Edizione: 2019, V rist. 2021 Pagine: 552 Collana: Manuali di base [66] ISBN carta: 9788859300434 ISBN digitale: 9788858135747 Argomenti: Storia: opere generali, Storia contemporanea
La nuova edizione aggiornata di un manuale che ha avuto ottima accoglienza nelle università e nelle scuole.
Il Novecento, un secolo che si apre col trauma originario della Grande Guerra e si chiude con le grandi trasformazioni seguite alla caduta del muro di Berlino: è la periodizzazione di questo manuale, che si spinge ad analizzare gli ultimi eventi dei nostri giorni senza rinunciare a una struttura agile, maneggevole e rigorosa, a una scrittura piana e comprensibile, a una strumentazione didattica particolarmente efficace, dalle numerose cartine alle bibliografie ragionate che guidano l’approfondimento dei temi toccati. In questa nuova edizione, fortemente accresciuta e rivista, sono state inserite numerose nuove Parole chiave, indispensabili per focalizzare le principali categorie tematico-concettuali del periodo.
Edizione: 2021 Pagine: 552 Collana: Manuali di base ISBN: 9788859300434
Gli autori
Giovanni Sabbatucci
Giovanni Sabbatucci ha insegnato Storia contemporanea nelle Università di Macerata e di Roma La Sapienza. Per Laterza ha curato , con Vittorio Vidotto, una Storia d'Italia in 6 volumi (1994-1999) ed è autore, tra l'altro, di Il riformismo impossibile (1991), Il trasformismo come sistema (2003) e Partiti e culture politiche nell'Italia unita (2014).
Vittorio Vidotto ha insegnato Storia contemporanea nell'Università di Roma La Sapienza. Per Laterza ha curato Roma Capitale (2002) e Atlante del Ventesimo secolo (4 volumi, 2011) ed è autore, tra l'altro, di Italiani/e (2005), Roma contemporanea (n.e., 2006), 20 settembre 1870 (2020) e Storia moderna (con Renata Ago, n.e., 2021).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
Un monito scelto dalla famiglia Laterza come esortazione alla tenacia e ad una costante crescita.
Premessa all’edizione 2019
Questa nuova edizione di Storia contemporaneamantiene i caratteri strutturali di quelle che l’hanno preceduta, ma presenta numerose novità rispetto a un’opera che, derivata da un testo scolastico, ha poi conosciuto una larga circolazione soprattutto come testo universitario. Resta la partizione in due volumi, valida a nostro avviso anche dal punto di vista della periodizzazione storica: un “lungo Ottocento” che prende le mosse dalle grandi rivoluzioni politiche della fine del XVIII secolo, e un’età contemporanea propriamente detta che ha il suo punto di inizio nel primo conflitto mondiale e si snoda fino ai nostri giorni. Cambiano, però, rispetto alle edizioni precedenti, gli equilibri interni della narrazione: si è cercato, infatti, com’è nella tradizione di quest’opera, non solo di allargare lo spazio dedicato agli eventi e alle problematiche dell’ultimo trentennio, oltre la fine del “secolo breve”, ma anche di dar conto, fin dai primi capitoli, di nuovi contributi e approcci storiografici. Anche le note bibliografiche sono state naturalmente aggiornate, così come le cartine e le “parole chiave”.
G.S. V.V.
1. La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa
1.1. Venti di guerra
L’Europa del 1914
Agli inizi del 1914 il predominio dell’Europa su gran parte del mondo era ancora indiscusso,
nonostante l’emergere a Oriente e Occidente di nuove potenze, come il Giappone e gli
Stati Uniti. Lo straordinario sviluppo nella produzione industriale, nel campo tecnologico
e negli scambi commerciali aveva diffuso l’idea di un progresso inarrestabile, che avrebbe portato benessere a tutti. L’integrazione tra le economie più sviluppate
e il consolidamento delle istituzioni rappresentative (con l’estensione del diritto
di voto) sembravano poter poi realizzare un processo di democratizzazione e scongiurare il pericolo di scossoni rivoluzionari o guerre.
Conflitti latenti
Tuttavia, l’evoluzione politica e i progressi economici e materiali non bastavano
a spegnere i conflitti sociali interni ai singoli paesi né a far scomparire le tensioni politiche internazionali. Tra le potenze europee, che pure non si combattevano da quasi mezzo secolo, erano
ancora vive vecchie e nuove rivalità: tra l’Austria-Ungheria e la Russia per il controllo
dei Balcani; tra la Francia e la Germania per l’Alsazia e la Lorena; tra la Gran Bretagna
e la Germania per la corsa agli armamenti navali. L’equilibrio continentale si basava
sulla contrapposizione di due blocchi di alleanze: Austria e Germania contro Francia, Russia e Gran Bretagna. In questo quadro, la
corsa agli armamenti intrapresa dalle maggiori potenze e la forza distruttiva dei
nuovi mezzi bellici rendevano sempre più inquietante l’ipotesi di un conflitto.
La guerra come occasione
La guerra era dunque nell’aria. Ma non tutti la temevano come il peggiore dei mali.
Se le minoranze pacifiste si mobilitavano per impedirne lo scoppio, se i socialisti
di tutti i paesi la condannavano in nome degliidealiinternazionalisti (ma la vedevano anche come l’esito fatale delle contraddizioni del capitalismo),
settori non trascurabili delle classi dirigenti e delle opinioni pubbliche nazionali
la valutavano come un’opzione praticabile nella logica del confronto fra le potenze, o la concepivano come un dovere patriottico, o addirittura la invocavano come un evento liberatorio. Per molti giovani, che condividevano con i più autorevoli intellettuali dell’epoca
l’insofferenza nei confronti dell’ottimismo positivista e progressista, o che erano
semplicemente alla ricerca di nuove esperienze e di nuove emozioni, la guerra si presentava
come la grande occasione per uscire dagli orizzonti angusti di una mediocre realtà
quotidiana. Solo la guerra – si pensava – avrebbe potuto risvegliare una società intorpidita
da troppi anni di pace e di ricerca del benessere materiale, restituire alla vita
una dimensione eroica, rilanciare l’ideale patriottico e l’etica del sacrificio.
Ma le motivazioni di chi auspicava il conflitto potevano essere anche meno disinteressate:
c’erano, infatti, militari, uomini politici, industriali e finanzieri pronti a sfruttare
le opportunità di carriera, di successo e di guadagno offerte da una guerra che i più immaginavano breve, sul modello dei conflitti ottocenteschi,
e naturalmente vittoriosa per il proprio paese.
Questa somma di aspirazioni ideali e di calcoli sbagliati non basta certo a spiegare
lo scoppio della Grande Guerra. Ci aiuta però a capire il clima fra il rassegnato
e l’esaltato in cui l’Europa affrontò un evento che le sarebbe costato milioni di
morti e avrebbe segnato il declino irreversibile della sua egemonia.
1.2. Una reazione a catena
Nell’Europa del 1914 esistevano dunque tutte le premesse che rendevano possibile,
anzi probabile, una guerra. Imprevedibile, e per molti aspetti casuale, fu però la
dinamica degli eventi da cui scaturì il casus belli, ovvero l’occasione, o il pretesto, per lo scatenamento del conflitto.
L’attentato di Sarajevo
Il 28 giugno 1914, uno studente bosniaco di nome Gavrilo Princip uccise con due colpi di pistola l’erede al trono d’Austria, l’arciducaFrancesco Ferdinando, e sua moglie, mentre attraversavano in auto scoperta le vie di Sarajevo,capitale della Bosnia. L’attentatore faceva parte di un’organizzazione ultranazionalista che si batteva
affinché la Bosnia, annessa all’Austria-Ungheria nel 1908 ma abitata in maggioranza
da popolazioni slave, entrasse a far parte di una “grande Serbia” indipendente dall’Impero
asburgico. L’organizzazione, detta “Mano nera”, aveva la sua base operativa proprio in Serbia e godeva di larghe complicità nella classe politica e nei vertici militari di quel
paese. Tanto bastò per suscitare la reazione del governo e dei circoli dirigenti austriaci,
da tempo convinti della necessità di impartire una lezione alla Serbia e alle sue
ambizioni espansionistiche che minacciavano l’integrità dell’Impero. Un attentato
terroristico, molto simile a quelli di matrice anarchica che avevano già mietuto numerose
vittime fra governanti e sovrani, si trasformò così in un caso internazionale e mise
in moto una catena di reazioni e controreazioni che precipitarono l’Europa in un conflitto
di proporzioni mai viste. Un conflitto che avrebbe segnato una svolta decisiva nella
storia dell’Europa e del mondo, ridisegnando i confini e mutando i rapporti di forza
fra gli Stati, trasformando la stessa società, aprendo infine una fase di guerre e
rivolgimenti interni durata più di trent’anni e conclusasi col definitivo tramonto
della centralità europea.
Il caso e la storia
La vicenda dell’attentato di Sarajevo è dunque un tipico esempio di come il corso
della “grande storia” possa essere influenzato da eventi singoli, da decisioni individuali,
da circostanze del tutto accidentali: nessuno può dire che cosa sarebbe accaduto se
a Sarajevo i servizi di sicurezza imperiali fossero stati più efficienti o se l’attentatore
avesse mancato il suo bersaglio. Ma Princip non sbagliò la mira. E l’attentato di
Sarajevo fece esplodere tensioni che altrimenti avrebbero potuto restare latenti.
Furono le decisioni prese da governanti e capi militari a trasformare una crisi locale in un conflitto generale, il primo combattuto sul Vecchio Continente dopo la fine delle guerre napoleoniche.
Ultimatum e dichiarazioni di guerra
L’Austria compì la prima mossa inviando, il 23 luglio, un durissimo ultimatum alla Serbia. Il secondo passo lo fece la Russia promettendo sostegno alla Serbia, sua principale alleata nei Balcani. Forte dell’appoggio
russo, il governo serbo accettò solo in parte l’ultimatum, respingendo la clausola
che prevedeva la partecipazione di funzionari austriaci alle indagini sui mandanti
dell’attentato. L’Austria giudicò la risposta insufficiente e, il 28 luglio, dichiarò guerra alla Serbia. Immediata fu la reazione del governo russo che, il giorno successivo, ordinò la
mobilitazione delle forze armate. Dichiarare la mobilitazione significava dare il
via a tutta quella serie di operazioni che costituivano la necessaria premessa di
una guerra: operazioni particolarmente lunghe e complesse in un paese delle dimensioni
dell’Impero zarista. Ma la mobilitazione – che i generali russi vollero estesa all’intero
confine occidentale (e non solo alle frontiere con l’Austria-Ungheria) per prevenire
un eventuale attacco da parte della Germania – fu interpretata dal governo tedesco
come un atto di ostilità.
Il 31 luglio la Germania inviò un ultimatum alla Russia intimandole l’immediata sospensione dei preparativi bellici. L’ultimatum non ottenne
risposta e fu seguito, a ventiquattro ore di distanza, dalla dichiarazione di guerra.
Il giorno stesso (1° agosto) la Francia, legata alla Russia da un trattato di alleanza
militare, mobilitò le proprie forze armate. La Germania rispose con un nuovo ultimatum
e con la successiva dichiarazione di guerra alla Francia (3 agosto).
Le responsabilità della Germania
Fu dunque l’iniziativa del governo tedesco, che già nella prima fase della crisi aveva
assicurato il proprio appoggio incondizionato all’Austria, a far precipitare definitivamente
la situazione. Ma come spiegare un impegno così deciso della Germania in una crisi
che in fondo non toccava direttamente nessuno dei suoi interessi vitali?
Bisogna ricordare innanzitutto che la Germania soffriva da tempo di un complesso di accerchiamento, ritenendosi ingiustamente soffocata nelle sue ambizioni internazionali. C’erano
poi le motivazioni di ordine militare. La strategia dei generali tedeschi si basava infatti sulla rapidità e sulla sorpresa,
non ammetteva la possibilità di lasciare l’iniziativa in mano agli avversari e costituiva
dunque di per sé un fattore di accelerazione della crisi e un ostacolo al negoziato.
Il piano di guerra elaborato ai primi del ’900 dall’allora capo di stato maggiore Alfred von Schlieffen, dando per scontata l’eventualità di una guerra su due fronti (l’alleanza franco-russa era operante dal 1894), prevedeva in primo luogo un massiccio
attacco contro la Francia, che doveva esser messa fuori combattimento in poche settimane.
Raggiunto questo obiettivo, il grosso delle forze sarebbe stato impiegato contro la
Russia, la cui macchina militare era potenzialmente fortissima, ma lenta a mettersi
in azione.
L’invasione del Belgio e l’intervento britannico
Presupposto essenziale per la riuscita del “piano Schlieffen” era la rapidità dell’attacco
alla Francia. A questo scopo era previsto che le truppe tedesche passassero attraverso
il Belgio, nonostante la sua posizione di neutralità, garantita da un trattato internazionale
sottoscritto anche dalla Germania. Ciò avrebbe permesso di investire lo schieramento
nemico nel suo punto più debole e di puntare direttamente su Parigi.
Il 4 agosto, i primi contingenti tedeschi invasero il Belgio per attaccare la Francia
da nord-est. La violazione della neutralità belga non solo scosse profondamente l’opinione pubblica europea, ma ebbe anche un peso
decisivo nel determinare l’allargamento del conflitto. La Gran Bretagna non poteva tollerare l’aggressione a un paese neutrale che si affacciava sulle coste
della Manica. Così, il 4 agosto, dichiarò guerra alla Germania. Fu questo il primo grave scacco per i governanti tedeschi, che avevano subordinato
alle esigenze militari qualsiasi considerazione di opportunità politica.
L’entusiasmo patriottico
Fra i politici, del resto, era diffusa la convinzione che una guerra, da ognuno immaginata
breve e vittoriosa per la propria parte, avrebbe contribuito a soffocare i contrasti
sociali e a rafforzare la posizione di governi e classi dirigenti. In un primo tempo,
i fatti parvero dar loro ragione. Nei primi giorni di agosto, le piazze delle grandi
capitali europee si riempirono di manifestazioni in favore della guerra. Intellettuali di prestigio e maestri di scuola si impegnarono per spiegarne al popolo
le buone ragioni. Nemmeno i partiti socialisti, che avevano fatto del pacifismo e
dell’internazionalismo la loro bandiera, seppero o vollero sottrarsi al clima generale
di “unione sacra”. I capi della socialdemocrazia tedesca votarono in Parlamento a favore dei crediti
di guerra (ossia degli stanziamenti necessari a sostenere lo sforzo bellico), motivando
la loro scelta col pericolo di una vittoria dell’assolutismo zarista. Analogo atteggiamento
fu assunto dai socialdemocratici austriaci. I socialisti francesi, dopo l’assassinio
del loro leader Jean Jaurès da parte di un fanatico nazionalista alla fine di luglio, rinunciarono a ogni manifestazione
di protesta e, poco dopo, entrarono a far parte del governo. La stessa cosa fecero
i laburisti britannici. La Seconda Internazionale – nata come espressione della solidarietà
fra i lavoratori di tutti i paesi e impegnata da sempre nella difesa della pace –
cessò praticamente di esistere: fu, in fondo, la prima vittima della Grande Guerra.
1.3. 1914-15: dalla guerra di logoramento alla guerra di posizione
Nuovi eserciti e vecchie strategie
Guerra di posizione, guerra di logoramento, guerra di usura, guerra di trincea: queste
alcune definizioni usate per descrivere le caratteristiche di un conflitto che non
aveva precedenti nelle guerre del passato, sia per le dimensioni delle forze in campo
sia per le potenzialità distruttive degli strumenti bellici. La pratica ormai generalizzata
della coscrizione obbligatoria e le accresciute possibilità dei mezzi di trasporto
consentirono ai belligeranti di schierare rapidamente milioni di uomini in uniforme
e di dotarli di armi moderne: tutti gli eserciti disponevano di fucili a ripetizione
e di cannoni potentissimi, ma la novità più importante era costituita dalle mitragliatrici automatiche, armi micidiali capaci di sparare centinaia di colpi al minuto. Nonostante ciò, nessuna
fra le potenze in guerra aveva elaborato strategie diverse da quelle della tradizionale
guerra di movimento, che si fondava sullo spostamento di ingenti masse di uomini in vista di pochi e
risolutivi scontri campali. Tutti i piani di guerra erano basati sulla previsione
di un conflitto di pochi mesi o addirittura di poche settimane.
Il fallimento del piano tedesco
Furono soprattutto i tedeschi a puntare su una strategia offensiva, già sperimentata
con successo nella campagna del 1870 contro la Francia. Anche questa volta, ottennero
una serie di importanti successi attestandosi, ai primi di settembre, lungo il corso della Marna, a poche decine di chilometri da Parigi. Nel frattempo, sul fronte orientale, i russi, che cercavano di penetrare nella Prussia orientale, erano sconfitti nelle grandi battaglie diTannenberg e dei Laghi Masuri. La minaccia russa si rivelò tuttavia più seria del previsto e indusse i comandi
tedeschi a distogliere una parte delle loro forze dal fronte occidentale. Il 6 settembre,
i francesi riuscirono a lanciare un improvviso contrattacco e, dopo una settimana
di furiosi combattimenti, i tedeschi furono costretti a ripiegare su una linea più arretrata, in corrispondenza dei fiumi Aisne e Somme. Con l’arresto
dell’offensiva sulla Marna, il piano tedesco poteva dirsi sostanzialmente fallito.
La guerra di logoramento
Alla fine di novembre gli eserciti si erano ormai attestati in trincee improvvisate su un fronte lungo 750 chilometri, che andava dal Mare del Nord al confine
svizzero. Cominciava così, sul fronte occidentale, una guerra di tipo nuovo, che vedeva due schieramenti praticamente immobili affrontarsi in una serie di sterili quanto sanguinosi attacchi, inframmezzati da
lunghi periodi di stasi. In una guerra di questo genere, l’iniziale superiorità militare
degli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria) passava in secondo piano. Diventava
invece essenziale il ruolo della Gran Bretagna, che poteva contare sulle risorse del suo impero coloniale e sulla sua superiorità navale. Altrettanto importante si dimostrava l’apporto della Russia col suo enorme potenziale
umano.
Un conflitto mondiale
Un problema vitale per entrambi gli schieramenti era poi l’atteggiamento dei paesi
che in un primo momento erano rimasti estranei al conflitto e che temevano di veder
sacrificate le loro ambizioni. Molte potenze minori temevano di restare sacrificate
da una nuova sistemazione dell’assetto internazionale decisa sopra le loro teste,
altre cercarono di profittare della guerra per soddisfare le loro ambizioni territoriali.
Da qui la tendenza del conflitto ad ampliarsi, fino ad assumere dimensioni planetarie.
Nell’agosto 1914 il Giappone dichiarava guerra alla Germania per impadronirsi dei possedimenti tedeschi nel Pacifico.
Nel novembre dello stesso anno la Turchia interveniva a favore degli Imperi centrali. Nel maggio 1915 l’Italia entrava in guerra contro l’Austria-Ungheria [cfr. 1.4]. A fianco della Germania e dell’Austria sarebbe poi intervenuta la Bulgaria, mentre
nel campo opposto si sarebbero schierati il Portogallo, la Romania e la Grecia. Decisivo sarebbe risultato, infine, l’intervento degli Stati Uniti (aprile 1917), che si schierarono con l’Intesa; gli Usa si trascinarono dietro numerosi
paesi extraeuropei (Cina, Brasile e altre Repubbliche latino-americane), il cui contributo alla guerra
fu però poco rilevante. Se a tutto questo si aggiunge l’estensione del conflitto agli
imperi coloniali, si capirà come la guerra, pur avendo sempre in Europa il suo teatro
principale, assumesse sempre più un carattere mondiale, coinvolgendo per la prima
volta tutti e cinque i continenti.
I paesi in guerra (1914-17)
1.4. 1915: l’intervento dell’Italia
L’Italia entrò nel primo conflitto mondiale nel maggio del 1915, quando la guerra
era già iniziata da dieci mesi, schierandosi a fianco dell’Intesa contro l’Impero
austro-ungarico fino ad allora suo alleato. Fu una scelta sofferta e contrastata,
sulla quale classe politica e opinione pubblica si spaccarono in due fronti contrapposti,
solo in parte coincidenti con gli schieramenti tradizionali.
