Filo conduttore di questo libro è la difficile storia della politica italiana, dagli esordi dello Stato unitario fino alla crisi della repubblica dei partiti: l’originaria debolezza delle istituzioni, cui si cerca di porre rimedio con un sistema politico tutto ruotante attorno al centro; la difficile convivenza di culture e sub-culture politiche diverse, ciascuna con le sue pratiche e con i suoi miti fondanti, a volte in conflitto tra loro e con le istituzioni stesse; il ruolo dei partiti, protagonisti spesso contestati della stagione repubblicana; il rapporto sempre problematico fra Stato e società civile, fra governanti e governati.
Giovanni Sabbatucci ha insegnato Storia contemporanea nelle Università di Macerata e di Roma La Sapienza. Per Laterza ha curato , con Vittorio Vidotto, una Storia d'Italia in 6 volumi (1994-1999) ed è autore, tra l'altro, di Il riformismo impossibile (1991), Il trasformismo come sistema (2003) e Partiti e culture politiche nell'Italia unita (2014).
I saggi raccolti in questo volume sono stati scritti in occasioni diverse e in un
arco di tempo decisamente lungo: circa trentacinque anni. Sono divisi in sei sezioni
tematiche, ma tutti sono riconducibili a un unico tema di fondo, quello che prevalentemente
ha occupato i miei interessi di studioso: la storia politica d’Italia dall’Unità a
oggi, esaminata nelle sue costanti e nei suoi mutamenti, nei suoi aspetti sistemici
e nei percorsi personali dei suoi protagonisti, nelle sue strutture organizzative,
nelle sue idee ispiratrici e nei suoi miti fondanti. I partiti e le culture politiche,
appunto, cui si fa cenno nel titolo. I testi sono qui riproposti nella loro versione
originale, con pochissime modifiche e qualche minimo, indispensabile aggiornamento.
La partizione del volume dovrebbe servire non solo a ordinare una materia abbastanza
ampia e variegata, ma anche a far meglio emergere spunti critici e linee interpretative
che attraversano i diversi saggi e ne costituiscono un po’ il tessuto connettivo.
Il tema della sezione di apertura (L’Italia liberale) è quello della prima classe dirigente nazionale, dei suoi equilibri interni e soprattutto
dei suoi difficili rapporti col paese politicamente appena unificato. Una classe dirigente
stretta sin dall’inizio nella contraddizione insanabile fra l’ispirazione liberale
del suo progetto di governo e l’esigenza di applicarlo a una realtà poco preparata
ad accoglierlo, fra la necessità di aprirsi alle articolazioni della società civile
e l’imperativo di identificarsi con le istituzioni e di far blocco unico contro le
minacce, vere e presunte, degli esclusi dalla legittimazione costituzionale. Un arroccamento
che, se da un lato finisce con l’irrigidire, e in parte con lo sfigurare, il progetto
liberale, dall’altro non risparmia ai politici l’accusa reiterata (soprattutto dal
versante degli intellettuali) di aver tradito gli ideali e gli slanci eroici della
stagione risorgimentale.
I saggi della seconda parte (Socialismo, socialisti) affrontano, in un’ottica di lungo periodo, l’altra faccia di questa realtà: quella
degli esclusi, o autoesclusi, rappresentata principalmente dal movimento socialista.
Anche qui il tema chiave è il rapporto con lo Stato e le sue istituzioni. Il socialismo
italiano nasce profondamente intriso di umori rivoluzionari e di pulsioni anti-istituzionali.
Conosce successivamente – anche in conseguenza del grande sviluppo delle organizzazioni
di classe favorito dalla svolta giolittiana – un processo di evoluzione verso logiche
e pratiche tendenzialmente riformiste. Quindi, a partire dal 1912, vede di nuovo prevalere
al suo interno le correnti rivoluzionarie: quelle che, ulteriormente radicalizzate
dalle fratture della guerra, subiranno poi il fascino del modello sovietico (o meglio
del mito della rivoluzione vittoriosa). Lo scostamento vistoso del Partito socialista
– o quanto meno delle sue componenti maggioritarie – dal solco delle socialdemocrazie
europee avrà effetti permanenti non solo sul movimento operaio, ma sull’intera vicenda
politica italiana: nel primo dopoguerra il Psi contesterà in blocco il sistema liberale
e rappresentativo, contribuendo in modo decisivo alla sua caduta; all’indomani del
secondo conflitto mondiale sceglierà l’opzione frontista nel pieno della guerra fredda,
tagliandosi fuori di fatto dall’area della legittimità “occidentale”. Il tardivo approdo
al governo non cancellerà l’anomalia socialista: anzi la ribadirà, seppur con segno
rovesciato, privando il sistema repubblicano di una fisiologica dialettica fra maggioranza
e opposizione.
Nella terza parte (La Grande Guerra e i suoi miti) si parla della partecipazione italiana al primo conflitto mondiale, soprattutto
in quanto svolta culturale e generazionale e in quanto evento mitopoietico, capace
cioè di generare e alimentare costruzioni mitiche dal forte impatto politico: la guerra
come prosecuzione e coronamento dell’epopea risorgimentale; la guerra come crogiolo
e come vera nascita di una nazione sin allora mai realmente vissuta nella coscienza
popolare; l’esperienza bellica come premessa di una grande riforma intellettuale e
morale; la comunità delle trincee come embrione di una società rinnovata e purificata.
Al di là dei miti, che come tali vanno studiati e scomposti, resta però il fatto che
quella della Grande Guerra fu anche un’occasione mancata: a partire dalle battaglie
difensive combattute nell’ultimo anno sul Piave e dall’indiscutibile successo di un’Italia
ammessa per la prima (e ultima) volta al tavolo dei quattro grandi del mondo, era
forse possibile costruire e proporre una lettura unificante dell’esperienza vissuta.
Ciò non avvenne, sia per gli errori della classe dirigente (nella preparazione dell’intervento,
nella conduzione della guerra e nella gestione della pace) sia per l’impostazione
tutta ideologica e vendicativa dei socialisti massimalisti. E la guerra diventò subito
un evento profondamente divisivo, oggetto di un lungo conflitto fra memorie contrapposte.
Alla crisi del primo dopoguerra è dedicata la quarta parte (La crisi della democrazia liberale), introdotta da un saggio – l’unico di argomento non italiano – che propone un sintetico
quadro esplicativo sul collasso della democrazia liberale nell’Europa fra le due guerre.
Di questo collasso, e dei suoi esiti autoritari, l’Italia fu, com’è noto, la prima
a fare completa esperienza. Anche per questo il tema è sempre stato oggetto di studi
e riflessioni. Qui viene affrontato in un’ottica essenzialmente politico-istituzionale.
Penso, in altri termini, che la crisi del sistema liberale sia stata determinata,
più che dai grandi sconvolgimenti economici e sociali del dopoguerra, dal cattivo
funzionamento del sistema stesso (privato d’improvviso della maggioranza parlamentare
su cui si reggeva), oltre che dalle scelte, tutt’altro che scontate in partenza, dei
maggiori protagonisti. Da un lato, quindi, occorre guardare ai meccanismi istituzionali,
in primo luogo alle leggi elettorali (la riforma di impianto proporzionale del ’19
e la legge Acerbo del ’23), mai come in questo caso decisive nel rovesciare i vecchi
equilibri politici e nel crearne di nuovi. Dall’altro è necessario capire – cerco
di farlo nel saggio che chiude la sezione – quali calcoli, quali fraintendimenti,
e anche quali scelte di valori e quali orientamenti culturali, portarono gli uomini
della vecchia classe dirigente a consegnarsi inermi ai nuovi dominatori. Il che ci
induce ancora una volta a interrogarci sulla qualità del loro liberalismo.
Con la quinta parte ci spostiamo sulla storia dell’Italia repubblicana, più esattamente
del suo sistema politico. La repubblica dei partiti, come ormai è usuale definirla sulla scorta di un notissimo titolo di Pietro Scoppola,
si reggeva su un dispositivo politico-istituzionale molto diverso da quello del prefascismo,
fondato com’era sul primato dei nuovi protagonisti – i partiti, appunto, canali privilegiati
per la raccolta e l’organizzazione del consenso – anziché sulle leadership personali
e sulle maggioranze mobili di età liberale. In un punto, però, i due sistemi si somigliavano:
nel meccanismo di blocco che, escludendo dall’area di governo le forze considerate
antisistema (compreso il maggior partito di opposizione), inibiva di fatto ogni possibilità
di alternanza. Un sistema siffatto – in cui le maggioranze si modificavano solo per
cooptazione e per esclusione – era fatalmente destinato a logorarsi, come apparve
evidente fin dagli anni Settanta. Eppure la sua crisi finale, determinata da una combinazione
di fattori endogeni e di cause esterne, si consumò secondo dinamiche inedite e impreviste,
dando luogo a un nuovo sistema centrato sulla personalizzazione della leadership e
sulla configurazione bipolare delle forze in campo, ma anch’esso incapace di assicurare
il buon funzionamento di una democrazia dell’alternanza.
L’ultima parte (Sull’Italia unita) comprende tre brevi saggi che abbracciano l’intero arco della storia unitaria, riprendendo
e sviluppando alcuni temi già presenti nelle altre parti. Il primo si occupa del legame,
variabile nel tempo ma sempre molto stretto, fra classe dirigente e istituzioni statali.
Il secondo analizza il rapporto fra governanti e governati, sempre caratterizzato
dalla diffidenza reciproca. Il terzo infine contiene una rapida rassegna – e un tentativo
di tipizzazione – delle crisi che hanno segnato con implacabile regolarità la storia
politica italiana: colpa del blocco prolungato dei normali meccanismi di ricambio,
ma anche, più in generale, di una scarsa agibilità dei canali di comunicazione che,
in senso ascendente e discendente, dovrebbero dar corpo al modello ideale di una democrazia
rappresentativa.
Mi accorgo che, nel tentativo di dar conto sinteticamente dei contenuti di questo
libro, ho finito con l’elencare una lunga serie di tare e di malfunzionamenti, di
fallimenti e di errori politici. Di tutto questo effettivamente si parla, come è normale
in sede di analisi critica. Ma non vorrei suggerire al lettore una visione catastrofica
di un secolo e mezzo di vita politica. L’Italia liberale, con tutti i suoi limiti
e le sue chiusure, ha collocato per sessant’anni il paese nell’area non troppo affollata
dei regimi rappresentativi e ha perseguito con qualche successo un progetto di sviluppo
e di modernizzazione che nemmeno l’esito disastroso dell’avventura imperiale fascista
ha del tutto compromesso. La Repubblica dei partiti ha rappresentato per l’Italia
l’esperienza della democrazia di massa, ha considerevolmente, anche se disordinatamente,
allargato l’area dei diritti sociali e ha accompagnato la più straordinaria stagione
di sviluppo mai vissuta dal paese. Sono risultati che non possono essere sottovalutati,
quali che siano stati gli errori successivi. E le classi dirigenti dell’Italia liberale
e di quella repubblicana li hanno conseguiti rispettando nella sostanza le libertà
fondamentali: usando cioè le risorse della politica, le uniche di cui i regimi liberaldemocratici
dispongano per cambiare la società senza sottoporla a forzature autoritarie o a esperimenti
concepiti in laboratorio.
L’idea di questo libro non è mia. È di alcuni amici, ex colleghi ed ex allievi: in
particolare di Tommaso Baris e Alessio Gagliardi, che mi hanno aiutato nella scelta
dei testi. E si è potuta realizzare grazie alla generosa disponibilità di un altro
amico, l’editore Giuseppe Laterza. A tutti loro va la mia riconoscenza. Il ringraziamento
andrebbe esteso a coloro che, in qualità di committenti o di interlocutori, mi hanno
fornito l’occasione per interventi e riflessioni che altrimenti forse non avrebbero
mai visto la luce. Ma l’elenco, in questo caso, sarebbe troppo lungo.
G.S.
Trasformismo e antipolitica nell’Italia liberale
In coincidenza con l’avvento del trasformismo (1882-1883) e, almeno in parte, a causa
di esso, si inaugura e si afferma in Italia un filone di pensiero che contesta in
radice alcuni aspetti della politica in età liberale, che usa argomenti prevalentemente
moralistici per criticare i partiti (o quelli che allora vengono definiti come tali)
e per mettere in discussione le modalità di selezione e le stesse funzioni della rappresentanza
parlamentare: un filone che, più tardi (molto più tardi), contribuirà, nella sua pars destruens, a fornire argomenti e legittimità culturale alle posizioni qualunquiste intese in
senso lato.
Per la verità, la critica in chiave moralistica alla rappresentanza parlamentare e
in generale alla classe dirigente dell’Italia unita era cominciata ben prima del trasformismo
e veniva principalmente, se non esclusivamente, da sinistra (altro discorso, e diversamente
motivato, è quello di impronta clerical-legittimista): penso in primo luogo al Carducci
di Giambi ed epodi (1867-1879), dove è contenuto un vastissimo campionario di invettive spesso pesanti
(e a volte volgari) contro il ceto politico, accusato in blocco di piccineria, di
inadeguatezza, di corruzione morale e dunque di oggettivo tradimento degli ideali
risorgimentali. Accenti simili li troviamo nella coeva Scapigliatura democratica e,
in genere, negli ambienti del reducismo garibaldino o del mazzinianesimo intransigente1.
1 Cfr. a questo proposito G. Belardelli, Una nazione «senza anima»: la critica democratica del Risorgimento, in E. Galli della Loggia, L. Di Nucci (a cura di), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell’Italia contemporanea, il Mulino, Bologna 2003, pp. 41-62.
Fin qui siamo nell’ambito di quella grande delusione collettiva che coinvolge buona
parte della sinistra democratica europea negli anni in cui le istituzioni rappresentative
si radicano sul continente: delusione motivata in parte dalla mancata attuazione dei
postulati democratici, in parte (forse maggiore) proprio dagli esiti deludenti della
loro applicazione (è il caso soprattutto della Francia degli esordi della Terza Repubblica).
Quello che accade in Italia dopo l’avvento della sinistra al potere e poi negli anni
Ottanta dell’Ottocento con l’inizio della stagione del trasformismo è però qualcosa
di diverso. A esprimere delusione e sconcerto sono ora anche e soprattutto i conservatori
e i moderati, coloro che sin allora si erano maggiormente identificati con le istituzioni
monarchico-parlamentari, insomma col sistema fondato sullo Statuto albertino e sulla
prassi cavouriana: e la loro critica giunge a investire i fondamenti stessi del sistema.
Agli occhi di molti moderati, in realtà, il trasformismo aveva rappresentato all’inizio
una speranza di miglioramento anche qualitativo, l’occasione per la formazione di
una rappresentanza «nazionale» svincolata dalle sollecitazioni partigiane. Minghetti,
già nel suo famoso scritto dell’81 su I partiti politici, vedeva in una nuova configurazione degli schieramenti parlamentari («non più in
due partiti soli, ma in un maggior numero, quasi gradazioni e sfumature per le quali
si passa dall’uno all’altro») l’occasione per svelenire i contrasti troppo accesi
e per trovare fra i due campi principali «un terreno neutrale dove [...] incontrarsi
senza venir meno alla dignità del carattere»2. Nicola Marselli, altro deciso sostenitore della svolta depretisiana, in uno scritto
del 1881 auspicava la formazione di «un grande partito nazionale con i ruderi non
ancora logori dei grandi partiti» come condizione per la nascita di un governo forte,
capace di tutelare al meglio gli interessi nazionali in Italia e fuori3. In uno scritto di una decina di anni dopo (citato di recente da Pier Luigi Ballini),
Pasquale Turiello ricordava che «il ‘trasformismo’ parve a qualcuno un curativo del
parlamentarismo», salvo poi aggiungere che altro non era «che un aggravarsi di quello»4. (Va da sé che il termine «parlamentarismo» è qui usato nell’accezione negativa tipica
della polemica conservatrice di fine Ottocento, per indicare la rottura di un «sano»
equilibrio fra i poteri a esclusivo vantaggio della Camera elettiva5.)
2 M. Minghetti, I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione (1881), in Id., Scritti politici, a cura di R. Gherardi, Presidenza del Consiglio dei ministri, Roma 1986, p. 640.
3 N. Marselli, Ciò che più urge all’Italia, in «Nuova Antologia», novembre 1881, p. 271, cit. in P.L. Ballini, La questione elettorale nella storia d’Italia. Da Depretis a Giolitti (1876-1892), Camera dei deputati, Archivio storico, Roma 2003, p. 207.
4 P. Turiello, Politica contemporanea. Saggi, Pierro, Napoli 1893, p. 19, cit. in Ballini, La questione elettorale cit., p. 192.
5 Su questo punto esiste un’ampia letteratura che risale alla fine degli anni Trenta:
si vedano in particolare il saggio di R. De Mattei del 1937, Cultura e letteratura antidemocratiche dopo l’unificazione, in Id., Dal trasformismo al socialismo, Sansoni, Firenze 1940, pp. 97-121, e quello di M. Delle Piane del 1938, Tendenze antiparlamentari in Italia ed accenni a una risoluzione al di fuori del sistema
dopo il 1880, in Id., Liberalismo e parlamentarismo. Saggi storici, Macri, Bari 1946. Ma vedi anche E. Cuomo, Il sistema parlamentare e i suoi critici, Arte tipografica, Napoli 1974.
È noto del resto che l’idea di una «trasformazione» dei partiti si era all’inizio
colorata di connotazioni positive: per Depretis, trasformazione era sinonimo di evoluzione
e di progresso6. Lo stesso termine «trasformismo» (con l’aggiunta dell’aggettivo «parlamentare»)
era stato usato per la prima volta, una decina di anni prima, dal moderato Carlo Alfieri
di Sostegno, in senso tutt’altro che spregiativo, in una lettera aperta a Francesco
De Sanctis, in cui si inneggiava al superamento delle «scuole dottrinali» e si esaltavano
i vantaggi di quella che oggi chiameremmo «trasversalità»7. A dare il segnale di inversione di tendenza fu ancora una volta Carducci che, in
uno scritto giornalistico del gennaio 1883, scagliava contro la teoria e la pratica
del trasformismo un anatema senza appello:
6 Si vedano su questo punto le osservazioni di G. Bollati, L’italiano, Einaudi, Torino 1983, p. xi; e cfr. G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema. Saggio sulla storia politica dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 25.
7 Ivi, p. 21. La lettera di Alfieri di Sostegno era stata pubblicata in opuscolo nel
1874 col titolo Il trasformismo nella politica. Lettera aperta del senatore Carlo Alfieri all’onorevole
deputato Francesco De Sanctis.
Trasformismo, brutta parola a cosa più brutta. Trasformarsi da sinistri a destri senza
però diventare destri e non però rimanendo sinistri. Come nel cerchio dantesco de’
ladri, non essere più uomini e non essere ancora serpenti; ma rettili sì e rettili
mostruosi nei quali le due immagini si perdono, e che invece di parlare ragionando
sputano mal digerendo8.
8 Lo scritto in questione, apparso col titolo Libertas sul «Don Chisciotte» di Bologna il 4 gennaio 1883, si trova, col titolo Candidature, nella Edizione nazionale delle opere di Giosue Carducci, vol. XXV, Confessioni e battaglie, serie seconda, Zanichelli, Bologna 1938, pp. 179-185 (la citazione a p. 184).
È qui che nasce la lettura del trasformismo come pratica in sé corruttiva, in quanto
fondata sull’assenza di princìpi e sul compromesso deteriore. Su questa lettura si
fonderà e si affermerà un’immagine negativa, destinata a resistere anche a tentativi
di rivalutazione più che autorevoli, come quello di Croce9: un’immagine che subito si impone ben al di là dell’ambito originario della sinistra
radicale o di quella vicina alla «pentarchia» e diventa componente non secondaria
di un nuovo antiparlamentarismo tutto giocato in chiave di crudo realismo politico,
non privo di venature autoritarie e molto lontano dalle retoriche giacobine del primo
Carducci. Il trasformismo non è più un possibile correttivo ai presunti effetti nefasti
del parlamentarismo: ne costituisce al contrario, come nel giudizio di Turiello citato
poco sopra, una esaltazione e una esasperazione, in quanto fa della Camera elettiva
il luogo di una continua e poco onorevole negoziazione fra interessi particolari,
non bilanciata da istituzioni capaci invece di incarnare l’interesse nazionale. Polemica
antitrasformista e antiparlamentarismo di marca conservatrice si intrecciano e si
sposano generando un fuoco polemico di inaudita intensità e di efficacia direttamente
proporzionale all’autorevolezza delle voci da cui proviene: non solo un personaggio
alquanto isolato e per molti aspetti anomalo come Turiello, non solo un erede della
vecchia destra come Ruggiero Bonghi, ma gli esponenti più giovani e più brillanti
di una nuova intellettualità accademica, come Gaetano Mosca e Vittorio Emanuele Orlando,
e poi costituzionalisti, giornalisti e polemisti vari, politici in servizio attivo,
oltre, naturalmente, agli scrittori.
9 Nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1928, pp. 13-26.
Destinata a prolungarsi fino alla crisi di fine secolo e oltre (e a lasciare tracce
di qualche rilievo nel pensiero politico e giuridico), l’ondata antiparlamentare nasce
e si ingrossa nel periodo fra l’82 e l’86, non a caso gli anni dell’apogeo del trasformismo
depretisiano. Nel 1882 esce Governo e governati in Italia di Turiello, nell’86 gli Studi giuridici sul governo parlamentare di Orlando. In mezzo, assieme a molto altro, c’è Teorica dei governi e governo parlamentare di Mosca (1884).
Per le citazioni, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Se per Turiello il paese era
in mano a «un’oligarchia di qualche centinaio di deputati più efficaci, intesi a conservarsi
la benevolenza di altrettante oligarchie locali ed a questo patto condizionare il
loro voto»10, per Mosca il quadro era ancora più fosco: «Il favoritismo e l’arbitrio insinuati
in tutti i ministeri, la camorra [...] che di giorno in giorno va sempre più diventando
la vera padrona del paese»11. Ancora Mosca identificava il sistema parlamentare con quello in cui «la vigliaccheria
morale, la mancanza di ogni sentimento di giustizia e l’intrigo [...] trovano il loro
miglior gioco»12. Lo stesso Orlando, che pure dava del sistema un giudizio meno drastico e si mostrava
consapevole dei rischi di uno sbilanciamento in senso opposto, ossia in favore dell’esecutivo,
inclinava al catastrofismo: «Non c’è forse organo della nostra vita pubblica che non
si risenta di stanchezza o di corruzione»13. Non stupisce che, ancora nel 1900, Giustino Fortunato, in un discorso ai suoi elettori
di Melfi, lamentasse con toni accorati l’impopolarità di cui era oggetto il ceto parlamentare
nel suo complesso: «Un grido solo io raccolgo ovunque vada: ‘Abbasso i deputati!’.
E questo grido si stende ogni giorno più, acquistando forza e valore, assumendo autorità
e consacrazione politica»14.
