nella battaglia per una più equa distribuzione
del carico fiscale e per la riduzione dei poteri della Camera dei Lord.
In Germania, dopo l’uscita di Bismarck dalla scena politica, il “nuovo corso” di Guglielmo II
non segnò un effettivo mutamento di indirizzi: anzi, la più aggressiva politica estera
della Germania guglielmina – perseguita grazie a un accelerato riarmo navale – rafforzava
la tradizionale alleanza tra grande industria, aristocrazia terriera e vertici militari,
e finiva con l’ottenere l’appoggio di tutte le forze politiche. Da questa forte base
di consenso venivano però esclusi i socialdemocratici, che nonostante ciò riuscirono
ad allargare il proprio elettorato. Nell’Impero asburgico, invece, lo sviluppo economico
rimaneva limitato ad alcune aree, mentre il sistema politico e la struttura sociale
delle campagne erano caratterizzati da un sostanziale immobilismo. Il problema più
grave era rappresentato però dalle agitazioni autonomistiche e indipendentiste delle
varie nazionalità, anzitutto degli slavi. Queste tensioni interne all’Impero sarebbero
state all’origine della prima guerra mondiale.
Grazie all’intervento diretto dello Stato e all’afflusso di capitali stranieri si
ebbe, nella Russia degli anni ’90, un primo decollo industriale. La società russa
rimaneva però fortemente arretrata. Queste contraddizioni si rivelarono nella rivoluzione
del 1905, che vide nascere nuovi organismi rivoluzionari, i soviet. Ristabilito l’ordine e vanificato l’esperimento parlamentare della Duma, nel 1906
fu varata dal primo ministro Stolypin una riforma agraria che mirava a creare una
piccola borghesia rurale, ma non riuscì a risolvere gli enormi problemi delle campagne.
Nel 1905, mentre era in corso la rivoluzione, il Giappone aveva attaccato e sconfitto
la Russia, provocandone il ridimensionamento nel contesto internazionale. Per la prima
volta nell’età moderna un paese asiatico era riuscito a battere in un’autentica guerra
una grande potenza europea.
Dopo la vittoria del Giappone sulla Russia nel 1905, presero vigore le lotte nazionali
e anticoloniali dei popoli asiatici. In Cina nacque un movimento conservatore e xenofobo
i cui aderenti furono chiamati in Occidente boxer, ossia pugili. Nel 1900, le grandi
potenze, compresi Stati Uniti e Giappone, si accordarono per un intervento militare
congiunto che represse ogni tentativo di ribellione. All’inizio del ’900, tuttavia,
si diffuse un movimento nazionalista e democratico, guidato da Sun Yat-sen, che mirava
all’indipendenza nazionale e alla istituzione nel paese di una democrazia rappresentativa.
La decisione di affidare a imprese straniere il controllo della rete ferroviaria scatenò
una rivoluzione che rovesciò la dinastia Qing. La presidenza della neonata Repubblica
fu assunta da Sun Yat-sen, ma le forze conservatrici presero presto il sopravvento,
inaugurando così una lunga stagione di guerre civili.
Durante la presidenza di Theodore Roosevelt (1901-8), la politica estera americana
fu aggressiva e di stampo imperialista. Il risultato più importante fu la realizzazione
e il controllo, in Centro America, del Canale di Panama, che collegava l’Atlantico
al Pacifico. Sul piano interno, Roosevelt mostrò particolare sensibilità e apertura
verso i problemi sociali. Le divisioni nel Partito repubblicano, però, favorirono
nel 1912 l’elezione del democratico Wilson, che riprese l’impegno sociale di Roosevelt,
pur inserendolo in un quadro politico e ideologico assai diverso. Fu tuttavia questo
presidente, poco propenso a una politica estera fondata sulla forza delle armi, a
guidare gli Stati Uniti nel 1917 nella prima guerra mondiale.
Nei trent’anni precedenti la prima guerra mondiale i paesi latino-americani registrarono
un notevole sviluppo economico. Tuttavia non si attenuò la loro dipendenza dagli Stati
industrializzati dell’Occidente, che importavano materie prime ed esportavano prodotti
finiti, ostacolando lo sviluppo di un vero e proprio settore industriale. Le campagne erano dominate dal latifondo, mentre
una ristretta oligarchia terriera c...