L’iniziale neutralità
Nell’agosto 1914, a guerra appena scoppiata, il governo presieduto da Antonio Salandra
aveva dichiarato la neutralità dell’Italia. Questa decisione, giustificata col carattere difensivo della Triplice alleanza (l’Austria non era stata attaccata, né aveva consultato l’Italia prima di intraprendere
l’azione contro la Serbia), aveva trovato concordi in un primo tempo tutte le principali
forze politiche. Ma, una volta scartata l’ipotesi di un intervento a fianco degli
Imperi centrali – ipotesi che cozzava fra l’altro contro i sentimenti antiaustriaci
di buona parte dell’opinione pubblica –, cominciò a essere affacciata da alcuni settori
politici l’eventualità opposta: quella di una guerra contro l’Austria, che avrebbe
consentito all’Italia di portare a compimento il processo risorgimentale, riunendo alla patria le terre irredente del Trentino e della Venezia Giulia, abitate da popolazioni italiane, ma ancora soggette all’Impero austro-ungarico.
Gli interventisti
Sostenitori di questa linea interventista furono innanzitutto gruppi e partiti della
sinistra democratica – i repubblicani, i radicali, i socialriformisti di Leonida Bissolati – convinti
che una partecipazione italiana alla guerra contro gli Imperi centrali avrebbe aiutato
la causa di una nuova Europa fondata sulla democrazia e sul principio di nazionalità.
Erano naturalmente a favore della guerra anche le associazioni irredentiste, che avevano tra le loro file numerosi fuoriusciti dall’Impero austro-ungarico, tra
cui Cesare Battisti, già leader dei socialisti trentini. A essi si aggiunsero esponenti
delle frange estremiste del movimento operaio convertitisi alla causa della “guerra rivoluzionaria”: una guerra destinata, nelle loro speranze, a rovesciare gli equilibri sociali all’interno
dei paesi coinvolti. Sull’opposto versante dello schieramento politico, fautori attivi
dell’intervento furono i nazionalisti, che si erano schierati in un primo tempo per gli Imperi centrali ed erano comunque
decisi a far sì che l’Italia potesse affermare la sua vocazione di grande potenza
imperialista. Più prudente e graduale, invece, fu l’adesione alla causa dell’intervento
da parte di quei gruppi liberal-conservatori che avevano la loro espressione più autorevole nel «Corriere della Sera» di Albertini
e i loro punti di riferimento politici nel presidente del Consiglio Antonio Salandra
e nel ministro degli Esteri (dall’ottobre 1914) Sidney Sonnino. Questi ultimi temevano
soprattutto che una mancata partecipazione al conflitto avrebbe gravemente compromesso
la posizione internazionale dell’Italia e il prestigio della monarchia.
I neutralisti
Schierata su una linea “neutralista” era invece l’ala più consistente dei liberali, che faceva capo a GiovanniGiolitti, protagonista assoluto della vita politica italiana nel primo quindicennio del ’900.
Giolitti, infatti, non riteneva il paese preparato alla guerra ed era inoltre convinto
che l’Italia avrebbe potuto ottenere dagli Imperi centrali, come compenso per la sua
neutralità, buona parte dei territori rivendicati. In maggioranza ostile all’intervento
era anche il mondo cattolico, a cominciare dal nuovo papa Benedetto XV (eletto nel 1914), mentre il Partito socialista (Psi) e la Confederazione generale del lavoro (Cgl), in contrasto con la scelta patriottica
dei maggiori partiti operai europei, mantennero una posizione di netta condanna della
guerra, in nome degli ideali internazionalisti. Tra i leader socialisti, solo Benito Mussolini, direttore del quotidiano del partito «Avanti!», si schierò, con un’improvvisa e
clamorosa conversione, a favore dell’intervento. Espulso dal Psi, Mussolini fondò,
nel novembre 1914, un nuovo quotidiano, «Il Popolo d’Italia», che divenne la voce
principale dell’interventismo di sinistra.
I rapporti di forza
In termini di forza parlamentare e di peso nella società, i neutralisti erano in netta
prevalenza, ma non costituivano uno schieramento omogeneo, capace di trasformarsi
in alleanza politica. Il fronte interventista era altrettanto composito. Era però
unito da un obiettivo preciso, la guerra contro l’Austria, oltre che dalla comune
avversione per la “dittatura” giolittiana: per molti intellettuali e politici, infatti,
la guerra doveva significare la fine del giolittismo e l’avvio di un radicale rinnovamento della politica italiana. Favorite dall’atteggiamento tutt’altro che imparziale delle autorità, le minoranze
interventiste seppero impadronirsi, nei momenti decisivi, del dominio delle piazze. Inoltre, il partito della guerra poteva contare sui settori più giovani e dinamici
della società. Erano in maggioranza interventisti gli studenti, gli insegnanti, gli
impiegati, i professionisti, ovvero la piccola e media borghesia colta, più sensibile ai valori patriottici. Erano interventisti, con poche eccezioni fra cui quella illustre di Benedetto Croce,
gli intellettuali di maggior prestigio: da Giovanni Gentile a Giuseppe Prezzolini, da Luigi Einaudi a Gaetano Salvemini.
Il caso più tipico fu quello di Gabriele D’Annunzio che, noto fino ad allora come scrittore raffinato e come personaggio eccentrico,
si improvvisò per l’occasione capopopolo ed ebbe un ruolo di rilievo nelle manifestazioni
di piazza a favore dell’intervento.
Il patto di Londra
A decidere l’esito dello scontro fra neutralisti e interventisti furono le scelte
del capo del governo, del ministro degli Esteri e del re: cioè degli uomini cui spettava,
a norma dello Statuto, il potere di decidere i destini del paese in materia di alleanze
internazionali. Fin dall’autunno ’14 Salandra e Sonnino, mentre trattavano con gli
Imperi centrali per strappare qualche compenso territoriale in cambio della neutralità,
avevano stretto contatti segretissimi con l’Intesa. Infine decisero, col solo avallo del re, di accettare le proposte di Francia, Gran
Bretagna e Russia firmando, il 26 aprile 1915, il patto di Londra. Le clausole principali prevedevano che l’Italia avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, il Trentino, il Sud Tirolo fino al confine “naturale” del Brennero, la Venezia Giulia, l’intera penisola istriana e parte dellaDalmazia e delle sue isole adriatiche.
Le “radiose giornate”
Restava da superare, a questo punto, la prevedibile opposizione della maggioranza
della Camera. Quando, ai primi di maggio, Giolitti, non ancora al corrente del patto
di Londra, si pronunciò per la continuazione delle trattative con l’Austria, ben trecento
deputati gli manifestarono solidarietà, inducendo Salandra a rassegnare le dimissioni.
Ma la volontà neutralista del Parlamento fu di fatto scavalcata: da un lato dalla
decisione del re, che respinse le dimissioni di Salandra, mostrando così di approvarne
l’operato; dall’altro dalle manifestazioni di piazza che in quei decisivi giorni di maggio – le “radiose giornate” celebrate dalla retorica interventista – si fecero sempre più imponenti e più minacciose.
La dichiarazione di guerra
Il 20 maggio 1915, costretta a scegliere fra l’adesione alla guerra e un voto contrario
che sconfessasse il governo e lo stesso sovrano, aprendo così una crisi istituzionale, la Camera approvò,
col voto contrario dei soli socialisti, la concessione dei pieni poteri al governo. L’Italia dichiarò guerra all’Austria e il 24 maggio 1915 cominciarono le operazioni
militari. Disorientati e isolati, i socialisti non riuscirono a organizzare un’opposizione
efficace: la stessa formula “né aderire né sabotare”, coniata per definire l’atteggiamento del partito a intervento ormai deciso, era
poco più di una dichiarazione di principio e un’implicita confessione di impotenza.
Lo scontro sull’intervento lasciò un segno profondo nella vita politica italiana,
evidenziando l’estraneità di larghe masse popolari ai valori patriottici, l’indebolimento
della mediazione parlamentare, rifiutata da consistenti settori dell’opinione pubblica,
e l’emergere di nuovi metodi di lotta politica estranei alle tradizioni dello Stato
liberale.
1.5. I fronti di guerra (1915-16)
Il fronte italiano e la Strafexpedition
L’intervento italiano non servì, come molti avevano sperato, a decidere le sorti del
conflitto. Le forze austro-ungariche si schierarono sulle posizioni difensive più
favorevoli, lungo il corso dell’Isonzo e sulle alture del Carso. Contro queste linee le truppe comandate dal generale Luigi Cadorna sferrarono, nel corso del 1915, quattro sanguinose offensive (le prime quattro “battaglie
dell’Isonzo”) senza cogliere alcun successo.
Nel giugno 1916 furono gli austriaci a lanciare un improvviso attacco (che fu chiamato
significativamente Strafexpedition, ossia “spedizione punitiva” contro l’antico alleato ritenuto colpevole di tradimento), tentando di penetrare
dal Trentino nella pianura veneta e di spezzare in due lo schieramento italiano. L’offensiva
fu faticosamente arrestata. Ma il governo Salandra, per il contraccolpo psicologico
suscitato nel paese, fu costretto alle dimissioni e sostituito da un governo di coalizione nazionale – comprendente cioè tutte le forze politiche, esclusi, in questo caso, i socialisti
– presieduto da un anziano politico di orientamento conservatore, Paolo Boselli. Ne faceva parte, per la prima volta, un esponente dell’area cattolico-moderata,
Filippo Meda. Il cambio di ministero, però, non comportò alcun mutamento nella conduzione
militare della guerra. Nel corso dell’anno furono combattute altre battaglie sull’Isonzo,
senza che fossero ottenuti risultati importanti, salvo quello, soprattutto simbolico,
della presa di Gorizia in agosto.
Il fronte italiano (1915-18)
Il fronte francese
Una situazione analoga, su scala ancora più ampia, si era creata sul fronte francese.
Anche qui gli schieramenti rimasero pressoché immobili per tutto il 1915. All’inizio
del 1916 i tedeschi sferrarono un attacco in forze contro la piazzaforte francese
di Verdun con lo scopo principale di logorare le forze nemiche. La battaglia, durata quattro
mesi, risultò troppo costosa anche per gli attaccanti: complessivamente i due schieramenti
registrarono oltre 600 mila perdite fra morti, feriti e prigionieri. E la carneficina,
forse la più tremenda cui l’umanità avesse mai assistito in uno spazio geografico
così limitato, proseguì nell’estate 1916, quando gli anglo-francesi lanciarono una controffensiva sul fiume Somme: qui, in sei mesi, il numero delle perdite arrivò a quasi un milione.
Il fronte occidentale (1914-18)
Il fronte orientale
In realtà, fra il 1915 e il 1916, i soli successi militari di qualche importanza furono
conseguiti dagli Imperi centrali e i pochi spostamenti rilevanti del fronte si verificarono
in Europa orientale. Nell’estate del ’15 una grande offensiva tedesca costrinse i
russi ad abbandonare buona parte della Polonia. In autunno gli austriaci attaccarono
la Serbia, che fu invasa e di fatto eliminata dal conflitto. Falliva intanto il tentativo
degli anglo-francesi di alleggerire la pressione nemica sull’alleato russo portando
la guerra sul territorio della Turchia, il più potente alleato degli Imperi centrali.
Fra la primavera e l’estate del ’15 una spedizione navale britannica attaccò lo Stretto deiDardanelli e riuscì a far sbarcare un contingente nella penisola di Gallipoli, sulle coste turche. Ma l’impresa, contrastata con efficacia, si risolse in un sanguinoso
fallimento. Nel giugno del 1916, furono i russi a lanciare l’offensiva contro gli
austriaci allora impegnati sul fronte italiano. I loro iniziali successi convinsero
la Romania a intervenire a fianco dell’Intesa. Ma in ottobre gli austro-tedeschi contrattaccarono
e la Romania subì la stessa sorte della Serbia, lasciando nelle mani dei nemici le
sue risorse agricole e minerarie (grano e petrolio).
Il fronte orientale (1914-17)
Il blocco navale
Questi risultati non bastarono a riequilibrare la situazione a favore degli Imperi
centrali, che subivano le conseguenze del blocco navale attuato dai britannici nel Mare del Nord. Invano, nel maggio 1916, la flotta tedesca
aveva tentato un attacco in prossimità della penisola dello Jutland. Le perdite subìte nella battaglia, per quanto inferiori a quelle degli avversari,
furono tali da indurre i comandi tedeschi a ritirare le navi nei porti, rinunciando
definitivamente allo scontro in campo aperto. A questo si ridusse il contributo della
flotta tedesca del Mare del Nord, che aveva rappresentato nell’anteguerra uno dei
più gravi fattori di tensione fra Germania e Gran Bretagna.
1.6. Guerra di trincea e nuove tecnologie
La vita al fronte
Due anni di guerra non avevano dunque risolto la situazione di stallo creatasi nell’estate
del ’14, né avevano mutato i caratteri di un conflitto sempre più dominato dalla tremenda
usura dei reparti combattenti. Un’usura dovuta soprattutto alla combinazione micidiale
tra la vecchia dottrina militare, che imponeva ai soldati di cercare a ogni costo
la rottura del fronte avversario (o la conquista di una determinata posizione), e
le nuove armi automatiche, le mitragliatrici in primo luogo, capaci di trasformare ogni assalto in una carneficina.
Dal punto di vista tecnico, la vera protagonista della guerra fu la trincea, ossia la più semplice e primitiva tra le fortificazioni difensive. Scavate all’inizio come rifugi provvisori per le truppe in attesa del balzo decisivo,
divennero, una volta stabilizzatesi le posizioni, la sede permanente dei reparti di prima linea. Col passare del tempo, vennero allargate, dotate di ripari, protette da reticolati
di filo spinato e da “nidi” di mitragliatrici. La vita nelle trincee, monotona e rischiosa
al tempo stesso, logorava i combattenti nel morale oltre che nel fisico e li gettava in uno stato di apatia e di torpore mentale. Soldati e ufficiali restavano
in prima linea senza ricevere il cambio anche per intere settimane. Vivevano in condizioni
igieniche deplorevoli, esposti al caldo, al freddo e alle intemperie, oltre che ai
periodici bombardamenti dell’artiglieria avversaria. Non uscivano dai loro ricoveri
se non per compiere qualche pericolosa azione notturna di sabotaggio nelle linee nemiche
o per lanciarsi all’attacco, quando scattava un’offensiva.
L’assalto
Gli assalti, che iniziavano di regola nelle prime ore del mattino, erano preceduti
da un intenso tiro di artiglieria (“fuoco di preparazione”) che in teoria avrebbe
dovuto scompaginare le difese avversarie ma in pratica aveva come risultato principale
quello di eliminare ogni effetto-sorpresa. I soldati che scattavano simultaneamente
fuori delle trincee e riuscivano a superare il fuoco di sbarramento delle mitragliatrici
finivano con l’accalcarsi nei pochi varchi aperti dall’artiglieria nei reticolati,
facilitando così il compito dei tiratori nemici. Se, nonostante tutto ciò, riuscivano
a raggiungere le trincee di prima linea, dovevano subire il contrattacco dei reparti
di seconda linea e delle riserve, che in genere li ricacciava sulle posizioni di partenza.
Entusiasmo e rassegnazione
Bastarono i primi mesi di guerra nelle trincee a far svanire l’entusiasmo patriottico
con cui molti combattenti – soprattutto i giovani di estrazione borghese – avevano
affrontato il conflitto. Gran parte dei soldati semplici – soprattutto quelli di origine
contadina – non aveva idee precise sui motivi per cui si combatteva e considerava
la guerra come una specie di flagello naturale. La visione eroica e avventurosa dell’esperienza
bellica restò prerogativa di esigue minoranze di combattenti: in particolare quelli
inquadrati nelle truppe speciali – come le Sturmtruppen(“truppe di assalto”) tedesche o gli Arditi italiani – impiegati in azioni particolarmente rischiose e per questo esentati dai
turni di trincea. Per tutti gli altri la guerra era una dura necessità. I soldati
la combattevano perché animati da un senso di elementare solidarietà con i propri compagni di reparto o con i propri superiori diretti, ma anche perché vi erano costretti dalla presenza
di un apparato repressivo spietato nel punire ogni forma di insubordinazione.
Le forme del rifiuto
Né il senso del dovere né la minaccia del plotone di esecuzione poterono impedire,
tuttavia, che la paura o l’avversione alla guerra si traducessero talora in forme
di rifiuto. Le più diffuse erano quelle individuali, che andavano dalla renitenza alla leva alla diserzione o alla pratica dell’autolesionismo, consistente nell’infliggersi volontariamente ferite e mutilazioni per essere dispensati
dal servizio al fronte. Meno frequenti erano i casi di ribellione collettiva – “scioperi militari” o veri e propri ammutinamenti – che crebbero in numero e intensità
col prolungarsi del conflitto. E fecero crescere in parallelo, nei governi e nei comandi
militari, i timori di un cedimento delle truppe.
Le nuove armi
Nella ricerca spasmodica di un risultato decisivo sul campo, gli eserciti belligeranti
fecero ricorso senza risparmio a tutte le risorse messe a disposizione dai progressi
della scienza e della tecnologia. Il primo conflitto mondiale fu dunque segnato dall’uso
su larghissima scala di strumenti bellici già sperimentati in precedenza (a cominciare
dalle mitragliatrici), ma anche dall’invenzione di nuovi mezzi d’offesa. Del tutto
nuova e sconvolgente fu l’apparizione delle armi chimiche: proiettili esplosivi che, lanciati sulle trincee nemiche, sprigionavano gas tossici letali. Furono i tedeschi, nella primavera del 1915, a sperimentare per la prima volta queste
armi, che in seguito vennero adottate anche dagli altri eserciti, fino a quando l’uso
generalizzato delle maschere antigas rese gli aggressivi chimici troppo costosi in
rapporto alle perdite inflitte al nemico.
Telecomunicazioni, mezzi motorizzati, aviazione
Oltre a stimolare la produzione in grande serie di armi vecchie e nuove, la guerra
accelerò la crescita di settori relativamente giovani, come quello automobilistico,
o che stavano muovendo i primi passi, come la radiofonia. Il perfezionamento delle telecomunicazioni, via radio o via filo, permise di coordinare
meglio i movimenti delle truppe. L’impiego sempre più massiccio dei mezzi motorizzati consentì di far affluire rapidamente enormi masse di soldati dalle retrovie al fronte.
Più lento, quanto agli impieghi bellici, fu lo sviluppo dell’aviazione. Dal 1903, quando due ingegneri americani, i fratelli Orville e Wilbur Wright, erano
riusciti per la prima volta a far sollevare dal suolo un apparecchio a motore più
pesante dell’aria, la tecnica del volo aveva fatto limitati progressi. E gli aerei,
costruiti in gran numero nel corso della guerra, furono usati soprattutto per la ricognizione e per qualche azione di bombardamento, senza svolgere un ruolo decisivo nelle principali battaglie.
I mezzi corazzati
Altrettanto stentati furono gli esordi di un altro futuro protagonista delle guerre
del ’900: il carro armato. I primi mezzi corazzati, le autoblindo (ossia autocarri ricoperti da piastre d’acciaio e muniti di mitragliatrici), erano
limitati nel loro impiego dal fatto di potersi muovere solo su strada. Il passo successivo
consistette nel sostituire le ruote con i cingoli, che già venivano impiegati sulle macchine agricole e che permettevano ai veicoli
di attraversare qualsiasi terreno e di essere usati per attaccare e scavalcare le trincee nemiche. Sperimentati per la prima volta nel 1916 dai britannici, i carri armati erano però
molto lenti; e furono impiegati in modo massiccio solo nell’ultima fase della guerra.
Il sommergibile
Fra le nuove macchine belliche sperimentate in questi anni, una sola influì in modo
significativo sul corso della guerra: il sottomarino. Furono soprattutto i tedeschi a servirsene sia per attaccare le navi da guerra nemiche,
sia per affondare senza preavviso i mercantili, anche di paesi neutrali, che portavano
rifornimenti verso i porti dell’Intesa. La guerra sottomarina si rivelò subito un’arma molto efficace. Essa però sollevava gravi problemi politici
e morali e urtava in particolare gli interessi commerciali degli Stati Uniti. Infatti, quando nel maggio 1915 un sottomarino tedesco affondò il transatlantico
britannico Lusitania, che trasportava più di mille passeggeri fra cui 140 cittadini americani (ma aveva
a bordo anche armi destinate alla Gran Bretagna), le proteste degli Stati Uniti furono
così energiche da convincere i tedeschi a sospendere la guerra sottomarina indiscriminata.
1.7. Il “fronte interno”
Guerra e mobilitazione sociale
Per tutti i paesi che vi parteciparono, e in particolare per quelli che la combatterono
sul proprio territorio, la Grande Guerra costituì un laboratorio, un campo di sperimentazione
e anche un acceleratoredi tutti i fenomeni legati alla società di massa. Circa 65 milioni di uomini furono strappati alle loro occupazioni abituali, alle
famiglie e ai mondi chiusi in cui la maggior parte di loro viveva, per essere coinvolti
in una gigantesca esperienza collettiva. Indossavano le stesse uniformi, combattevano negli stessi luoghi, mangiavano lo
stesso rancio. Si abituavano forzatamente alla vita in comune e alla disciplina, ma
anche alla violenza e alla quotidiana familiarità con la morte.