10 P. Turiello, Governo e governati in Italia, Zanichelli, Bologna 1882, vol. I, p. 27.
11 G. Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare, Loescher, Torino 1884, p. 156.
13 V.E. Orlando, La decadenza del sistema parlamentare, in «Rassegna di scienze sociali e politiche», 15 agosto 1884, pp. 589-600, cit.
in Ballini, La questione elettorale cit., p. 222.
14Discorso di G. Fortunato pronunciato a Melfi il 31 maggio 1900, cit. in F. Cammarano, Crisi politica e politica della crisi: Italia e Gran Bretagna 1880-1925, in P. Pombeni (a cura di), Crisi, legittimazione, consenso, il Mulino, Bologna 2003, pp. 81-131 (la citazione a p. 94).
Ad amplificare e a esaltare questa immagine catastrofica provvedevano ancora una volta,
come si è detto, i letterati; ma ora, così come avveniva per i politici, a scandalizzarsi
erano soprattutto quelli di orientamento conservatore. Gli esempi anche in questo
caso sono numerosi. Mi limito a rinviare alle pagine di Asor Rosa nel volume su La cultura della Storia d’Italia Einaudi15 e a ricordare almeno il De Roberto de I viceré (1894) – in particolare l’ironica descrizione della campagna elettorale dell’82–
e il più tardo Pirandello de I vecchi e i giovani (1913), dove è rappresentata in toni drammatici la crisi morale dell’intera classe
dirigente post-risorgimentale.
15 A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, a cura di R. Romano e C. Vivanti, vol. IV, t. 2, Einaudi, Torino 1975.
Pirandello ambientava il suo romanzo in una capitale su cui «diluviava il fango»,
e rappresentava una società appena investita dal ciclone dello scandalo della Banca
Romana. Ma la grande corrente di critica antiparlamentarista si era messa in moto,
come si è visto, nel decennio precedente, in coincidenza, appunto, con la svolta trasformista
di Depretis e in assenza di clamorosi scandali politico-finanziari. Sotto accusa non
erano tanto i comportamenti specifici, quanto l’irredimibile mediocrità del ceto politico,
segno evidente di una strutturale inadeguatezza dei meccanismi atti a selezionarla.
Non tutti arrivavano alle conclusioni estreme di Mosca, che metteva sotto accusa il
meccanismo stesso delle elezioni, tanto più se a suffragio allargato, in quanto in
sé ingannevole e fomite di comportamenti demagogici; ma molti certamente condividevano
il suo giudizio sprezzante sulla «decisiva e schiacciante mediocrità»16 della gran parte dei parlamentari e sulla loro incoercibile tendenza a far prevalere
gli «interessi privati» su quello pubblico.
Sappiamo che questa ondata di critiche e di deprecazioni ebbe nel breve periodo ricadute
di qualche rilievo in diverse direzioni: il tentativo crispino di ridare forza e autorevolezza
all’esecutivo a scapito del Parlamento17; i mai realizzati progetti rudiniani di riforma istituzionale (dal «decentramento
conservatore» al voto plurimo)18; la celeberrima proposta sonniniana di restaurazione della prerogativa regia19, peraltro mal accolta dal suo principale destinatario, ovvero il re. Ma nessuno di
questi progetti superò il tornante della crisi di fine secolo. E, passato il tempo
dei «conati autoritari», nessuno ebbe qualche effettiva incidenza sull’assetto statutario,
né sulla costituzione materiale, né sulle regole di fondo del sistema politico italiano
(altro naturalmente è il discorso sulle eredità culturali, che non furono irrilevanti,
soprattutto nei campi della scienza politica e della giuspubblicistica).
17 Il lavoro più completo sul progetto istituzionale crispino è quello di D. Adorni,
Francesco Crispi: un progetto di governo, Olschki, Firenze 1999.
18 Su questo, vedi A. Rossi Doria, Per una storia del «decentramento conservatore»: Antonio di Rudinì e le riforme, in «Quaderni storici», n. 18, 1971, pp. 835-884 e, con un diverso punto di vista,
M. Belardinelli, Un esperimento liberal-conservatore: i governi Di Rudinì (1896-1898), Elia, Roma 1976.
19 Sul progetto sonniniano vedi ora P.L. Ballini (a cura di), Sidney Sonnino e il suo tempo, vol. I, Olschki, Firenze 2000, in particolare il saggio dello stesso Ballini, La questione elettorale e il dibattito sul Parlamento, pp. 131-184.
Del resto, la polemica antitrasformista e antiparlamentarista di fine Ottocento difficilmente
poteva avere sbocchi politici immediati di qualche importanza, per il semplice fatto
che non disegnava alternative plausibili e praticabili, muovendosi prevalentemente
sul terreno della deprecazione moralistica. Le soluzioni indicate, spesso confuse
e contraddittorie (dallo scontato appello all’autorità del re o del Senato alla restaurazione
delle tradizionali gerarchie sociali in ambito locale, dalla valorizzazione dei corpi
tecnici e di una pubblica amministrazione restituita alla sua indipendenza alla rappresentanza
degli interessi: un tema quest’ultimo che attraversa come un fiume carsico l’intera
età liberale20 per riemergere poi nel fascismo, con esiti pratici peraltro modesti); e andavano
tutte nel senso della svalutazione degli istituti della sovranità popolare, a vantaggio
di organi e soggetti (esistenti o meno) che non avevano legittimazione, né potevano
averla facilmente in uno Stato che era nato anche da un processo rivoluzionario (e
comunque lo aveva incluso fra i suoi miti fondativi).
20 Si veda in proposito P.L. Ballini (a cura di), Idee di rappresentanza e sistemi elettorali in Italia fra Otto e Novecento, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 1997 (in particolare il saggio
dello stesso Ballini, Rappresentanza degli interessi, voto plurimo, suffragio universale: da Rudinì a Luzzatti
(1896-1911). Temi di un dibattito, pp. 139-341).
All’origine di tutto questo fermento c’è in realtà una grande delusione, comune (in
termini diversi) a liberal-moderati e democratici. Per gli uni e per gli altri la
rappresentanza (democratica o elitaria che sia) trae senso e legittimità non solo
e non tanto dalla riproduzione delle reali articolazioni della società, ma soprattutto,
se non esclusivamente, dalla produzione di contenuti virtuosi. Non basta nemmeno che
i rappresentanti siano migliori dei rappresentati (cosa comunque difficile da stabilire),
ma è necessario che essi siano i migliori in assoluto, che rappresentino la pars sanior del paese: se non lo sono, vuol dire che qualcosa non va o che addirittura tutto
è un inganno. L’idea della liberal-democrazia come metodo, come procedura buona in
sé, a prescindere dagli uomini che la incarnano e dal merito delle decisioni che produce,
è sostanzialmente estranea agli orizzonti della classe dirigente e del ceto colto.
Così come lontana è una idea competitiva, oggi diremmo schumpeteriana, della concorrenza
fra élites. Il trasformismo infatti non è mai criticato per quello che a mio avviso
è il suo effetto peggiore, ossia il blocco dell’alternanza, e dunque della concorrenza
fra soggetti diversi, ma solo per le sue vere o presunte conseguenze sulla qualità
dell’azione politica, solo in quanto ulteriore degenerazione di un sistema (quello
parlamentare) in sé già guasto. Si ritiene inoltre censurabile che gli attori della
politica diano voce a interessi particolari, salvo poi invocare contraddittoriamente
soluzioni di stampo corporativo. Su tutto questo poi si innesta la polemica contro
i partiti in quanto organismi di fatto capaci di organizzare e di canalizzare aspirazioni
e richieste di singoli settori della società: una polemica che in parte si ricollega
a Minghetti, in parte rinvia, non inconsapevolmente, agli orientamenti allora prevalenti
nella nascente scienza politica europea e americana21.
21 Cfr. sull’argomento G. Quagliariello, La politica senza partiti. Ostrogorski e l’organizzazione della politica fra ’800
e ’900, Laterza, Roma-Bari 1993.
Fare riferimento a queste tematiche ci aiuta a ricordare che i problemi di cui si
discuteva in Italia non erano solo italiani. Se ne discuteva un po’ ovunque, anche
in Gran Bretagna22. Ma in tutti i paesi, come in Italia, le istanze antiparlamentari e antidemocratiche
avanzate in nome della qualità della politica finirono con l’essere travolte e sommerse
dal mainstream dei processi di democratizzazione. Quelle istanze avrebbero ripreso forza solo in
un contesto completamente mutato dalla difficile gestazione di una società di massa
(i cui contorni erano solo lontanamente immaginabili alla fine dell’Ottocento) e soprattutto
dai traumi della guerra e del dopoguerra. E sarebbero periodicamente riemerse (è accaduto
anche di recente) sotto forma di ripulsa, variamente motivata, di quelle che sono
le pratiche normali (e non sempre virtuose) di una democrazia rappresentativa: che
non può essere, e non sarà mai, puro confronto di idee e operosa cooperazione di tutti
in vista di un bene comune stabilito non si sa da chi, ma è anche scontro di interessi
e vera competizione per la conquista del consenso. Quella secondo cui la democrazia
è un inganno se non si traduce immediatamente nel regno della virtù – e la politica
è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai politici – è evidentemente un’idea dura
a morire.
22 Si veda in proposito il saggio di F. Cammarano nel volume a cura di P. Pombeni citato
alla nota 14 e, nello stesso volume (alle pp. 15-80), Due sistemi al vaglio di una crisi:la crisi di fine secolo nella rappresentazione
di alcune riviste italiane ed inglesi (1899-1911).
I liberali nell’età giolittiana
Quando si studia la storia dei liberali nell’Italia post-unitaria, ci si scontra spesso
con la difficoltà di individuare con esattezza l’oggetto dell’analisi: un oggetto
imponente – si tratta nientemeno che dell’intero ceto di governo e della parte di
gran lunga maggioritaria e dominante della classe dirigente nazionale in senso lato
– e al tempo stesso di problematica definizione. Lasciamo pure da parte, per il momento,
la questione preliminare sul tasso di autentico liberalismo espresso dagli uomini
e dai gruppi che si fregiavano di questo titolo23, e diamo per scontato il fatto che i sedicenti liberali in qualche misura lo fossero
davvero: cosa che, a mio parere, risponde a verità, per quante riserve si possano
nutrire sulla sostanza genuinamente pluralistica di certa cultura liberale italiana
(penso allo statalismo giuridico di Orlando o alla polemica crociana contro i partiti).
Accantoniamo anche il problema, puramente nominalistico, di quale sia l’etichetta
che meglio si adatta a definire quella classe dirigente: liberale o liberal-democratica
(con o senza trattino)? Chiamiamoli dunque «liberali» in virtù della loro ispirazione
di fondo e delle loro opzioni dichiarate (in primo luogo quella in favore del sistema
rappresentativo), della loro collocazione funzionale nello schieramento politico:
senza dimenticare che molti di loro erano e si consideravano di formazione democratica,
che alcuni cominciarono già a inizio Novecento ad autodefinirsi «democratici» e che
tutti cooperarono attivamente a un processo politico – quello in atto appunto nell’Italia
giolittiana – che, con termine schematico, possiamo definire di «transizione alla
democrazia».
23 Il giudizio negativo sulla sostanza liberale dello Stato unitario, tipico della
tradizione gobettiana e salveminiana, ritorna spesso in opere anche molto differenti
fra loro per ispirazione politico-culturale. Cito come esempio tre libri usciti in
tempi diversi: G. Colamarino, Il fantasma liberale, Bompiani, Milano s.d. [ma del 1945]; R. Vivarelli, Il fallimento del liberalismo. Studi sulle origini del fascismo, il Mulino, Bologna 1981; R. Martucci, L’invenzione dell’Italia unita: 1855-1864, Sansoni, Milano 1999.
C’è poi da affrontare, sempre in via preliminare, il problema dei confini. Di quali
forze cioè vadano incluse, e quali no, nella complessa geografia del liberalismo italiano.
Il problema riguarda da un lato i clerico-moderati, dall’altro i radicali. Per questi
ultimi la questione è presto risolta, dal momento che i radicali (come ha mostrato
Orsina24) mantengono una loro individualità anche organizzativa per tutto il periodo (il loro
scioglimento di fatto nella galassia liberale comincerà con la guerra e si completerà,
non senza residui, nel primo dopoguerra). Più complessa è la questione (su cui diversi
studi hanno richiamato l’attenzione25) dei clerico-moderati: sia per la presenza di non pochi personaggi «di confine» (si
pensi a un Tittoni o a un Malvezzi), sia per il carattere spesso coperto delle operazioni
politiche che hanno per oggetto, o per soggetto, i cattolici in regime di non expedit. Credo comunque che, a prescindere dalla caratura liberale di questo o di quell’esponente
cattolico, il mondo clerico-moderato vada considerato a sé: almeno nella misura in
cui le sue scelte sono condizionate da un fattore allogeno come le direttive del Vaticano.
24 G. Orsina, Senza Chiesa né classe. Il partito radicale nell’età giolittiana, Carocci, Roma 1998.
25 Si veda da ultimo U. Gentiloni Silveri, Conservatori senza partito. Un tentativo fallito nell’Italia giolittiana, Studium, Roma 1999. Il lavoro di riferimento in proposito resta quello di O. Confessore,
Conservatorismo politico e riformismo religioso. La «Rassegna Nazionale» dal 1898
al 1908, il Mulino, Bologna 1971.
Un’altra «questione di confine» riguarda i nazionalisti, che nacquero e in un primo
tempo si affermarono come movimento «trasversale» interno allo schieramento liberal-democratico
(e non solo, visto l’alto numero di coloro che provenivano dalle file dell’Estrema
sinistra). Ma il cammino compiuto dal movimento, attraverso le due scissioni del ’12
e del ’14 (soprattutto la seconda, quella di Milano, che sancì non solo la rottura
con i gruppi nazional-liberali e con i «giovani liberali» di Giovanni Borelli, ma
anche il definitivo allontanamento, per opera soprattutto di Alfredo Rocco, dai presupposti
ideologici del liberalismo26), ci induce a considerare la vicenda dell’Associazione nazionalista italiana come
un’esperienza tendenzialmente e sostanzialmente esterna agli indirizzi e agli orizzonti
culturali della classe dirigente e a vederla piuttosto come il nucleo fondante di
nuove culture e di nuove pratiche politiche: qualcosa che preannuncia, anche se non
contiene del tutto, gli esperimenti autoritari degli anni Venti e Trenta.
26 Su questi temi si può ancora fare riferimento ai lavori di F. Gaeta, Il nazionalismo italiano, Laterza, Roma-Bari 1981 (ma la prima edizione, per i tipi della Esi, è del 1965)
e di R. Molinelli, Per una storia del nazionalismo italiano, Argalia, Urbino 1966; e, su Rocco, al libro di P. Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, Morcelliana, Brescia 1963.
Una volta definiti i confini dell’universo liberale in età giolittiana, si tratta
ora di considerarne le articolazioni interne. Va detto innanzitutto che, a partire
soprattutto dagli studi di Hartmut Ullrich27, non è più accettabile relativamente all’età giolittiana (ma non lo è nemmeno per
i vent’anni precedenti, dall’inizio del trasformismo alla crisi di fine secolo) una
visione del «grande partito liberale» come galassia indistinta, come massa inerte
plasticamente adattabile ai voleri del demiurgo di turno: nella fattispecie Giovanni
Giolitti. Al contrario, è possibile individuare all’interno della maggioranza «costituzionale»
quattro posizioni abbastanza definite e disposte in bella simmetria: c’è una destra
rudiniano-luzzattiana e c’è una sinistra costituita dagli zanardelliani (poi demo-costituzionali,
poi «sinistra democratica»); in mezzo un centro-destra (il «centro» sonniniano) e
un centro-sinistra giolittiano.
27 H. Ullrich, La classe politica nella crisi di partecipazione dell’Italia giolittiana. Liberali
e radicali alla Camera dei deputati 1909-1913, 3 voll., Archivio storico della Camera dei deputati, Roma 1979. Ma vedi anche, dello
stesso Ullrich, L’organizzazione politica dei liberali nel Parlamento e nel Paese (1870-1914), in R. Lill, N. Matteucci (a cura di), Il liberalismo in Italia e in Germania dalla rivoluzione del ’48 alla prima guerra
mondiale, il Mulino, Bologna 1980, pp. 403-450; e Ragione di Stato e ragione di partito. Il «grande partito liberale» dall’Unità alla
prima guerra mondiale, in G. Quagliariello (a cura di), Il partito politico nella belle époque. Il dibattito sulla forma-partito in Italia
fra ’800 e ’900, Giuffrè, Roma 1990, pp. 107-191.
Cominciamo dalla destra, che è stata studiata soprattutto da Pier Luigi Ballini28. Pur contando nelle sue file parecchi personaggi di un certo rilievo (Prinetti, Rubini,
Chimirri, Molmenti, De Cesare) e pur manifestando una certa vitalità nei primi anni
del secolo (fino alla morte di Rudinì nel 1908), era una formazione piccola e sostanzialmente
residuale. Non tanto per l’età piuttosto avanzata dei suoi leader, Rudinì e Luzzatti
(entrambi testimoni dell’epoca della Destra storica), quanto per il dissolvimento
di quella che era stata, alla fine dell’Ottocento, la sua componente più dinamica:
la pattuglia lombarda guidata da Colombo e Prinetti. Divisa fra settentrionali e meridionali,
fra custodi della tradizione laica e fautori dell’apertura ai clericali, la destra
compie scelte del tutto incoerenti con la sua asserita vocazione antitrasformista
(ma in realtà conseguenti alla politica rudiniana degli anni Novanta29), dalla partecipazione di Prinetti al governo Zanardelli all’inclusione dei radicali
nel governo Luzzatti; e non svolge in alcun modo un ruolo di incisiva opposizione.
Intrattiene rapporti non sempre cordiali col centro sonniniano, di cui subisce l’attrazione,
e assieme al quale finisce poi col confluire nella «nuova» destra a guida salandrina.
28 P.L. Ballini, La destra mancata. Il gruppo rudiniano-luzzattiano fra ministerialismo e opposizione
(1901-1908), Le Monnier, Firenze 1984.
29 Una diversa, e più positiva, valutazione dell’esperienza del primo governo Rudinì
si trova in P. Carusi, Superare il trasformismo. Il primo ministero di Rudinì e la questione dei partiti
«nuovi», Studium, Roma 1999. Ma sullo statista siciliano, vedi ancora M. Belardinelli, Un esperimento liberal-conservatore: i governi di Rudinì (1896-1898), Elia, Roma 1976.
Più consistente (e non solo dal punto di vista numerico) appare la sinistra zanardelliana:
che mantiene, anche dopo la scomparsa del suo capo (l’unico vero leader nazionale
di cui disponesse, non essendo tali i Gallo, i Cocco Ortu, i Rava), una certa compattezza
e un ruolo ben riconoscibile, come erede del liberalismo progressista ottocentesco,
come custode dei valori laici e come formazione di raccordo con la democrazia radicale,
soprattutto tramite il collante della massoneria, di cui i demo-costituzionali rappresenteranno
il principale gruppo di riferimento. Il gruppo ha anche una sua embrionale organizzazione
nel paese, sebbene sia forse eccessivo definirlo «partito del liberalismo progressista»
(come ha fatto Ullrich, lo studioso che gli ha dedicato maggiore attenzione30); e conosce la sua stagione d’oro negli anni dei «blocchi popolari» per poi veder
declinare le sue fortune appunto in coincidenza con la crisi della politica bloccarda,
proprio nel momento in cui compie il suo maggiore sforzo per costituirsi in partito.
30 Ullrich, La classe politica cit., vol. I, p. 146.
Molto diversa è la vicenda del centro sonniniano (che in realtà, come si è detto,
è un centro-destra): una vicenda tutta legata alla personalità del leader (che di
recente è stata oggetto di qualche maggiore attenzione da parte degli storici31) e al suo progetto volto a ricostruire il «grande partito liberale» attorno a un’idea
di riformismo laico e conservatore. In realtà il gruppo – che pure non è privo di
luogotenenti di spicco, da Carmine a Chimienti a Guicciardini, e può contare su due
grandi organi di stampa nazionali come «Il Giornale d’Italia» e il «Corriere della
Sera» – è troppo esiguo e raccogliticcio per supportare le ambizioni del suo capo.
Quelle ambizioni – e il progetto che le ispira – gli impediscono di proporsi realisticamente
come nucleo di una destra liberale all’interno di una stabile divisione fra conservatori
e progressisti (una prospettiva cui Sonnino guardò sempre con sincera ripugnanza,
in quanto avrebbe fatalmente rimesso in gioco le forze antisistema, socialiste e clericali32). Così, una volta svanito quel progetto con la rapida fine del secondo ministero
Sonnino, il gruppo entra in una crisi da cui non uscirà più. E lo stesso Sonnino dovrà
cedere il passo alla leadership del più conservatore, e meno laico, Salandra.
31 Mi riferisco soprattutto agli interventi nel convegno del 1997 i cui atti sono stati
pubblicati a cura di P.L. Ballini (Sidney Sonnino e il suo tempo, I, Olschki, Firenze 2000). Un secondo volume, dedicato al periodo 1914-1922, è uscito
nel 2011 per i tipi di Rubbettino.
32 Questo almeno è quanto emerge dagli scritti e dai discorsi di Sonnino (si veda ad
esempio il brano citato più avanti). Più incline ad attribuire a Sonnino un coerente
disegno conservatore è Gentiloni Silveri, Conservatori senza partito cit.
Resta da dire dell’altro centro: quello che abbiamo definito il «centro-sinistra»
giolittiano. È il gruppo più numeroso, ma anche il meno conosciuto e il meno definibile
proprio perché è il meno strutturato. Le ragioni sono note: Giolitti, che pure è stato
a fine Ottocento il leader di una frazione non trascurabile della Camera (e di fatto
dell’intero schieramento liberal-progressista), non ha mai fatto alcun investimento
nella «forma partito», e sente di non aver bisogno di un suo gruppo organizzato. Preferisce
da un lato assicurarsi l’egemonia in Parlamento con una pratica di favori trasversale,
che pesca voti in tutti i gruppi, e grazie all’opera di pochi fidati luogotenenti
– Rosano, Peano, Carcano, Facta, Tedesco – che controllano una palude di ascari dal
colore indefinibile; dall’altro punta a governare amministrativamente, in virtù del
perfetto controllo della macchina burocratica. Il che non esclude che abbia il suo
progetto (più realistico e lungimirante di quello sonniniano) e sia capace di compiere
scelte politiche anche nette, per lo più in senso progressista. Ma la stessa vicenda
della formazione del suo secondo ministero, nel 1903, mostra chiaramente come il progetto
sia elastico e condizionato, nella sua attuazione, dalla possibilità di ottenere il
sostegno parlamentare più ampio possibile.