Anche i civili furono chiamati a dare il loro contributo nel cosiddetto “fronte interno”: le donne, per esempio, si trovarono spesso a svolgere le funzioni di capofamiglia
[cfr. 2.2]. Molte di loro sostituirono nei lavori dei campi, negli uffici e anche nelle fabbriche
gli uomini arruolati nell’esercito. L’intera società dei paesi belligeranti fu dunque
mobilitata in funzione della guerra e ne risentì in varia misura le conseguenze: quella
combattuta sui fronti europei fu una guerra totale, perché coinvolse tutti gli ambiti della vita dei paesi belligeranti.
Il coinvolgimento dei civili
I più colpiti furono naturalmente gli abitanti delle zone in cui si combatteva, costretti
a lasciare le loro case e le loro terre. Ma anche coloro che vivevano lontano dal
fronte dovettero affrontare situazioni nuove e mutamenti anche traumatici. C’era poi
il problema di chi risiedeva in un paese diverso dalla propria patria d’origine e
poteva trovarsi improvvisamente nella condizione di nemico: soggetto quindi alla confisca
dei beni e a una serie di restrizioni personali che potevano arrivare all’internamento.
Infine, le minoranze etniche che avevano nel passato recente manifestato aspirazioni indipendentiste erano ovunque
tenute sotto controllo perché sospettate di scarsa lealtà nei confronti della nazione
in guerra.
Lo sterminio degli armeni
Un caso limite, a questo proposito, fu quello degli armeni. Questa antica popolazione di religione cristiana abitava prevalentemente in una
regione del Caucaso divisa fra l’Impero ottomano e quello russo. Già alla fine dell’800, e ancor più dopo la rivoluzione dei “Giovani turchi” del
1908, gli armeni di Turchia avevano pagato con persecuzioni e massacri i loro tentativi
di ribellione. Nella primavera-estate del 1915, mentre Russia e Turchia si combattevano
nel Caucaso (e gli anglo-francesi cercavano di sbarcare sulle coste dei Dardanelli),
gli armeni che vivevano nella parte turca di quella regione, sospettati di intesa
col nemico russo, furono sottoposti a una brutale deportazione nelle zone interne dell’Anatolia che, per la maggior parte di loro (oltre un milione),
si trasformò in sterminio: una sorta di sinistro preludio ad altri stermini di massa che avrebbero costellato
il ’900.
Le trasformazioni nell’economia
Al di là dei lutti e delle sofferenze legate, direttamente o indirettamente, alle
operazioni militari, la guerra produsse una serie di profonde e durature trasformazioni
in tutti i paesi che vi furono coinvolti. I mutamenti più vistosi furono quelli che
interessarono il mondo dell’economia e in particolare il settore industriale, chiamato ad alimentare la macchina gigantesca degli eserciti al fronte. Le industrie
interessate alle forniture belliche (siderurgiche, meccaniche e chimiche in primo luogo) conobbero uno sviluppo imponente,
al di fuori di qualsiasi legge di mercato.
Tutto ciò impose una riorganizzazione dell’apparato produttivo e una continua dilatazione dell’intervento statale, che assunse dimensioni incompatibili col modello liberale ottocentesco. Interi settori
dell’industria furono posti sotto il controllo dei militari. Anche la produzione agricola fu assoggettata a un regime di requisizioni e di prezzi controllati. In alcuni casi si giunse al razionamento dei beni di consumo di prima necessità.
In Germania – il paese in cui la pianificazione economica raggiunse le forme più spinte – si giunse addirittura a parlare di “socialismo di guerra”. Ma il sistema era in realtà gestito da organismi composti da militari e da industriali,
i quali trassero dall’economia bellica notevoli vantaggi in termini di profitto e
di potere.
Politici e militari
Strettamente legate ai mutamenti nell’economia furono le trasformazioni degli apparati statali. Ovunque i governi furono investiti di nuove attribuzioni e dovettero farvi fronte
con l’aumento della burocrazia. Ovunque il potere esecutivo si rafforzò a spese degli organismi rappresentativi,
poco adatti per loro stessa natura alle esigenze di rapidità e segretezza nelle decisioni
imposte dallo stato di guerra. I poteri dei governi erano a loro volta insidiati dall’invadenza
dei comandi militari, che avevano poteri pressoché assoluti per tutto ciò che riguardava la conduzione
della guerra e potevano quindi influenzare pesantemente le scelte dei politici. In
questo senso non vi erano differenze sostanziali fra la dittatura militare di fatto
esercitata dal 1916 in Germania dal capo di stato maggiore Paul von Hindenburg e dal suo più stretto collaboratore, il generale Erich Ludendorff, e la gestione autoritaria del potere praticata in Francia nell’ultimo anno di guerra
dal governo di unione nazionale di Georges Clemenceau o in Gran Bretagna dal “gabinetto di guerra” di David Lloyd George. Tutti i mezzi – compresa la censura e la sorveglianza sui cittadini sospetti di
“disfattismo” – furono usati per combattere i “nemici interni” e per mobilitare la popolazione verso l’obiettivo della vittoria.
La propaganda
Strumento essenziale per la mobilitazione dei cittadini era la propaganda: una propaganda
che non si rivolgeva soltanto alle truppe, ma cercava anche di raggiungere in tutti
i modi possibili la popolazione civile. I governi di tutti i paesi profusero un impegno
senza precedenti per stampare manifesti murali, organizzare manifestazioni di solidarietà
ai combattenti, incoraggiare la nascita di comitati e associazioni “per la resistenza
interna”. Si trattava di mezzi ancora rudimentali, che rivelavano tuttavia la preoccupazione
dei governi nel “curare” l’opinione pubblica e nel cercarne l’appoggio: preoccupazione
che diventava tanto più forte quanto più crescevano i segni di stanchezza fra i combattenti
e la popolazione civile e quanto più si rafforzavano le correnti di opposizione alla
guerra.
La scelta patriottica operata dai maggiori partiti socialisti nell’estate del ’14
non fece tacere del tutto le voci di opposizione nel movimento operaio europeo. A
Zimmerwald e a Kienthal, in Svizzera, nel settembre 1915 e nell’aprile 1916, si tennero due conferenze socialiste
internazionali che si conclusero con l’approvazione di documenti in cui si chiedeva
una pace “senza annessioni e senza indennità”. Col protrarsi del conflitto i gruppi contrari alla guerra si rafforzarono. Fra di
essi, i bolscevichi russi, guidati da Lenin, che si erano staccati definitivamente dalla socialdemocrazia
e costituiti fin dal 1912 in partito autonomo.
1.8. 1917: l’anno della svolta
La rivoluzione in Russia e l’intervento americano
Nei primi mesi del 1917 due novità intervennero a mutare il corso della guerra e dell’intera
storia europea e mondiale. All’inizio di marzo (fine febbraio secondo il calendario
russo) uno sciopero generaledegli operai di Pietrogrado (questo il nuovo nome assunto dalla capitale russa dopo l’estate del ’14) si trasformò
in un’imponente manifestazione politica contro il regime zarista. Quando i soldati chiamati a ristabilire l’ordine rifiutarono di sparare sulla folla
e fraternizzarono coi dimostranti, la sorte della monarchia fu segnata: lo zar abdicò il 15 marzo e pochi giorni dopo venne arrestato con l’intera famiglia reale. Si metteva
in moto, così, un processo che avrebbe portato in breve tempo al collasso militare
della Russia e alla firma dell’armistizio.
Il 6 aprile dello stesso anno gli Stati Uniti dichiaravano guerra alla Germania che aveva ripreso la guerra sottomarina indiscriminata, in precedenza sospesa proprio
per le proteste americane. L’intervento degli Usa, pur facendo sentire il suo peso
solo dopo parecchi mesi, sarebbe risultato decisivo sia sul piano militare sia su
quello economico, tanto da compensare il gravissimo colpo subìto dall’Intesa con l’uscita
di scena della Russia.
La stanchezza degli eserciti e le iniziative di pace
Nell’immediato, infatti, gli avvenimenti russi incisero negativamente sul morale delle
truppe. In Francia come in Italia si fecero più frequenti gli episodi di insubordinazione
dei reparti combattenti e le proteste popolari contro la guerra. Il caso più grave
si verificò sul fronte francese dove, all’inizio di maggio, a conclusione di un’ennesima,
inutile offensiva, alcuni reparti di fanteria si rifiutarono di tornare a combattere.
L’ammutinamento, che coinvolse più di 40 mila uomini, fu domato con una durissima
repressione, ma anche con l’adozione di misure volte a migliorare la condizione dei
soldati.
Anche negli Imperi centrali si andavano frattanto moltiplicando i segni di stanchezza.
Particolarmente delicata era, all’inizio del ’17, la posizione dell’Impero austro-ungarico,
dove prendevano forza le aspirazioni indipendentiste delle “nazionalità oppresse”: polacchi, cechi, slavi del Sud. Alla costituzione di un governo cecoslovacco in
esilio seguì, nell’estate del ’17, un accordo fra serbi, croati e sloveni per la costituzione,
a guerra finita, di uno Stato unitario degli slavi del Sud (la futura Jugoslavia).
Consapevole del pericolo di disgregazione cui era esposto l’Impero, il nuovo imperatore
Carlo I (Francesco Giuseppe era morto nel novembre del ’16 dopo quasi settant’anni
di regno) avviò tra il febbraio e l’aprile del ’17 negoziati segreti in vista di una
pace separata. Ma le sue proposte furono respinte dall’Intesa.
Non ebbe miglior fortuna una iniziativa promossa in agosto da papa Benedetto XV che invitò i governi a porre fine all’“inutile strage” e a prendere in considerazione l’ipotesi di una pace senza annessioni. Tanto più cresceva il carico di sofferenze imposto dalla guerra, tanto
meno i responsabili degli Stati belligeranti erano disposti ad ammettere che tutto
era stato “inutile” e ad accantonare le loro speranze di vittoria.
Le difficoltà dell’Italia
Anche per l’Italia il 1917 fu l’anno più difficile della guerra. Fra maggio e settembre
Cadorna ordinò una nuova serie di offensive sull’Isonzo, con risultati modesti e costi umani ancora più pesanti che in passato. Tra i soldati
le manifestazioni di protesta e i gesti di insubordinazione si fecero più frequenti,
anche se non giunsero mai a organizzarsi in un movimento di ampie proporzioni. Intanto
fra la popolazione civile si moltiplicavano i segni di malcontento per i disagi causati dall’aumento dei prezzi e dalla carenza di generi alimentari. Si trattava per lo più di manifestazioni spontanee che vedevano in prima fila le
donne e si esaurivano nel giro di poche ore. L’unico vero episodio insurrezionale
si verificò a Torino fra il 22 e il 26 agosto, quando una protesta originata dalla mancanza di pane si
trasformò in una autentica sommossa, con forte partecipazione operaia.
L’avanzata austro-tedesca dal 24 al 26 ottobre 1917
Caporetto
Fu in questa situazione che i comandi austro-tedeschi decisero di profittare della
disponibilità di truppe provenienti dal fronte russo, ormai di fatto chiuso, per infliggere
un colpo decisivo all’Italia. Il 24 ottobre 1917, un’armata austriaca rinforzata da
sette divisioni tedesche attaccò le linee italiane sull’alto Isonzo e le sfondò nei pressi del villaggio di
Caporetto. Gli attaccanti avanzarono in profondità nel Friuli, mettendo in atto la nuova tattica dell’infiltrazione, che consisteva nel penetrare il più rapidamente possibile in territorio nemico senza
preoccuparsi di consolidare le posizioni raggiunte, ma sfruttando invece la sorpresa
per mettere in crisi lo schieramento avversario. La manovra fu così efficace che buona
parte delle truppe italiane, per evitare di essere accerchiate, dovettero abbandonare
precipitosamente le posizioni che tenevano dall’inizio della guerra. Alcuni reparti
riuscirono a ripiegare ordinatamente, altri si disgregarono: circa 400 mila sbandati
rifluirono verso il Veneto mescolandosi alle colonne di profughi civili e dando alla
ritirata l’aspetto di un’autenticarotta. Solo dopo due settimane un esercito praticamente dimezzato riusciva ad attestarsi
sulla nuova linea difensiva del Piave, lasciando in mano al nemico circa 10 mila km2 di territorio italiano, oltre a 300 mila prigionieri e a una quantità impressionante
di armi, munizioni e vettovaglie.
La linea del Piave
Le responsabilità della sconfitta
Prima di essere rimosso dal comando supremo, il generale Cadorna gettò le colpe della
disfatta sui suoi stessi soldati, accusandoli di essersi arresi senza combattere.
In realtà la rottura del fronte era stata determinata dagli errori dei comandi, che si erano lasciati cogliere impreparati dall’attacco sull’alto Isonzo. Certo
le conseguenze della sconfitta furono ingigantite dallo stato di stanchezza e di demoralizzazione
delle truppe: ma una simile condizione era in larga parte comune a tutti gli eserciti,
a cominciare da quello austriaco. Del resto i soldati italiani dimostrarono di saper
combattere valorosamente resistendo, sul Piave e sul Monte Grappa, all’avanzata degli austro-tedeschi che minacciavano di dilagare nella Pianura padana
ed evitando così che la sconfitta si trasformasse in una definitiva catastrofe.
Una guerra difensiva
Paradossalmente questa disfatta ebbe ripercussioni positive sul corso della guerra
italiana. La ritirata sul Piave aveva consentito un notevole accorciamento del fronte
e quindi un minor logorìo dei reparti combattenti. I soldati si trovarono inoltre
a combattere una guerra difensiva, contro un nemico che occupava una parte del territorio
nazionale: ciò contribuì a rendere più comprensibili gli scopi del conflitto e ad
aumentare il senso di coesione patriottica, al fronte come nel paese. Fu costituito un nuovo governo di coalizione nazionale
presieduto da Vittorio Emanuele Orlando e le forze politiche parvero trovare una maggiore concordia: gli stessi leader dell’ala
riformista del Partito socialista assicurarono la loro solidarietà allo sforzo di
resistenza del paese. Anche il cambio della guardia alla testa dell’esercito ebbe
effetti positivi sul morale delle truppe. Armando Diaz, il nuovo capo di stato maggiore, si mostrò meno incline di Cadorna all’uso indiscriminato dei mezzi repressivi e
più attento alle esigenze dei soldati, cui furono garantiti vitto più abbondante e
licenze più frequenti.
Il ruolo della propaganda
Inoltre, dall’inizio del 1918, fu svolta un’opera sistematica di propaganda fra le
truppe attraverso la diffusione dei giornali di trincea e la creazione di un Servizio P (cioè propaganda) che si affidava soprattutto all’opera degli ufficiali inferiori e si avvaleva anche
della collaborazione di numerosi intellettuali di prestigio. Si prospettò ai soldati la possibilità di vantaggi materiali di cui il paese e i
singoli cittadini avrebbero potuto godere in caso di vittoria (cominciò, fra l’altro,
a circolare la parola d’ordine della “terra ai contadini”). Si cercò soprattutto di
presentare la guerra come una lotta per un più giusto ordine interno e internazionale.
Prese così vigore l’idea della guerra democratica, già agitata dagli interventisti di sinistra e rilanciata con ben altra autorità
dal presidente statunitense Wilson.
1.9. La rivoluzione russa: da febbraio a ottobre
Fra tutti gli sconvolgimenti politici e sociali provocati dalla prima guerra mondiale,
la rivoluzione russa fu non soltanto il più violento e traumatico, ma anche il più
imprevisto, almeno nei suoi sviluppi. Quando, all’inizio del ’17, il regime zarista
fu abbattuto dalla rivolta degli operai e dei soldati di Pietrogrado, pochi immaginavano
che ne sarebbe seguito il più grande evento rivoluzionario mai verificatosi nel mondo
dopo la Rivoluzione francese.
Il governo provvisorio e i partiti
Dopo l’abdicazione dello zar, il 17 marzo, si formò nella capitale un governo provvisorio
che aveva l’obiettivo dichiarato di continuare la guerra a fianco dell’Intesa e di promuovere nel contempo la modernizzazione, politica ed economica, del paese. Condividevano questa prospettiva non solo i gruppi
liberal-moderati che facevano capo al partito dei cadetti (ossia costituzionali-democratici), ma anche i socialisti menscevichi (ossia “minoritari”) che si ispiravano ai modelli della socialdemocrazia europea,
e i social-rivoluzionari, che avevano solide radici nella società rurale russa e interpretavano le aspirazioni
delle masse contadine a una radicale riforma agraria. Rappresentanti di tutti e tre
i partiti entrarono nel governo provvisorio. Gli unici a rifiutare ogni partecipazione al potere furono
i bolscevichi.
I soviet
Come già era accaduto nella rivoluzione del 1905, al potere “legale” del governo si
affiancò subito il potere di fatto dei consigli (soviet, in russo) degli operai e dei soldati. Il più importante di questi soviet, quello della capitale Pietrogrado, agiva come una specie di parlamento proletario,
spesso in contrasto con le disposizioni del governo. Quello che la rivoluzione aveva
ormai messo in moto era un movimento di massa che respingeva l’idea di un’autorità
centrale, era favorevole a un diffuso potere dal basso e, soprattutto, voleva porre fine alla guerra.
Lenin e le Tesi di aprile
Questa era la situazione nell’aprile del ’17, quando Lenin, leader dei bolscevichi, rientrò in Russia dalla Svizzera dopo un avventuroso viaggio
attraverso l’Europa in guerra. Il viaggio era stato reso possibile dalla copertura
delle autorità tedesche che, conoscendo le idee di Lenin sulla guerra, speravano di
accelerare l’uscita della Russia. Non appena giunto a Pietrogrado, Lenin diffuse un
documento in dieci punti – le cosiddette Tesi di aprile – in cui poneva il problema della presa del potere, rovesciando la teoria marxista ortodossa, secondo cui la rivoluzione proletaria
sarebbe scoppiata prima nei paesi più sviluppati. Il primo obiettivo era quello di
conquistare la maggioranza nei soviet – riconosciuti come unica legittima fonte del potere – e di lanciare le parole d’ordine della pace, della terra ai contadini poveri, del controllo della produzione da parte dei consigli operai.
I bolscevichi contro il governo
Il primo scontro fra i bolscevichi e il governo provvisorio si ebbe a Pietrogrado
a metà luglio, quando soldati e operai armati scesero in piazza per impedire la partenza
per il fronte di alcuni reparti. Ma l’insurrezione fallì. A settembre un tentativo
di colpo di Stato promosso dal capo dell’esercito, il generale Kornilov, fu sventato dal governo, allora
guidato dal social-rivoluzionario Aleksandr Kerenskij, grazie all’aiuto di tutte le forze socialiste. A uscire rafforzati da questa vicenda
furono però soprattutto i bolscevichi, principali protagonisti della mobilitazione
popolare contro il colpo di Stato, che conquistarono la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e di Mosca.
La rivoluzione d’ottobre
La decisione di rovesciare il governo fu presa dai bolscevichi in ottobre. Organizzatore
dell’insurrezione fu Lev Davidovi Bronstein, noto con lo pseudonimo di Trotzkij, eletto presidente del soviet di Pietrogrado. La mattina del 7 novembre (25 ottobre per il calendario russo) soldati rivoluzionari e guardie rosse (ossia milizie operaie) circondarono il Palazzo d’Inverno, già residenza dello zar e ora sede del governo provvisorio, e se ne impadronirono
la sera stessa. L’assalto al Palazzo d’Inverno – destinato ad assurgere a episodio simbolo della rivoluzione, come era stata la presa della Bastiglia nel 1789 – fu praticamente incruento: pochissime
furono le vittime nei confusi scontri che ebbero luogo nei corridoi e nei saloni dell’antica
reggia.
In quegli stessi giorni, si riuniva a Pietrogrado il Congresso panrusso dei soviet, cioè l’assemblea dei delegati dei soviet di tutte le province dell’ex Impero russo. Come suo primo atto il Congresso varò
due decreti, proposti personalmente da Lenin: il primo faceva appello a tutti i popoli
dei paesi belligeranti «per una pace giusta e democratica [...] senza annessioni e senza indennità»; il secondo stabiliva l’abolizione della grande proprietà terriera «immediatamente e senza alcun indennizzo». Veniva frattanto costituito un nuovo governo
rivoluzionario presieduto da Lenin, che fu chiamato Consiglio dei commissari del popolo.