Ricostruite sommariamente le principali articolazioni interne allo schieramento liberale,
resta da capire come mai quelle articolazioni non si siano tradotte non dico in una
stabile divisione fra progressisti e conservatori (per la quale, come si è visto,
sussistevano in teoria le premesse), ma nemmeno in una chiara distinzione, riconoscibile
nella composizione dei governi e delle maggioranze che li sorreggevano. Tutti i governi
dell’età giolittiana – con la parziale eccezione del quarto Giolitti, l’unico a netta
coloritura progressista, appoggiato da una coalizione che possiamo definire di centro-sinistra
– hanno infatti una composizione assai variegata e si basano su un sapiente bilanciamento
delle diverse componenti del «grande partito liberale», per lo più rappresentate tutte,
o quasi tutte, negli esecutivi; e altrettanto variegate sono di conseguenza le maggioranze.
Quali sono le ragioni di questa evidente anomalia? Non basta certo ricondurre il tutto
a un fattore essenzialmente tecnico qual è il sistema elettorale fondato sull’uninominale
a due turni, che pure aveva il suo peso nell’orientare la competizione su motivi localistici
e personalistici e nello scoraggiare la crescita di veri partiti nazionali («il singolo
collegio elettorale politico – ha scritto Ullrich – costituiva, ancora nell’età giolittiana,
l’unità fondamentale per i partiti italiani»33). Non basta per il semplice fatto che sistemi analoghi – con i loro meccanismi basati
sul patronage, ossia sui rapporti di deferenza e di clientela – esistevano e funzionavano in quasi
tutti i paesi europei senza avere le stesse conseguenze sugli assetti politici generali.
33 Ullrich, La classe politica cit., vol. I, p. 29.
Un altro aspetto della questione (nemmeno questo specifico del caso italiano, ma certamente
legato al carattere fortemente accentrato del sistema politico-amministrativo) è quello
costituito dalla pesante ingerenza dell’esecutivo sulle competizioni elettorali, attraverso
l’apparato prefettizio. Questo significa che in molti collegi (non in tutti naturalmente)
la contrapposizione politica e ideologica passa in secondo piano, o svanisce del tutto,
di fronte all’alternativa ministeriale/antiministeriale. In altri termini, appartenere
a un partito o a uno schieramento ha un’importanza minore rispetto al fatto di essere
sostenuto o meno dal governo (e di essere o non essere, domani in Parlamento, un sostenitore
del governo). Il quale governo sceglie di appoggiare questo o quel candidato non solo
e non tanto in base all’appartenenza partitica (ecco un altro motivo per cui non ci
sarà mai un partito giolittiano), quanto in funzione del prevedibile comportamento
parlamentare del deputato. Stato, governo, maggioranza parlamentare e «partito del
presidente del Consiglio» finiscono così con l’intrecciarsi incestuosamente e quasi
con l’identificarsi. E al tutto contribuisce per la sua parte una cultura giuridico-istituzionale,
quella di Orlando (non a caso arruolato nelle file giolittiane dopo essere stato vicino
a Crispi) e di Romano, che tende a vedere nel Parlamento più un’istituzione dello
Stato che un organo di rappresentanza della società e delle sue articolazioni. E qui
ritorna il problema (che non va sopravvalutato ma nemmeno ignorato) dei limiti intrinseci
della cultura liberale italiana, o quanto meno della sua parte largamente maggioritaria.
Non meno importante è sicuramente il fattore più specificamente politico-ideologico:
ossia quella sindrome da accerchiamento – non importa qui stabilire quanto giustificata
– che spingeva la classe dirigente liberale a far blocco, come aveva fatto dall’82
in poi, contro ogni possibilità di condizionamento da parte delle forze antisistema,
le quali potevano anche essere cooptate nelle maggioranze, ma a patto di non risultare
determinanti. È quello che si potrebbe definire il «teorema di Sonnino» (perché proprio
Sonnino lo espose con grande chiarezza nel famoso articolo del 1900 intitolato Quid agendum?) e che suona così: «Il grande partito costituzionale liberale [...] non può darsi
il lusso di dividersi normalmente in due schiere distinte» perché, in presenza di
forze organizzate estranee alle istituzioni, «ognuno dei due partiti cadrebbe vittima
del partito estremo che gli resta più vicino»34. Questo ferreo vincolo, che Sonnino teorizza lucidamente, ma che anche gli altri
leader liberali implicitamente rispettano, finisce col dare rigidità al sistema e
con l’impedirgli di recepire appieno le spinte che vengono dalla società: il che sarà
causa non ultima (anche se non unica) della crisi attraversata dalla classe dirigente
liberale nel mutato contesto del primo dopoguerra.
34 S. Sonnino, Scritti e discorsi extraparlamentari, a cura di B.F. Brown, Laterza, Bari 1972, vol. I, 1870-1902, pp. 706-707.
C’è ancora un punto importante da sottolineare. Rilevare i limiti e i malfunzionamenti
del sistema, o il deficit di cultura pluralista della sua classe dirigente, non significa
tacciare in blocco di autoritarismo quel sistema e quella classe dirigente, né tanto
meno considerare l’Italia liberale fatalmente destinata alla crisi e agli esiti che
conosciamo. Del resto questa diagnosi catastrofica è oggi largamente minoritaria,
essendo stata efficacemente confutata dalla migliore storiografia: cito un nome per
tutti, quello di Alberto Aquarone35. Per parte mia sono convinto che la classe dirigente liberale fosse, per cultura,
per formazione e per competenze, non peggiore di quella degli altri paesi europei
retti da regimi rappresentativi e che a condizionarla in negativo sia stato soprattutto
il difficile impatto con una società caratterizzata da ampie sacche di arretratezza
e nel complesso poco preparata alla ricezione della «modernità» istituzionale e dei
suoi ordinamenti36.
35 Di cui si veda soprattutto il saggio Alla ricerca dell’Italia liberale nel volume dallo stesso titolo, Guida, Napoli 1972, pp. 275-344.
36 Su questi temi, vedi R. Romanelli, Il comando impossibile. Stato e società nell’età liberale, il Mulino, Bologna 1988.
Entrando più nel dettaglio, credo che non sia nemmeno corretta la diagnosi – questa
invece assai diffusa fra studiosi di diverso orientamento – che fa risalire l’inizio
della crisi dello Stato e della classe dirigente liberale al periodo successivo alla
guerra di Libia: gli anni dell’eclisse del riformismo socialista, della crescita del
nazionalismo, del patto Gentiloni, dell’affermazione di un nuovo blocco clerico-nazional-conservatore
che trova un parziale riscontro nell’avvento del governo Salandra. Credo che la diagnosi
sia quanto meno esagerata. I fatti che ho appena elencato (e altri se ne potrebbero
aggiungere) sono veri e pesanti e configurano senz’altro una crisi degli equilibri
politici giolittiani così come si erano venuti costituendo nel decennio precedente.
Ma parlare di crisi irreversibile di un sistema e di una classe dirigente è cosa diversa,
frutto in larga parte del senno di poi.
Prendiamo il patto Gentiloni, spesso citato come evento emblematico della crisi del
liberalismo giolittiano, in quanto segna un’abdicazione, tanto più grave quanto più
subdola, rispetto al valore fondante della laicità dello Stato. Sul piano degli effetti
concreti, va detto però che l’operazione non ebbe almeno in apparenza costi rilevanti
e certo non sfigurò la fisionomia della classe dirigente, mentre le consentì di superare
senza eccessivi danni la prova del suffragio universale (la controprova si può ricavare,
pur tenendo conto delle mutate condizioni, dal clamoroso successo del Partito popolare
nel ’19). Non è mai stato tentato, per quanto ne so, uno studio sul comportamento
dei deputati «gentilonizzati» nella lunga legislatura che si apre nel 1913: ma non
credo che sia facile rilevare, nella rappresentanza liberale degli anni della guerra,
i segni di un inquinamento clericale.
Per quanto riguarda la formazione di un nuovo blocco di centro-destra, si tratta di
un fatto innegabile, anche se ancora limitato ad alcuni episodi elettorali (in particolare
quello romano, che vede la vittoria di Federzoni e Medici del Vascello)37. Ma siamo sicuri che questa tendenza vada letta come un segno di crisi irreversibile
del liberalismo? Si potrebbe, con qualche forzatura, rovesciare il giudizio e vedere
in tutto questo la premessa per arrivare finalmente a quella netta divisione fra conservatori
e progressisti che sin allora non era mai stata possibile (e dunque al superamento
di quello che è spesso stato indicato come uno dei limiti storici del liberalismo
italiano). È vero che, al cospetto delle nuove alleanze clerico-nazional-moderate,
la sinistra liberale si trovava in condizioni di inferiorità, avendo perduto, dopo
la guerra di Libia, la sponda del socialismo riformista, e quindi la risorsa costituita
dalla politica dei blocchi. Ma l’esito della partita non era per nulla scontato, visti
anche i rapporti di forza in Parlamento: tant’è che alla vigilia della guerra si parlava
della possibilità di un prossimo ritorno di Giolitti, alla guida di un governo con
radicali e bissolatiani.
37 Il tema è trattato più approfonditamente nel saggio sulle elezioni del 1913 a Roma,
infra, pp. 32 sgg.
La vera rottura arriva solo con la guerra, che sconvolge equilibri e schieramenti,
crea nuove fratture e nuove divisioni, facendone passare altre in secondo piano (a
cominciare da quella, che cominciava proprio allora a delinearsi più nettamente, fra
conservatori e progressisti). Durante il conflitto si assiste prima a una sorta di
congelamento del dibattito politico, che si concentra tutto sulla guerra, poi all’approfondirsi
della divisione fra ex interventisti ed ex neutralisti, che si trasferisce alla Camera,
spaccando la maggioranza nei due gruppi contrapposti, l’Unione parlamentare e il Fascio
parlamentare di difesa nazionale.
A mettere in crisi la vecchia classe dirigente non è però nemmeno la frattura interna
verificatasi lungo la discriminante interventismo/neutralismo (frattura peraltro riassorbita
in tempi brevi, come dimostra il larghissimo consenso al ritorno al potere, nella
primavera del ’20, del già demonizzato Giolitti). Decisiva si rivelerà invece l’incapacità
di una classe dirigente liberale, sempre più frastornata e rissosa, di confrontarsi
con le nuove modalità assunte dalla lotta politica, imposte dalle conseguenze della
guerra e più ancora dall’introduzione della proporzionale (anch’essa, in qualche modo,
conseguenza della guerra). E fatale risulterà l’illusione di poter recuperare l’egemonia
perduta attraverso le strategie di cooptazione tipiche dell’anteguerra (del tempo
cioè in cui esisteva una maggioranza «costituzionale» autosufficiente), evitando l’unica
strada effettivamente praticabile: quella di un accordo paritario con le forze altre,
o meglio con la sola forza effettivamente disponibile a una collaborazione leale,
ossia il Ppi. La preoccupazione per un possibile sacrificio dei valori di laicità
dello Stato (sacrificio peraltro già accettato, in forme coperte, con il patto Gentiloni)
sarebbe dovuta passare in secondo piano di fronte alla difesa delle istituzioni rappresentative.
Nel momento della crisi finale, viene ancora una volta in luce, stavolta in forma
di illusione, quello che si può considerare il peccato capitale della classe dirigente
liberale. Prima ho parlato di sindrome da accerchiamento. Ora parlerei di «complesso
di insostituibilità»: un complesso che porta i liberali a identificarsi orgogliosamente
con le istituzioni, che li induce a pensare di poter perpetuare all’infinito un monopolio
originariamente giustificato dalle circostanze in cui si era realizzata l’unità. Una
sindrome che prima vieta loro di dividersi fisiologicamente e poi li rende incapaci
di praticare una chiara e leale politica delle alleanze con soggetti di pari dignità.
A pagare il prezzo di questo errore saranno non solo i leader liberali, cancellati
nel giro di pochi anni in quanto classe dirigente, ma le stesse istituzioni rappresentative
che loro prima di chiunque altro avrebbero dovuto difendere.
Giolitti e Sonnino
Parlare di «vite parallele» a proposito di Giolitti e Sonnino non è certo una forzatura.
L’immagine dei due come eterni rivali si è subito imposta e si è fissata in una serie
di coppie antinomiche: Sonnino conservatore, Giolitti progressista; Sonnino intellettuale
astratto, Giolitti pragmatico di successo; Giolitti tattico duttile, Sonnino politico
ostinato; Giolitti vincente, Sonnino perdente. Questa immagine è ormai entrata come
una costante nella storiografia sull’età giolittiana (per inciso: il fatto che si
parli correntemente di «età giolittiana» e che a nessuno sia mai venuto in mente di
parlare di «età sonniniana» la dice lunga su quale dei due antagonisti l’abbia avuta
vinta): da Croce e Volpe fino alle opere del secondo dopoguerra (penso in particolare
a due bellissimi capitoli di Giolitti e l’età giolittiana di Carocci, intitolati simmetricamente La soluzione di Giolitti e La soluzione di Sonnino)38. Ma quell’immagine era ben presente anche ai contemporanei e gli stessi interessati
ne erano consapevoli. Non è un caso che proprio Giolitti tracciasse nelle sue memorie
un ritratto, breve ma efficacissimo, del suo rivale, che poi sarebbe passato nel novero
delle immagini consolidate. Un ritratto in cui si rende l’onore delle armi all’avversario,
ma al tempo stesso gli si imputa un difetto capitale per un leader politico, quello
di non conoscere gli uomini:
38 G. Carocci, Giolitti e l’età giolittiana. Dall’inizio del secolo alla prima guerra mondiale, Einaudi, Torino 1961, pp. 32-65.
L’on. Sonnino, datosi tutto sin dalla gioventù alla vita politica, ed entrato giovanissimo
nel Parlamento, e dotato pure di grande volontà e serissima capacità di lavoro, si
era fatta una preparazione di dottrina e di cultura nei diversi rami della amministrazione
dello Stato, quale non hanno neppure lontanamente avuta altri più fortunati di lui.
Ma, se egli conosceva i problemi, non ha mai conosciuto in modo sufficiente gli uomini,
la cui collaborazione, volontaria o renitente, diretta o indiretta, alla soluzione
di questi problemi è indispensabile nei regimi democratici e rappresentativi39.
39 G. Giolitti, Memorie della mia vita, Garzanti, Milano 1982, p. 183. Può essere interessante notare che questo giudizio
coincide in buona parte con quello formulato in termini comparativi da Gaetano Salvemini
in una lettera a Carlo Placci del 19 aprile 1903: «Giolitti è una mente solida ed
equilibrata della razza del conte di Cavour, conservatore quant’altri mai, forse più
conservatore dell’on. Sonnino; ha meno scrupoli dell’on. Sonnino e nella celebre battaglia
ostruzionista non avrebbe avuto certi pudori e incertezze che furono la rovina di
Pelloux: ha una qualità, poi, che manca a tutti gli uomini di Stato italiani e soprattutto
a Sonnino, cioè l’attitudine a osservare freddamente i fatti, a valutare esattamente
gli uomini, a guardare le cose nel loro insieme senza lasciarsi troppo scoraggiare
o esasperare o distrarre o smuovere dai particolari» (in G. Salvemini, Carteggio 1903-1906, a cura di S. Bucchi, Lacaita, Manduria 1997, p. 77).
Il primo dato da registrare è che Giolitti e Sonnino sono grosso modo coetanei. In
realtà Giolitti (nato nel 1842) è di cinque anni più anziano. In compenso Sonnino,
favorito dalla nascita, oltre che dalla sua attività di studioso e pubblicista, è
più precoce e arriva in Parlamento a 33 anni, nel 1880, due anni prima di Giolitti.
Quel che conta è che entrambi appartengono alla seconda generazione della classe dirigente
liberale, la prima post-risorgimentale (cosa che, com’è noto, costituì nei confronti
di Giolitti un motivo di diffidenza e di polemica): generazione che segue quella dei
Crispi e dei Depretis e precede quella degli Orlando e dei Nitti (la quarta, quella
dei Giovanni Amendola e dei Soleri, sarebbe stata tagliata fuori dall’avvento del
fascismo). E in questa generazione Giolitti e Sonnino assumono presto una posizione
di rilievo, quasi di leader naturali. L’altra figura di spicco, il marchese di Rudinì,
che era di soli tre anni più anziano di Giolitti, aveva fatto in tempo a prender parte
ai moti siciliani del ’60 e aveva esordito in politica molto giovane: tanto che lo
si può considerare più come l’ultimo esponente della vecchia generazione che come
il primo della nuova.
Come si è detto, Sonnino e Giolitti entrano in Parlamento più o meno nello stesso
periodo: Sonnino nell’80 (ossia nelle ultime elezioni a suffragio ristretto), Giolitti
nell’82 (ossia nelle prime a suffragio allargato). Vi entrano senza una collocazione
politica ben definita. Il riferimento originario è per entrambi a destra: la destra
piemontese, o più esattamente Sella, per Giolitti, la consorteria toscana per Sonnino;
ma entrambi non fanno fatica a identificarsi, quasi spontaneamente, con la «grande
maggioranza» liberale che, proprio a partire dall’82-83, con gli esordi del trasformismo,
vede cadere definitivamente le vecchie distinzioni fra destra e sinistra. Questa evoluzione
non dispiace né a Giolitti né a Sonnino. Nel suo manifesto agli elettori del quarto
collegio di Firenze per la campagna elettorale dell’82, Sonnino vi fa esplicito riferimento:
«Tolte di mezzo [...] molte questioni che finora tenevano divise varie frazioni affini
del gran partito liberale monarchico, apparisce oggi chiaro il dovere di costituire
una maggioranza che possa sorreggere con costanza ed ispirare con unità di concetti
un governo autorevole e duraturo»40. Questa idea del «gran partito liberale monarchico», sostegno di «un governo autorevole
e duraturo», sarà sempre per Sonnino, come vedremo, la stella polare dell’agire politico.
40 S. Sonnino, Scritti e discorsi extraparlamentari, a cura di B.F. Brown, Laterza, Bari 1972, vol. I, 1870-1902, p. 409.
Una volta entrati in politica, Sonnino e Giolitti percorrono un tratto in comune,
che dura circa un decennio. Verso metà anni Ottanta li troviamo entrambi militanti
in quel gruppo «dissidente» (ma distinto dalla «pentarchia»), che critica non tanto
la formula trasformistica, né il suo artefice Depretis, quanto le sue degenerazioni,
e in particolare la «finanza allegra» di Magliani. Di quel gruppo, come ricorderà
Giolitti nelle Memorie41, facevano parte alcuni futuri presidenti del Consiglio: Pelloux e Rudinì (che in
realtà era più vicino alla vecchia destra), oltre naturalmente a Giolitti e Sonnino.
Insomma due uomini nuovi, due emergenti, diremmo oggi, diversi per formazione e anche
per orientamenti ideologici, ma con molti punti in comune: entrambi si qualificavano
soprattutto come esperti di economia e di finanza pubblica (e lo erano davvero), entrambi
giudicavano troppo timida ed esitante la politica estera dei governi Depretis, entrambi
ritenevano indispensabile un processo di «ricostituzione dei partiti» (anche se intendevano
con ciò cose diverse).
All’inizio dell’89, Sonnino diventa sottosegretario al Tesoro nell’ultimissima fase
del primo governo Crispi e resta in carica per soli due mesi (quasi una maledizione,
per Sonnino, questa delle apparizioni-lampo al governo, riscattata però dalla importante
presenza al Tesoro con Crispi e poi dalla lunghissima permanenza agli Esteri fra il
’14 e il ’19). Nel secondo governo Crispi (marzo ’89-febbraio ’91), è Giolitti a entrare
con la carica di ministro del Tesoro, poi delle Finanze (dove sostituirà il dimissionario
Seismit-Doda). In tutto questo periodo, i loro rapporti appaiono cordiali. I due si
scrivono, anche se non molto di frequente. Quando, nel maggio ’92, Giolitti viene
designato alla presidenza del Consiglio, Sonnino declina l’invito a entrare nel ministero,
motivando il rifiuto con problemi di equilibri fra i gruppi («l’attitudine ostile
di tutto il centro-destra») e di collocazione personale (non aveva ottenuto il ministero
dei Lavori Pubblici); ma si dichiara pronto a sostenere il governo «con tutte le sue forze» e augura al collega «ogni più splendido successo»42 (una formula piuttosto calorosa, visto il personaggio che non brillava certo per
espansività). Pochi giorni prima, si era spinto al punto di spedire a Giolitti un
biglietto col calcolo dei favorevoli e dei contrari, nell’ambito del centro-destra,
al costituendo ministero43.
42 S. Sonnino, Carteggio 1891/1913, a cura di B.F. Brown e P. Pastorelli, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 27.
43 Ivi, pp. 23-24. Questo biglietto e quello di cui alla nota precedente sono pubblicati
anche in Dalle carte di Giovanni Giolitti. Quarant’anni di politica italiana, vol. I, L’Italia di fine secolo 1885-1900, a cura di P. D’Angiolini, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 53-54 e 57.
Ma è proprio durante il primo governo Giolitti che i rapporti fra i due si guastano
irrimediabilmente. In un discorso tenuto a Scandicci il 30 ottobre 1893, Sonnino attacca
frontalmente la politica del governo in materia di finanza pubblica e di banche, ma
soprattutto protesta contro alcuni aspetti che poi si sarebbero rivelati tipici della
prassi giolittiana («Le elezioni generali condotte con ingerenze e pressioni governative,
come non si erano ancora mai vedute in Italia [...]. Alcune nomine di senatori così
ingiustificabili da legittimare una ribellione del Senato a tutela del proprio decoro»)44. In realtà, Sonnino, già allora leader di un nutrito gruppo di centro, rimprovera
a Giolitti anche un’altra cosa: l’aver rifiutato di lasciarsi condizionare dall’appoggio
del gruppo sonniniano e l’aver così spostato la sua rotta politica – e l’asse della
sua maggioranza – verso sinistra, l’aver tradito insomma quell’ideale di grande centro
costituzionale che lui, Sonnino, non aveva mai, né avrebbe in seguito, abbandonato.
Le cause del contrasto sono del resto ben descritte in una lettera inviata a Sonnino,
il 21 ottobre ’93, da Raffaele Cappelli, futuro ministro degli Esteri nel secondo
governo Rudinì, il quale consigliava all’amico di prendere atto dell’avvenuta rottura
e di far blocco a destra col gruppo «che ha più omogeneità con noi», ovvero quello
rudiniano45.
44 Sonnino, Scritti e discorsi cit., vol. I, p. 531.
Sonnino non avrebbe seguìto il consiglio (anche perché i punti di dissenso con Rudinì
non erano pochi né marginali). Ma da allora in poi il rapporto antagonistico con Giolitti
si sarebbe fissato per non mutare più. Sonnino, ministro del Tesoro e delle Finanze
ancora con Crispi (ed energico restauratore del dissestato bilancio nazionale), sarebbe
poi diventato il vero leader della maggioranza moderata negli anni della crisi di
fine secolo. Giolitti, dopo l’eclisse seguìta allo scandalo della Banca Romana, sarebbe
risultato il leader emergente di una componente liberal-progressista dai confini per
la verità abbastanza incerti. Sonnino si sarebbe qualificato, con il celebre Torniamo allo Statuto, come il più autorevole sostenitore della restaurazione della prerogativa regia,
mentre Giolitti avrebbe da allora tenuto ferma la difesa della forma di governo parlamentare
e dello stretto legame fra esecutivo e maggioranza.