1.10. La rivoluzione russa: dittatura e guerra civile
Lo scioglimento dell’Assemblea costituente
La fulminea presa del potere da parte dei bolscevichi colse di sorpresa tutte le altre
forze politiche. Menscevichi, cadetti e social-rivoluzionari non organizzarono una
reazione efficace e preferirono puntare le loro carte sulle elezioni dell’Assemblea costituente, fissate per la fine di novembre. I risultati delle urne costituirono una delusione
per i bolscevichi, che ottennero meno di un quarto dei seggi. Quasi scomparsi dalla
scena i menscevichi e i cadetti, i veri trionfatori delle elezioni furono i social-rivoluzionari, che si assicurarono la maggioranza assoluta, grazie al massiccio sostegno dell’elettorato
rurale. Ma i bolscevichi non avevano alcuna intenzione di rinunciare al potere appena
conquistato. Riunitasi la prima volta all’inizio di gennaio, l’Assemblea costituente fu immediatamente sciolta dall’intervento dei militari bolscevichi, che obbedivano a un ordine del Congresso
dei soviet. Questo nuovo atto di forza, coerente con le idee espresse più volte da Lenin che
non credeva alle regole della “democrazia borghese”, segnava una rottura irreversibile con le altre componenti del movimento socialista e con tutta la tradizione democratica
occidentale.
Stato e rivoluzione
Convinti di poter conquistare in tempi brevi l’appoggio compatto delle masse popolari,
i leader bolscevichi speravano di poter procedere rapidamente alla costruzione di un nuovo Stato proletario ispirato all’esperienza della Comune di Parigi, secondo un modello di autogoverno delineato da Lenin in una delle sue opere più famose, Stato e rivoluzione. In quel saggio, scritto alla vigilia della rivoluzione d’ottobre, Lenin riprendeva
la definizione di Marx sullo Stato come strumento del dominio di una classe sulle
altre e prevedeva che, una volta scomparso questo dominio, lo Stato stesso si sarebbe
avviato verso una rapida estinzione. Nella società socialista non vi sarebbe stato
bisogno di Parlamenti e di magistratura, di eserciti e di burocrazia, ma le masse
stesse si sarebbero autogovernate secondo i princìpi di democrazia diretta sperimentati nei soviet.
Il trattato di Brest-Litovsk
Tuttavia, se era stato relativamente facile per i bolscevichi impadronirsi del potere
centrale, molto più difficile – per un partito che contava nel novembre ’17 circa
70 mila iscritti su una popolazione di oltre 150 milioni di abitanti – si presentava
il compito di gestire questo potere, di amministrare un paese immenso, di governare
una società tanto complessa quanto arretrata, di affrontare i tremendi problemi ereditati
dal vecchioregime, primo fra tutti quello della guerra. L’ipotesi su cui puntavano i bolscevichi
era quella di una sollevazione generale dei popoli europei, da cui sarebbe scaturita
una pace equa, “senza annessioni e senza indennità”. Ma questa ipotesi non si realizzò.
E i capi rivoluzionari, che non potevano deludere le attese di pace da loro stessi
incoraggiate, si trovarono a trattare in condizioni di grave inferiorità con un nemico
che già occupava vaste zone dell’ex Impero russo. Già il 5 dicembre il nuovo governo
firmò l’armistizio che poneva fine alle ostilità. Seguì una lunga e drammatica trattativa con gli Imperi
centrali, che si concluse tre mesi dopo, il 3 marzo 1918, con la firma della pacedi Brest-Litovsk. La Russia rivoluzionaria dovette accettare tutte le durissime condizioni imposte
da Germania e Austria-Ungheria, che comportavano la perdita di tutti i territori non russi dell’ex Impero (circa un quarto della sua parte europea), dove stavano nascendo nuovi Stati indipendenti.
Per imporre questa decisione, Lenin dovette tuttavia superare le perplessità di alcuni
fra i suoi stessi compagni di partito e la violenta opposizione dei social-rivoluzionari,
compresa la minoranza di sinistra che in un primo tempo aveva appoggiato il governo
rivoluzionario. I bolscevichi rimanevano così completamente isolati.
La guerra civile
Gravissime furono poi le conseguenze del trattato a livello dei rapporti internazionali.
Le potenze dell’Intesa, ancora impegnate contro gli Imperi centrali e preoccupate
di un possibile contagio rivoluzionario, considerarono la pace un tradimento e cominciarono ad appoggiare leforze antibolsceviche che, già dalla fine del ’17, si erano andate organizzando in varie zone del paese,
per lo più sotto la guida di ex ufficiali zaristi. Fra la primavera e l’estate del
1918 si ebbero sbarchi di truppe anglo-francesi prima nel Nord della Russia e poi
sulle coste del Mar Nero, mentre reparti statunitensi e giapponesi penetravano nella
Siberia orientale. L’arrivo dei contingenti stranieri servì a rafforzare l’opposizione
al governo bolscevico – soprattutto quella dei monarchico-conservatori, i cosiddetti bianchi – e ad alimentare la guerra civile in diverse zone del paese. La prima minaccia venne dall’Est, dove i bianchi assunsero
il controllo di vasti territori della Siberia penetrando, nell’estate del ’18, nella
zona fra gli Urali e il Volga: fu in questa circostanza che lo zar e tutta la sua
famiglia, prigionieri nella città di Ekaterinburg, furono giustiziati per ordine del
soviet locale nel timore che fossero liberati dai controrivoluzionari.
Le forze controrivoluzionarie erano però divise e mal coordinate, per motivi sia di
rivalità politica sia di distanza geografica, e non riuscirono a guadagnarsi l’appoggio
dei contadini, che spesso diffidavano dei bolscevichi ma temevano ancor più il ritorno
dei vecchi proprietari. Solo nell’estate del ’19, però, le potenze straniere avrebbero
cominciato a ritirare le loro truppe, per le proteste che l’intervento suscitava nei
loro paesi e per il pericolo di un “contagio rivoluzionario” fra i soldati. Nella primavera del ’20 la fase più acuta della guerra civile si sarebbe chiusa,
dopo oltre due anni di combattimenti che avevano provocato perdite gravissime da ambo
le parti e sofferenze inaudite per l’intera popolazione.
La Russia dal 1918 al 1920
La stretta autoritaria
Frattanto il regime rivoluzionario accentuava i suoi tratti autoritari. Si era cominciato,
già nel dicembre ’17, con la creazione di una polizia politica, la eka. Nello stesso periodo era stato istituito un Tribunale rivoluzionario centrale, col compito di processare chiunque disobbedisse al “governo operaio e contadino”.
Nel giugno ’18 venneromessi fuori legge i partiti d’opposizione e fu reintrodotta la pena di morte che era stata abolita subito dopo la rivoluzione
d’ottobre. Arresti arbitrari ed esecuzioni sommarie di “nemici di classe” entrarono
sin da allora nella realtà quotidiana del nuovo regime. Si procedeva nel contempo
alla riorganizzazione dell’esercito, ricostituito ufficialmente nel febbraio ’18 col
nuovo nome di Armata rossa degli operai e dei contadini. Artefice principale dell’operazione fu Trotzkij che, servendosi anche di ufficiali
del vecchio esercito zarista, costruì una potente macchina da guerra, fondata su una
ferrea disciplina. Ad assicurare la lealtà al governo rivoluzionario provvedevano
figure di nuova istituzione, i commissari politici, distaccati dal partito presso le unità combattenti.
La sfida rivoluzionaria
La creazione di un esercito efficiente, decisiva per la vittoria nella guerra civile,
avrebbe consentito anche in seguito alla Russia sovietica di sopravvivere allo scontro
con i suoi numerosi nemici, interni ed esterni. Nasceva così un nuovo modello di Stato a partito unicodai tratti spietatamente autoritari, prototipo, come vedremo, di molti regimi antidemocratici che si sarebbero affermati
negli anni successivi, eppure capace di proporsi, col suo radicale messaggio di eguaglianza
sociale, come agente di liberazione per i popoli di tutto il mondo e come permanente
minaccia per l’ordine economico e per gli equilibri internazionali dell’intero Occidente.
1.11. 1918: la sconfitta degli Imperi centrali
I “14 punti” di Wilson
Nella fase finale della guerra, per scongiurare la minaccia di una diffusione del
modello rivoluzionario bolscevico, gli Stati dell’Intesa accentuarono il carattere
ideologico dello scontro, presentandolo sempre più come una crociata della democrazia contro l’autoritarismo. Questa concezione della guerra trovò il suo interprete più autorevole nel presidente
americano Woodrow Wilson. Nel gennaio 1918 Wilson precisò le linee ispiratrici della sua politica in un programma di pace in 14 punti. Oltre a formulare una serie di proposte concrete circa il nuovo assetto europeo
da costruire nel rispetto del principio di nazionalità, il presidente americano proponeva l’abolizione della diplomazia segreta, il ripristino
della libertà di navigazione, la soppressione delle barriere doganali, la riduzione
degli armamenti. Nell’ultimo punto si prospettava infine l’istituzione di un nuovo
organismo internazionale, la Società delle Nazioni, per assicurare il rispetto delle norme di convivenza fra i popoli.
Le ultime offensive degli Imperi centrali
La pace tuttavia appariva ancora lontana. Sul fronte bellico l’inizio del 1918 vedeva
ancora i due schieramenti in una situazione di sostanziale equilibrio. La partita
decisiva continuava a giocarsi sul fronte francese. Fu qui che la Germania tentò la sua ultima e disperata scommessa impegnando tutte
le forze rese disponibili dalla firma della pace con la Russia. In giugno l’esercito
tedesco era di nuovo sulla Marna e Parigi era sotto il tiro dei cannoni a lunga gittata.
Sempre in giugno gli austriaci tentarono di sferrare il colpo decisivo sul fronte italiano attaccando in forze sul Piavee nella zona del Monte Grappa, ma furono respinti dopo una settimana di furiosi combattimenti.
Alla fine di luglio le forze dell’Intesa, ormai superiori in uomini e mezzi grazie
al massiccio apporto degli Stati Uniti, passarono al contrattacco. Fra l’8 e l’11 agosto, nella grande battaglia di Amiens,i tedeschi subirono laprima grave sconfitta sul fronte occidentale. Da quel momento cominciarono ad arretrare lentamente.
Una democratizzazione tardiva
I generali tedeschi capirono allora di aver perso la guerra: la loro principale preoccupazione
divenne quella di sbarazzarsi del potere che avevano così largamente esercitato e
di lasciare ai politici la responsabilità di un armistizio che si annunciava durissimo.
Il compito ingrato di aprire le trattative toccò a un nuovogoverno di coalizione democratica formatosi ai primi di ottobre con la partecipazione dei socialdemocratici e dei cattolici
del centro. Si sperava che un governo realmente rappresentativo potesse costituire
un interlocutore più credibile per l’Intesa. Ma era ormai troppo tardi. Mentre la
Germania cercava invano una soluzione di compromesso, i suoi alleati crollavano militarmente
o si disgregavano dall’interno.
La fine dell’Austria-Ungheria
La prima a cedere, alla fine di settembre, fu la Bulgaria. Un mese dopo era l’Impero
turco a chiedere l’armistizio. Contemporaneamente, si consumava la crisi finale dell’Austria-Ungheria. Cecoslovacchi e slavi del Sud proclamarono l’indipendenza, mentre i soldati abbandonavano
il fronte in numero sempre maggiore. Quando, il 24 ottobre, gli italiani lanciarono
un’offensiva sul Piave, l’Impero era ormai in piena crisi. Sconfitti sul campo nella
battaglia diVittorio Veneto, gli austriaci il 3 novembre firmarono a Villa Giusti, presso Padova, l’armistizio con l’Italia che sarebbe entrato in vigore il giorno successivo, il 4 novembre 1918.
La resa della Germania
Intanto la situazione precipitava anche in Germania. Ai primi di novembre i marinai diKiel, dov’era concentrato il grosso della flotta tedesca, si ammutinarono e diedero vita,
assieme agli operai della città, a consigli rivoluzionari ispirati all’esempio russo. Il moto si propagò a Berlino e in Baviera e ad esso parteciparono
i socialdemocratici, presenti anche nel governo “legale” del Reich. Il 9 novembre aBerlino un socialdemocratico, Friedrich Ebert, fu proclamato capo del governo, mentre Guglielmo II fuggiva in Olanda e veniva proclamata la Repubblica. L’11 novembre i delegati del governo provvisorio tedesco firmavano l’armistizio nel villaggio francese diRethondes.
Il bilancio della guerra
La Germania perdeva così una guerra che più degli altri aveva contribuito a far scoppiare.
La perdeva per fame e per stanchezza, ma senza essere stata schiacciata sul piano
militare e senza che il suo territorio fosse stato invaso da eserciti stranieri. Gli
Stati dell’Intesa, vincitori grazie all’apporto, tardivo ma decisivo, di una potenza
extraeuropea, uscivano dal conflitto scossi e provati per l’immane sforzo sostenuto.
La guerra si chiudeva non solo con un tragico bilancio di perdite umane (8 milioni e mezzo di morti, oltre 20 milioni di feriti gravi e mutilati), ma anche
con un drastico ridimensionamento del peso politico dell’Europa sulla scena internazionale.
1.12. Vincitori e vinti
La conferenza di pace
Il 18 gennaio 1919, nella Reggia di Versailles, presso Parigi, si aprirono i lavori della conferenza di pace. Vi parteciparono i
rappresentanti di trentadue paesi dei cinque continenti (compresi alcuni Stati appena
costituiti), molti dei quali avevano svolto nella guerra un ruolo marginale. Rimasero
invece esclusi i paesi sconfitti, chiamati solo a ratificare le decisioni che li riguardavano. Tutte le materie più
importanti vennero in realtà riservate ai cosiddetti “quattro grandi”, ossia ai capi di governo delle principali potenze vincitrici: l’americano Wilson, il francese Clemenceau, il britannico Lloyd George e l’italiano Orlando, quest’ultimo però relegato a un ruolo secondario anche a causa dei contrasti con
gli alleati sul nuovo confine orientale dell’Italia [cfr. 3.1]. I leader delle potenze vincitrici avevano il compito di ridisegnare la carta politica
del Vecchio Continente, sconvolta dal crollo contemporaneo di quattro imperi (russo, austro-ungarico, tedesco e turco).
Pace democratica e pace punitiva
Il nuovo equilibrio doveva tener conto dei princìpi di democrazia e di giustizia internazionale
enunciati nei “14 punti” di Wilson, rappresentante della potenza uscita dalla guerra
in una evidente posizione di forza economica e politica. In pratica, però, la realizzazione
di quel programma si rivelò assai problematica: i princìpi wilsoniani non sempre erano
compatibili con l’esigenza di punire in qualche modo gli sconfitti – considerati i soli responsabili della guerra – e di premiare i vincitori, o quanto meno di garantirli, anche sul piano territoriale, contro la possibilità
di rivincite da parte degli ex nemici.
La contraddizione risultò evidente soprattutto quando furono discusse le condizioni
da imporre alla Germania. I francesi non si accontentavano della restituzione dell’Alsazia-Lorena,
ma chiedevano di spostare i loro confini fino alla riva sinistra del Reno: il che
avrebbe significato l’annessione di territori fra i più ricchi e popolosi della Germania.
Ma questi progetti incontravano l’opposizione decisa di Wilson. La Francia dovette
dunque rinunciare al confine sul Reno, in cambio della promessa (che non sarebbe stata
mantenuta) di una garanzia anglo-americana sulle nuove frontiere franco-tedesche.
La Germania poté così limitare le amputazioni territoriali, ma subì, senza nemmeno
poterle discutere, una serie di clausole che, se eseguite integralmente, sarebbero
state sufficienti a cancellarla per molto tempo dal novero delle grandi potenze.
Il trattato di Versailles
Il trattato, che venne firmato a Versailles il 28 giugno 1919, fu in realtà un’imposizione
– un Diktat, ovvero un “dettato”, come allora fu definito – subìta dalla Germania sotto la minaccia dell’occupazione militare e del blocco economico. Dal punto di vista territoriale era prevista, oltre alla scontata restituzione alla Francia dell’Alsazia-Lorena, annessa nel 1871, la cessione alla Polonia (ricostituita sulle ceneri degli Imperi
centrali e dell’Impero russo, che se l’erano spartita alla fine del ’700) di alcune
regioni orientali abitate solo in parte da tedeschi: l’AltaSlesia, la Posnania, più una striscia della Pomerania – il cosiddetto “corridoio polacco” – che interrompeva la continuità territoriale
fra Prussia occidentale e Prussia orientale, per consentire alla Polonia di affacciarsi
sul Baltico e accedere al porto di Danzica. Questa città, abitata in prevalenza da tedeschi, veniva anch’essa tolta alla Germania
e trasformata in “città libera”. La Germania venne privata anche delle sue colonie in Africa e in Oceania, spartite tra Francia, Gran Bretagna e Giappone.
Ma la parte più pesante del Diktat era costituita dalle clausole economiche e militari. Indicata nel testo stesso del trattato come responsabile della guerra, la Germania
dovette impegnarsi a rifondere ai vincitori, a titolo di riparazione,i danni subìti in conseguenza del conflitto. Fu inoltre costretta ad abolire ilservizio di leva, a rinunciare alla marina da guerra, a ridurre la consistenza del proprio esercito
entro il limite di 100 mila uomini e a lasciare “smilitarizzata” (priva cioè di reparti
armati e di fortificazioni) l’intera valle del Reno, che sarebbe stata presidiata
per quindici anni da truppe britanniche, francesi e belghe. Erano condizioni umilianti,
tali da ferire profondamente l’orgoglio nazionale tedesco. Ma erano anche, agli occhi
dei francesi, l’unico mezzo per impedire alla Germania di riprendere la sua posizione
di grande potenza.
La dissoluzione dell’Impero asburgico
Un problema completamente diverso era costituito dal riconoscimento delle nuove realtà
nazionali emerse dalla dissoluzione dell’Impero asburgico. La nuova Repubblica di Austria si trovò ridotta entro un territorio di appena 85 mila km2 (più o meno quello che occupa attualmente), abitato da sei milioni e mezzo di cittadini
di lingua tedesca: più di un quarto risiedevano a Vienna, una capitale ormai sproporzionata
alle dimensioni e alle risorse del piccolo Stato. Un trattamento severo toccò anche
all’Ungheria: costituitasi in repubblica nel novembre ’18, perse non solo quelle regioni slave
(Slovacchia, Croazia) che nel duplice impero dipendevano da Budapest, ma anche alcuni
territori abitati in prevalenza da popolazioni magiare.
Le nuove nazioni
A trarre vantaggio dal crollo dell’Impero asburgico, oltre all’Italia [cfr. 3.1], furono soprattutto i popoli slavi. I polacchi della Galizia si unirono alla nuova
Polonia, formata da territori già appartenenti agli Imperi russo e tedesco. I cechi e gli
slovacchi confluirono nella Repubblica di Cecoslovacchia, uno Stato federale che comprendeva anche una minoranza di tre milioni di tedeschi
(i Sudeti). Gli slavi del Sud – cioè gli abitanti della Croazia, della Slovenia e della Bosnia-Erzegovina
– si unirono alla Serbia e al Montenegro per dar vita al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (dal ’29 Regno di Jugoslavia).
Il nuovo assetto nei Balcani e il problema della Russia
Il nuovo assetto balcanico era completato dall’ingrandimento della Romania, dal ridimensionamento della Bulgaria e dalla quasi completa estromissione dall’Europa dell’Impero ottomano che, privato
contemporaneamente di tutti i suoi territori arabi, si trasformava di fatto in uno
Stato nazionale turco, conservando la sola penisola dell’Anatolia, tranne la regione di Smirne assegnata
alla Grecia. Dell’antico Impero restava ormai solo un involucro formale, che mascherava
il tentativo delle potenze vincitrici di spartire il paese in zone di influenza a
loro riservate.
Restava aperto il problema dei rapporti con la Russia rivoluzionaria. Gli Stati vincitori non riconobbero la Repubblica dei soviet, mentre furono riconosciute e protette, proprio in funzione antisovietica, le nuove Repubbliche indipendenti che si erano formate nei territori baltici persi dalla Russia con il trattato di
Brest-Litovsk: la Finlandia, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania.
L’indipendenza dell’Irlanda
L’Europa uscita dalla conferenza di Parigi contava dunque ben otto nuovi Stati. A
essi si sarebbe aggiunto nel 1921 lo Stato libero d’Irlanda, cui la Gran Bretagna si risolse a concedere l’indipendenza, anche se nell’ambito
del Commonwealth e con l’esclusione del Nord protestante (Ulster).