In verità, come ha ben mostrato Pier Luigi Ballini nel suo saggio introduttivo alla
ristampa del Torniamo allo Statuto sulla «Nuova Antologia»46, la posizione di Sonnino sui temi istituzionali era più articolata di quanto ci mostri
una tradizione storiografica consolidata che lo dipinge come puro restauratore. Per
certi aspetti i suoi argomenti fanno pensare a quelli dei presidenzialisti di oggi,
in quanto si basano sulla convinzione che un rafforzamento dell’esecutivo e una più
netta distinzione di ruolo fra governo e Parlamento non implichino di per sé una compressione
delle assemblee rappresentative, anzi le aiutino a svolgere meglio la loro specifica
funzione. In questo senso non aveva tutti i torti Volpe, quando scriveva che fra Giolitti
e Sonnino il vero liberale era il secondo47. Ciò che rendeva la posizione di Sonnino debole, e alla lunga perdente, era il fatto
di riferirsi, nel suo sforzo di rendere più autorevole l’esecutivo, a un potere come
quello del re che aveva nell’Italia liberale un alto valore simbolico ma nessuna legittimazione
democratica e che, ove fosse stato direttamente coinvolto nella gestione del governo,
si sarebbe trovato pericolosamente esposto a ogni tipo di contestazione (di qui l’avversione
ai progetti sonniniani di uomini come Domenico Farini48). Giolitti, al contrario, si faceva forte di una tradizione – quella del governo
parlamentare, non importa quanto correttamente inteso e praticato: basato comunque
sul rapporto fiduciario fra esecutivo e maggioranza – che non solo si confaceva allo
spirito dei tempi, ma affondava le sue radici nelle origini risorgimentali dello Stato
unitario e nell’eredità di Cavour. Una tradizione che si sarebbe rivelata tanto forte
da imporsi anche a leader che volentieri l’avrebbero ignorata o corretta, da Crispi
a Orlando allo stesso Sonnino. Sul filo del paradosso, si potrebbe aggiungere che
questa tradizione non fu interrotta, almeno dal punto di vista formale, nemmeno da
eventi traumatici come le «radiose giornate» o la marcia su Roma e che lo stesso Mussolini
(autore fra l’altro di una breve commemorazione di Sonnino al Senato, in chiave di
elogio del governo forte, che può essere interessante rileggere49) dovette, per attuare i suoi programmi dittatoriali, costruirsi prima una maggioranza
parlamentare a sua immagine e somiglianza (spingendoci ancora più in là, potremmo
arrivare a sostenere che l’unico colpo di Stato nel senso tecnico del termine, quello
del 25 luglio ’43, fu attuato in assenza di una Camera elettiva).
46 P.L. Ballini, L’«ordinata libertà» di Sidney Sonnino, in «Nuova Antologia», gennaio-marzo 1997, pp. 240-277.
47 G. Volpe, Italia moderna, vol. II, 1898-1910, Sansoni, Firenze 1973, p. 425: «Quel che aveva avvicinato Sonnino a Crispi lo allontanava
da Giolitti: sebbene, anche qui, comune fosse nei due uomini la tendenza a guardare
realisticamente le cose della politica, il senso dei problemi sociali e il proposito
di affrontarli, il desiderio di buone riforme che elevassero le masse popolari, la
persuasione che la monarchia bisognasse circondarla di istituti democratici. Ma lo
allontanava da lui proprio questo motivo della libertà: il liberalismo di Sonnino
era più veramente tale che non quello dell’altro. Lo Stato egli lo voleva forte, proprio
in quanto voleva vedere Provincie, Comuni, individui muoversi con propria libertà
e responsabilità».
48 D. Farini, Diario di fine secolo, a cura di E. Morelli, Bardi, Roma 1962, vol. II, pp. 1102-1109.
49 In Opera omnia di Benito Mussolini, a cura di E. e D. Susmel, vol. XIX, Dalla marcia su Roma al viaggio negli Abruzzi, La Fenice, Firenze 1956, pp. 41-43: «Mi piaceva il suo stile di vita aspro e disdegnoso,
quindi poco parlamentare nel senso che si può dire basso della parola; trovavo tra
la concezione fascista dello Stato e quella che rappresentò la concezione fondamentale
della politica di Sonnino, una evidente identità».
Da questo punto di vista, Sonnino non poteva non perdere la sua battaglia. E in questo
non poteva aiutarlo la sua fama (meritata) di conservatore illuminato, né l’audacia
riformatrice di certe sue proposte, che consentiva a Nitti di apostrofarlo, in una
lettera del 31 agosto ’94, come «uno dei pochi spiriti veramente radicali della nostra Camera»50 (ma sarà il caso di ricordare che Nitti al governo ci sarebbe andato con Giolitti
e non con Sonnino).
Non mi soffermerò molto sull’età giolittiana, che costituisce ovviamente il capitolo
più noto e più studiato non solo della vicenda di Giolitti, ma anche di quella di
Sonnino. C’è un punto, però, che merita qualche delucidazione. Ho detto prima che
sia Giolitti sia Sonnino si erano più volte pronunciati per una «ricostituzione dei
partiti»: una formula che, a fine Ottocento, non alludeva certo al partito come poi
l’abbiamo conosciuto, ma semplicemente alla necessità di un più forte ancoraggio programmatico
e ideale e a una maggiore stabilità dei gruppi parlamentari, come necessaria premessa
alla stabilità degli esecutivi (problema anche allora molto sentito). Nel momento
in cui Giolitti e Sonnino si collocano su versanti politici opposti (il che, come
ho detto, accade a partire dal ’93), più ancora quando diventano portatori di programmi
diversi, anche se non in tutto, in materia di politica economica e sociale oltre che
istituzionale (e questo avviene soprattutto all’inizio del nuovo secolo, con la pubblicazione
degli articoli «programmatici» di Sonnino), si potrebbe pensare che i due si propongano
anche come leader di due schieramenti alternativi, in uno schema bipolare all’inglese.
Qualcuno, in sede pubblicistica, lo ha scritto51. Ma le cose non andarono così: i due, in realtà, si candidavano alla leadership della
stessa maggioranza, mai alla guida di due partiti o schieramenti contrapposti e in
reciproca competizione.
51 P. Ostellino, D’Alema, ovvero Sonnino, in «Corriere della Sera», 28 ottobre 1996.
Giolitti, in effetti, dà per molto tempo l’impressione di prendere in considerazione
uno scenario del genere. Dubito che vi abbia mai pensato seriamente. Certo è che,
quando va al governo nel 1903, non esita un momento a imbarcare uomini della destra
moderata e a lasciar cadere il tratto distintivo più forte e più discriminante del
suo programma (non a caso duramente avversato da Sonnino), ossia il progetto di riforma
tributaria. Quanto a Sonnino, una prospettiva di tipo bipolare non l’ha mai nemmeno
concepita. L’unico partito a cui pensa, e che vuole rafforzare, è il «grande partito
liberale monarchico» di cui si diceva prima, o il «grande partito costituzionale»
cui accennerà nell’articolo Questioni urgenti52. Anche dopo la crisi di fine secolo, quando, nel Quid agendum?53, invoca una tregua politica all’interno del fronte costituzionale, lo fa pensando
alla riunificazione delle correnti «risorgimentali» attorno a un programma unitario.
52 Sonnino, Scritti e discorsi cit., vol. I, p. 712.
I motivi di tutto ciò sono facilmente intuibili, ma ci pensa lo stesso Sonnino a spiegarli
con chiarezza proprio nel Quid agendum?:
I pericoli e le difficoltà speciali in cui si trova il governo monarchico-rappresentativo
in Italia, il premere dei partiti estremi, poco scrupolosi nella scelta dei mezzi
e delle alleanze, ed alimentati dalle tradizioni rivoluzionarie che coadiuvarono alla
costituzione prima del Regno; l’ostilità politica irriducibile del Vaticano che dà
colore antidinastico e antiunitario ad un partito che altrimenti si presenterebbe
soltanto come ultraconservatore, tutte queste cose insieme ad altre ancora rendono,
a parer mio, impossibile al grande partito costituzionale e liberale di darsi il lusso
di dividersi normalmente in due schiere distinte e distintamente organizzate che si
alternino con regolare vicenda al governo della cosa pubblica. Ognuno dei due partiti
cadrebbe vittima del partito estremo che gli resta più vicino, la sinistra dei sovversivi,
la destra dei clericali54.
Sono qui esposti con grande lucidità i motivi di fondo che dal 1882 (in coincidenza
con l’allargamento del suffragio) spingevano quasi fatalmente la politica italiana
verso la soluzione trasformista: ossia verso un assetto politico di cui tutti denunciavano
gli effetti degenerativi ma nessuno voleva o sapeva rimuovere le cause autentiche.
Per Sonnino, dunque, il «grande partito liberale» può anche allargarsi rispetto al
suo nucleo originario e arrivare a comprendere componenti prima escluse dall’area
di governo (sarà lui, non Giolitti, a portare per la prima volta al governo i radicali,
suoi accaniti avversari di pochi anni prima), ma deve inesorabilmente chiudersi ai
sovversivi dell’una e dell’altra parte: deve essere insomma una sorta di partito unico
senza alcuna possibilità di alternanza.
Su questo punto Giolitti, com’è noto, era assai più elastico e possibilista. Ma, nella
sostanza, non la pensava diversamente: con socialisti e clericali si poteva anche
trattare, se ne poteva e doveva favorire la costituzionalizzazione, si poteva fruire
del loro appoggio in sede di costruzione delle maggioranze; ma questo doveva avvenire
partendo da una posizione di forza, ossia da una maggioranza liberale autosufficiente
e dunque non ricattabile. Proprio il perseguimento di questo obiettivo spiegherà molte
scelte politiche di Giolitti nel secondo dopoguerra: lo scioglimento della Camera
nel ’21, i blocchi nazionali, la tolleranza verso il fascismo, il contrasto irrimediabile
con Sturzo.
Resta da dire qualcosa sull’ultimo periodo, quello successivo alla grande svolta del
’14-’15. Nella fase finale dell’età giolittiana, ma già dopo il fallimento della sua
seconda esperienza di governo, Sonnino è in pratica uno sconfitto. Quando Giolitti
si dimette, nel marzo 1914, la successione va a un vecchio amico e luogotenente di
Sonnino, più o meno della sua generazione, ma certo meno laico e più conservatore
di lui. In realtà l’avvento di Salandra al governo può essere considerato una svolta
epocale solo col senno di poi. Salandra eredita da Giolitti la maggioranza e si consulta
con lui prima di accettare l’incarico. Il marchese di San Giuliano (altro vecchio
compagno di battaglie di Sonnino) si fa a lungo pregare da Giolitti per restare al
ministero degli Esteri. È solo un evento fortuito, la morte di San Giuliano, a riportare
Sonnino sul proscenio in quella che sarà l’ultima – e non certo la più felice – fra
le sue incarnazioni (il riformatore sociale degli anni giovanili, il leader del centro-destra
nella crisi di fine secolo, l’avversario sfortunato di Giolitti nel primo decennio
del Novecento e infine, appunto, il ministro degli Esteri della Grande Guerra e di
Versailles).
Per portare fino in fondo il parallelo con Giolitti, mi limiterò a osservare che questo
inopinato ritorno sulla scena nel tempo della scelta più grave della storia dell’Italia
unita rappresenta per Sonnino (e per tanti con lui) una rivincita, non nel senso meschino
del termine, su un Giolitti che contestualmente usciva di scena in modo apparentemente
irreversibile. Solo questa percezione di un’occasione storica irripetibile per rovesciare
un assetto politico consolidato può spiegare come mai, da parte di Sonnino (e di Salandra),
sia mancata una netta e pubblica presa di distanza dagli aspetti più beceri e più
violenti della campagna antigiolittiana della primavera 1915. Fu questa per Giolitti
una ferita non rimarginabile, anche se, come al solito, stoicamente sopportata: un’offesa
che probabilmente non avrebbe più perdonato.
Anche in questo caso, comunque, pur nella sconfitta generale della classe dirigente
liberale, sarebbe stato lui a vincere l’ultimo round. L’ultima resurrezione politica
sarebbe stata la sua, mentre Sonnino, stanco e ammalato, non sarebbe più tornato in
scena dopo la débâcle della conferenza di Parigi e la caduta del governo Orlando.
E, in quest’ultima fase della sua attività di governo, Giolitti si sarebbe preso le
sue vendette contro chi aveva creduto di sbarazzarsi di lui una volta per tutte: la
sua campagna contro la diplomazia segreta si configurava come una evidente polemica
retrospettiva contro Sonnino. Ma ancor più importante, e per lui più gratificante,
fu l’aver saputo sciogliere l’aggrovigliatissima matassa del contenzioso adriatico,
che Salandra e Sonnino avevano creato e che Nitti e Tittoni non erano riusciti a sbrogliare.
Il trattato di Rapallo può, da questo punto di vista, considerarsi come la risposta
vincente di Giolitti al patto di Londra. E come una nuova dimostrazione di quella
capacità di affrontare i problemi per via empirica che Giolitti ebbe in altissimo
grado e che a Sonnino invece era sempre mancata.
Le elezioni politiche del 1913 a Roma: scossa di assestamento o crisi di sistema?
Fra il settembre e l’ottobre del 1913, il settimanale «L’Idea Nazionale» aprì una
sottoscrizione per sostenere la campagna elettorale dei candidati nazionalisti Luigi
Federzoni e Luigi Medici del Vascello, scesi in campo in due collegi romani (il primo
e il quarto) con l’aperto sostegno dell’elettorato cattolico-conservatore e col dichiarato
intento di opporsi alle coalizioni «progressiste» che governavano la capitale dal
1907 e si erano affermate nelle politiche del 1909. Nelle liste dei sottoscrittori,
accanto all’intero Stato maggiore del movimento nazionalista, a esponenti dell’aristocrazia
romana e non, a intellettuali di area (fra questi Giovanni Amendola, allora vicino
al gruppo nazional-liberale), ad alti ufficiali delle forze armate, fra cui il generale
Fiorenzo Bava Beccaris, troviamo tre giovani intellettuali i cui nomi siamo soliti
associare ad altre e opposte esperienze politico-culturali: Luigi Salvatorelli, Arturo
Carlo Jemolo e Umberto Calosso. Salvatorelli, il più anziano fra i tre, aveva allora
ventisette anni, Jemolo ventidue, Calosso appena diciotto. Quasi mezzo secolo dopo,
in un bel libro di ricordi, Jemolo avrebbe fatto ammenda di questo errore giovanile
(«Tra i peccati di cui dovrò rendere conto a Dio è di aver avuto la tessera del Partito
nazionalista dal 1913 al giorno in cui il nazionalismo si schierò decisamente per
l’interventismo»), e lo avrebbe attribuito – correttamente – all’insofferenza, sua
e di tanti intellettuali della sua generazione, verso «i luoghi comuni della ‘mentalità
massonica’, del semplicismo bloccardo, dell’anticlericalismo»55.
55 A.C. Jemolo, Anni di prova (1969), Passigli, Firenze 1991, p. 120. Ai nomi di Jemolo, Salvatorelli e Calosso
si può aggiungere quello dell’allora venticinquenne Guido De Ruggiero, che, a elezioni
avvenute, inviò un telegramma di congratulazioni a Federzoni (vedi R. Molinelli, Per una storia del nazionalismo italiano, Argalia, Urbino 1966, p. 156).
L’episodio è per vari aspetti rivelatore. Non solo dell’itinerario quanto mai tortuoso
di una parte importante dell’intellettualità italiana e del suo lento approdo ai lidi
della democrazia. Ma anche dell’importanza di quella battaglia elettorale romana,
del suo carattere strategico, della sua centralità – ben compresa dagli stessi protagonisti
e poi messa in rilievo dalla storiografia56 – in ordine agli equilibri politici nazionali. In gioco non c’erano solo due importanti
collegi della capitale. In questione era innanzitutto la sopravvivenza della formula
dei «blocchi popolari»: ovvero di quelle alleanze, politiche e amministrative, che
– rifacendosi, sia pur in un diverso contesto, all’esperienza delle lotte di fine
Ottocento contro le derive autoritarie incarnate da Crispi, Rudinì e Pelloux – tenevano
assieme un ampio e composito fronte progressista e anticlericale a forte dominante
massonica, esteso dalla sinistra dello schieramento liberale fino ai socialisti, passando
attraverso la democrazia radicale e repubblicana. Questa formula aveva ottenuto numerosi
successi a livello locale, a cominciare da quello che, nel 1907, aveva consentito
la formazione a Roma della giunta Nathan57. Non era mai arrivata a tradursi in una plausibile proposta di governo nazionale,
essendo gli esecutivi dell’epoca basati, senza eccezione, sull’apporto contemporaneo
di tutte e quattro le componenti principali dello schieramento liberale (schematizzando:
destra rudiniano-luzzattiana, centro-destra sonniniano, centro-sinistra giolittiano,
sinistra demo-costituzionale, ovvero ex zanardelliana)58, con l’unica variante della presenza o meno dei radicali59. Ma certo aveva contribuito a spostare l’asse della politica italiana verso il centro-sinistra,
soprattutto grazie ai successi ottenuti nelle elezioni del 1909. E, almeno per una
parte dei suoi sostenitori, poteva prefigurare un diverso assetto del sistema politico
nazionale fondato sulla contrapposizione fra conservatori e progressisti anziché sull’eterno
grande centro, a guida giolittiana o sonniniana.
56 Mi riferisco soprattutto al lavoro di H. Ullrich pubblicato nella Biblioteca della
«Nuova Rivista Storica» (Le elezioni del 1913 a Roma. I liberali fra massoneria e Vaticano, Società editrice Dante Alighieri, Milano-Roma-Napoli-Città di Castello 1972) cui
farò spesso riferimento in queste pagine. A dedicare attenzione alla vicenda delle
elezioni romane sono stati soprattutto gli storici del nazionalismo: R. Molinelli,
Per una storia cit., pp. 149-157; F. Gaeta, Il nazionalismo italiano, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 147-148; e, da ultimo, A. Roccucci, Roma capitale del nazionalismo (1908-1923), Archivio Guido Izzi, Roma 2001, pp. 129-138.
57 Sulla giunta Nathan, oltre alle opere su Roma (in particolare, A. Caracciolo, Roma capitale. Dal Risorgimento alla crisi dello Stato liberale, Edizioni Rinascita, Roma 1956 e V. Vidotto, Roma contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001), si veda soprattutto Roma nell’età giolittiana. L’amministrazione Nathan, Atti del Convegno di studio (Roma, 28-30 maggio 1984), Edizioni dell’Ateneo, Roma
1986.
58 Si tratta di una classificazione schematica, in quanto l’identità dei vari gruppi,
soprattutto di quello giolittiano, non era ben definita (in assenza di una disciplina
dei gruppi parlamentari, che arriverà solo nel primo dopoguerra). Sulle articolazioni
interne allo schieramento liberale all’inizio del Novecento, resta fondamentale l’ampia
ricostruzione di H. Ullrich, La classe politica nella crisi di partecipazione dell’Italia giolittiana. Liberali
e radicali alla Camera dei deputati 1909-1913, 3 voll., Archivio storico della Camera dei deputati, Roma 1979 (la ricostruzione
si ferma però alla vigilia delle elezioni del 1913). Ma vedi anche, dello stesso Ullrich,
L’organizzazione politica dei liberali nel Parlamento e nel Paese (1870-1914), in R. Lill, N. Matteucci (a cura di), Il liberalismo in Italia e in Germania dalla rivoluzione del ’48 alla prima guerra
mondiale, il Mulino, Bologna 1980, pp. 403-450; e Ragione di Stato e ragione di partito. Il «grande partito liberale» dall’Unità alla
prima guerra mondiale, in G. Quagliariello (a cura di), Il partito politico nella belle époque. Il dibattito sulla forma-partito in Italia
fra ’800 e ’900, Giuffrè, Roma 1990, pp. 107-191. In particolare: sulla destra liberale, P.L. Ballini,
La destra mancata. Il gruppo rudiniano-luzzattiano fra ministerialismo e opposizione
(1901-1908), Le Monnier, Firenze 1984; su Sonnino, Id. (a cura di), Sidney Sonnino e il suo tempo, vol. I, Olschki, Firenze 2000; sui democratico-costituzionali, A. Scornajenghi,
La sinistra mancata: dal gruppo zanardelliano al Partito Democratico Costituzionale
italiano, 1904-1913, Archivio Guido Izzi, Roma 2004.
59 Sui radicali, vedi soprattutto G. Orsina, Senza Chiesa né classe. Il partito radicale nell’età giolittiana, Carocci, Roma 1998; e, dello stesso autore, Anticlericalismo e democrazia: storia del Partito radicale in Italia e a Roma, 1901-1914, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.
Il dibattito sulla formula «bloccarda» e sulle sue implicazioni politiche ne portava
con sé un altro, ancor più delicato e cruciale: quello della partecipazione cattolica
alle elezioni e, in prospettiva, dell’inserimento dei cattolici nella vita politica
e istituzionale del paese. È noto che sulla questione i due leader allora più autorevoli
dello schieramento liberale avevano opinioni opposte, o quanto meno adottavano strategie
diverse. Mentre il pragmatico Giolitti, in contrasto con la formula, che pure gli
apparteneva, delle «due parallele», portava avanti la sua apertura ai cattolici attraverso
intese locali e non ufficiali con le organizzazioni legate alla Chiesa (intese culminate,
proprio in occasione delle elezioni del 1913, nel «patto Gentiloni»), il dottrinario
Sonnino manteneva ferma la pregiudiziale laica, come requisito essenziale per l’ammissione
nel recinto di quello schieramento costituzionale che immaginava, in prospettiva,
allargato anche ai radicali (era stato lui peraltro a farli entrare per la prima volta
nel governo, nel 1906). Naturalmente, Sonnino, proprio in omaggio alla sua idea del
«grande partito liberale» come unico depositario della legittimità istituzionale60, era fermamente avverso ai blocchi popolari, aperti anche ai socialisti. Al contrario,
Giolitti, principale artefice della «conciliazione silenziosa», aveva guardato con
simpatia all’esperienza dei blocchi e in qualche caso li aveva appoggiati, al fine
di allargare la sua maggioranza e di compensare il peso dei clerico-moderati.
60 Sonnino spiegò con molta chiarezza questa sua opzione in un passo del suo celebre
articolo Quid Agendum?, apparso sulla «Nuova Antologia» del 16 settembre 1900, ora in S. Sonnino, Scritti e discorsi extraparlamentari, a cura di B.F. Brown, Laterza, Roma-Bari 1981, pp. 706-707. Sulla competizione fra
Giolitti e Sonnino per la guida della stessa maggioranza rinvio al saggio riportato
nelle pagine precedenti su Giolitti e Sonnino e, più in generale, a G. Sabbatucci, Il trasformismo come sistema. Saggio sulla storia politica dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 47-55. Più incline ad attribuire a Sonnino un coerente
progetto di destra conservatrice è U. Gentiloni Silveri, Conservatori senza partito. Un tentativo fallito nell’Italia giolittiana, Studium, Roma 1999.