Il fallimento della Società delle Nazioni
Ad assicurare il rispetto dei trattati e la salvaguardia della pace avrebbe dovuto
provvedere la Società delle Nazioni. Il nuovo organismo prevedeva nel suo statuto la rinuncia da parte degli Stati membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti e l’adozione di sanzioni economiche nei
confronti degli Stati aggressori. Ma nasceva minato in partenza da profonde contraddizioni,
tra cui particolarmente grave era l’esclusione iniziale dei paesi sconfitti e della
Russia. Il colpo più duro alla Società delle Nazioni, però, arrivò proprio dagli Stati
Uniti, cioè dal paese che più di ogni altro ne aveva voluto la nascita: nel marzo
1920, infatti, il Senato statunitense rifiutò di ratificare i trattati di Versailles,
che includevano l’adesione al nuovo organismo. Mentre per gli Stati Uniti cominciava una stagione di isolazionismo, ossia di rifiuto delle responsabilità mondiali e di ritorno a una sfera di interessi
continentali, la Società delle Nazioni finì con l’essere egemonizzata da Gran Bretagna
e Francia e non fu in grado di prevenire i conflitti che costellarono gli anni fra
le due guerre mondiali.
La nuova carta d’Europa dopo la prima guerra mondiale
1.13. Il mito e la memoria
La comunità dei combattenti
La prima guerra mondiale fu, come pochi altri eventi della storia contemporanea, una
grande produttrice di miti. Lo fu innanzitutto per coloro che la combattevano. La condizione di disagio psicologico
oltre che materiale, di sradicamento e spaesamento vissuta dalla maggior parte dei soldati portò molti di loro a sviluppare forme diverse
di fuga dalla realtà: dunque a coltivare credenze irrazionali, ad accettare come vere notizie fantastiche,
a immaginare apparizioni miracolose o eventi sovrannaturali. Anche la tendenza a sentirsi
parte di una comunità omogenea e compatta – quella delle trincee – contrapposta a una società egoista e ingrata, insensibile ai sacrifici di chi stava
al fronte, si trasformò un po’ in tutti i paesi in una visione distorta e semplificata
della realtà, in cui alla frattura fisica che opponeva il proprio fronte a quello
nemico si sommava la frattura morale tra veri combattenti e cosidetti “imboscati”: coloro che, per diversi motivi, riuscivano a evitare il servizio in prima linea.
Il culto dei caduti
Anche negli anni successivi alla fine del conflitto, la guerra continuò a lungo a
essere oggetto di rappresentazione e di trasfigurazione mitica. L’entità senza precedenti
delle perdite umane, che ovviamente avevano colpito soprattutto le generazioni più
giovani, lasciò una traccia profonda e aprì una ferita non rimarginabile nella memoria privata delle famiglie e degli stessi commilitoni, ma anche nella memoria pubblica dei paesi coinvolti nel conflitto. Comune alla dimensione privata e a quella pubblica
era il tentativo di elaborare, per quanto possibile, il lutto, di trovare a posteriori
giustificazioni ideali a tanta sofferenza, in nome del patriottismo e della difesa
della nazione. Ne risultò spesso una visione idealizzata della guerra, che nel ricordo veniva depurata dei suoi orrori e delle sue crudeltà e rivissuta
nella chiave dell’eroismo, del volontario martirio: una sorta di santificazione laica
di coloro che erano caduti nell’adempimento del dovere.
Luoghi della memoria
Non si trattava certo di una novità: la celebrazione dei morti in guerra, ben presente
fin dall’Antichità classica e alimentata da una cospicua tradizione letteraria, era
stata rinverdita dalla cultura romantica che vedeva negli eserciti basati sulla leva
in massa l’espressione della nazione in armi. Nuove erano però le dimensioni del fenomeno,
proporzionate alla vastità del conflitto e al numero delle vittime. Nuova la partecipazione emotiva di massa e più esteso l’impegno delle autorità pubbliche nelle iniziative in ricordo dei caduti.
Non solo furono eretti grandi mausolei nei luoghi dei combattimenti più sanguinosi
(Tannenberg in Prussia orientale, Verdun in Francia, Redipuglia in Italia), ma in
moltissimi centri, compresi i piccoli comuni, sorsero monumenti ai caduti che celebravano il sacrificio dei soldati originari del luogo, i cui nomi erano elencati
nel monumento stesso o in apposite targhe. Ai monumenti si aggiunsero parchi e viali “della rimembranza” (questo il nome che assunsero in Italia), luoghi di raccoglimento che dovevano ricordare
i caduti e al tempo stesso suggerire l’idea di una continuità della vita, simboleggiata
dagli alberi piantati nell’occasione.
Il milite ignoto
Una forma nuova di celebrazione collettiva, anch’essa commisurata alla vastità del
lutto, fu quella del “milite ignoto”: la sepoltura solenne in uno spazio pubblico delle spoglie di un soldato anonimo, scelto in rappresentanza di tutti i combattenti morti e in particolare dei tanti
di cui non era stato possibile nemmeno il riconoscimento. In tutti i paesi che la
adottarono (cominciarono la Francia e la Gran Bretagna nel 1920, seguite un anno dopo
anche dall’Italia, che scelse per la sepoltura l’Altare della patria, sul grande monumento
a Vittorio Emanuele II), la celebrazione del milite ignoto fu seguita con grande emozione
e partecipazione popolare. Ma rappresentò anche il tentativo delle classi dirigenti
di riunificare e pacificare una memoria che restava comunque divisa, di riavvicinare l’immagine ufficiale ed eroica del conflitto al sentimento diffuso
in larghi strati della popolazione (anche dei paesi vincitori), che nella guerra vedevano
soprattutto una spaventosa sciagura, o addirittura un grande misfatto collettivo di cui i responsabili avrebbero prima o poi dovuto rispondere. La contrapposizione
mai del tutto sanata fra le diverse memorie costituì un fattore non secondario della
radicalizzazione politica e sociale che avrebbe segnato gli anni agitati del dopoguerra
europeo.
Sommario
L’Europa del 1914 mostrava aspetti contraddittori: la supremazia politica, economica
e culturale del continente, lo sviluppo tecnologico, il benessere relativamente diffuso
e il consolidarsi delle istituzioni democratiche e rappresentative si affiancavano
all’acutizzarsi dei conflitti sociali e delle tensioni tra le potenze. Settori non
trascurabili delle classi dirigenti e delle opinioni pubbliche nazionali valutavano
la guerra come un’opzione praticabile nella logica del confronto fra le potenze, o
come un dovere patriottico, o un evento liberatorio, o più concretamente come una
opportunità di carriera, di successo e di guadagno. I più la immaginavano breve, sul
modello dei conflitti ottocenteschi, e naturalmente vittoriosa per il proprio paese.
L’evento scatenante della prima guerra mondiale fu l’uccisione a Sarajevo, il 28 giugno
1914, dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono degli Asburgo. Un mese dopo
l’Austria dichiarò guerra alla Serbia, ritenuta corresponsabile dell’attentato. Il
conflitto che ne scaturì vide contrapposti gli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria)
alle potenze dell’Intesa (Francia, Russia, Gran Bretagna). Lo scoppio del conflitto
e la sua successiva estensione su scala mondiale furono causati da una serie di tensioni
preesistenti, ma anche dalle decisioni prese dai capi politici e militari dei paesi
interessati. Le scelte dei governanti furono del resto appoggiate da una forte mobilitazione
dell’opinione pubblica. Gli stessi partiti socialisti si schierarono, nella maggior
parte dei casi, su posizioni patriottiche.
Gli eserciti scesi in campo nell’estate del ’14 non avevano precedenti per dimensioni
e per novità di armamenti. Ma le concezioni strategiche restavano legate alle esperienze
ottocentesche. I tedeschi, in particolare, puntavano sull’ipotesi di una rapida guerra
di movimento. Ma, dopo essere penetrati in territorio francese, furono bloccati sulla
Marna. Il conflitto assunse presto i caratteri di guerra di posizione.
Allo scoppio del conflitto, l’Italia si dichiarò neutrale. Successivamente, però,
le forze politiche e l’opinione pubblica si divisero sul problema dell’intervento
in guerra contro gli Imperi centrali. Erano interventisti: i gruppi della sinistra
democratica, i nazionalisti, alcuni ambienti liberal-conservatori. Erano neutralisti:
la maggioranza dello schieramento liberale, che faceva capo a Giolitti, il mondo cattolico,
i socialisti. Ciò che determinò l’entrata in guerra al fianco dell’Intesa (maggio
1915) fu la convergenza tra la pressione della piazza e la volontà del sovrano, del
capo del governo Antonio Salandra e del ministro degli Esteri Sidney Sonnino, che
col patto di Londra avevano concordato importanti acquisizioni territoriali per l’Italia
in caso di vittoria.
Nel 1915-16 la guerra sui fronti francese e italiano si risolse in una immane carneficina,
senza che nessuno dei due schieramenti riuscisse a conseguire risultati significativi.
In particolare le battaglie di Verdun e della Somme, due dei più spaventosi massacri
della storia militare, provocarono oltre un milione e mezzo di perdite, fra morti,
feriti e prigionieri, per entrambi gli schieramenti. Alterne furono le vicende sul
fronte orientale, dove gli Imperi centrali ottennero alcuni importanti successi.
Sul piano tecnico la trincea fu la vera protagonista del conflitto: la vita monotona
che vi si svolgeva era interrotta solo da grandi e sanguinose offensive, prive di
risultati decisivi. Da ciò, soprattutto nei soldati semplici, scaturì uno stato d’animo
di rassegnazione e apatia che a volte sfociava in forme di insubordinazione. Il primo
conflitto mondiale si caratterizzò anche per l’utilizzo di nuove armi: gas, aerei, carri armati, sottomarini. Alcune di esse – come gli aerei e i carri armati
–, tuttavia, avrebbero trovato una applicazione sistematica e intensiva solo nel corso
del secondo conflitto mondiale.
La guerra coinvolse direttamente anche i civili e trasformò profondamente la stessa
vita delle popolazioni dei paesi in conflitto. In campo economico si dilatò enormemente
l’intervento statale, teso a garantire le risorse necessarie allo sforzo bellico.
Il potere dei governi fu largamente condizionato da quello dei militari e, in genere,
tutta la società fu soggetta a un processo di “militarizzazione”.
Nel 1917 si verificarono due avvenimenti di decisiva importanza. In Russia, dopo la
caduta dello zar, in marzo, iniziò un processo di dissoluzione dell’esercito che avrebbe
portato il paese al ritiro dal conflitto. In aprile gli Stati Uniti entrarono in guerra
a fianco dell’Intesa dando al loro intervento, per volontà del presidente Wilson,
una nuova connotazione ideologica “democratica”. Il 1917 fu l’anno più difficile della
guerra, soprattutto per l’Intesa: molti furono i casi di manifestazioni popolari contro
il conflitto e gli episodi di ribellione fra le stesse truppe. Questo clima di stanchezza
– espresso anche dall’appello alla pace lanciato senza successo da papa Benedetto
XV – si riscontrava anche in Italia: la demoralizzazione e la stanchezza delle truppe
contribuirono, nell’ottobre ’17, alla disastrosa sconfitta italiana di Caporetto,
causata però soprattutto dagli errori dei comandi.
Nel marzo 1917 la rivolta degli operai e dei soldati di Pietrogrado provocò la caduta
dello zar e la formazione di un governo provvisorio di orientamento liberale. Entrarono
successivamente a far parte di questo governo tutti i partiti, a eccezione dei bolscevichi.
Frattanto, accanto al potere “legale” del governo, veniva crescendo il potere parallelo
dei soviet, i consigli eletti direttamente dagli operai e dai soldati. Col ritorno di Lenin
in Russia, i bolscevichi accentuarono la loro opposizione al governo provvisorio,
chiedendo la pace immediata, la redistribuzione della terra e il passaggio di tutti
i poteri ai soviet. La mattina del 7 novembre (25 ottobre per il calendario russo) soldati rivoluzionari
e guardie rosse circondarono il Palazzo d’Inverno, già residenza dello zar e ora sede
del governo provvisorio, e se ne impadronirono la sera stessa.
La fulminea presa del potere da parte dei bolscevichi colse di sorpresa la maggioranza
delle forze politiche. Nelle elezioni per l’Assemblea costituente, che si tennero
tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre, il Partito socialista rivoluzionario,
che raccoglieva consensi soprattutto fra i contadini, riportò un grande successo, mentre i bolscevichi ebbero un risultato deludente. L’Assemblea,
però, fu subito sciolta dai bolscevichi, che in tal modo ruppero definitivamente con
la tradizione democratica occidentale. L’uscita della Russia dalla guerra – trattato
di Brest-Litovsk del marzo 1918 – provocò l’intervento militare dell’Intesa in appoggio
alle armate “bianche” costituite dalle forze ribelli al governo. La guerra civile
che ne seguì spinse i bolscevichi ad accentuare i caratteri dittatoriali del regime
comunista. Grazie alla riorganizzazione dell’esercito – l’Armata rossa –, il governo
rivoluzionario riuscì a prevalere.
Anche grazie alla superiorità militare conseguita con l’intervento americano, nel
novembre 1918 la guerra terminava con la vittoria dell’Intesa: un esito che fu accelerato
dalla dissoluzione interna dell’Austria-Ungheria, causata dalle iniziative indipendentiste
delle varie nazionalità, e dalla rivoluzione scoppiata in Germania, che portò alla
caduta della monarchia e alla fuga dell’imperatore Guglielmo II.
Alla conferenza di pace, che si tenne a Versailles, il compito dei vincitori si rivelò
difficilissimo. Nelle dure condizioni imposte alla Germania risultò evidente il contrasto
fra l’ideale di una pace democratica e l’obiettivo francese di una pace punitiva.
La carta dell’Europa fu profondamente mutata, soprattutto in conseguenza del crollo
dell’Impero zarista e della dissoluzione dell’Impero asburgico, che permisero la nascita
di nuovi Stati. Il progetto wilsoniano di un organismo internazionale che potesse
evitare guerre future, però, non si realizzò compiutamente: la Società delle Nazioni
nacque minata da profonde contraddizioni, prima fra tutte la mancata adesione degli
Stati Uniti.
La prima guerra mondiale fu una grande produttrice di miti, sia per i combattenti
al fronte – dove, in condizioni estreme di disagio e spaesamento, si svilupparono
credenze irrazionali e leggende – sia negli anni successivi alla fine del conflitto,
quando si sviluppò una visione idealizzata della guerra: ne nacque il culto dei caduti,
privato e familiare, ma anche pubblico. Si diffusero in tutti i paesi i monumenti
ai caduti per onorare il sacrificio dei soldati del luogo, e le celebrazioni del milite
ignoto, la sepoltura solenne in uno spazio pubblico delle spoglie di un soldato anonimo.
Bibliografia
Sulle origini della guerra: J. Joll, Le origini della prima guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 1999 (ed. or. 1984); W. Mulligan, Le origini della prima guerra mondiale, Salerno, Roma 2011 (ed. or. 2010) e C. Clark, I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra, Laterza, Bari-Roma 2016 (ed. or. 2012). Sulla Germania e sul problema della responsabilità della guerra si vedano le opposte tesi di F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi, Torino 1973 (ed. or. 1961) e di G. Ritter, I militari e la politica nella Germania moderna, 3 voll., Einaudi, Torino 1967-73 (ed. or. 1954-68), e vedi inoltre G.E. Rusconi, Rischio 1914. Come si decide una guerra, Il Mulino, Bologna 1987.
Fra le opere complessive: M. Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Mondadori, Milano 2014 (ed. or. 1994); J. Keegan, La prima guerra mondiale: una storia politico-militare, Carocci, Roma 2004 (ed. or. 1998); S. Robson, La prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 2013 (ed. or. 1998); S. Audoin-Rouzeau-J.J. Becker (a cura di), La prima guerra mondiale, 2 voll., Einaudi, Torino 2014 (ed. or. 2004); O. Janz, 1914-1918: la grande guerra, Einaudi, Torino 2014 (ed. or. 2013); J. Winter (a cura di), The Cambridge History of the First World War, 3 voll., Cambridge University Press, Cambridge-New York 2014. Per la qualità dei testi e dei materiali digitali si veda anche l’enciclopedia online coordinata da O. Janz: 1914-1918-online. International Encyclopedia of the First World War: http://www.1914-1918-online.net/.
Sulla crisi finale degli imperi: F. Fejtö, Requiem per un impero defunto, Mondadori, Milano 2002 (ed. or. 1969) e M.A. Reynolds, Shattering Empires. The Clash and Collapse of the Ottoman and Russian Empires, 1908-1918, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2011.
Sull’Italia: P. Melograni, Storia politica della grande guerra 1915-1918, Mondadori, Milano 2014 (ed. or. 1969); G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella grande guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2016 (ed. or. 1993); A. Gibelli, La Grande Guerra degli italiani 1915-1918, Bur, Milano 2014 (ed. or. 1998); M. Isnenghi-G. Rochat, La grande guerra 1914-1918, Il Mulino, Bologna 2014 (ed. or. 2000); F. Minniti, Il Piave, Il Mulino, Bologna 2015 (ed. or. 2000) e M. Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare (1914-1918), Il Mulino, Bologna 2014. Su Caporetto: A. Barbero, Caporetto, Laterza, Bari-Roma 2017; N. Labanca, Caporetto. Storia e memoria di una disfatta, Il Mulino, Bologna 2017; e, sulla questione dei profughi, D. Ceschin, Gli esuli di Caporetto. I profughi in Italia durante la Grande Guerra, Laterza, Roma-Bari 2014 (ed. or. 2006). In particolare, sulla figura del generale Cadorna, si veda M. Mondini, Il Capo. La grande guerra del generale Luigi Cadorna, Il Mulino, Bologna 2017.
Sui riflessi psicologici e letterari: E.J. Leed, Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 2014 (ed. or. 1979); P. Fussell, La Grande Guerra e la memoria moderna, Il Mulino, Bologna 2014 (ed. or. 1975); e per l’Italia: M. Isnenghi, Il mito della grande guerra, Il Mulino, Bologna 2014 (ed. or. 1970); A. Gibelli, L’officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 2009 (ed. or. 1991). Si veda anche Q. Antonelli, Storia intima della Grande Guerra. Lettere, diari e memorie dei soldati al fronte, Donzelli, Roma 2014.
Sullo sterminio degli armeni: G. Lewy, Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso, Einaudi, Torino 2015 (ed. or. 2005); M. Flores, Il genocidio degli armeni, Il Mulino, Bologna 2017 (ed. or. 2006).
Sulle conferenze di pace: G.D. Feldman-E. Glaser (a cura di), The Treaty of Versailles. A Reassessment after 75 Years, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2006 (ed. or. 1998); W. Keylor (a cura di), The Legacy of the Great War. Peacemaking, 1919, Houghton Mifflin, Boston 1998 e E. Goldstein, Gli accordi di pace dopo la Grande Guerra (1919-1925), Il Mulino, Bologna 2005 (ed. or. 2002).
L’opera più recente e aggiornata sulla Russia sovietica è quella di A. Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945, Il Mulino, Bologna 2010 (ed. or. 2007). In particolare, sugli eventi del 1917: A. Wood, La rivoluzione russa, Il Mulino, Bologna 2005 (ed. or. 1979); M. Flores, 1917. La Rivoluzione, Einaudi, Torino 2007. Ma vedi anche: N. Werth, Storia della Russia nel Novecento, Il Mulino, Bologna 2000 (ed. or. 1990); R. Pipes, La rivoluzione russa, Mondadori, Milano 1995 (ed. or. 1990); O. Figes, La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa 1891-1924, Mondadori, Milano 2017 (ed. or. 1996); F. Benvenuti, Storia della Russia contemporanea 1853-1996, Laterza, Roma-Bari 1999. Copre un ampio periodo, dai prodromi della rivoluzione al 1929, l’imponente Storia della Russia sovietica di E.H. Carr, Einaudi, Torino 1964-80 (ed. or. 1950-78), in nove tomi: si veda soprattutto il primo volume, La rivoluzione bolscevica 1917-23. Una rapida sintesi dello stesso autore è La rivoluzione russa. Da Lenin a Stalin (1917-1929), Einaudi, Torino 1993 (ed. or. 1980). Un resoconto partecipe delle giornate di ottobre è quello del giornalista americano John Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo, Editori Riuniti, Roma 2017, pubblicato per la prima volta nel 1919. Su Lenin e i bolscevichi vedi inoltre A.B. Ulam, Lenin e il suo tempo, Vallecchi, Firenze 1967 (ed. or. 1965).
Sui problemi ideologici: A. Salomoni, Il pane quotidiano. Ideologia e congiuntura nella Russia sovietica (1917-1921), Il Mulino, Bologna 2001. Per l’influenza della rivoluzione russa sul confronto politico negli altri paesi del mondo: M. Flores, La forza del mito: la rivoluzione russa e il miraggio del socialismo, Feltrinelli, Milano 2017.
2. L’eredità della Grande Guerra
2.1. Le conseguenze economiche della guerra
Le difficoltà finanziarie
Quella che usciva dalla traumatica esperienza della Grande Guerra era un’Europa sconvolta
e trasformata nel profondo, e non solo per la tremenda distruzione di vite umane e
per il drastico mutamento dei confini fra gli Stati. Macroscopiche, e per molti aspetti
dirompenti, furono le conseguenze sul piano economico. Con la sola eccezione degli
Stati Uniti, tutti i paesi belligeranti uscirono dalla prima guerra mondiale in condizioni di gravissimodissesto. La guerra aveva inghiottito una quantità incredibile di risorse: in Italia, in Francia
e in Germania le spese sostenute per il conflitto furono pari al doppio del prodotto
nazionale lordo dell’ultimo anno di pace, in Gran Bretagna addirittura al triplo.
Per far fronte a queste enormi spese, i governi erano ricorsi dapprima all’aumento
delle tasse. Quindi avevano fatto appello al patriottismo dei risparmiatori lanciando
sottoscrizioni e prestiti nazionali e allargando a dismisura il debito pubblico. Infine avevano contratto massicci debiti con i paesi amici, in primo luogo con gli
Stati Uniti.
L’inflazione
Né le tasse né i prestiti erano stati comunque sufficienti a coprire le spese di guerra.
Così i governi avevano stampato carta moneta in eccedenza, mettendo in moto un rapido processo inflazionistico. Fra il 1915 e il 1918 i prezzi crebbero di tre volte e mezzo in Francia, di due
volte e mezzo in Italia, di due volte in Gran Bretagna e in Germania. E nei primi
due anni del dopoguerra la tendenza risultò ulteriormente accelerata, determinando
uno sconvolgimento nella distribuzione della ricchezza e nelle stesse gerarchie sociali: se la guerra aveva creato fortune improvvise soprattutto
fra gli industriali e gli speculatori (i cosiddetti “pescecani” o profittatori di
guerra), l’inflazione distruggeva posizioni economiche consolidate – ad esempio quelle
dei proprietari di terre o di case, che riscuotevano affitti svalutati – ed erodeva
i risparmi dei ceti medi, in particolare di coloro che avevano investito in titoli
del debito pubblico.
L’intervento statale
Per non aggravare le tensioni, i governi dovettero mantenere per tempi più o meno
lunghi il blocco sui prezzi dei generi di prima necessità e sui canoni d’affitto. D’altro canto il sostegno dei poteri pubblici era richiesto
dagli industriali che dovevano affrontare la difficile riconversione alle attività di pace. Rimasero quindi in vita molti apparati burocratici (ministeri, sottosegretariati, commissariati) destinati ai compiti più diversi: dal
controllo dei prezzi agli approvvigionamenti alimentari, dalle pensioni di guerra
alla composizione delle vertenze di lavoro. Non si interruppe, anzi si rafforzò, la
tendenza dei pubblici poteri a intervenire su materie un tempo riservate alla libera
iniziativa delle parti sociali. Grazie al sostegno dello Stato, accordato sotto forma
di dazi protettivi, di facilitazioni creditizie, di nuove commesse per la ricostruzione
civile e per le forze armate, l’industria europea riuscì in un primo tempo a mantenere
i livelli produttivi degli anni di guerra. Ma questa espansione artificiale, che si accompagnò a una stagione di intense lotte sociali, durò meno di due anni
e fu seguita, nel 1920-21, da una fase depressiva.
Il calo degli scambi
Una pronta ripresa delle economie europee era peraltro frenata dal calo degli scambi internazionali. Quattro anni di interruzione delle usuali correnti di traffico avevano inferto un
colpo durissimo alla tradizionale supremazia commerciale dell’Europa. Gli Stati Uniti
e il Giappone avevano fortemente aumentato le esportazioni, sostituendosi agli europei
sui mercati dell’Asia e del Sud America. Altri paesi, come l’Argentina e il Brasile,
il Canada, il Sudafrica e l’Australia, avevano sviluppato una propria produzione industriale
allentando la dipendenza dall’Europa. Ancora più grave, nell’immediato, era per Gran
Bretagna e Francia la perdita di molti partner commerciali europei, economicamente
stremati come la Germania, isolati come la Russia, o smembrati, come l’Impero austro-ungarico,
in tanti nuovi Stati, ciascuno con la sua moneta, il suo sistema di comunicazioni,
i suoi dazi doganali. Invece della piena libertà degli scambi auspicata nel programma
di Wilson [cfr. 1.11], si ebbe nel dopoguerra una ripresa di nazionalismo economico e di protezionismo doganale, soprattutto da parte dei nuovi Stati che volevano sviluppare una propria industria.
I mutamenti economici del dopoguerra europeo si accompagnarono e si intrecciarono,
com’era naturale, con un più ampio processo di trasformazione della società [cfr. 1.7]. L’espansione dell’industria bellica aveva spostato dalle campagne alle città nuovi
strati di lavoratori non qualificati, per lo più donne e ragazzi non ancora in età
di leva. Il brusco distacco dal nucleo familiare di molti giovani e l’assenza prolungata
dei capifamiglia chiamati al fronte avevano messo in crisi le strutture tradizionali della famiglia e provocato mutamenti profondi nella mentalità e nelle abitudini delle generazioni
più giovani. C’era minor rispetto per le tradizioni e per le gerarchie consolidate.
I giovani cercavano nuove occasioni di divertimento e le trovavano nel cinema o nella
musica esportata in Europa dai soldati statunitensi. I lavoratori chiedevano maggior
disponibilità di tempo libero. Tutti cercavano compensi per le sofferenze subìte o
per gli anni perduti a causa della guerra.
Le donne
A risentire di questi mutamenti furono anche coloro che alla guerra non avevano direttamente
partecipato: in primo luogo le donne. Le ripercussioni più evidenti si ebbero nel
mondo del lavoro: nei campi, nelle fabbriche, negli uffici le donne presero spesso il posto degli
uomini al fronte, assumendo responsabilità e compiti fino ad allora sostanzialmente
preclusi. Divennero operaie nelle fabbriche di armi, guidatrici di tram, impiegate
di banca. Anche tra le mura domestiche il loro ruolo cambiò radicalmente: da esecutrici
delle mansioni domestiche a capifamiglia di fatto, in assenza del coniuge. La maggiore disponibilità economica e la crescente
consapevolezza delle proprie capacità trasformarono l’immagine stessa della donna;
le giovani, soprattutto, tendevano a passare più tempo fuori casa e ad assumere comportamenti
più liberi, anche nella vita quotidiana e nell’abbigliamento: furono abbandonati corpetti
e gonne lunghe fino ai piedi in favore di abiti più corti e leggeri. Il processo di emancipazione ebbe nel dopoguerra anche un parziale riconoscimento sul piano del diritto di voto alle donne: dopo la Gran Bretagna, che lo riconobbe nel 1918, furono la Germania (1919) e gli Stati Uniti (1920) i principali paesi occidentali a codificarlo nel primo dopoguerra.
Gli ex combattenti
La trasformazione del ruolo della donna suscitò però anche forti resistenze in ampi
settori dell’opinione pubblica. A manifestare preoccupazione furono soprattutto i
reduci di guerra, che temevano di veder occupati quei posti di lavoro cui credevano di aver
diritto. Il problema del trattamento degli ex combattenti e del loro reinserimento
nel mondo del lavoro fu tra i più urgenti per le classi dirigenti di tutti i paesi.
Chi aveva rischiato la vita sui campi di battaglia tornava a casa con la convinzione
di aver maturato un credito nei confronti della società. Quelli che al fronte avevano avuto ruoli di comando mal si rassegnavano al ritorno
a un lavoro subordinato. Sorsero dappertutto associazioni di ex combattenti che si mobilitavano in difesa dei propri valori e dei propri interessi. Nei confronti
dei reduci i governanti di tutti i paesi furono larghi di promesse; ma in realtà,
a causa dei gravissimi problemi finanziari che assillavano gli Stati europei, le provvidenze
in favore dei combattenti – polizze di assicurazione, premi di smobilitazione, pensioni
per gli invalidi, gli orfani e le vedove – furono limitate, suscitando un diffuso
senso di risentimento.
La “massificazione” della politica
Le inquietudini dei reduci erano però solo un segno di un più vasto fenomeno di mobilitazione
sociale. La guerra aveva dimostrato l’importanza del principio di organizzazione applicato alle masse. Per far valere i propri diritti e per affermare le proprie rivendicazioni sembrava
dunque necessario associarsi e organizzarsi in gruppi il più possibile numerosi. Risultò
così accentuata la tendenza, già in atto, alla “massificazione”: partiti e sindacati videro aumentare ovunque il numero dei loro iscritti, i loro apparati organizzativi
divennero più complessi e centralizzati. Persero importanza le forme tradizionali
dell’attività politica nei regimi liberali: quelle che si svolgevano nei circoli ristretti
dei notabili e che culminavano nell’azione parlamentare. Acquistavano invece maggior
peso e maggiore frequenza le manifestazioni pubbliche – comizi, dimostrazioni, adunate, cortei – basate sulla partecipazione diretta dei cittadini.
La ricerca di un “ordine nuovo”
La consapevolezza del sacrificio subìto dai popoli giustificava di per sé l’attesa
di soluzioni nuove. Del resto era stata la stessa propaganda ufficiale a incoraggiare
le aspettative di una società più giusta e di un ordine politico e sociale diverso da quello che aveva portato l’Europa alla
guerra. Per un buon numero di lavoratori e di intellettuali l’“ordine nuovo” era quello
che si stava cominciando ad attuare in Russia dopo la rivoluzione d’ottobre [cfr. 1.9 e 2.7]. Ma questa prospettiva radicale era fatta propria solo da minoranze, per quanto
consistenti e attive. Più numerosi erano coloro che cercavano di inserire le loro
richieste concrete – salari più alti, case a buon mercato, terre da coltivare – nel
quadro ideale di una società più equa e più democratica, in cui le rivendicazioni patriottiche si conciliassero col progetto di un nuovo ordine
internazionale fondato sui pacifici rapporti fra le nazioni.
2.3. Stati nazionali e minoranze
I nuovi Stati indipendenti
La vittoria delle potenze democratiche e il crollo degli imperi multietnici significarono
per molti popoli europei il coronamento di lunghe lotte per l’indipendenza e parvero
dar corpo agli ideali di nazionalità proclamati dai protagonisti delle rivoluzioni
ottocentesche e rilanciati, nell’ultima fase della guerra, dai “14 punti” di Wilson. Come abbiamo visto, però, già nel corso della conferenza di pace l’applicazione
dei princìpi wilsoniani si rivelò a dir poco problematica [cfr. 1.12]. Una difficoltà che, se in parte poteva essere ricondotta ai calcoli e agli egoismi
delle potenze vincitrici, in realtà nasceva soprattutto dall’oggettiva impossibilità
di tradurre in atto l’utopia di una pacifica convivenza fra i diversi popoli, ciascuno
sovrano nel suo proprio territorio.
Etnie e territori
Questa utopia si basava infatti sul presupposto di una coincidenza pressoché perfetta
fra poche nazioni etnicamente omogenee e i territori da esse occupati. Una condizione
che poteva realizzarsi, con larga approssimazione, nei principali Stati dell’Europa
occidentale (Francia, Spagna, la stessa Italia), ma era molto lontana dalla realtà
etnico-linguistica della parte orientale del continente, dove popoli diversi erano abituati a convivere sullo stesso territorio e dove l’appartenenza a un gruppo nazionale non costituiva l’unico né sempre il principale
riferimento politico. Negli antichi imperi la divisione etnica coincideva spesso con
i confini di classe più che con quelli geografici: in ampie zone della Polonia, ad
esempio, i signori erano per lo più polacchi o tedeschi, i contadini erano ucraini
e polacchi, mentre gli ebrei, concentrati in insediamenti separati (shtetl), si dedicavano prevalentemente al commercio o alle professioni. Nell’Impero ottomano
situazioni del genere erano la regola più che l’eccezione e i diversi gruppi etnico-religiosi
potevano essere sottoposti a giurisdizioni diverse pur vivendo sulla stessa terra.
Il problema delle minoranze
Date queste premesse, l’applicazione del principio di nazionalità non poteva che risultare
imperfetta, oltre che difficile: si è calcolato che le decisioni di Versailles diedero
una patria indipendente a circa sessanta milioni di persone, ma ne trasformarono altri venticinque milioni
in minoranze. Una volta elevato il principio nazionale a base di legittimazione degli Stati, quella
che era una condizione generalmente accettata nei contesti multietnici (dove pure
non mancavano i conflitti e le sopraffazioni) divenne un problema da risolvere, se
non addirittura un’anomalia da estirpare. La presenza di gruppi che parlavano lingue
diverse, seguivano proprie tradizioni o professavano altre religioni rispetto alla
maggioranza fu sentita come una minaccia dai membri di comunità nazionali che si volevano
omogenee e coese. Paradossalmente, la liberazione dei popoli dalle dominazioni straniere
poteva così dar luogo a nuove oppressioni o persecuzioni e scatenare nuovi conflitti
a sfondo nazionale.
Contese e scontri etnici
Già durante la conferenza di Versailles e poi nella neonata Società delle Nazioni,
gli statisti europei si sforzarono di trovare soluzioni pacifiche a un problema che
tutti avevano sottovalutato. In alcuni casi controversi (come quello dell’Alta Slesia,
contesa fra Germania e Polonia), furono indetti plebisciti per decidere l’assegnazione
di un territorio. Più spesso si cercò di vincolare gli Stati al rispetto dei diritti delle minoranze, primo fra tutti quello di studiare e di comunicare nella propria lingua. Ma queste
norme furono per lo più ignorate, anche per l’incapacità della Società delle Nazioni
di imporre sanzioni efficaci. Si aprì dunque la strada alle soluzioni più drastiche.
In alcuni casi – come quelli di alcuni territori contesi fra Germania e Polonia –
si organizzarono scambi di popolazioni. Altre volte questi scambi si verificarono in forma cruenta come risultato di un
conflitto: per esempio, la guerra fra Grecia e Turchia del 1922-23 portò al trasferimento
forzato, in direzioni opposte, di circa due milioni di persone in base all’appartenenza
etnica e religiosa. Procedendo su questa strada, si sarebbe giunti a quelle che oggi
chiamiamo “pulizie etniche”, ovvero alle espulsioni in massa non mitigate da alcun accordo fra le parti, e infine
al caso estremo, già annunciato dal massacro degli armeni durante la Grande Guerra
[cfr. 1.7], dello sterminio pianificato di un intero popolo.
2.4. Il “biennio rosso”: rivoluzione e controrivoluzione in Europa
Le lotte operaie
Tra la fine del 1918 e l’estate del 1920 (il cosiddetto “biennio rosso”) il movimento
operaio europeo fu protagonista di un’impetuosa avanzata politica che assunse in alcuni
casi connotati rivoluzionari. I partiti socialisti registrarono quasi ovunque notevoli
incrementi elettorali. I lavoratori organizzati dai sindacati diedero vita a un’ondata
di agitazioni che consentì agli operai dell’industria di difendere o migliorare i
livelli reali delle loro retribuzioni e di ottenere fra l’altro la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore giornaliere a parità di salario: un obiettivo che da trent’anni figurava al primo
posto nei programmi del movimento socialista e che fu raggiunto quasi simultaneamente,
subito dopo la fine della guerra, in tutti i principali Stati europei. L’ondata di
lotte operaie non si esaurì nelle rivendicazioni sindacali. Alimentate dalle vicende
russe, si manifestavano aspirazioni più radicali, che investivano direttamente il
problema del potere nella fabbrica e nello Stato. Ovunque si formarono spontaneamente consigli operai che scavalcavano le organizzazioni tradizionali dei lavoratori e che, sull’esempio
dei soviet russi, si proponevano come organi di governo della futura società socialista.
Il fallimento dei tentativi rivoluzionari
L’ondata rossa del ’19-20 si manifestò nei singoli paesi in forme e con intensità
diverse. Nelle due maggiori potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna (diverso fu
il caso dell’Italia: cfr. 3.1-3), conservatori e moderati mantennero il controllo dei rispettivi Parlamenti e la
pressione del movimento operaio fu contenuta senza eccessive difficoltà. Germania,
Austria e Ungheria, dove le tensioni sociali si sommavano ai traumi della sconfitta
e del cambiamento di regime, furono invece teatro di tentativi rivoluzionari, che
furono però rapidamente stroncati. Ciò che era stato possibile in Russia non fu dunque
possibile negli altri paesi europei, dove borghesia e capitalismo non erano stati
prostrati ma piuttosto trasformati dalla guerra e dove lo stesso movimento operaio era legato a una ormai lunga esperienza di azione pacifica all’interno delle istituzioni.
La divisione del movimento operaio
La rivoluzione d’ottobre aveva accentuato, all’interno del movimento operaio, la frattura,
già manifestatasi durante la guerra, fra le avanguardie rivoluzionarie e il resto
del movimento legato ai partiti socialdemocratici e alle grandi centrali sindacali.
Già nel 1918, i bolscevichi avevano abbandonato l’antica denominazione di Partito
socialdemocratico, a lungo contesa con i menscevichi, per quella di Partito comunista (bolscevico) di Russia. La scissione fu sancita ufficialmente, nel marzo 1919, con la costituzione a Mosca
di una Internazionale comunista (Comintern, con dizione abbreviata), o Terza Internazionale.
I partiti comunisti
La struttura e i compiti del Comintern furono fissati nel II congresso, che si tenne, sempre a Mosca, nel luglio del 1920. Fu lo stesso Lenin a fissare
in un documento in 21 punti le condizioni da rispettare per poter essere ammessi al
nuovo organismo: i partiti aderenti al Comintern avrebbero dovuto ispirarsi al modello
bolscevico, cambiare il proprio nome in quello di Partito comunista, difendere in
tutte le sedi possibili la causa della Russia sovietica, rompere con le correnti riformiste espellendone i principali esponenti. Condizioni così pesanti e ultimative suscitarono
in seno al movimento operaio europeo accesi dibattiti e gravi lacerazioni con conseguenti
scissioni. Fra la fine del ’20 e l’inizio del ’21 fu comunque raggiunto l’obiettivo
di creare in tutto il mondo una rete di partiti ricalcati sul modello bolscevico e fedeli alle direttive del partito-guida. Nessuna di queste formazioni riuscì però
a conquistare il consenso maggioritario delle classi lavoratrici dei paesi più sviluppati.
La scissione del movimento operaio, preparata e consumata nella prospettiva di un’imminente rivoluzione europea, avrebbe
invece contribuito ad aprire il varco alla controffensiva conservatrice.
Rivoluzione in Germania
Prima di essere sancita dalle scissioni, la rottura fra socialdemocrazia e comunismo
era stata segnata dalle vicende drammatiche che in Germania avevano seguito la proclamazione
della Repubblica [cfr. 1.11]. Già al momento della firma dell’armistizio lo Stato tedesco si trovava in una situazione tipicamente rivoluzionaria. Il governo legale, presieduto da Friedrich Ebert e con sede a Berlino, era formato
da esponenti socialdemocratici, compresi gli “indipendenti” dell’Uspd, la frazione
di sinistra staccatasi dalla Spd nel ’17. Ma in molte città i padroni della situazione
erano i consigli degli operai e dei soldati. La situazione poteva sembrare simile a quella della Russia del ’17. Ma le differenze
erano notevoli. I socialdemocratici tedeschi, l’unica grande forza organizzata presente
in quel momento nel paese, erano decisamente contrari a una rivoluzione di tipo sovietico
e favorevoli a una democratizzazione del sistema politico entro il quadro delle istituzioni
parlamentari. Non intendevano quindi smantellare le strutture militari e civili del
vecchio Stato fino alla convocazione di un’Assemblea costituente. Si creò così un’obiettiva
convergenza fra i capi della Spd e gli esponenti della vecchia classe dirigente, che vedevano nella forza della socialdemocrazia e nel suo ascendente sulle masse
l’unico argine efficace contro la rivoluzione. I capi dell’esercito, in particolare,
stabilirono con i leader socialdemocratici una specie di patto non scritto, impegnandosi
a servire lealmente le istituzioni repubblicane in cambio di garanzie circa la tutela
dell’ordine pubblico e il mantenimento della tradizionale struttura gerarchica delle
forze armate.
L’insurrezione spartachista
La linea moderata scelta dalla Spd portava fatalmente allo scontro con le correnti più radicali del movimento operaio, soprattutto con i rivoluzionari della Lega di Spartaco (nucleo originario del Partito comunista tedesco), che si opponevano alla convocazione
della Costituente e puntavano tutto sui consigli, visti come cellule costitutive di
una nuova “democrazia socialista”. Il 5-6 gennaio 1919, centinaia di migliaia di berlinesi
scesero in piazza per protestare contro la destituzione di un esponente della sinistra
dalla carica di capo della polizia della capitale. I dirigenti spartachisti e alcuni
leader dell’Uspd decisero allora di approfittare di questa mobilitazione di massa
e diffusero un comunicato in cui si incitavano i lavoratori a rovesciare il governo.