A complicare il quadro era arrivato lo shock della guerra di Libia, con tutte le sue
non effimere ricadute politiche: il protagonismo della piccola pattuglia nazionalista,
da cui si sarebbe staccata, nel dicembre del 1912, la componente «democratica»; l’accresciuto
peso dei clerico-moderati e il loro dislocarsi su una piattaforma nazional-conservatrice
che, anche sulla base della comune battaglia per l’impresa coloniale, li avvicinava
ai nazionalisti veri e propri61; e, forse più importante di tutte, la scissione socialista di Reggio Emilia che,
consegnando la guida del partito alla corrente intransigente, tendenzialmente avversa
alle alleanze con i democratici, privava la formula bloccarda di una componente essenziale:
una scissione a cui si sommava, con analoghe conseguenze, la frattura apertasi nel
Partito repubblicano, sempre sulla questione libica62.
61 Su questo tema si veda, oltre a L. Ganapini, Il nazionalismo cattolico: i cattolici e la politica estera in Italia dal 1871 al
1914, Laterza, Bari 1970, e con particolare riferimento alla vicenda di Luigi Federzoni,
R. Moro, Nazionalismo e cattolicesimo, in B. Coccia, U. Gentiloni Silveri (a cura di), Federzoni e la storia della destra italiana nella prima metà del Novecento, il Mulino, Bologna 2001, pp. 49-112.
62 Si veda a questo proposito M. Tesoro, I repubblicani nell’età giolittiana, Le Monnier, Firenze 1978.
In questo contesto, la decisione dei nazionalisti romani di presentare proprie candidature
con l’aperto sostegno dell’elettorato cattolico-moderato acquisiva un chiaro significato
strategico in prospettiva nazionale: proponeva, in contrasto con la linea giolittiana,
una diversa e più esplicita modalità di inserimento dei cattolici nella politica italiana
(sempre comunque in funzione subalterna); e si poneva in deciso contrasto con la strategia
del centro sonniniano (oltre che naturalmente del giolittismo), prefigurando un diverso
assetto del sistema politico, fondato non più su un grande centro liberale e laico,
ma su un blocco egemone conservatore rafforzato dall’apporto dell’elettorato cattolico.
Questo apporto si presentava dunque non come un espediente tattico volto ad assorbire
le conseguenze del suffragio universale (tale doveva essere in sostanza nella logica
giolittiana), ma come una scelta strategica destinata a mutare, anche se non a stravolgere
completamente, la collocazione e l’impostazione politico-culturale della classe dirigente,
riportando le masse cattoliche alla loro «naturale» funzione di supporto dell’ordine
costituito. Non si trattava tanto di cancellare l’originaria matrice «risorgimentale»
delle istituzioni unitarie, quanto di darne una diversa lettura, che, accantonando
i valori del liberalismo laico, facesse centro sui temi del prestigio nazionale, della
compattezza interna e dell’espansione all’estero: temi cui si mostrava sensibile un
arco di forze assai più ampio di quello rappresentato dalla pattuglia nazionalista.
L’esito delle elezioni romane avrebbe confermato in termini clamorosi, e per molti
inattesi, la bontà di questa strategia, almeno a livello locale. Meno scontato è a
mio parere il giudizio sul significato di quel voto in prospettiva nazionale. Ma,
prima di affrontare le questioni di fondo, sarà necessario disegnare nei suoi tratti
essenziali la geografia elettorale della capitale alla vigilia delle prime elezioni
a suffragio «quasi universale» maschile, rinviando per un’analisi più dettagliata
della campagna del ’13 alla puntualissima ricostruzione che Hartmut Ullrich ne ha
fatto in un saggio di oltre quarant’anni fa63.
Va ricordato innanzitutto che la riforma elettorale varata nel maggio del 1912 aveva,
a Roma come nel resto d’Italia, più o meno triplicato il corpo elettorale, portando
il numero degli iscritti nelle liste a oltre centomila unità (108.626, per l’esattezza,
contro 29.954 del 1909)64, ma non aveva mutato il disegno dei cinque collegi che dividevano la capitale «a
spicchi», comprendendo ciascuno di essi una porzione del centro storico (i «rioni»)
e una parte delle nuove periferie (i «quartieri»)65.
64 Prendo questi dati da una pubblicazione (già utilizzata da Ullrich) del Servizio
di Statistica del Comune di Roma, Le elezioni generali politiche del 1913 nel Comune di Roma, Roma 1914. Per i dati nazionali, vedi invece Ministero di Agricoltura, Industria
e Commercio, Direzione generale della Statistica e del lavoro, Statistica delle elezioni generali politiche alla XXIV Legislatura (26 ottobre e 2
novembre 1913), Tipografia Bertero, Roma 1914.
65 È appena il caso di sottolineare che collegi disegnati in questo modo erano tutt’altro
che omogenei dal punto di vista della composizione sociale, nonostante alcune evidenti
differenze (nel secondo collegio, ad esempio, prevaleva nettamente l’elettorato popolare).
Non è facile quindi, e nemmeno utile, stabilire un forte nesso di correlazione fra
composizione sociale e risultati politici a livello di collegi. Semmai tale correlazione
si può individuare a livello dei singoli seggi: così nello studio del Comune di Roma
citato alla nota precedente, dove, come parametro per definire le condizioni sociali
di un dato ambito territoriale, viene usato l’indice di affollamento delle abitazioni.
Il primo collegio comprendeva i rioni Monti e Campitelli e i quartieri Celio e Appio-Latino.
Deputato uscente era il socialista Antonino Campanozzi, già consigliere comunale e
sindacalista del pubblico impiego, subentrato nelle suppletive del 1910 allo scomparso
Pilade Mazza, repubblicano. Campanozzi era stato protagonista, qualche anno prima,
di un caso che aveva fatto scalpore: era stato licenziato dal ministero delle Poste
per aver pubblicamente criticato il titolare del dicastero, Carlo Schanzer (per inciso,
un demo-costituzionale, dunque suo possibile alleato a Roma). In quello stesso collegio,
lo schieramento costituzionale e governativo candidava il principe Scipione Borghese,
rampollo di una delle più cospicue famiglie dell’aristocrazia romana, militante del
Partito radicale e noto soprattutto per il successo nel famoso raid automobilistico
Parigi-Pechino nel 190766. Sostenitore dell’impresa libica, Borghese godeva dell’appoggio del governo (nonostante
un recente passato di oppositore di Giolitti) e della giunta comunale, ma anche del
gruppo sonniniano e dell’influente «Giornale d’Italia». Contro di lui i nazionalisti
avevano in un primo tempo proposto la candidatura di Domenico Oliva, giornalista,
scrittore e critico teatrale, ex direttore del «Corriere della Sera» e allora collaboratore
del «Giornale d’Italia». Ma proprio le pressioni di Sonnino e del direttore del quotidiano,
Luigi Bergamini, avevano indotto Oliva alla rinuncia67. Era allora sceso in campo un altro giornalista-intellettuale, estraneo all’ambiente
romano, Luigi Federzoni, anche lui redattore del «Giornale d’Italia», dal quale diede
subito le dimissioni. Una scelta in apparenza temeraria, in quanto Federzoni partiva
con le stimmate dell’outsider (come il repubblicano Ercole Matteuzzi) e la sua candidatura
rischiava per giunta, rompendo il fronte costituzionale, di favorire l’affermazione
di Campanozzi.
66 Su di lui si veda ora P. Carusi, La democrazia schiacciata. Scipione Borghese deputato e politico nell’Italia giolittiana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011.
67 Su questo vedi soprattutto Ullrich, Le elezioni del 1913 a Roma cit., che utilizza la corrispondenza inedita fra Sonnino e Bergamini.
Il secondo collegio, di gran lunga il più vasto e popolato con i suoi oltre 200.000
ettari e oltre 40.000 elettori, aveva il suo nucleo storico nei rioni Trevi, Colonna
ed Esquilino, ma si allargava nel suburbio con i quartieri Salario-Nomentano, Tiburtino,
Prenestino-Labicano, Tuscolano, includendo inoltre l’intero agro romano. In questo
collegio, connotato da un vasto (e sottorappresentato) elettorato popolare, si presentava
per la seconda volta Leonida Bissolati (eletto nel 1909 da un’alleanza bloccarda),
da pochi mesi uscito dal Psi e leader del nuovo Partito socialista riformista (Psri),
alla sua prima prova elettorale. Contro di lui non fu presentata nessuna candidatura
«borghese»: scese invece in campo, con l’appoggio dei socialisti intransigenti, l’antico
comunardo Amilcare Cipriani, simbolo vivente della tradizione sovversiva italiana.
Il terzo collegio comprendeva, oltre ai rioni Campo Marzio, Parione, Sant’Eustachio
e Pigna, quartieri signorili come Pinciano, Parioli e Flaminio ed era da parecchie
legislature un feudo incontrastato: vi regnava l’anziano Guido Baccelli, medico, più
volte ministro e figura eminente della cultura positivista italiana, esponente del
gruppo demo-costituzionale, ma di tendenze moderate e ministeriali. Contro di lui,
solo la candidatura di bandiera del socialista Luigi Colli.
Il quarto collegio (Ponte, Regola, Sant’Angelo, Ripa, Testaccio) si estendeva al quartiere
Ostiense. Anche qui il favorito era il deputato uscente, Leone Caetani, duca di Sermoneta68: un altro aristocratico e grande proprietario (oltre che studioso e insigne orientalista),
demo-costituzionale di netto orientamento progressista, che si era pubblicamente opposto
all’impresa libica ed era diventato per questo una bestia nera dei nazionalisti. Questi
decisero di opporre a Caetani Luigi Medici del Vascello, nipote del generale garibaldino
Giacomo, proprietario terriero e costruttore con scarsa o nessuna esperienza politica.
Completavano il quadro Alceste Della Seta, personaggio assai noto del socialismo romano
(che però in queste elezioni si limitò a fare atto di presenza), e il repubblicano
Costanzo Premuti, nota figura di tribuno, con un suo non trascurabile seguito personale,
soprattutto fra gli impiegati.
68 Su di lui si veda P. Ghione, Leone Caetani: la politica e la cultura della democrazia, in Bonifacio VIII, i Caetani e la storia del Lazio, Atti del convegno di studi, Roma-Latina Sermoneta, 1°-2 dicembre 2000, L’Erma di
Bretschneider, Roma 2004, pp. 285-300.
Il quinto collegio riuniva i rioni «popolari» di Trastevere e Borgo ai quartieri prevalentemente
borghesi-impiegatizi sorti sulla riva destra del Tevere: Prati, Milvio, Trionfale,
Aurelio e Gianicolense. E rappresentava un altro caso di territorio elettorale di
fatto incontestato: il deputato uscente, il repubblicano moderato e filolibico Salvatore
Barzilai69, triestino e irredentista storico, corse praticamente da solo, con l’unica simbolica
opposizione del socialista Zerbini.
69 Su Barzilai vedi E. Falco, Salvatore Barzilai: un repubblicano moderno tra massoneria e irredentismo, Bonacci, Roma 1996.
Questo quadro politico-elettorale rispecchiava in sostanza l’egemonia del blocco progressista
che, come si è detto, governava la capitale dal 1907 ed era stato ulteriormente rafforzato
dall’esito trionfale delle politiche del marzo 1909 (cinque seggi su cinque alle forze
di centro-sinistra)70. E già da questo quadro emergono abbastanza chiaramente le ragioni che orientarono
la scelta dei nazionalisti sul primo e sul quarto collegio. Risultando Baccelli e
Barzilai pressoché inattaccabili e presentandosi la sfida fra Bissolati e Cipriani
come una questione interna alla sinistra, era in quei due collegi che si poteva correre
con qualche possibilità di successo e non solo per una battaglia ideale, di bandiera.
Era lì che ci si poteva inserire nelle fratture interne alla coalizione bloccarda
e, in genere, al fronte liberal-costituzionale. Non solo: se nel quarto collegio la
candidatura di Leone Caetani era indebolita dalle posizioni critiche dell’aristocratico-democratico
sulla guerra di Libia (oltre che dalla candidatura del repubblicano Premuti), nel
primo la configurazione delle forze in campo consentiva al candidato nazionalista
di combattere una difficile ma stimolante battaglia su due fronti, o meglio due battaglie
in contemporanea: quella naturale e obbligata contro il socialista «ufficiale» Campanozzi
(personaggio che da tempo, causa le vicende cui abbiamo accennato, costituiva uno
dei bersagli preferiti della polemica conservatrice e soprattutto nazionalista); e
quella, più complicata ma più promettente, tutta interna allo schieramento moderato,
contro le incertezze e le ambiguità del centro sonniniano, schierato in favore del
radicale Borghese in coerenza, come si è detto, con l’idea dell’unico «grande partito
liberale» aperto alla democrazia laica e chiuso ai clericali.
70 Si veda in proposito P. Ghione, Le elezioni politiche del 1909 a Roma, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1995, n. 1, pp. 165-210.
Questa battaglia fu condotta con veemenza soprattutto sulle colonne dell’«Idea Nazionale»,
che usò un sarcasmo pesante nei confronti dei «principi bloccardi» (Leone Caetani
fu soprannominato «don Abbacchio», Scipione Borghese «don Sciupone») e concentrò i
suoi attacchi contro l’«equivoco radico-sonniniano». Ma la campagna nazionalista fu
guardata con qualche simpatia da buona parte della stampa liberale, compresa quella
più vicina a Giolitti, e non solo per l’alto numero di simpatizzanti nazionalisti
allora presenti nelle principali redazioni (segno anche questo di un clima culturale
profondamente mutato rispetto alle elezioni precedenti). Certo, come ha ben spiegato
Ullrich, essa creò non pochi imbarazzi al gruppo sonniniano (parecchi esponenti di
peso si dissociarono più o meno apertamente dalle posizioni del leader), e soprattutto
alla sua maggiore espressione giornalistica, «Il Giornale d’Italia»71.
71 Su questo, oltre al saggio di Ullrich, si veda Carusi, La democrazia schiacciata cit.
Anche la scelta dei candidati non era affatto casuale: il bolognese (e allora trentacinquenne)
Luigi Federzoni, tra i fondatori del movimento nazionalista e membro della direzione
dell’«Idea Nazionale», era un giornalista e letterato di qualche notorietà, anche
se era conosciuto soprattutto con lo pseudonimo-anagramma di Giulio De Frenzi72. Ed era, quel che più conta, un carducciano: conservatore, sì, e aperto all’alleanza
con i clericali, ma pur sempre erede di una tradizione risorgimentale e nazional-irredentista,
sebbene rivisitata e alquanto stravolta. Luigi Medici del Vascello era un semisconosciuto:
ma il suo stesso nome (e il titolo nobiliare che Vittorio Emanuele II aveva concesso
alla sua famiglia per meriti patriottici) garantivano una qualche continuità con quella
tradizione, il che ben si prestava a contrastare le benemerenze mazziniane di Nathan
e della sua giunta. Come dire che il movimento nazionalista poteva anche allearsi
con i clericali senza per questo perdere del tutto i requisiti patriottico-risorgimentali
che erano iscritti, e non potevano non esserlo, nei suoi caratteri originari.
72 Su Federzoni, vedi soprattutto Coccia, Gentiloni (a cura di), Federzoni cit., in particolare il saggio di A. Vittoria, Dal carduccianesimo all’Accademia d’Italia: Federzoni e la cultura italiana, pp. 113-143, che usa le memorie inedite della famiglia Federzoni, conservate nell’Archivio
storico dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana. È abbastanza curioso che, nelle
sue memorie scritte poco prima di morire (Italia di ieri per la storia di domani, Mondadori, Milano 1967), Federzoni non faccia il minimo cenno alla vicenda romana,
che pure aveva segnato il suo lancio sulla scena politica nazionale.
Infine è appena il caso di sottolineare quanta importanza rivestisse, per la strategia
del nazionalismo e per l’immagine stessa del movimento, la decisione di scendere in
campo a Roma, capitale d’Italia ma anche «capitale del nazionalismo italiano»: ruolo
che avrebbe mantenuto fino alla fusione col fascismo del gennaio 1923.
Insomma, una campagna ben preparata e ben condotta, con ampi sostegni, anche economici,
da parte di un fronte piuttosto composito (valgano i nomi citati all’inizio fra quelli
dei sottoscrittori pro-candidature nazionaliste). E anche ambiziosa nei suoi obiettivi,
che vennero, come ora vedremo, puntualmente centrati.
Il primo dato che colpisce, analizzando i numeri elettorali, è il basso livello di
partecipazione al voto al primo turno: 31,35%, poco più di metà della media nazionale
(60,5%) e ben al di sotto del dato relativo alle elezioni del 1909 (50,1%). La percentuale
sale di qualche punto se si escludono dal numeratore coloro che non avevano ricevuto,
o non avevano ritirato, il certificato elettorale. Ma la partecipazione resta comunque
molto bassa, per elevarsi significativamente, come vedremo, solo nel turno di ballottaggio,
in presenza di scontri fortemente polarizzati e personalizzati. Tutto ciò si spiega,
almeno in parte, con l’estensione del suffragio, che aveva esteso il novero degli
aventi diritto a strati di popolazione verosimilmente poco interessati alla politica
o comunque estranei a reti e clientele. Va inoltre ricordato che, nell’Italia liberale,
la partecipazione al voto era di norma più elevata al Sud che al Nord, più nelle campagne
che nei centri urbani: segno evidente della cogenza dei legami personali, che faceva
premio sui sentimenti di appartenenza o di militanza ideologica.
Ma veniamo all’analisi dei risultati del 26 ottobre e del 9 novembre 1913. Poco o
nulla c’è da segnalare nei due collegi di fatto incontestati: nel terzo, su 3.944
elettori (meno di un terzo degli aventi diritto), 3.230 (l’82%) votano per l’uscente
Baccelli e solo 610 per il socialista Colli. Nel terzo, la vittoria di Barzilai su
Zerbini è quasi altrettanto larga: 4.928 voti contro 1.218, ovvero il 75% contro il
25, su un totale di 6.294 votanti (appena un quarto degli iscritti alle liste elettorali).
Più interessanti, e in qualche misura sorprendenti, i risultati dello scontro interno
alla sinistra nel secondo collegio (anche qui scarsa la partecipazione, un quarto
o poco più): Bissolati prevale, come da previsioni, ma solo per qualche centinaio
di voti (5.913 contro 5.176), su Amilcare Cipriani. Questo significa non solo che
una parte consistente dell’elettorato socialista ha abbandonato il leader riformista
(in favore di un candidato in verità non molto più ortodosso di lui), ma anche che
non pochi elettori conservatori e clericali, anziché fare la scelta del minor male,
hanno preferito la linea del «tanto peggio tanto meglio», nel chiaro intento di allargare
la frattura tra progressisti e socialisti e di far saltare definitivamente ogni possibilità
di ritorno alle alleanze bloccarde.
Che il punto centrale della battaglia stesse proprio qui, e che le nuove divisioni
della sinistra rappresentassero il fattore decisivo per rovesciare i vecchi equilibri,
appare evidente dai risultati delle due battaglie più incerte e combattute: quelle
del primo e del quarto collegio, dove erano state lanciate le candidature nazionaliste
di Federzoni e Medici. In entrambi i casi (non avendo nessuno dei candidati ottenuto
un numero di suffragi pari o superiore a un terzo degli iscritti o alla metà dei voti
espressi) fu necessario il ricorso al ballottaggio, dove si registrarono tassi di
partecipazione decisamente più elevati rispetto al primo turno: nel primo collegio
si passò dal 40 al 56,7%; nel quarto dal 47 al 60.
Particolarmente incerta, e decisa da una manciata di voti, fu la competizione nel
primo collegio. Qui i tre candidati più accreditati raccolsero quote di consensi quasi
identiche: Federzoni risultò in testa con 1.810 voti, 10 più di Campanozzi, 16 più
di Borghese, che fu così escluso dal ballottaggio, dove il nazionalista avrebbe battuto
il socialista con un margine abbastanza netto, ma tutt’altro che schiacciante (4.332
contro 3.872). Il quadro dei risultati non sarebbe però completo se non si menzionassero
i 416 voti raccolti al primo turno dal repubblicano Matteuzzi e i 28 messi insieme
da una improvvisata, e per certi aspetti misteriosa, candidatura di Ricciotti Garibaldi.
Se solo una minima parte di questi voti si fosse riversata al primo turno sul radicale
Borghese (come sarebbe sembrato logico prima dell’impresa libica), se avesse funzionato
un minimo di solidarietà bloccarda fra le diverse componenti della democrazia laica,
anche a prescindere dall’atteggiamento dei socialisti, il risultato sarebbe stato
ovviamente diverso. In altri termini, Borghese fu sì abbandonato con tutta probabilità
da pezzi dell’elettorato moderato (quello che non aveva digerito la scelta di Sonnino
e del «Giornale d’Italia»), ma fu tradito soprattutto da una parte dei suoi naturali
sostenitori progressisti: in altri termini fu vittima delle divisioni della sinistra,
e in particolare della nuova strategia intransigente del Partito repubblicano.
Un discorso molto simile si può fare per i risultati del quarto collegio. In questo
caso il candidato nazionalista, Medici del Vascello, superò al primo turno il democratico
Caetani con un margine abbastanza netto (3.057 voti contro 1.923). Ma questo scarto
si sarebbe potuto colmare se al ballottaggio fosse confluita sul candidato progressista
almeno una parte del non trascurabile pacchetto di voti (1.407) raccolti dal repubblicano
intransigente Premuti (il socialista Della Seta ne ebbe solo 178). Anche in questo
caso, dunque, a risultare decisive furono le fratture nella sinistra. E anche in questo
caso il ruolo principale spettò al piccolo Partito repubblicano che, liberatosi dalla
componente filolibica, stava cercando di rilanciare la sua immagine rivoluzionaria:
come si sarebbe visto da lì a meno di un anno con la «settimana rossa».
Se proiettassimo i risultati delle elezioni romane su scala nazionale, le conclusioni
sarebbero univoche e alquanto drastiche: sconfitta senza attenuanti delle coalizioni
progressiste e degli equilibri bloccardi; affermazione prepotente delle nuove alleanze
clerico-nazional-conservatrici; rottura del centro sonniniano; netto spostamento a
destra dell’asse della politica; in prospettiva, crisi irreversibile del sistema giolittiano
e delle sue mediazioni centriste, sotto l’urto delle nuove e simmetriche radicalizzazioni
su entrambi i lati dello schieramento politico. È questa del resto la chiave interpretativa
che prevale nelle più accreditate ricostruzioni della storia politica dell’Italia
giolittiana73. E molti dei mutamenti che abbiamo appena registrato in riferimento alla battaglia
combattuta nella capitale (l’affermazione dei nazionalisti, le divisioni della sinistra,
l’entrata in campo dei clericali, la crisi dei blocchi popolari, sancita di lì a poco
dalla caduta della giunta Nathan) sembrerebbero confermare questo quadro interpretativo.