Ma la risposta del proletariato berlinese fu inferiore alle aspettative.
Durissima fu invece la reazione delle autorità che, non potendo contare su un esercito efficiente,
si servirono per la repressione di squadre volontarie – i cosiddetti Freikorps, ossia “corpi franchi” – formate da soldati smobilitati e inquadrate da ufficiali
di orientamento nazionalista e conservatore. Nel giro di pochi giorni i Freikorps schiacciarono nel sangue l’insurrezione berlinese. I leader del movimento spartachista, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, furono arrestati e trucidati da ufficiali dei corpi franchi.
La Costituzione di Weimar
Il 19 gennaio si tennero le elezioni per l’Assemblea costituente. La convergenza fra
socialisti, cattolici e democratici (gli spartachisti, per protesta, avevano boicottato
le elezioni) rese possibile la formazione di un governo di coalizione a guida socialdemocratica e, soprattutto, l’approvazione, nell’agosto 1919, di un nuovo testo costituzionale.
La Costituzione di Weimar – chiamata così dal nome della città in cui si svolsero i lavori dell’Assemblea –
aveva un’ispirazione fortementedemocratica: prevedeva larghe autonomie regionali, il suffragio universale maschile e femminile,
un governo responsabile di fronte al Parlamento e un presidente della Repubblica eletto
direttamente dal popolo.
Un inizio difficile
Né la convocazione della Costituente né il varo della Costituzione valsero però a
riportare la tranquillità nel paese. In aprile l’epicentro del moto rivoluzionario
si era spostato in Baviera, dove era stata proclamata una Repubblica dei consigli, stroncata dall’intervento dell’esercito e dei corpi franchi. Non meno grave era
la minaccia che veniva da destra: dai corpi franchi e dagli stessi capi dell’esercito, questi ultimi pronti a dimenticare, man mano che si allontanava il pericolo rivoluzionario,
i loro impegni di lealtà alle istituzioni repubblicane. Furono proprio quei generali
che portavano la maggiore responsabilità politica della sconfitta, e che avevano sollecitato,
nell’autunno del ’18, una rapida conclusione dell’armistizio, a diffondere la leggenda della “pugnalata alla schiena”, secondo cui l’esercito tedesco sarebbe stato ancora in grado di vincere se non fosse
stato tradito da una parte del paese. Una leggenda priva di fondamento, utile però
a gettare discredito sulla Repubblica e sulla classe dirigente che si era assunta
l’ingrato compito di firmare la pace.
Rivoluzione e reazione in Austria e in Ungheria
Anche nella nuova Repubblica austriaca furono i socialdemocratici a governare il paese nella difficile fase del trapasso
di regime, mentre i comunisti tentarono ripetutamente, senza fortuna, la carta dell’insurrezione.
Nel 1920, però, le elezioni videro prevalere il voto clericale e conservatore. Breve
e drammatica fu la vita della Repubblica democratica in Ungheria, dove i socialisti si unirono ai comunisti per instaurare, nel marzo del 1919, una
Repubblica sovietica, che attuò una politica di dura repressione nei confronti della borghesia e dell’aristocrazia
agraria. L’esperimento durò pochi mesi. Ai primi di agosto, il regime guidato dal
comunista Béla Kun cadde sotto l’urto convergente delle forze conservatrici guidate dall’ammiraglio
Miklós Horthy e delle truppe rumene, che avevano invaso il paese con l’appoggio di Gran Bretagna
e Francia. Horthy si insediò al potere scatenando un’ondata di “terrore bianco”. L’Ungheria cadeva così sotto un regime autoritario sorretto dalla Chiesa e dai grandi proprietari terrieri: prima applicazione di un
modello destinato a incontrare notevole fortuna nei paesi dell’Europa orientale negli
anni fra le due guerre mondiali.
2.5. La Germania di Weimar
La sfiducia nella democrazia
Nonostante i travagliati esordi, la Repubblica nata dalla Costituente di Weimar rappresentò
nell’Europa degli anni ’20 un modello di democrazia parlamentare aperta e avanzata.
Lo stesso rigoglio di attività intellettuali, che fece della Germania weimariana il
centro più vivace della cultura europea del tempo, era strettamente collegato al clima
di grande libertà che allora si respirava. Molti erano tuttavia i fattori che contribuivano
a indebolire il sistema repubblicano.
Un evidente motivo di debolezza stava nella accentuata frammentazione dei gruppi politici, che rendeva instabili maggioranze e governi. Per un decennio la Spd rimase il partito
più forte, ma dovette misurarsi con le formazioni del centro (cattolici e liberali)
e della destra conservatrice. Queste ultime non nascondevano la loro diffidenza nei
confronti delle istituzioni repubblicane, indissolubilmente associate alla sconfitta,
all’umiliazione di Versailles e a quella autentica tragedia nazionale che fu costituita dal problema delle “riparazioni”,
i risarcimenti che il paese sconfitto era tenuto a pagare ai vincitori [cfr. 1.12].
Le riparazioni
Nella primavera del 1921 le potenze alleate stabilirono l’ammontare dei risarcimenti
dovuti dalla Germania nella cifra, spaventosa per quei tempi, di 132 miliardi di marchi,
ancorata al valore dell’oro, da pagare in 42 rate annuali. L’annuncio dell’entità
delle riparazioni suscitò in tutto il paese un’ondata di proteste. I gruppi dell’estrema
destra nazionalista – fra i quali si stava mettendo in luce il piccolo Partito nazionalsocialista guidato da Adolf Hitler – scatenarono un’offensiva terroristica contro la classe dirigente repubblicana, accusata di tradimento per essersi piegata
alle imposizioni dei vincitori. Fra il ’21 e il ’22 caddero vittime di attentati il
ministro delle Finanze Matthias Erzberger, leader del Centro cattolico, colpevole di aver firmato nel novembre ’18 l’armistizio
in rappresentanza del governo provvisorio, e il ministro degli Esteri, il democratico
Walther Rathenau, ebreo, grande imprenditore, già alla guida della mobilitazione industriale durante
la guerra, che si stava adoperando per raggiungere un accordo con le potenze vincitrici.
I governi di coalizione che si succedettero fra il ’21 e il ’23 si impegnarono comunque
a pagare le prime rate delle riparazioni ma, per non rendersi ulteriormente impopolari,
evitarono interventi troppo drastici sulle tasse e sulla spesa pubblica: furono quindi
costretti ad aumentare la stampa di carta moneta. Il risultato fu che il valore del marco precipitò, accelerando il processo inflazionistico già in atto.
La crisi della Ruhr e la grande inflazione
Nel gennaio 1923 la Francia e il Belgio, traendo pretesto dalla mancata consegna di alcuni materiali da parte del governo
di Berlino, inviarono truppe nelbacino della Ruhr, centro della produzione carbonifera e dell’industria siderurgica tedesca. Impossibilitato
a reagire militarmente, il governo incoraggiò la resistenza passivadella popolazione: imprenditori e operai della Ruhr abbandonarono le fabbriche, rifiutando ogni collaborazione
con gli occupanti.
Per le già dissestate finanze tedesche l’occupazione della Ruhr rappresentò il definitivo tracollo, poiché privava il paese di una parte delle sue risorse produttive e costringeva
il governo a ingenti spese per finanziare la resistenza passiva. Il marco, abbandonato
al suo destino, precipitò a livelli impensabili e il suo potere d’acquisto fu praticamente
annullato: un chilo di pane giunse a costare 400 miliardi, un chilo di burro 5000.
Le conseguenze di questa polverizzazione della moneta furono sconvolgenti. Lo Stato stampava banconote in quantità sempre maggiore e con
valore nominale sempre più alto: un milione, un miliardo, cento miliardi e così via.
Ma chi riceveva in pagamento denaro svalutato si affrettava a liberarsene in cambio
di qualsiasi cosa, aumentando così la velocità di circolazione della moneta e alimentando
ulteriormente l’inflazione [cfr. 2.1]. Chi possedeva risparmi in denaro o in titoli di Stato perse tutto. Chi viveva del
proprio stipendio dovette affrontare grossi sacrifici: le retribuzioni venivano infatti
continuamente adeguate – si giunse a pagarle giornalmente – ma mai abbastanza da poter
tener dietro al ritmo dell’inflazione. Furono invece avvantaggiati i possessori di
beni reali (agricoltori, industriali, commercianti) e tutti coloro che avevano contratto
debiti.
La “grande coalizione” e il complotto di Monaco
Nel momento più drammatico della crisi la classe dirigente trovò però la forza di
reagire. Nell’agosto 1923 si formò un governo di “grande coalizione” presieduto daGustav Stresemann, leader del Partito tedesco-popolare (considerato il portavoce della grande industria).
In settembre, fra le proteste dell’estrema destra, il governo ordinò la fine della resistenza passiva nella Ruhr e riallacciò i contatti con la Francia. Subito dopo decretò lo stato di
emergenza e se ne servì per reprimere i focolai insurrezionali diffusi nel paese e
per fronteggiare la ribellione della destra nazionalista che aveva il suo centro in
Baviera.
A Monaco, nella notte fra l’8 e il 9 novembre 1923, alcune migliaia di aderenti al
Partito nazionalsocialista guidati da Adolf Hitler cercarono di organizzare un’insurrezione
contro il governo centrale. Ma il complotto fallì e fu rapidamente represso. Hitler fu condannato a cinque anni di carcere (poi in buona parte condonati) e la sua carriera politica parve precocemente conclusa.
Il ritorno alla normalità
Ristabilita l’autorità dello Stato, il governo cercò di porre rimedio al caos economico.
Nell’ottobre ’23 era stata emessa una nuova moneta, il cosiddetto Rentenmark (“marco di rendita”), il cui valore era garantito dal patrimonio agricolo e industriale
della Germania: lo Stato tedesco si comportava cioè come un privato che impegni tutti
i suoi averi per garantirsi un credito. Nel contempo veniva avviata una politica rigorosamentedeflazionistica (basata cioè sulla limitazione del credito e della spesa pubblica e sull’aumento
delle imposte) che costò ai tedeschi ulteriori sacrifici, ma consentì un graduale
ritorno alla normalità monetaria.
Il piano Dawes
Una vera stabilizzazione sarebbe stata tuttavia impossibile senza un accordo con i
vincitori sulle riparazioni. L’accordo fu trovato, all’inizio del 1924, sulla base
di un piano elaborato da un finanziere e uomo politico statunitense, Charles G. Dawes.
Il piano Dawes si basava sull’idea che la Germania avrebbe potuto far fronte ai suoi impegni solo
se fosse stata messa in grado di rilanciare la sua economia: prevedeva quindi che l’entità delle rate da pagare fosse graduata nel tempo e che
la finanza internazionale, in particolare quella statunitense, sovvenzionasse lo Stato
tedesco con una serie di prestiti a lunga scadenza. La Germania rientrava così in
possesso della Ruhr, vedeva temporaneamente alleviato l’onere dei suoi debiti e soprattutto otteneva
un massiccio aiuto per la sua ripresa economica, che fu in effetti pronta e consistente:
in poco tempo l’industria tedesca tornò ai primi posti nel mondo per volume di produzione.
La stabilizzazione politica
Più lenta e difficile fu la stabilizzazione politica. La grande coalizione guidata
da Stresemann si ruppe già alla fine del ’23. Nelle elezioni presidenziali del marzo
1925, il cattolico Wilhelm Marx, sostenuto da tutti i partiti democratici ma non dai
comunisti, fu battuto di stretta misura dal vecchio maresciallo Hindenburg, già capo dell’esercito e simbolo vivente del passato imperiale. Negli anni successivi,
tuttavia, grazie anche alla ripresa produttiva, la situazione politica si andò normalizzando.
I partiti di centro e di centro-destra mantennero il potere fino al 1928, quando i
socialdemocratici riassunsero la guida del governo. Stresemann conservò ininterrottamente
fino alla sua morte, nel 1929, la carica di ministro degli Esteri, assicurando così
la continuità di quella linea di collaborazione con le potenze vincitrici che costituì
il cardine principale dell’equilibrio europeo nella seconda metà degli anni ’20.
2.6. Il dopoguerra dei vincitori
La prevalenza dei moderati
La fine del “biennio rosso” e la recessione economica seguita alla fase espansiva
dell’immediato dopoguerra segnarono in tutta Europa un brusco riflusso delle agitazioni
operaie, una riscossa delle forze moderate e un ritorno alle soluzioni conservatrici in campo politico ed economico. Allontanatosi il pericolo rivoluzionario, le classi
dirigenti si preoccuparono soprattutto di ricostruire, nei limiti del possibile, i
tradizionali equilibri politici e sociali, di frenare i fenomeni inflazionistici (mediante
restrizioni del credito e tagli nella spesa pubblica), di assicurare stabilità all’assetto
internazionale uscito dalla conferenza di pace. Nelle due maggiori potenze vincitrici,
Francia e Gran Bretagna, l’obiettivo della stabilizzazione fu sostanzialmente raggiunto, almeno sul piano della politica interna. Ma non mancarono
i conflitti e le tensioni sociali. La ripresa economica fu lenta; e problematico si
rivelò il recupero di quel ruolo egemonico su cui, in teoria, si sarebbero dovuti
fondare gli equilibri internazionali del dopo-Versailles.
Moderati e radicali in Francia
In Francia la maggioranza di centro-destra che controllò il governo dal ’19 in poi
attuò una politica fortemente conservatrice, che faceva ricadere sulle classi popolari
il peso di una difficile ricostruzione. Solo nella primavera del ’24 i radicali di
sinistra e i socialisti, uniti in una coalizione elettorale detta “il cartello delle sinistre”, riuscirono a strappare la maggioranza ai moderati. Ma l’esperimento ebbe breve durata,
anche perché il governo non seppe affrontare una gravissima crisi finanziaria, accentuata dalla fuga di capitali verso l’estero. Nel luglio del ’26 la guida del
governo fu assunta dal leader storico dei moderati, l’ex presidente della Repubblica
Raymond Poincaré. Rimasto in carica per tre anni, Poincaré riuscì a stabilizzare il corso della moneta
e a risanare il bilancio statale aumentando ulteriormente la pressione fiscale.
Le difficoltà della Gran Bretagna
Anche in Gran Bretagna furono le forze moderate a guidare il paese negli anni critici
del dopoguerra. Fra il 1918 e il 1929 i conservatori furono quasi sempre al potere (prima coi liberali, poi da soli). La grande novità
di questi anni fu il ridimensionamento dei liberali, che consentì al Partito laburista (Labour Party) di assumere il ruolo di principale antagonista dei conservatori e fece sì che il
sistema politico britannico riassumesse la tradizionale forma bipolare. I governi
conservatori portarono avanti una politica di austerità finanziaria e di contenimento dei salari che li fece scontrare con i sindacati. L’episodio più drammatico si verificò nel
1926 con un imponente sciopero dei minatori, che chiedevano aumenti salariali e proponevano la nazionalizzazione del settore
minerario. Padronato e governo non cedettero e i lavoratori dovettero sospendere l’agitazione,
durata ben sette mesi, senza aver ottenuto nulla. Il governo cercò di profittare di
questo successo: furono vietati gli scioperi di solidarietà e fu dichiarata illegale
la pratica per cui gli aderenti alle Trade Unions venivano iscritti “d’ufficio” al Labour Party. I laburisti riuscirono però a risalire la corrente e ad affermarsi nelle elezioni
del 1929. Si formò così un ministero di coalizione liberal-laburista, destinato a
vita breve per il sopraggiungere della grande crisi economica mondiale del 1929-30.
La Francia e le alleanze
Sul terreno dell’equilibrio europeo, Gran Bretagna e Francia seguirono linee spesso
divergenti. Mentre la Gran Bretagna evitò di assumere impegni vincolanti sul continente,
la Francia, profondamente segnata dalle esperienze della guerra franco-prussiana del
1870 e dell’attacco del 1914, cercò di costruire in funzione antitedesca una rete di alleanze con tutti i paesi dell’Europa centro-orientale che erano stati
avvantaggiati dai trattati di Versailles – o dovevano ad essi la loro stessa esistenza
– ed erano quindi contrari a ogni ipotesi di revisione del nuovo assetto europeo:
in primo luogo la Polonia; poi la Cecoslovacchia, la Jugoslavia e la Romania che,
nel 1921, si erano unite in un’alleanza detta Piccola Intesa. L’accordo con gli Stati dell’Est Europa non sembrava tuttavia sufficiente ad allontanare
lo spettro di una rivincita tedesca. Da qui l’impegno quasi fanatico dei governanti
francesi nel pretendere il rispetto integrale delle clausole di Versailles e nell’esigere
il pagamento delle riparazioni.
La ricerca della distensione
Questa linea di politica estera, culminata nell’occupazione della Ruhr, subì un deciso
mutamento nel 1924 con l’accettazione del piano Dawes [cfr. 2.5] da parte della Francia. Si inaugurò allora una fase di distensione e di collaborazione
fra le due potenze ex nemiche, che ebbe i suoi maggiori protagonisti in Gustav Stresemann e nel ministro degli Esteri francese Aristide Briand. I due statisti perseguivano obiettivi diversi, se non opposti: Briand voleva fondare
su basi più stabili l’equilibrio di Versailles, mentre Stresemann cercava di superare
quell’equilibrio per riportare prima o poi la Germania a una condizione di grande
potenza. Alla base dell’intesa c’era però la volontà comune di normalizzare i rapporti fra vincitori e vinti, nel quadro di un più vasto progetto di sicurezza collettiva.
Gli accordi di Locarno e il piano Young
Il risultato più importante dell’intesa franco-tedesca fu rappresentato dagli accordi di Locarno dell’ottobre 1925, che consistevano nel riconoscimento da parte di Germania, Francia
e Belgio delle frontiere comuni tracciate a Versailles e nell’impegno di Gran Bretagna e Italia a farsi garanti contro eventuali violazioni.
La Francia otteneva così una garanzia internazionale ai suoi confini. Un anno dopo la firma del patto, la Germania fu ammessa alla Società
delle Nazioni.
Nel giugno 1929 fu varato il piano Young che ridusse e graduò ulteriormente le riparazioni tedesche dilazionandole in sessant’anni.
Nel giugno 1930 gli ultimi reparti francesi si ritirarono dalla Renania, mentre il
governo tedesco rinnovava l’impegno a mantenere la regione smilitarizzata. Il clima
di distensione internazionale aveva trovato una conferma eloquente – anche se di valore
soprattutto simbolico – nell’estate del 1928, quando i rappresentanti di quindici
Stati, fra cui Germania e Unione Sovietica, riuniti a Parigi su iniziativa di Briand e del segretario di Stato americano Frank Kellogg, avevano firmato un patto con cui si impegnavano a rinunciare alla guerra come mezzo per risolvere le controversie.
La crisi della “sicurezza collettiva”
Questa stagione di distensione internazionale, tuttavia, si interruppe bruscamente
alla fine del decennio, in coincidenza con l’inizio della grande crisi economica mondiale
[cfr. 4]. Già nel settembre 1930 la Francia decise di dare il via alla costruzione di un
imponente complesso di fortificazioni difensive (la cosiddetta linea Maginot) lungo il confine con la Germania. Era il segno più evidente dell’esaurirsi dello
“spirito di Locarno” e della caduta delle speranze in una “sicurezza collettiva” assicurata dalla Società delle Nazioni e dagli accordi fra le potenze.
2.7. La Russia comunista
La guerra con la Polonia
Negli anni dell’immediato dopoguerra, la Russia comunista rappresentò un mito positivo, oltre che un punto di riferimento, per i rivoluzionari di tutta Europa, così come
la Francia lo era stata alla fine del ’700. La capacità espansiva dell’esperienza
bolscevica non fu però altrettanto grande; e ancor meno lo era la forza militare del
paese in cui quell’esperienza si incarnava. La stessa sopravvivenza del regime comunista
rimase a lungo in forse. Appena conclusa, nella primavera del ’20, la guerra civile
[cfr. 1.10], i bolscevichi dovettero affrontare l’attacco improvviso da parte della Polonia, che cercava di profittare delle difficoltà del vicino per ritagliarsi confini più vantaggiosi. Dopo fasi alterne (l’Armata rossa contrattaccò efficacemente e nell’agosto 1920
giunse alle porte di Varsavia per essere poi ricacciata entro i confini russi) si
giunse a un trattato di pace che accontentava in parte le aspirazioni polacche e segnava soprattutto la fine della speranza di esportare la rivoluzione grazie ai
successi militari.