73 Per citare solo le più importanti, G. Carocci, Giolitti e l’età giolittiana. Dall’inizio del secolo alla prima guerra mondiale, Einaudi, Torino 1961; G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. VII, La crisi di fine secolo e l’età giolittiana, Feltrinelli, Milano 1974; E. Gentile, Le origini dell’Italia contemporanea. L’età giolittiana (1977), Laterza, Roma-Bari 2003; F. Barbagallo, Da Crispi a Giolitti. Lo Stato, la politica, i conflitti sociali, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, vol. III, Liberalismo e democrazia. 1887-1914, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 3-133. A queste opere andrebbe aggiunta quella di A.
Aquarone, L’Italia giolittiana, il Mulino, Bologna 1988: è la più ampia e convincente, ma è purtroppo rimasta incompiuta
e non affronta se non per cenni i temi trattati in questo saggio.
Il quadro, però, cambia, e non di poco, se dallo scenario romano (importante e per
molti aspetti indicativo, ma pur sempre parziale) ci spostiamo a quello nazionale,
così come si presenta all’indomani delle prime elezioni a suffragio quasi universale
maschile. E se, nel valutare quello scenario, ci spogliamo per quanto possibile di
ogni pregiudizio sostenuto dal senno del poi.
Tanto per cominciare, risulta difficile parlare di spostamento a destra, almeno sul
piano dei numeri, quando il voto popolare, cui partecipa un corpo elettorale nuovo
per due terzi, fa registrare un netto incremento delle forze progressiste (e rivoluzionarie)
rispetto alle consultazioni precedenti, quelle del 1909, che pure erano state segnate
dal successo delle alleanze bloccarde e dall’incremento, in voti e in seggi, dei partiti
di sinistra rispetto al 1904. I socialisti «ufficiali» passano dai 41 seggi del 1909
ai 52 del 1913: se a questi aggiungiamo i 27 seggi ottenuti da social-riformisti e
socialisti indipendenti (un numero pari a quello raggiunto dall’intero Psi ancora
unito nel 1904), arriviamo a 88 seggi, dunque più del doppio. I radicali passano da
45 a 73, con una crescita di oltre un terzo. Anche i repubblicani guadagnano qualcosa
(da 24 a 29), ma quasi due terzi dei loro seggi vanno ai dissidenti moderati e filolibici.
A migliorare le sue posizioni non è dunque solo il Psi, che vede così premiata la
sua svolta intransigente. Sono, in misura maggiore, i radicali, perno di tutte le
alleanze di blocco, e con loro i repubblicani dissidenti. Abbastanza soddisfacente
è anche l’esito dei social-riformisti di Bissolati (parlo dell’esito elettorale, perché
sul piano politico il Psri fallisce nel suo scopo principale: quello di dar vita a
una consistente forza laburista).
Più difficile è valutare il risultato della galassia che siamo soliti definire «liberale»
e che si articola in sottogruppi non sempre facili da definire (e mal definiti dalle
statistiche ufficiali74). C’è, complessivamente, un calo netto (da 370 a 310 seggi), che consente però un
margine di autosufficienza abbastanza comodo rispetto ai 255 seggi necessari per una
maggioranza alla Camera. E il calo è in parte compensato dall’incremento dei radicali
che, pur con qualche riserva e qualche scarto improvviso (come quello che, nel marzo
del 1914, avrebbe portato alla caduta del IV ministero Giolitti), si avviavano a diventare
parte dello schieramento costituzionale. Senza contare la possibile sponda offerta
dai repubblicani dissidenti e dai riformisti bissolatiani. È impossibile – o meglio,
richiederebbe un’apposita ricerca – stabilire con esattezza gli equilibri interni
al «grande partito liberale», in assenza di una divisione formale in gruppi (che sarebbe
stata introdotta solo nel 192075): ma molti indizi – non ultimo il comportamento dei deputati durante la crisi del
maggio 1915 – ci inducono a supporre che i giolittiani ortodossi costituissero una
forte maggioranza nella maggioranza, anche in quanto probabili beneficiari principali
del voto cattolico-moderato.
74 Nelle statistiche del ministero di Agricoltura, Industria e Commercio si distinguono,
oltre ai «liberali» senza aggettivi (270) e ai «Costituzionali democratici» (29) anche
11 non meglio identificati «democratici». Nelle elezioni precedenti si distinguevano
invece «Costituzionali liberali», «Costituzionali di opposizione» e «Costituzionali
indipendenti».
75 Su questo vedi G. Orsina, L’organizzazione politica nelle Camere della proporzionale (1920-1924) e H. Ullrich, Dai gruppi al partito liberale (1919-1922), in F. Grassi Orsini, G. Quagliariello (a cura di), Il partito politico dalla grande guerra al fascismo. Crisi della rappresentanza e
riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa (1918-1925), il Mulino, Bologna 1996, pp. 397-489 e 493-529.
A tal proposito, è appena il caso di ricordare che, dall’angolo visuale della «questione
cattolica», il dato saliente di queste elezioni non sta nel delinearsi di un fronte
clerico-nazionalista (fenomeno importante, ma numericamente poco rilevante76) e nemmeno nell’elezione di un manipolo di cattolici dichiarati (molti dei quali
non certo ascrivibili alla destra clericale, ma piuttosto collocabili nell’area ancora
minoritaria del cattolicesimo democratico77). La vera novità sta piuttosto in quell’operazione politica che siamo soliti definire
come «patto Gentiloni» e che assicurò l’appoggio del grosso delle organizzazioni cattoliche
a un alto numero di candidati dell’area liberale, vincolandoli non a una precisa scelta
di campo (come sarebbe accaduto se il patto fosse stato palese), ma al rispetto di
una serie di impegni su punti ben definiti, per giunta più in negativo che in positivo.
76 Il gruppo nazionalista che si formò nella Camera uscita dalle elezioni contava solo
cinque deputati: oltre a Federzoni e Medici del Vascello, Piero Foscari (eletto a
Mirano dopo che si era prospettata una sua candidatura a Roma), Romeo Gallenga Stuart
(Perugia) e Camillo Ruspoli (Sant’Angelo dei Lombardi).
77 Fra i «cattolici deputati» eletti nel 1913, c’erano molti futuri fondatori del Partito
popolare: non solo i moderati come Meda, Tovini, Nava e Longinotti (non pochi dei
quali peraltro erano passati attraverso l’esperienza democratico-cristiana), ma anche
personaggi come Giovanni Bertini, Giulio Rodinò e persino Guido Miglioli.
Non intendo affrontare qui la questione generale del significato di quell’accordo:
se rappresentasse un’abdicazione rispetto ai princìpi fondanti dello Stato laico e
uno stravolgimento della rappresentanza liberale o solo un escamotage tattico per
contenere i rischi derivanti dall’allargamento del corpo elettorale (probabilmente
fu l’una e l’altra cosa, a seconda del punto di vista da cui lo si guarda). Mi limito
a osservare che, mentre il primo aspetto dell’operazione ebbe effetti scarsi, o perlomeno
poco visibili, sul piano dei comportamenti politici e delle scelte parlamentari (tant’è
che, nel giro di pochi mesi, il problema dei «gentilonizzati» scomparve, o quasi,
dal dibattito politico, per non venire più sollevato per tutto il lunghissimo corso
della legislatura), il secondo funzionò abbastanza bene sul piano dei numeri: si considerino
o meno attendibili i dati forniti dalla stampa nei giorni successivi alle elezioni
(fra questi, la cifra shock di 228 deputati «gentilonizzati» fornita dallo stesso
Gentiloni in un’intervista al «Giornale d’Italia» dell’8 novembre e ripresa, e di
fatto confermata, il giorno dopo dall’«Osservatore Romano»), restano pochi dubbi sul
fatto che l’intervento ci fu, fu massiccio e favorì soprattutto l’area più chiaramente
governativa.
Questo per dire che dalle elezioni la maggioranza liberale (e al suo interno la maggioranza
giolittiana) uscì numericamente ridimensionata e alquanto sbilanciata per il venir
meno della sponda a suo tempo offerta con larghezza dal Psi (un dato in parte compensato
dalla crescita dei radicali e dalla discreta affermazione dei bissolatiani), ma certo
non dissolta né privata della sua centralità sistemica (come sarebbe avvenuto, con
conseguenze drammatiche, nel 1919, in seguito all’introduzione della proporzionale).
Lo stesso passaggio di consegne da Sonnino a Salandra nel ruolo di antagonista «interno»
di Giolitti ebbe effetti tutto sommato modesti sugli equilibri generali. Quali che
fossero le inclinazioni ideologiche, i progetti e le ambizioni dell’uomo politico
pugliese, la sua chiamata alla guida del governo, nel marzo del 1914, rientrava nella
stessa logica che aveva visto Sonnino e Luzzatti avvicendarsi in quel ruolo per periodi
brevi o brevissimi. Quando formò il suo governo, Salandra ne escluse i radicali, ma
vi inserì, come da prassi, i soliti rappresentanti di tutte le tendenze liberali,
demo-costituzionali compresi, naturalmente. E non credo sia azzardato sostenere che
quel governo sarebbe potuto cadere in qualsiasi momento, se solo Giolitti lo avesse
deciso (magari per far posto a un ministero di orientamento progressista aperto ai
bissolatiani). E se, naturalmente, non fosse intervenuta la guerra europea a sconvolgere
programmi e schieramenti.
Certo, i numeri parlamentari non dicono tutto. C’era, e ben visibile, la rottura di
quel continuum politico che univa, attraverso diversi passaggi, il progressismo liberale
al riformismo socialista: rottura cui faceva riscontro il tentativo di stabilire una
opposta linea di continuità fra moderatismo liberale e clerico-nazionalismo. C’era
un sommovimento profondo che scuoteva da tempo la cultura italiana, uno «spirito del
tempo» che spingeva soprattutto i giovani, in Italia come in Francia78, a rinnegare quelle che Croce chiamava le «alcinesche seduzioni della Dea Giustizia
e della Dea Umanità»79 e faceva apparire superate, ridicole, e quasi impresentabili, le retoriche e le liturgie
del radicalismo laico di matrice ottocentesca. L’episodio che ho citato all’inizio
è una delle tante testimonianze di questa diffusa insofferenza che, sommandosi alle
spinte radicalizzanti indotte dalla guerra di Libia anche e soprattutto a sinistra,
non poteva non avere qualche riflesso sugli equilibri politici nazionali.
78 Sulle vicende degli intellettuali francesi negli anni a cavallo fra i due secoli,
la ricostruzione più completa e convincente è a mio parere quella di M. Winock, Le siècle des intellectuels, Seuil, Paris 1997. Ma su tutta la questione vedi anche L. Mangoni, Una crisi di fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Otto e Novecento, Einaudi, Torino 1985.
79 L’espressione fu usata da Croce nel 1917, nella prefazione alla III edizione di
Materialismo storico ed economia marxista.
Questi effetti non erano però decisivi di per sé, né tanto meno irreversibili. Lo
prova l’itinerario politico-culturale di tanti giovani intellettuali, filonazionalisti
e antidemocratici nel 1913 e antifascisti una decina di anni dopo. Lo prova il grande
rimescolamento di carte avvenuto nel 1914-15, quando la battaglia per l’intervento
vide affiancati, sia pur su posizioni non confondibili, esponenti del nazionalismo
e della democrazia laica, conservatori e radicali, vecchi massoni e nemici della massoneria.
La storia dell’Italia repubblicana, guidata per anni da una forza politica, la Dc,
maggioritaria nelle urne e poco presente nel mondo della cultura alta, ci mostra inoltre
che fra l’egemonia politica e l’influenza intellettuale possono darsi scarti significativi,
se non addirittura correlazioni inverse.
Per concludere: è giusto vedere nelle elezioni romane del 1913 una tappa significativa
del riassestamento degli equilibri politici italiani all’indomani della guerra di
Libia, in particolare per quanto riguarda la configurazione delle forze di sinistra
e il rapporto fra le organizzazioni cattoliche e lo Stato liberale. Parlare di una
crisi irreversibile del giolittismo, o addirittura di fine dell’età giolittiana, appare
però alquanto esagerato. Significa fra l’altro anticipare lo sconvolgimento politico
che si sarebbe verificato un anno dopo, in presenza di un quadro, nazionale e internazionale,
imprevedibile nell’autunno del 1913; e sottovalutare implicitamente la rottura, questa
sì epocale, che sarebbe stata determinata dalla Grande Guerra.
I socialisti e l’Estrema sinistra nella svolta del secolo
Quella che siamo soliti chiamare «svolta di inizio secolo», o «svolta liberale» o
«svolta giolittiana» è una vicenda che riguarda direttamente la sinistra italiana,
sia in quanto soggetto politico sia in quanto oggetto delle politiche altrui. Per
apprezzare il carattere epocale di questo passaggio e per valutarne gli effetti, basta
accostare due date fra loro piuttosto vicine, il maggio 1898 e l’ottobre 1903.
Nella primavera-estate del 1898 il Psi è un partito ancora gracile. Nonostante si
sia dato tre anni prima, a Parma, una struttura da partito moderno, è soprattutto
un conglomerato di leghe, circoli, società di mutuo soccorso distribuiti sul territorio
in modo tutt’altro che uniforme. Ha una rappresentanza parlamentare di una quindicina
di deputati e un elettorato valutabile in 135.000 unità (cifra peraltro non trascurabile
se rapportata ai 2.120.000 aventi diritto al voto e a 1.241.000 votanti). Soprattutto
è un partito emarginato e perseguitato, con alcuni dei suoi maggiori dirigenti in
carcere, condannati a pesanti pene detentive dopo i tumulti contro il caro-pane del
maggio. In una condizione simile erano anche gli altri gruppi della sinistra, e qui
intendo per sinistra i tre gruppi dei socialisti, dei radicali e dei repubblicani:
era quella che allora si chiamava l’Estrema sinistra (o semplicemente «Estrema»),
per distinguerla dalla sinistra moderata, ormai confusa nella galassia della classe
dirigente liberale. Nonostante che i radicali e una parte degli stessi repubblicani
fossero da tempo inseriti nel gioco parlamentare, nel ’98 la frattura fra gruppi «costituzionali»
ed Estrema era profonda e apparentemente incolmabile. Il movimento operaio e socialista,
in particolare, era percepito dalla classe dirigente liberale come un corpo estraneo,
come una minaccia alla solidità delle istituzioni. La divisione interna al fronte
costituzionale fra moderati e progressisti si evidenzierà solo nel corso dell’anno
successivo, al tempo della lotta ostruzionistica contro i «provvedimenti politici»
di Pelloux.
Completamente diversa è la situazione di cinque anni dopo. L’intera sinistra si è
considerevolmente rafforzata già nelle elezioni del giugno 1900, passando da 67 a
96 deputati (l’avanzata più consistente è quella dei socialisti, che guadagnano circa
trentamila voti e raddoppiano, grazie al gioco delle alleanze, il numero dei seggi:
33, contro 34 radicali e 29 repubblicani)80. Ma il suo progresso sostanziale il movimento socialista lo realizza nei due anni
e mezzo del governo Zanardelli, profittando del nuovo clima di libertà per dar vita
a una straordinaria stagione di lotte, soprattutto agrarie, e per impiantare le sue
organizzazioni sul territorio, anche se in modo ancora del tutto squilibrato geograficamente:
nel congresso di Imola del 1902, grande parata e dimostrazione di forza del socialismo
di inizio secolo prima ancora che affermazione (contrastata) delle correnti riformiste,
quasi la metà delle sezioni rappresentate appartengono all’area padana81.
80 Per i dati elettorali, faccio riferimento a P.L. Ballini, Le elezioni nella storia d’Italia dall’unità al fascismo. Profilo storico-statistico, il Mulino, Bologna 1988.
81 Su questi temi vedi G. Procacci, La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, Editori Riuniti, Roma 1970 e M. Degl’Innocenti, Geografia e istituzioni del socialismo italiano, Guida, Napoli 1983.
È comunque questo radicamento sociale, ancor più dei successi elettorali, a fare del
Psi un interlocutore politico importante al cospetto della classe dirigente liberale,
o almeno delle sue componenti più aperte: nell’ottobre del 1903 quello stesso Filippo
Turati che cinque anni prima era in carcere sotto pesanti imputazioni viene consultato
dal presidente del Consiglio incaricato, Giolitti, in vista di una sua partecipazione
al governo che poi, com’è noto, non si realizzerà causa il rifiuto dell’interessato.
Così come non si concreterà, ma per motivi diversi, la trattativa con i radicali,
che faranno il loro ingresso nel governo solo tre anni dopo con Sonnino82. Se l’offerta fatta ai radicali rientrava nell’ordine naturale delle cose, vista
la stretta contiguità del partito con i settori progressisti della maggioranza costituzionale
(in particolare con gli zanardelliani), se per i repubblicani il problema non si poneva
neppure (ci sarebbe voluta la Grande Guerra per farli uscire dalla loro intransigenza
in materia di partecipazione al governo)83, la proposta rivolta al leader socialista, sia pure a titolo individuale e non come
rappresentante di un partito, e gli stessi toni della risposta negativa di Turati
(dove si faceva riferimento «alle attuali condizioni del mio partito e del mio Gruppo»84: dunque a un problema di fattibilità più che a una pregiudiziale ideologica) erano
effettivamente il segno di una svolta storica, o quanto meno della caduta di un tabù.
82 Sui radicali, si veda G. Orsina, Senza Chiesa né classe. Il partito radicale nell’età giolittiana, Carocci, Roma 1998.
83 Sui repubblicani il lavoro di riferimento è quello di M. Tesoro, I repubblicani nell’età giolittiana, Le Monnier, Firenze 1978.
84 La lettera di Giolitti a Turati del 23 ottobre 1903 sta in Dalle carte di Giovanni Giolitti, vol. II, Dieci anni al potere 1901-1909, a cura di G. Carocci, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 324-325.
Che cosa era cambiato allora nelle prospettive e nel modo di operare della sinistra
italiana (intesa come somma dei gruppi di Estrema: radicali, repubblicani e socialisti)?
A un primo sguardo superficiale, si potrebbe rispondere che non era cambiato molto
e che il vero mutamento era avvenuto in seno alla classe dirigente (basti pensare
a Zanardelli, che nel ’98 era ministro con Rudinì ed era entrato in contrasto col
governo non tanto per protesta contro le repressioni, quanto perché pretendeva che
fossero estese anche ai cattolici). In fondo, i socialisti il loro cammino verso la
lotta «legale» all’interno delle istituzioni lo avevano intrapreso fin dal 1879, ai
tempi della svolta di Andrea Costa; avevano approvato nel ’92 un programma che coniugava
la «lotta dei mestieri» con quella «più ampia intesa a conquistare i poteri pubblici»;
si erano uniti nel ’94 ai partiti della sinistra democratica nella «Lega per la difesa
delle libertà» contro l’autoritarismo crispino; e avevano mantenuto l’alleanza con
l’ala progressista del fronte «borghese» lungo tutto il corso della crisi di fine
secolo. I radicali poi, nati come gruppo autonomo anche per distinguersi dall’atteggiamento
di totale rifiuto dei repubblicani ortodossi, avevano nei loro caratteri originari
un certo grado di pragmatismo, sia pur attenuato da forti residui di intransigentismo
di matrice mazziniana. Gli stessi repubblicani, che di quell’intransigentismo erano
in teoria i custodi, avevano nei fatti acquisito una larga pratica di partecipazione
alle lotte parlamentari e alle amministrazioni locali85.
85 Vedi in proposito L. Lotti, I repubblicani in Romagna dal 1894 al 1915, Lega, Faenza 1957.
In realtà l’esperienza concreta di un decennio di lotte combattute insieme in difesa
delle libertà democratiche (e delle stesse «libertà liberali») ha per la sinistra
italiana il valore di una esperienza fondante. Per i socialisti, in particolare, una
cosa è ammettere la possibilità di temporanei compromessi con lo schieramento «borghese»,
altra è trovarsi per anni a combattere le stesse battaglie. Una cosa è riconoscere
– sulla scorta della famosa prefazione di Engels a La guerra civile in Francia – che la democrazia è il quadro naturale entro cui il movimento operaio può crescere
ed affermarsi, altra è misurare in concreto e in prima persona la distanza che corre
tra diversi quadri politico-istituzionali proprio in rapporto alla possibilità di
operare o addirittura di esistere. Il problema, come sappiamo, si era posto, o si
sarebbe posto in seguito, all’intero movimento socialista europeo (si pensi alla lotta
dei socialdemocratici tedeschi contro le leggi eccezionali di Bismarck o all’impegno
dei socialisti francesi nel fronte di «difesa repubblicana» al tempo dell’affare Dreyfus).
Il carattere specifico della vicenda dei socialisti italiani di fine Ottocento sta
nell’aver dovuto affrontare quasi in contemporanea, o almeno in immediata successione,
il problema dell’affermazione della propria identità partitica e classista, e dunque
della necessaria separazione dalle forze di democrazia «borghese», e quello della
collaborazione con le stesse forze da cui ci si era appena separati.
Questo dato originario ci serve a dar conto di alcuni caratteri costitutivi del socialismo
riformista italiano che lo accomunano ai grandi modelli della socialdemocrazia europea:
mi riferisco alla felice combinazione fra presenza nella società e attività all’interno
delle istituzioni, allo stretto collegamento fra l’organizzazione di classe e l’azione
dei parlamentari, anche a scapito della centralità del partito. Ma il dato ci aiuta
anche a spiegare le debolezze e i limiti di quell’esperienza, le opposizioni da essa
incontrate all’interno del movimento operaio, l’esaurimento – destinato a rivelarsi
irreversibile – della egemonia riformista nel secondo decennio del secolo (a partire
dal congresso di Reggio Emilia del 1912). Insomma, a capire perché in Italia non si
consolidò e affermò un movimento socialista-democratico capace di inserirsi gradualmente
nelle istituzioni (sia pur con i traumi e le contraddizioni che caratterizzarono la
vicenda degli altri partiti europei), di proporsi in prospettiva come forza di governo.
Durante la crisi di fine secolo il socialismo italiano scopre (o riscopre, vista la
originaria militanza democratica di molti suoi dirigenti) il valore della democrazia
politica. Ma lo fa non tanto in seguito a una consapevole maturazione teorica, quanto
sulla spinta di uno stato di necessità. Ciò fa sì che quell’acquisizione risulti in
molti casi strumentale e quindi reversibile. Lo si vede proprio nel periodo del governo
Zanardelli e del congresso di Imola, ossia nella fase di massima espansione organizzativa
del movimento: fase che coincide però con la «lotta delle tendenze», con le polemiche
sul «ministerialismo», col riemergere prepotente di spinte intransigenti o francamente
sovversive solo in parte riconducibili ai vecchi filoni anarco-insurrezionisti o operaisti-corporativi
che il Partito socialista aveva cercato di espungere da sé all’atto stesso della sua
formazione. Queste spinte si manifestano infatti anche all’interno di quel grande
fenomeno di associazionismo contadino e bracciantile (testimoniato dagli oltre 200.000
iscritti alla Federterra nel 1902) che, appunto in questi anni, profittando della
relativa libertà assicurata dal governo Zanardelli-Giolitti, si propone come la vera
base di massa del movimento. La maggioranza dei rappresentanti delle leghe rosse appoggia
i dirigenti riformisti, che spesso si identificano con gli «apostoli», primi portatori
del verbo socialista nelle campagne, e con i deputati e gli amministratori locali
che tutelano i loro interessi e le loro rivendicazioni. Ma continua a coltivare una
mentalità classista ed esclusivista che mal si accorda con la tattica pragmatica e
conciliante del gruppo parlamentare86. Fra organizzazioni di base e gruppo dirigente c’è dunque, come ho detto, uno stretto
collegamento, che però si accompagna a un certo scollamento strategico, quasi una
tacita divisione di compiti.
86 Vedi anche su questo punto Procacci, La lotta di classe in Italia cit.
A queste difficoltà si aggiungono due dati, per così dire, strutturali. Il primo rinvia
ai fortissimi squilibri territoriali del paese, che l’organizzazione di classe sostanzialmente
riproduce senza nemmeno provare a colmarli. Il dato prima citato circa la provenienza
«padana» di quasi metà dei delegati al congresso di Imola è in questo senso significativo
(e segna fra l’altro un regresso rispetto ai primi anni di vita del Psi, quando era
stato tentato, sia pur fra mille incertezze, uno sfondamento nel Mezzogiorno con l’accoglienza
data al movimento dei Fasci siciliani). È inutile sottolineare come questo dato limiti
considerevolmente le possibilità del partito di fare una politica «nazionale» nel
senso pieno del termine.
Il secondo dato riguarda il sistema politico-istituzionale. Da un lato c’è la perdurante
ristrettezza delle basi dello Stato e in particolare del corpo elettorale, che, fino
alla riforma del 1912, comprende poco più di un quarto dei maschi maggiorenni (è questo
il dato significativo, non la percentuale sul totale della popolazione, dal momento
che i bambini non votano e le donne non votavano allora tranne che in pochissimi paesi).
Un fatto questo di cui, per la verità, il movimento operaio e l’intera sinistra –
se si prescinde dagli sforzi di un Salvemini e di pochi altri – non sembrano darsi
troppa pena, ma che comunque rende problematico qualsiasi discorso di identificazione
con lo Stato e qualsiasi prospettiva di integrazione democratica in istituzioni che
pienamente democratiche non sono.
D’altra parte c’è la tendenza della classe dirigente (comprese le componenti più aperte)
a far blocco, a non dividersi fra conservatori e progressisti proprio per non concedere
peso determinante alle forze estreme, estranee ai valori fondanti dello Stato. In
queste condizioni una politica di alleanze volta a inserire il movimento socialista
in un più ampio arco progressista diventa difficilmente praticabile e comunque sterile.
Questa politica sarà in parte perseguita, ma solo a livello locale, negli anni attorno
al 1910, con i «blocchi popolari». E avrà fiato corto anche perché, in presenza di
una forte divaricazione fra le sue componenti, troverà il suo principale elemento
unificante nell’anticlericalismo, provocando alla fine nel movimento operaio reazioni
di violento rifiuto che avranno qualche influenza sulla rottura consumatasi al congresso
di Reggio Emilia del 1912 e sulla conseguente sconfitta della corrente riformista,
destinata da allora a un ruolo di eterna minoranza87.
87 Sulla crisi del riformismo, vedi G. Sabbatucci, Ivanoe Bonomi e la scissione di Reggio Emilia, in Id., Il riformismo impossibile. Storie del socialismo italiano, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 15-35.
In conclusione: la svolta del secolo consegna al paese una sinistra rafforzata e rinfrancata
e, all’interno di essa, un movimento operaio che ha imparato, per necessità, a fare
politica nel senso pieno del termine, a stabilire alleanze e a convivere con le istituzioni
liberali che pure continua a criticare (ma non a rifiutare in blocco). Tutto questo
però – per motivi attinenti sia ai caratteri originari del movimento operaio, sia
ad alcuni tratti strutturali della società e del sistema politico-istituzionale –
non sarà sufficiente a dare al socialismo italiano un ruolo autenticamente nazionale
e una stabile fisionomia democratico-riformista. Questa mancata, o incompiuta, evoluzione
avrebbe avuto effetti disastrosi sia sulla tenuta delle istituzioni liberali, sia
sulle sorti del movimento socialista lungo l’intero corso del secolo.
Michels e il socialismo italiano
Roberto Michels è stato innanzitutto uno studioso assiduo del movimento operaio italiano,
cui ha dedicato, soprattutto nella prima fase della sua attività, una mole considerevole
di saggi e volumi: una produzione forse meno imponente di quanto non appaia dalle
bibliografie (data l’abitudine di Michels di rifondere e riutilizzare i suoi saggi),
ma pur sempre notevole, e non solo per quantità. Michels è stato però anche un militante
del movimento socialista e in particolare del Partito socialista italiano, pur essendo
di nascita e di formazione tedesca ed avendo in gioventù aderito alla Spd: un militante,
non certo un dirigente, la cui vicenda merita tuttavia di essere studiata, sia per
la sua atipicità (Michels decise di operare nelle file del Psi molto prima di stabilirsi
in Italia: la sua militanza fu dunque il frutto di una doppia scelta), sia per alcuni
caratteri che, come cercherò di spiegare, la rendono al contrario esemplare.
Il tema è stato abbastanza trascurato. La riscoperta di Michels che si è avuta nel
secondo dopoguerra ha riguardato (come del resto era giusto) soprattutto il Michels
sociologo e politologo, l’inventore della legge ferrea dell’oligarchia, l’autore della
Sociologia del partito politico (un’opera in cui, com’è noto, si parla più di socialdemocrazia tedesca che di socialismo
italiano)88. Scarsa è invece la letteratura su Michels socialista, se si fa eccezione per un
saggio, molto analitico e documentato, di Pino Ferraris su Michels politico89. Io stesso ho avuto occasione di occuparmi, sia pur sinteticamente, di Michels storico
del socialismo, quando ho curato una edizione della Storia critica del movimento socialista italiano90.
88 L’opera, uscita per la prima volta in Germania nel 1911, fu tradotta in italiano
e pubblicata dalla Utet già l’anno seguente. Una nuova traduzione (dall’edizione del
1925) fu pubblicata dal Mulino nel 1966, con un lungo saggio introduttivo di Juan
Linz.
89 Il saggio, che riguarda gli anni fra il 1901 e il 1907, è stato pubblicato nei «Quaderni
dell’Istituto di studi economici e sociali» dell’Università di Camerino, 1982, n.
1, pp. 51-162. Ora anche in P. Ferraris, Saggi su Roberto Michels, Jovene, Napoli 1993.
90 Il Poligono, Roma, 1979. Il libro fu scritto nel 1921, ma, a causa delle vicissitudini
della casa editrice La Voce, fu pubblicato per la prima volta solo nel ’26.
Da quell’esperienza ho tratto la convinzione che Michels sia stato il primo autentico
studioso del socialismo italiano e che il suo contributo alla storiografia sul movimento
operaio sia stato decisivo, e non sempre adeguatamente apprezzato. Michels non ci
ha dato una vera storia organica del socialismo italiano, ché tale non può considerarsi
la Storia critica (opera senza dubbio interessante, ma alquanto composita e lacunosa). Ci ha dato però,
in questo e in altri lavori – in particolare nei saggi raccolti nel volume Il proletariato e la borghesia nel movimento socialista italiano, del 1907 – una serie di quadri storici efficacissimi: per esempio, sul bakuninismo,
sul partito operaio, sul socialismo rurale. E soprattutto ha inaugurato un filone
di analisi – sociologica, ma non solo sociologica in senso stretto – sulla composizione
sociale del Psi, sul suo elettorato, sui suoi dirigenti, sulla sua cultura politica:
un’analisi che pochi hanno saputo portare avanti con risultati altrettanto brillanti.
C’è sicuramente un abisso qualitativo fra i lavori di Michels sulla storia del socialismo
italiano e quelli dei suoi pochi predecessori (i Bertolini, gli Angiolini91). Ma c’è anche un abisso cronologico fra le ultime opere di Michels sull’argomento
e quelle di chi si è in qualche modo collegato ai suoi filoni di ricerca. La Storia critica, portata a termine nel ’21, uscì solo nel 1926 ed ebbe un’eco assai scarsa fra gli
studiosi. In questo senso, il fascismo non rese un buon servizio a Michels. La politica
culturale del regime non favorì certamente lo sviluppo della storiografia sul movimento
operaio, che restò pressoché bloccata per tutto il ventennio, con poche eccezioni
di rilievo (Mazzini e Bakunin di Rosselli e Labriola di Dal Pane, oltre ad alcuni lavori di vecchi militanti che si muovevano attorno
alla rivista «Problemi del lavoro»).
91 A. Bertolini, Cenno sul socialismo contemporaneo in Italia, Le Monnier, Firenze 1889; A. Angiolini, Cinquant’anni di socialismo in Italia, Nerbini, Firenze 1903.
Nel secondo dopoguerra vi fu indubbiamente una notevole rifioritura di studi sul movimento
operaio. Ma gli indirizzi storiografici prevalenti e la forte ipoteca politico-ideologica
che pesò per molto tempo su questo tipo di studi fecero sì che i lavori di Michels
fossero pressoché ignorati, e altrettanto trascurate restassero le sue indicazioni
metodologiche. Una ripresa consistente di temi e metodi di indagine che potremmo definire
«michelsiani» si ha secondo me solo negli anni Sessanta, in particolare con i saggi
fondamentali di Giuliano Procacci su La classe operaia italiana agli inizi del secolo XX e su Geografia e struttura del movimento contadino92. C’è da dire però che la strada aperta da Procacci è stata seguita solo in parte93 e che negli anni successivi l’ipoteca politico-ideologica è tornata a farsi sentire,
sia pure con segno diverso: troppo spesso, all’indagine concreta sulla realtà del
movimento operaio e delle sue organizzazioni si è preferita la ricerca di un mitico
«punto di vista della classe operaia», ricerca che finiva col risolversi in una acritica
esaltazione del movimento e della spontaneità di classe.
92 Apparsi in «Studi storici» nel ’62 e nel ’64, i saggi di Procacci sono stati poi
pubblicati, assieme ad altri, nel volume La lotta di classe in Italia all’inizio del secolo XX, Editori Riuniti, Roma 1970.
93 Fra le eccezioni più rilevanti, M. Degl’Innocenti, Geografia e istituzioni del socialismo italiano, Guida, Napoli 1983.
Ma torniamo a Michels e alla sua esperienza di studioso e di militante del movimento
operaio italiano. I due aspetti sono in realtà strettamente connessi. Michels tenne
sempre a sottolineare il carattere scientifico dei suoi lavori, ma – coerente in ciò
con l’insegnamento metodologico del suo maestro Weber – non nascose mai le spinte
politiche e ideali che animavano le sue scelte di ricerca: al punto da confessare,
nella prefazione alla Storia critica, di aver interrotto la trattazione delle vicende del movimento socialista italiano
in corrispondenza del momento in cui il suo dissenso dalla linea del partito si era
fatto troppo accentuato. Affermazione curiosa e difficilmente sostenibile dal punto
di vista teorico (non si vede perché il dissenso debba essere più nocivo all’obiettività
scientifica di quanto non sia il consenso rispetto all’oggetto della ricerca), ma
indicativa della mescolanza di spinte personali e di interessi scientifici che fu
sempre presente nell’opera di Michels.
Quel che è certo è che la vicenda di Michels militante socialista è interessante quanto
quella di Michels studioso, anche se per motivi diversi. Il problema che qui vorrei
affrontare – e che mi pare meritevole di attenzione – non riguarda tanto la collocazione
di Michels nell’ambito del movimento operaio europeo (la questione cioè, su cui i
suoi biografi hanno molto discusso, se Michels debba essere definito un sindacalista
rivoluzionario, un socialdemocratico intransigente o semplicemente un «rivoluzionario
romantico»)94; riguarda invece i motivi della sua adesione al socialismo e quelli del suo successivo
allontanamento dal movimento operaio.
94 Per la letteratura su Michels e i giudizi in essa contenuti, rinvio al saggio già
citato di Pino Ferraris.
Perché Michels resta affascinato dal socialismo italiano di inizio secolo, al punto
da aderirvi formalmente e sentimentalmente, da seguirne i congressi nazionali (Imola,
Bologna, Roma), da rappresentarlo addirittura ai congressi internazionali (Stoccarda),
da partecipare con assiduità ai suoi dibattiti interni? Che cosa trova Michels nel
socialismo italiano? Vi trova innanzitutto ciò che non trovava (o che non trovava
più) nella socialdemocrazia tedesca: un certo lievito morale e religioso tipico delle
formazioni «giovani», assieme a un dibattito intellettuale molto vivace. Giustamente,
nella sua introduzione all’Antologia di scritti sociologici di Michels, Giordano Sivini ha messo in evidenza le due componenti del movimento
operaio italiano che suscitano l’attenzione e la simpatia di Michels (e che sono invece
assenti nella socialdemocrazia tedesca): la componente rurale-religioso-umanitaria
e quella intellettuale-universitaria95.
95 L’antologia di Sivini è stata pubblicata dal Mulino, Bologna 1980.
L’adesione al socialismo di molti intellettuali italiani di formazione accademica
è uno dei temi preferiti di Michels. In Proletariato e borghesia c’è un paragrafo sul Psi come «partito universitario»; nella Storia critica, varie pagine sono occupate dall’elenco di tutti i professori universitari e di tutti
gli intellettuali socialisti. Questo interesse si spiega anche con motivi biografici.
Sappiamo che Michels era stato deluso in patria nelle sue aspirazioni alla carriera
universitaria proprio perché socialista. In Germania (patria di quel fenomeno che
impropriamente è chiamato «socialismo della cattedra»), ai socialdemocratici non era
consentito andare in cattedra; e i cattedratici difficilmente si orientavano verso
il socialismo. Molto diversa era la situazione in Italia, dove, nonostante casi isolati,
come quello, che allora fece scalpore, di Ettore Ciccotti (che si vide negata per
molti anni, con pretesti burocratici, la cattedra cui aveva diritto), i professori
socialisti erano numerosi in tutti i campi della scienza.
La cattedra in Italia Michels l’avrebbe ottenuta solo negli anni della maturità. Ma
già nel 1907, poco più che trentenne, ebbe la libera docenza e l’incarico all’Università
di Torino. E, cosa per lui ancora più importante, poté godere dell’amicizia e della
familiarità di accademici autorevoli e più anziani di lui (socialisti e non): Mosca,
Lombroso, Ciccotti, Loria e molti altri. Ma, a parte questi risvolti personali, ciò
che affascinava Michels era l’alta partecipazione intellettuale alla vita del movimento
operaio, la continua comunicazione fra intellettuali e base socialista: tutto il contrario
di quel che accadeva in Germania, dove il mondo dell’alta cultura e quello delle organizzazioni
proletarie erano separati e quasi impenetrabili reciprocamente. Di fronte a ciò, le
preoccupazioni per un possibile imborghesimento del Psi passano nettamente in secondo
piano (anche perché Michels condivide con Lenin e col Kautsky di allora la visione
degli intellettuali come tramite principale della coscienza di classe e dell’ideologia
rivoluzionaria nei confronti del proletariato). Assai più gravi, secondo lui, sono
i rischi di imborghesimento – nel senso di adattamento al sistema, di ripiegamento
sulla routine – che corre un partito compattamente operaio nella base sociale e nella
stessa dirigenza come la socialdemocrazia tedesca.
L’altro elemento di attrazione che Michels trova nel socialismo italiano sta nella
sua componente etica, «evangelica», umanitaria. Sia che parli dei primi internazionalisti,
sia che tratti degli operaisti, sia che descriva lo sviluppo di quel fenomeno – in
effetti unico in Europa – che fu il «socialismo rurale» della Valle Padana, Michels
sottolinea l’afflato morale, il sentimento di fratellanza, l’intransigenza sui princìpi,
lo spirito missionario che animavano questi movimenti. Anche del sindacalismo rivoluzionario
– di cui non condivide tutte le implicazioni teoriche e politiche – lo affascinano
soprattutto gli aspetti eroici e i contenuti di intransigenza. Questo atteggiamento
era, a guardar bene, comune a molti intellettuali della generazione di Michels, che
si accostarono al socialismo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Nel
fenomeno del «socialismo degli intellettuali», che improntò di sé la cultura tardo-positivista
soprattutto nei paesi latini, gli elementi irrazionali – o quanto meno sentimentali
– occupano indubbiamente un posto molto importante. E Michels non fa eccezione alla
regola.
Il discorso fatto fin qui a proposito dell’adesione di Michels al socialismo ci può
aiutare a risolvere anche l’altro aspetto del problema: quello relativo al suo distacco
dal movimento operaio e al suo successivo approdo a concezioni e problematiche nazionaliste
o paranazionaliste. Il distacco non è repentino, ma si colloca in un arco di anni
che va, grosso modo, dal 1907-1908 alla prima guerra mondiale. Ad esso concorrono
diversi fattori, ai quali gli studiosi di Michels si sono variamente riferiti.
C’è innanzitutto un motivo di ordine politico, legato alla sconfitta dei sindacalisti
rivoluzionari e alla loro successiva uscita dal Psi: e questo non perché si possa
parlare di una stretta identificazione di Michels con le tematiche sindacal-rivoluzionarie
(si può notare, al contrario, che proprio negli anni 1905-1907, Michels accentua le
sue critiche ai sindacalisti, rimproverando loro di non scorgere gli elementi di burocratismo
oligarchico presenti nel sindacato); ma perché l’uscita dei sindacalisti fa sicuramente
calare il tono del dibattito politico nel Psi, ne abbassa il tasso di presenza intellettuale,
contribuisce alla caduta della tensione rivoluzionaria nel partito.
Ci sono poi motivi di ordine teorico. Gli anni del progressivo distacco dal Psi sono
anche gli anni in cui Michels subisce più fortemente l’influenza di Gaetano Mosca96; e soprattutto sono gli anni in cui Michels viene dando forma alla sua teoria dell’oligarchia
applicata ai partiti politici. È vero che, come si è già accennato, questa teoria
si modella soprattutto sul caso della Spd. Ma è anche vero che, negli anni in questione,
il socialismo italiano appare a Michels molto meno diverso dalla socialdemocrazia
tedesca di quanto non apparisse all’inizio del secolo. È questo il periodo in cui
si afferma la Cgl riformista; è il periodo in cui il Psi rafforza e stabilizza la
sua rappresentanza parlamentare; è il periodo della partecipazione socialista ai «blocchi
popolari».
96 Cfr. su questo P. Ferraris, L’influenza di Gaetano Mosca su Roberto Michels, Centro stampa dell’Università di Camerino, Camerino 1983.
Ultimo, in ordine di tempo, fra i fattori di distacco dal socialismo è per Michels
la «scoperta della nazione». Anche in questo caso si tratta di un fenomeno molto diffuso
(semmai complicato, nel caso di Michels, dalla sua origine non italiana). Guardiamo
ancora alle date. Il 1908 ad esempio – l’anno del congresso di Firenze e della massima
affermazione dei riformisti nel Psi – è anche l’anno della crisi internazionale provocata
dall’Austria con la decisione di annettersi definitivamente la Bosnia-Erzegovina:
una delle molte crisi che precedono e preparano la guerra mondiale, ma che in Italia
ha ripercussioni assai ampie, non solo di carattere diplomatico. Gli storici di parte
nazionalista hanno concordemente indicato nella crisi bosniaca del 1908 il punto di
inizio di quel «risveglio della coscienza nazionale» che avrebbe portato due anni
dopo alla fondazione dell’Associazione nazionalista italiana. Si può discutere sulla
natura e sulle dimensioni di quel «risveglio»; ed è probabile che esso vada collegato
non tanto alla crisi bosniaca, quanto ad altri fattori, in particolare alla «scoperta»
dell’emigrazione, dell’«Italia fuori d’Italia» (è noto che proprio dalla riflessione
sul fenomeno migratorio partirà Corradini per elaborare la sua teoria delle «nazioni
proletarie»). È certo comunque che, nel 1908, molti intellettuali socialisti cominciano
a rivedere le loro convinzioni internazionaliste (è il caso di Salvemini e Bissolati
e, in altro senso, di Enrico Ferri) o addirittura ad abbandonarle e a capovolgerle.
È questo il caso di alcuni ex appartenenti alle correnti rivoluzionarie del Psi (come
Tomaso Monicelli, Maurizio Maraviglia, Roberto Forges Davanzati e altri ancora) che,
nel giro di pochi mesi, passano armi e bagagli nelle file, ancora disordinate, del
nascente movimento nazionalista. A questa prima ondata di conversioni ne seguiranno
altre, ancora più massicce e vistose: nel 1911-1912, in coincidenza con la guerra
di Libia, e nel 1914-1915, durante le polemiche pro e contro l’intervento.
Per quanto riguarda Michels, il momento decisivo della sua «scoperta della nazione»
si può collocare nel 1911, all’epoca della guerra libica. È lui stesso a raccontarci,
nella prefazione al volume su L’imperialismo italiano, come sia stata l’eco delle manifestazioni patriottiche che precedettero e accompagnarono
l’impresa di Tripoli a indurlo a un più attento esame dei motivi economici e ideali
che stavano alla base del risveglio patriottico e dell’esaltazione imperialista. Di
questa sua crisi personale Michels ci dà una descrizione molto realistica e drammatica
(parla di profondo dolore, di quesiti angosciosi, di notti insonni); e ricorda di
aver superato la crisi gettandosi nello studio del fenomeno imperialistico in Italia
e delle sue radici psicologiche e soprattutto demografiche (buona parte del saggio
sull’imperialismo, che fu pubblicato per la prima volta in Germania nel 191297, è infatti dedicata allo studio del fenomeno migratorio), per giungere infine a conclusioni
nel complesso giustificatorie.
97 Il saggio fu pubblicato in Italia nel 1914, col titolo L’imperialismo italiano. Studi politico-demografici, dalla Società Editrice Libraria di Milano.
Questa ricostruzione autobiografica può apparire oggi strana e poco attendibile. Si
stenta a credere come un’impresa coloniale – che fra l’altro non ebbe quel compatto
consenso popolare di cui Michels parla nella citata prefazione – possa aver provocato
un ripensamento così profondo in uno studioso ormai maturo e per giunta di educazione
cosmopolita. Riesce difficile capire l’improvvisa apertura di fronte alle discutibili
ragioni dell’imperialismo italiano da parte di chi, fino a pochi anni prima, aveva
visto nell’internazionalismo la discriminante più sicura contro le deviazioni dalla
retta via del socialismo rivoluzionario e aveva ferocemente criticato i cedimenti
patriottici della socialdemocrazia tedesca dopo il 1907.
La crisi di Michels appare però più comprensibile se la si inquadra nel clima politico-culturale
di quegli anni e se la si collega a quel diffuso senso di disaffezione verso il movimento
socialista che era comune a molti intellettuali della generazione di Michels. Questo
distacco sentimentale precede la «scoperta della nazione» e, almeno in parte, ne è
all’origine. In altri termini, il distacco dal socialismo (per Michels e per molti
come lui) è più la causa che l’effetto del «risveglio patriottico». Ma da che cosa
è determinato questo distacco? È determinato dal venir meno – poco importa se reale
o apparente – di quei motivi etico-religiosi, di quell’alone eroico che dieci o vent’anni
prima avevano avuto tanta parte nel favorire l’avvicinamento degli intellettuali al
movimento operaio.
Il socialismo degli anni a cavallo del 1910 non è più quello che lotta per far valere
il suo diritto all’esistenza o per sventare le trame della reazione. È un movimento
che ha conquistato un suo spazio nella società e nelle istituzioni e cerca di difenderlo.
È un movimento che accetta, almeno nella pratica, il sistema rappresentativo, che
gestisce, a livello locale, la sua parte di potere, che progetta e contratta quotidianamente
il suo ruolo e i suoi margini di azione. Questo passaggio dal mito alla realtà, dalla
poesia alla prosa, gli intellettuali rivoluzionari non riescono ad accettarlo. Quello
che per Turati è il «socialismo realizzatore» (l’unico per cui valga la pena battersi),
per loro è soltanto, come si direbbe oggi, «socialismo realizzato». Attraverso la
pratica riformista (tanto più se mascherata da una fraseologia intransigente), essi
vedono con orrore rientrare dalla finestra quel revisionismo bernsteiniano, tutto
concretezza e «quotidianità», che con tanto clamore era stato cacciato dalla porta.
È questo senso di delusione e di preoccupazione che spinge Michels a parlare, già
nel 1908, di «crisi inestricabile» del socialismo:
Il glorioso movimento che aveva, nel secolo scorso, suscitato tante speranze rischia
di avviarsi al più triste dei fallimenti. Accanto al socialismo operaio e rivoluzionario
pullulano, come funghi velenosi che lo soffocheranno, socialismi di ogni genere, strani
e imprevisti. [...] il socialismo di Stato, il socialismo municipale dell’acqua e
del gas, il socialismo massonico, il socialismo integrale e integralista, e tanti
altri, con diversi aggettivi98.
98Le patriotisme des socialistes allemands et le congrès d’Essen, in «Le Mouvement socialiste», 1908, pp. 5-13, cit. in G. Sivini, Introduzione a Michels, Antologia di scritti sociologici cit.
Qui non c’è soltanto l’eterna polemica del rivoluzionario contro i gruppi dirigenti
opportunisti. C’è una delusione più profonda e più intensamente vissuta. La stessa
delusione che in Francia porta Charles Péguy a non riconoscersi più nei suoi compagni
di battaglia del tempo dell’affare Dreyfus, dopo che quella battaglia è stata vinta
e dopo che i dreyfusards sono andati al potere. La stessa delusione che induce tanti intellettuali italiani
a cercare in altre esperienze politiche quelle certezze «di fede» che il socialismo
non sembra più in grado di dar loro. Se l’internazionalismo non può essere vissuto
in modo assoluto, ma deve scendere a compromessi con la realtà, meglio volgersi al
nazionalismo, che i compromessi non li accetta e rivaluta l’etica dell’eroismo e del
sacrificio. Non dirò che questo sia esattamente il caso di Michels, che fu per sempre
un intellettuale di formazione positivista e cercò di fondare le sue scelte su basi
razionali. Ma certamente Michels fu partecipe – e per alcuni aspetti anche artefice
– di un clima culturale in cui gli stessi concetti di socialismo e di democrazia cessavano
di essere un punto di riferimento sicuro.
Qui stanno le cause profonde di quell’autentica emorragia di forze intellettuali che
il socialismo italiano subisce negli anni attorno al 1910 (per valutarne l’entità,
basta scorrere l’«Avanti!» negli anni della direzione di Treves e confrontarlo coi
numeri di dieci o quindici anni prima). Fenomeni del genere, come esperienze più recenti
ci hanno confermato, sono fortemente contagiosi: lo era stata, alla fine dell’Ottocento,
la confluenza degli intellettuali intorno al Partito socialista; lo fu in egual modo
la loro diaspora. Per quanto riguarda Michels, non dobbiamo poi dimenticare quanta
parte aveva avuto nella sua adesione al socialismo la presenza di tanti intellettuali
di prestigio nelle file del Psi.
Si potrebbero fare, a questo punto, una serie di considerazioni sul ruolo, non sempre
positivo, che gli intellettuali hanno avuto nella politica italiana, sul carattere
emotivo e, per certi aspetti, «irresponsabile», delle loro scelte. È un discorso che
ci porterebbe troppo lontano. Ma chi un giorno volesse scrivere (o riscrivere) la
storia degli intellettuali italiani nel primo Novecento, non potrà trascurare il caso
(atipico ed esemplare al tempo stesso) di questo scienziato cosmopolita che diventa
socialista rivoluzionario per poi finire con lo sposare la causa nazionale di un paese
che non è nemmeno il suo.
I socialisti e il mito dell’Urss
1. La storia del movimento socialista italiano ed europeo nell’età della Seconda Internazionale
(o quanto meno quella della sua componente marxista) è tutta percorsa da una contraddizione
evidente, anche se non avvertita come tale dalla maggioranza dei militanti. Da un
lato il socialismo si vede – e si autorappresenta – come l’interprete di una necessità
storica, di una tendenza inarrestabile del processo di sviluppo economico e sociale
(una tendenza destinata comunque ad affermarsi a prescindere dalla volontà dei singoli).
Dall’altro, almeno nelle sue componenti maggioritarie, non riesce a immaginare e a
descrivere la sua futura affermazione in termini diversi nella sostanza da quelli
che gli derivano da una tradizione rivoluzionaria e insurrezionista nata con la rivoluzione
francese e consolidatasi lungo tutto il corso del XIX secolo, fino all’epopea della
Comune: dunque il popolo in piazza, lo scontro con l’apparato repressivo dello Stato,
la presa di possesso dei luoghi simbolici del potere borghese, con l’inevitabile appendice
della «temporanea» dittatura di marca giacobina, rielaborata attraverso la formula
marxiano-blanquista della dittatura del proletariato.
Certo non manca, nel socialismo di ispirazione marxista, un filone di continua polemica
contro il volontarismo barricadiero e contro lo stesso modello di potere giacobino.
Ma questa polemica solo in qualche caso (si pensi a Turati) si traduce in una completa
ed esplicita ripulsa. Tant’è che il tentativo più serio e teoricamente motivato di
espellere ogni catastrofismo rivoluzionario dagli orizzonti socialisti – quello operato
da Bernstein alla fine dell’Ottocento – viene respinto ufficialmente da un movimento
operaio europeo che pure appare, nel suo complesso, già abbastanza lontano da qualsiasi
concreta ipotesi insurrezionale. Il fatto è che, al di là di ogni questione teorica,
è la formazione dei primi dirigenti socialisti – e degli stessi militanti di base
– a rendere inevitabile il collegamento con le esperienze rivoluzionarie del passato,
a suggerire un rapporto di continuità – e in qualche misura di analogia – con la tradizione
del 1789 e del 1793, del 1848 e del 1871, a far sì che la futura rivoluzione proletaria
si presenti come la prosecuzione e il completamento del ciclo delle grandi rivoluzioni
iniziato alla fine del Settecento. A testimoniare questo rapporto di continuità basta
del resto uno sguardo all’iconografia del movimento operaio, così piena di riferimenti,
anche testuali, ai simboli più tipici della tradizione rivoluzionaria sette-ottocentesca
(le picche e i berretti frigi, gli stessi simboli massonici), così strettamente legata
all’imagerie di matrice repubblicano-giacobina99.
99 Indicazioni interessanti sull’iconografia socialista si trovano nell’articolo di
G. Ginex, Realismo, simboli e allegorie per il Primo maggio: le fonti visive, in G. Donno (a cura di), Storie e immagini del I maggio, Lacaita, Manduria 1990, pp. 139-150.
Questo discorso vale soprattutto per i socialismi «latini». Ma si applica benissimo
anche al complesso del movimento operaio europeo, con la cospicua eccezione del laburismo
britannico. In realtà, la contraddizione di fondo fra la concezione del socialismo
come portato inevitabile dell’evoluzione storica e l’idea della rivoluzione come scontro
fisico, come guerra guerreggiata era già presente in Marx. Ed era stato Friedrich
Engels, nella celebre prefazione, scritta nel 1891, alla Guerra civile in Francia di Marx a inventare – e a lasciare in eredità al movimento operaio tedesco ed europeo
– la formula capace di conciliare il socialismo scientifico col mito della barricata:
lo scontro ci sarà, ma sarà provocato dalla borghesia, nell’estremo, e vano, tentativo
di salvare le proprie posizioni. Su questa formula, il grosso del movimento operaio
si assesta abbastanza tranquillamente senza troppo interrogarsi sulla contraddizione,
che comunque sussiste, fra il carattere storicamente necessitato della grande trasformazione
sociale che porterà all’avvento della società senza classi e l’aleatorietà sempre
insita in una battaglia. E questo significa che il mito della rivoluzione, tradizionalmente
intesa, resta ben vivo nella coscienza collettiva del movimento operaio; che, ancora
alla vigilia della prima guerra mondiale, i militanti socialisti (e molti fra gli
stessi dirigenti) vedono nel loro orizzonte prossimo la presa di una Bastiglia o l’occupazione
di un Hôtel de Ville; che dunque ogni episodio insurrezionale contro i poteri tradizionali
– e contro qualsiasi governo borghese – potrà contare in partenza su una larga base
di simpatia e su una sorta di pregiudizio favorevole, a prescindere dai suoi contenuti
reali; che, infine, questo pregiudizio favorevole si eserciterà sempre e comunque,
quasi per automatismo, nei confronti delle componenti radicali e «giacobine», depositarie
per definizione del vero ideale rivoluzionario.
È in questo quadro generale – oltre che nel contesto specifico dell’Italia del 1917
– che vanno considerate le prime reazioni del movimento socialista italiano nei confronti
della rivoluzione russa.
2. Di mito dell’Urss si potrebbe parlare, a stretto rigor di termini, solo per il
periodo successivo al 1923 (anno della costituzione dell’Unione delle Repubbliche
Socialiste Sovietiche). Ma il mito della rivoluzione russa – che, pur non identificandosi
col mito dell’Urss, ne è comunque parte fondante e componente essenziale100 – prende corpo immediatamente e spontaneamente nel movimento socialista italiano,
fin dall’arrivo delle prime e confuse notizie sulla rivoluzione di febbraio. E subito
rivela – prima ancora che la rivoluzione definisca i suoi peraltro mutevoli connotati
– quei tratti di elementarità e di radicalità (e quella sostanza appunto mitica) che
lo caratterizzeranno anche in seguito.
100 Nell’introduzione al numero monografico di «Qualestoria» (dicembre 1988) dedicato
a Il mito dell’ottobre rosso. Dal nord-est d’Italia al litorale adriatico, Marcello Flores insiste sulla necessità di distinguere, nell’evoluzione del mito
sovietico, una prima fase in cui i messaggi provenienti dall’Urss vengono adattati
e piegati alle esigenze rivoluzionarie del momento, da una seconda – quella staliniana
– in cui il mito si cristallizza nel richiamo alla «patria del socialismo». L’osservazione
è giusta. Ma, almeno per quanto riguarda i socialisti italiani – come cercherò di
dimostrare – il mito dell’Urss si identificherà sempre in larga misura col mito della
rivoluzione vittoriosa e ne costituirà una sorta di prolungamento.
Del resto, l’evento «rivoluzione russa» sembra fatto apposta per suscitare consensi
unanimi e speranze diffuse nella base socialista: sia perché si collega idealmente
all’unico evento rivoluzionario di rilievo verificatosi in Europa fra la Comune e
la Grande Guerra (quello del 1905, che aveva suscitato in Italia una notevole mobilitazione101); sia perché permette di coniugare il tema classico dell’abbattimento della tirannide
(e la monarchia zarista era per l’opinione pubblica di sinistra il prototipo del regime
tirannico) a quello più attuale della lotta per la pace.
101 Vedi in proposito il saggio di G. Manacorda, Le ripercussioni nel movimento operaio italiano della Rivoluzione del 1905, pubblicato a puntate su «Rinascita» nel 1955 e poi in Id., Storiografia e socialismo. Saggi e note critiche, Liviana, Padova 1967.
Nelle prime prese di posizione ufficiali del partito e della Cgl, nei discorsi e negli
articoli dei dirigenti, negli innumerevoli ordini del giorno e indirizzi di solidarietà
approvati a livello di sezioni, circoli e amministrazioni locali, il collegamento
fra istanza rivoluzionaria e istanza pacifista è immediato, quasi automatico. E altrettanto
forte è la convinzione che il sommovimento politico iniziato in Russia dovrà trovare
il suo logico sbocco in una non meno radicale trasformazione dei rapporti sociali:
«La rivoluzione è in cammino – si legge in un numero unico stampato nell’aprile ’17
a cura di un circolo operaio torinese e affisso sui muri a mo’ di manifesto –, lungi
dall’essere finita, è appena cominciata, [...] va divenendo sociale»102. Non dissimile nella sostanza è la morale che si può trarre dai commenti che appaiono
sull’«Avanti!» a partire da marzo, con cadenza quasi quotidiana, per la penna dell’esule
russo Vasilij Suchomlin, che si firma con lo pseudonimo di Junior: la lotta è solo
all’inizio e il pericolo maggiore è rappresentato dai tentativi della borghesia di
deviare il naturale corso della rivoluzione in senso moderato e imperialista103.
102 Il testo è parzialmente riportato in S. Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano (1917-1921), Nistri-Lischi, Pisa 1974, p. 45.
103 Si vedano in particolare gli articoli I nuovi dirigenti (17 marzo) e Socialisti e borghesi nella rivoluzione russa (29 marzo).
In realtà, anche in questa prima fase, non mancano, in campo socialista, le differenze
di tono e i distinguo di sostanza104. E non è difficile notare una sottile discrepanza fra l’atteggiamento prudente, ai
limiti della diffidenza, dei leader massimalisti (in particolare di Serrati105, attento a non confondersi con gli interventisti di sinistra e pronto a denunciare
i pericoli di «tradimento» della rivoluzione) e l’entusiasmo ingenuo e indiscriminato
dei quadri intermedi e della base, quale traspare da ordini del giorno e volantini,
e anche dagli slogan e dalle parole d’ordine che sempre più di frequente compaiono
negli episodi di protesta popolare106. Ma la scelta di fondo del movimento socialista nel suo complesso – o quanto meno
delle sue componenti maggioritarie – è ugualmente netta ed esplicita, tanto da condizionare
fortemente anche le successive prese di posizione del partito di fronte ai nuovi sviluppi
del processo rivoluzionario. Legando le sorti della rivoluzione a quelle della lotta
per il mutamento sociale e per la pace (un legame, quest’ultimo, che nella realtà
è tutt’altro che scontato), i socialisti italiani hanno già operato quell’identificazione
fra la rivoluzione e la sua componente più radicale che peraltro era in qualche misura
implicita nella loro cultura e nella loro memoria storica. E, se fino al giugno del
’17 (e oltre) l’ala radicale del fronte rivoluzionario può anche allargarsi, nel giudizio
dei leader del Psi, fino a comprendere menscevichi e social-rivoluzionari (o almeno
una parte di essi)107, a partire dall’estate essa viene sempre più strettamente, e quasi fatalmente, identificandosi
coi bolscevichi e con la figura, subito mitica, del loro leader.
104 Sull’atteggiamento delle diverse correnti del Psi fra il marzo e l’ottobre del ’17,
cfr. il saggio di L. Cortesi, Note sulle correnti del Psi nel 1917 di fronte alla rivoluzione russa, apparso in «Movimento operaio e socialista», luglio-dicembre 1968, e poi ripubblicato
col titolo Il Psi e la rivoluzione russa, in Id., Le origini del Pci, Laterza, Roma-Bari 1973.
105 Vedi soprattutto l’articolo Bandiera rossa, in «Avanti!», 19 marzo 1917.
106 Sull’intensificarsi della protesta popolare contro la guerra nel 1917 (e sulla comparsa
sempre più frequente di slogan ispirati dalla rivoluzione russa) si vedano i saggi
di R. De Felice, Ordine pubblico e orientamenti delle masse popolari nella prima metà del 1917, in «Rivista storica del socialismo», settembre-dicembre 1963 e di Giovanna Procacci,
Dalla rassegnazione alla rivolta. Osservazioni sul comportamento popolare in Italia
negli anni della prima guerra mondiale, in «Ricerche storiche», gennaio-aprile 1989.
107 Secondo Cortesi (Il Psi e la rivoluzione russa cit., pp. 332-335), la scelta filoleninista dei massimalisti matura a partire dalla
fine di giugno, in coincidenza con la partenza da Milano di Suchomlin e con l’arrivo
delle prime corrispondenze dalla Russia di Angelica Balabanoff. Ciò non esclude però
il permanere di forti incertezze, in particolare nel giudizio su ernov e i social-rivoluzionari.
La crescente popolarità di Lenin presso la base socialista è ben testimoniata dall’episodio,
notissimo, della visita dei delegati del soviet di Pietrogrado. Giunti in Italia in
agosto, nel corso di un più vasto tour europeo, per perorare la causa della nuova
Russia (e della sua guerra «democratica»), gli «argonauti della pace» sono accolti
ovunque con grande entusiasmo; ma, in tutte le tappe del loro viaggio – che tocca
molte fra le maggiori città del Centro-Nord – sentono risuonare, fra un’acclamazione
e l’altra, il grido di «Viva Lenin!», abbastanza imbarazzante per le loro orecchie
di rappresentanti del governo provvisorio. Anche a non voler dare completo credito
alle testimonianze dei leader massimalisti italiani sulla totale spontaneità di tali
manifestazioni108, non si può non riconoscere nell’episodio il segno di una già diffusa tendenza a
identificare nel leader dei «massimalisti» russi il capo e il simbolo più rappresentativo
della rivoluzione in marcia.
108 Vedi l’articolo di Serrati, Viva Lenin!, in «Avanti!», 20 agosto 1917; e vedi anche il brano, tratto da un memoriale inedito
dello stesso Serrati, riportato da Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano cit., p. 82.
Da dove veniva questa popolarità? Non certo da una diretta conoscenza del pensiero
teorico di Lenin, né da quel poco di notorietà assicurata al capo dei bolscevichi
dai suoi trascorsi «zimmerwaldiani» (che Lenin condivideva peraltro con altri leader
russi ora schierati su posizioni molto lontane dalle sue); e nemmeno dalle indicazioni
della stampa e della dirigenza socialista (all’interno della quale l’opzione filoleninista
era, all’inizio di agosto, tutt’altro che ben delineata109). Sembra più probabile che, in base alle poche e confuse notizie che arrivavano dalla
Russia (e che la censura lasciava filtrare sulla stampa), la base e i quadri del Psi
cogliessero – e apprezzassero – in Lenin la pura e semplice intransigenza rivoluzionaria,
il rifiuto delle soluzioni intermedie, la volontà di andare comunque fino in fondo
(il jusquauboutisme, secondo un’espressione cara alla stampa socialista dell’epoca). Lenin diventava
così l’espressione dell’ideale rivoluzionario allo stato puro, colui che non si sarebbe
lasciato sviare dalle lusinghe del potere condiviso coi nemici di classe, ma avrebbe
portato, a qualsiasi costo, la rivoluzione al suo logico sbocco. In ottobre, anche
Serrati, superate le incertezze e le prudenze, sembra ormai guadagnato a un simile
punto di vista: «I massimalisti sono sulla via del trionfo [...]. Ci pare che, in
tale stato di cose, di fronte a tante banderuole, Lenin sia un poco il socialismo»110 (si noti come il termine «massimalista» fosse usato correntemente come traduzione,
errata, di «bolscevico»).
109 Vedi in proposito Cortesi, Il Psi e la rivoluzione russa cit., pp. 358-361; e Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano cit., pp. 63-64.
Quando, in novembre, arrivano in Italia le prime notizie sulla presa del potere da
parte dei bolscevichi – poche, confuse e per di più coperte dai resoconti sul disastro
di Caporetto –, l’ambiente socialista è già ampiamente disposto ad accoglierle con
entusiasmo e a commentarle con favore. «Le sezioni – si legge in una circolare inviata
dal segretario Lazzari – devono seguire attentamente con simpatia gli avvenimenti
di Russia, dove per merito e gloria di quei compagni si sta realizzando la pace e
il socialismo»111. Gli stessi riformisti, che pure non nascondono perplessità e preoccupazioni, si
rifugiano, almeno in un primo tempo, in una sorta di giustificazionismo storico, appoggiato
all’inevitabile riferimento alle rivoluzioni del passato. In un articolo apparso in
dicembre su «Critica sociale», Treves paragona Lenin a Marat («nel cui cuore stagna
[...] tutto ciò che patirono le plebi») e vede nella rivoluzione di ottobre qualcosa
di molto simile a «un cataclisma necessario in Natura»112. In un discorso alla Camera, Modigliani sostiene che «il movimento massimalista rappresenta
il tentativo comunardo disperato di salvare il proprio paese dalla rovina»113.
111 La circolare è riportata da Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano cit., p. 117.
112 C. Treves, Da Rapallo a Versailles, in «Critica sociale», 16-31 dicembre 1917.
113 Citato da Caretti, La rivoluzione russa e il socialismo italiano cit., p. 110.
Il fatto che il nuovo potere si eserciti in forme tutt’altro che ortodosse dal punto
di vista della democrazia «formale» – e si mostri refrattario a ogni concreta verifica
della propria base di consenso – non è cosa che possa turbare la coscienza dei militanti
socialisti: tanto è ferma la credenza nella legittimità del processo rivoluzionario
in quanto tale, tanto è sicura l’identificazione della rivoluzione con la sua punta
più avanzata, tanto è radicato lo schema giacobino-blanquista (ma anche marxista)
che vuole la dittatura rivoluzionaria necessaria a stroncare le velleità di rivincita
dell’avversario. Le stesse deviazioni dal modello originario (lo scioglimento della
Costituente, la pace separata) verranno dai più giustificate o esaltate come opportune
correzioni del modello stesso, come misure di autodifesa o come legittimi accorgimenti
tattici, volti comunque a tutelare il bene supremo della salvezza della rivoluzione.
È significativo che, tra la fine del ’17 e l’inizio del ’18, il dibattito interno
al Psi sulla rivoluzione bolscevica si concentri non tanto sul problema della legittimità
del regime rivoluzionario, quanto sulla sua rispondenza ai canoni della dottrina marxista.
Nel dibattito – che ruota intorno a una lettera di Martov pubblicata sull’«Avanti!»
del 25 dicembre – emergono almeno quattro posizioni distinte: quella di Treves che,
...