Il collasso economico
Una minaccia non meno grave alla sopravvivenza dell’esperimento comunista veniva dal
rischio di un collasso economico. Quando i bolscevichi presero il potere, l’economia
russa si trovava già in uno stato di dissesto, che la rivoluzione e le devastazioni
della guerra civile finirono con l’aggravare ulteriormente. L’abolizione della proprietà
terriera e la redistribuzione delle terre ai contadini poveri si risolsero nella creazione
di una miriade di piccole aziende che producevano soprattutto per l’autoconsumo e non contribuivano all’approvvigionamento delle città. Molte industrie furono lasciate
in mano ai vecchi imprenditori, ma sotto la sorveglianza dei consigli operai, altre
furono gestite direttamente dai lavoratori, altre infine furono poste sotto il controllo
statale. Le banche furono nazionalizzate e i debiti con l’estero cancellati. Ma tutto questo servì a poco, visto lo stato
di caos in cui versava il paese sconvolto dalla guerra civile, e il governo fu costretto,
per le esigenze più urgenti, a stampare carta moneta priva di qualsiasi valore. Si
finì così col tornare al sistema del baratto e le stesse retribuzioni vennero pagate in natura.
Il “comunismo di guerra”
A partire dall’estate del ’18, il governo bolscevico cercò di attuare una politica
più energica e autoritaria, che fu poi definita “comunismo di guerra”. Per risolvere
il problema degli approvvigionamenti alle città, furono istituiti in tutti i centri
rurali comitati col compito di provvedere all’ammasso e distribuzione delle derrate. Venne incoraggiata, senza molto successo, la formazione di comuni agricole volontarie, le cosiddette “fattorie collettive” (kolchozy), e furono anche istituite delle “fattorie sovietiche” (sovchozy) gestite direttamente dallo Stato o dai soviet locali. In campo industriale furono nazionalizzati tutti i settori più importanti:
una misura che aveva lo scopo di normalizzare la produzione e di centralizzare le
decisioni, ponendo fine allo spontaneismo che aveva caratterizzato le prime fasi della
rivoluzione.
Carestia e rivolta
Grazie al “comunismo di guerra” il regime bolscevico riuscì ad assicurare lo svolgimento
di alcune funzioni essenziali e soprattutto ad armare e nutrire il suo esercito. Ma
sul piano economico l’esperienza si risolse in un totale fallimento. Alla fine del
1920 il volume della produzione industriale era di ben sette volte inferiore a quello
del 1913. Le grandi città si erano spopolate per la disoccupazione e per la fame. Il commercio privato, formalmente vietato, fioriva nell’illegalità. La crisi raggiunse
il culmine nella primavera-estate del ’21 quando, per l’effetto congiunto della guerra
civile e di un anno di siccità, una terribile carestia colpì le campagne della Russia e dell’Ucraina, provocando la morte di almeno 3 milioni
di persone. Imbarazzante per il potere comunista era poi il dissenso che cominciava a serpeggiare fra gli operai, stanchi delle privazioni materiali,
ma anche delusi dalla gestione autoritaria dell’economia. Il punto di maggior tensione
fu toccato ai primi di marzo del 1921, quando a ribellarsi al governo furono i marinai
della base di Kronštadt, presso Pietrogrado, che era stata una roccaforte dei bolscevichi. Alle richieste
dei ribelli, che invocavano maggiori libertà politiche e sindacali, il governo rispose
con una feroce repressione militare, con centinaia di fucilazioni immediate e poi migliaia di condanne a morte, al carcere
o ai lavori forzati.
La Nep
Nello stesso 1921, mentre si chiudeva ogni spazio di discussione all’interno del partito,
prendeva avvio una parziale liberalizzazione nella produzione e negli scambi. La nuova politica economica(Nep) aveva l’obiettivo principale di stimolare la produzione agricola e di favorire l’afflusso
dei generi alimentari verso le città. Ai contadini si consentiva ora di vendere sul
mercato le eventuali eccedenze, una volta che avessero consegnato agli organi statali
una quota fissa dei raccolti. La liberalizzazione si estese anche al commercio e alla
piccola industria produttrice di beni di consumo. Lo Stato mantenne comunque il controllo
delle banche e dei maggiori gruppi industriali. La Nep ebbe conseguenze indubbiamente
benefiche su un’economia stremata, ma produsse effetti sociali non previsti né desiderati dai suoi promotori. Nelle campagne i nuovi spazi concessi
all’iniziativa privata favorirono il riemergere del ceto dei contadini benestanti, ikulaki. La liberalizzazione del commercio accrebbe la disponibilità di beni di consumo,
ma provocò la comparsa di una nuova classe di affaristi, la cui ricchezza contrastava
col basso tenore di vita della maggioranza della popolazione urbana.
2.8. L’Urss da Lenin a Stalin
La Costituzione del 1918
La prima Costituzione della Russia rivoluzionaria fu varata nel luglio del ’18, in piena guerra civile, e si apriva con una Dichiarazione dei diritti del popolo lavoratore e sfruttato – quasi una replica alle dichiarazioni dei diritti dell’uomo delle rivoluzioni “borghesi”
– dove si proclamava che il potere doveva «appartenere unicamente e interamente alle
masse lavoratrici e ai loro autentici organismi rappresentativi: i soviet». La Costituzione si ispirava dunque all’idea consiliare e collocava al vertice del
potere il Congresso dei soviet. Inoltre prevedeva che il nuovo Stato avesse carattere federale, rispettasse l’autonomia delle minoranze etniche e si aprisse all’unione con altre
future Repubbliche “sovietiche”, nella prospettiva di un’unica repubblica socialista mondiale.
L’Unione Sovietica e la Costituzione del 1924
In realtà, quella che si attuò fra il ’20 e il ’22 fu semplicemente l’unione alla
Repubblica russa – che comprendeva anche l’intera Siberia – delle altre province dell’ex
Impero zarista (l’Ucraina, la Bielorussia, l’Azerbaigian, l’Armenia e la Georgia),
nelle quali i comunisti erano riusciti a prendere il potere dopo aver eliminato le
altre forze politiche col decisivo aiuto dell’Armata rossa. Quella che dal 1922 prese
il nome di Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche(Urss) era una compagine priva di reali meccanismi federativi, e in cui i russi erano la
nazionalità dominante. La nuova Costituzione dell’Urss, approvata nel 1924, prevedeva una complessa struttura istituzionale, al
cui vertice stava ancora il Congresso dei soviet dell’Unione. Ma il potere reale era nelle mani del Partito comunista(che dal 1925 assume il nome di Partito comunista dell’Unione Sovietica,Pcus), l’unico la cui esistenza fosse prevista dalla Costituzione.
Il partito-Stato
Il partito, in mano a un ristretto gruppo dirigente, era guidato da un segretario generale e aveva come organo fondamentale l’Ufficio politico (Politburo) del Comitato centrale. Il partito era responsabile delle direttive ideologiche e politiche che ispiravano
l’azione del governo; controllava la polizia politica (la eka, poi denominata Gpu), che colpiva gli oppositori, i cosiddetti “nemici del popolo”,
con arresti arbitrari, cui seguivano processi, fucilazioni, deportazioni in campi
di lavoro. Proponeva infine i candidati alle elezioni dei soviet che avvenivano su lista unica e con voto palese. Di fatto deteneva tutto il potere e il suo apparato centrale e periferico si sovrapponeva
a quello dello Stato.
Modernizzazione e istruzione
Lo sforzo di trasformazione intrapreso dai bolscevichi dopo la conquista del potere
non riguardò soltanto le strutture economiche e gli ordinamenti politici. Come tutti
i rivoluzionari dei tempi moderni, anche i comunisti russi mirarono a cambiare la
società nel profondo, a cancellare valori e comportamenti tradizionali, a creare una
nuova cultura adatta alla realtà che si voleva costruire. Lo sforzo si indirizzò soprattutto
in due direzioni: l’alfabetizzazione di massa e la lotta contro la Chiesa ortodossa. Premessa indispensabile per lo sviluppo economico, la lotta contro l’analfabetismo
rappresentò una priorità per il nuovo regime. L’elevazione dell’obbligo scolastico
fino all’età di quindici anni si accompagnò a sostanziali innovazioni nei contenuti
e nei metodi dell’insegnamento. Si cercò di collegare la scuola al mondo della produzione,
privilegiando l’istruzione tecnica su quella umanistica. E ci si preoccupò, nel contempo, di formare ideologicamente
le nuove generazioni incoraggiando l’iscrizione in massa all’organizzazione giovanile
del partito – il Komsomol, ossia Unione comunista della gioventù – e facendo largo spazio in tutti i livelli
di istruzione all’insegnamento della dottrina marxista.
Scristianizzazione e liberalizzazione dei costumi
Anche la lotta contro laChiesaortodossa assumeva una chiara valenza ideologica, in quanto volta a combattere una visione
del mondo incompatibile con i fondamenti materialisti della dottrina marxista, e quindi
da estirpare. La scristianizzazione fu portata avanti con molta durezza – confisca dei beni ecclesiastici, chiusura di
chiese, arresti di capi religiosi – e, nel complesso, poté dirsi riuscita nei suoi
obiettivi. L’influenza della Chiesa non fu del tutto eliminata (culti e credenze continuarono
a sopravvivere, soprattutto nelle campagne), ma certo fu drasticamente ridimensionata.
La battaglia contro la religione e la morale tradizionale si estese anche ai problemi
della famiglia e dei rapporti fra i sessi. Il governo rivoluzionario stabilì fra i
suoi primi atti il riconoscimento del solo matrimonio civile e semplificò al massimo le procedure per il divorzio. Nel 1920 fu legalizzato l’aborto. Venne proclamata l’assoluta parità fra i sessi e la condizione dei figli illegittimi fu equiparata a quella dei legittimi. In generale
il regime comunista favorì una notevole liberalizzazione dei costumi, anche se furono ben presto emarginate le posizioni estreme di chi riteneva che la
rivoluzione dovesse portare all’assoluta libertà sessuale e alla scomparsa della famiglia.
Rivoluzione e cultura
Gli effetti della rivoluzione si fecero sentire anche nel mondo dell’alta cultura.
Parecchi intellettuali di prestigio – come il musicista Igor Stravinskij, il pittore Marc Chagall, il linguista Roman
Jakobson – andarono a ingrossare le file dell’emigrazione politica. Ma i più, soprattutto fra i giovani, si gettarono con entusiasmo nell’esperienza
rivoluzionaria tentando di trasferirne contenuti e valori nei propri settori di attività.
Se per alcuni intellettuali comunisti la nuova arte “proletaria” doveva porsi al diretto servizio della politica di classe e andare incontro ai bisogni
culturali delle masse, per molti altri – quelli già impegnati nei movimenti d’avanguardia
artistica e letteraria – la rivoluzione nelle arti doveva essere parallela a quella
politica(non dipendente da essa) e doveva consistere prima di tutto nella rottura dei canoni
tradizionali e nella ricerca di nuove forme espressive. In una prima fase queste tendenze d’avanguardia furono guardate con simpatia o apertamente
incoraggiate dalle autorità preposte alla cultura. Anche per questo gli anni del dopo-rivoluzione
rappresentarono una stagione di intensa sperimentazione, di accesi dibattiti fra le
varie correnti e soprattutto di straordinaria fioritura creativa. Furono gli anni
della poesia futurista di Vladimir Majakovskij e Viktor Chlebnikov, del teatro rivoluzionario
di Vsevolod Emil’evi Mejerchol’d, della pittura astrattista di Kazimir Malevi ed Eliezer Lisickij, dei primi grandi film di Sergej Ejzenštejn e di Vsevolod Pudovkin.
La stagione d’oro delle avanguardie ebbe però breve durata. A partire dalla metà degli anni ’20 la libertà di espressione artistica fu sempre
più condizionata dalle preoccupazioni di ordine propagandistico e dalla crescente
invadenza di un potere politico che diventava di giorno in giorno più autoritario.
Lo scontro tra Stalin e Trotzkij
Le tendenze autoritarie si andarono consolidando con l’ascesa al vertice del Pcus
del georgiano Iosif Dugašvili, detto Stalin: ex commissario alle Nazionalità, fu nominato segretario generale del partito nell’aprile del 1922. Poche settimane dopo, Lenin fu colpito dal primo
attacco di quella malattia che lo avrebbe condotto alla morte nel gennaio 1924. Da
allora si aprì una sempre più scoperta lotta per la successione. Il primo grave scontro all’interno del gruppo dirigente ebbe per oggetto proprio
il problema della centralizzazione e della eccessiva burocratizzazione del partito. A sostenere la necessità di limitare le prerogative dell’apparato fu Trotzkij, il più autorevole e il più popolare dopo Lenin fra i capi bolscevichi, ma anche
il più isolato rispetto agli altri leader – Grigorij Zinov’ev, Lev Kamenev, Nikolaj Bucharin – che respinsero le sue critiche alla gestione del partito appoggiando la linea di
Stalin.
Il socialismo in un solo paese
Lo scontro non riguardava solo il problema della “burocratizzazione”. Trotzkij attribuiva
l’involuzione autoritaria del partito all’isolamento internazionale dello Stato sovietico e riteneva che, per invertire questa tendenza, la Repubblica
dei soviet dovesse estendere il processo rivoluzionario all’intero Occidente capitalistico.
Contro questa tesi, per cui fu coniata l’espressione “rivoluzionepermanente”, scese in campo lo stesso Stalin. Stalin sosteneva che, nei tempi brevi, la vittoria del socialismo era “possibile
e probabile” anche in un solo paese e che l’Unione Sovietica aveva in sé le forze
sufficienti a fronteggiare l’ostilità del mondo capitalista. La teoria del “socialismo in un solo paese” rappresentava una rottura con quanto era sempre stato affermato dai bolscevichi,
ma si adattava alla situazione reale, che da tempo non consentiva illusioni circa
la possibilità di una rivoluzione mondiale, e offriva inoltre al paese lo stimolo
di un potente richiamo patriottico. Anche l’atteggiamento delle potenze europee, che fra il ’24 e il ’25 si decisero
a instaurare rapporti diplomatici con lo Stato sovietico, finì col rafforzare implicitamente
le tesi di Stalin.
L’eliminazione degli oppositori
Una volta sconfitto Trotzkij, venne meno però il principale legame che teneva uniti
i suoi avversari politici. A partire dall’autunno del ’25, Zinov’ev e Kamenev, riprendendo
idee già sostenute da Trotzkij, si pronunciarono per un’interruzione dell’esperimento
della Nep, che a loro avviso stava facendo rinascere il capitalismo nelle campagne,
e per un rilancio dell’industrializzazione a spese, se necessario, degli strati contadini
privilegiati. La tesi opposta, favorevole alla prosecuzione della Nep, fu sostenuta
da Bucharin, che ebbe l’appoggio di Stalin. Zinov’ev e Kamenev, messi in minoranza
nel partito, si riaccostarono a Trotzkij e cercarono di organizzare un fronte unico
degli avversari del segretario. Ma i leader dell’opposizione furono dapprima allontanati
dagli organi dirigenti e poi, nel ’27, espulsi dal partito. I loro seguaci furono perseguitati e incarcerati. Trotzkij fu deportato in una località dell’Asia centrale e successivamente espulso dall’Urss. Con la sconfitta dell’opposizione di sinistra si chiudeva definitivamente la prima fase della rivoluzione comunista, la fase della
costruzione del nuovo Stato. Se ne apriva una nuova, caratterizzata dalla continua
crescita del potere personale di Stalin e dal suo tentativo di portare l’Unione Sovietica
alla condizione di grande potenza industriale e militare.
Sommario
Tutti i paesi belligeranti, esclusi gli Stati Uniti, uscirono dal conflitto in condizioni
di grave dissesto economico. Per affrontare le spese di guerra tutti gli Stati avevano
contratto ingenti debiti, in primo luogo con gli Stati Uniti, ma questa misura non
era stata sufficiente a coprire tali spese. Così i governi avevano stampato carta
moneta in eccedenza, mettendo in moto un processo inflazionistico, che portò, nel
dopoguerra, a un notevole aumento dei prezzi. Tuttavia, grazie anche al sostegno dello Stato all’economia, l’industria europea attraversò,
nell’immediato dopoguerra, un periodo di crescita, cui seguì, nel 1920-21, una fase
di depressione economica. Per quanto riguarda gli scambi internazionali, la guerra
ridusse drasticamente la tradizionale supremazia commerciale europea. Ne conseguì
un ritorno, nel dopoguerra, al nazionalismo economico e al protezionismo doganale.
La guerra determinò enormi cambiamenti sociali. L’espansione dell’industria bellica
aveva determinato uno spostamento massiccio dalle campagne alle città, soprattutto
di giovani. Il distacco dal nucleo familiare e l’assenza dei capifamiglia avevano
provocato mutamenti profondi nella mentalità e nelle abitudini delle giovani generazioni.
La guerra segnò una tappa importante anche nella trasformazione del ruolo delle donne:
nelle famiglie, ma anche nei campi, nelle fabbriche, negli uffici le donne presero
spesso il posto degli uomini arruolati nell’esercito, assumendo responsabilità e compiti
inediti. La disponibilità economica e la consapevolezza delle proprie capacità trasformarono
l’immagine stessa della donna e i suoi comportamenti, che divennero più liberi, sin
dall’abbigliamento. Questo processo di emancipazione ebbe nel dopoguerra anche un
parziale riconoscimento sul piano del diritto di voto, riconosciuto nel 1918 in Gran
Bretagna, nel 1919 in Germania, nel 1920 negli Stati Uniti. L’altra questione sociale
che i governi dovettero affrontare nel dopoguerra fu quella del reinserimento dei
reduci, che rivendicavano compensi per le privazioni subìte. Le scarse misure adottate
dagli Stati, nonostante le promesse, generarono tra gli ex combattenti (riuniti spesso
in associazioni) un forte risentimento. Tutto ciò contribuì ad accelerare la tendenza
già in atto alla “massificazione” della politica: partiti e sindacati videro aumentare
il numero dei loro iscritti, come aumentò notevolmente la partecipazione dei cittadini
alle manifestazioni pubbliche.
La vittoria delle potenze democratiche e il crollo degli imperi multietnici significarono
per molti popoli europei il coronamento di lunghe lotte per l’indipendenza e parvero
dar corpo agli ideali di nazionalità proclamati da Wilson. Ma in ragione della complessità
etnico-linguistica di alcune zone d’Europa, in particolare l’area orientale, l’applicazione
del principio di nazionalità risultò difficile: le decisioni di Versailles diedero
una patria indipendente a circa 60 milioni di persone, ma ne trasformarono altri 25
milioni in minoranze. La presenza sullo stesso territorio di gruppi che parlavano
lingue diverse, con tradizioni e credi diversi, fu talvolta sentita come una minaccia
dai membri di comunità nazionali che si volevano omogenee e coese: ciò fu causa di
nuovi conflitti.
Tra la fine del ’18 e l’estate del ’20 – il “biennio rosso” – il movimento operaio
europeo fu protagonista di una grande avanzata politica che assunse anche tratti di
agitazione rivoluzionaria; ovunque in Europa aumentarono gli iscritti ai partiti socialisti
e i lavoratori ottennero miglioramenti salariali. Ma i tentativi rivoluzionari fallirono.
La rivoluzione d’ottobre accentuò all’interno del movimento operaio la scissione fra
avanguardie rivoluzionarie e il resto del movimento legato ai partiti socialdemocratici
e ai sindacati. Tale scissione fu sancita ufficialmente, nel marzo 1919, con la costituzione
a Mosca della Terza Internazionale (Comintern) e la nascita dei partiti comunisti.
Dopo l’armistizio, la Germania, nelle cui città si erano creati consigli degli operai
e dei soldati, si trovava in una situazione simile a quella della Russia nel ’17.
Ma i socialdemocratici erano contrari a rivoluzioni di tipo sovietico e scelsero una
linea moderata, in convergenza con la vecchia classe dirigente e i militari. L’insurrezione
tentata nel gennaio ’19 dai comunisti “spartachisti” fu repressa nel sangue. Le elezioni
per l’Assemblea costituente che si tennero poco dopo videro l’affermazione della socialdemocrazia
e del Centro cattolico. L’Assemblea, riunita a Weimar, elaborò una Costituzione democratica
fra le più avanzate dell’epoca. Ma i socialdemocratici subirono nel 1920 una sconfitta
elettorale e dovettero lasciare la guida del governo.
La situazione politica della Repubblica di Weimar era caratterizzata da una forte
instabilità. L’entità delle riparazioni di guerra stabilite dagli alleati determinò
una ondata di proteste sociali e l’aggravarsi del processo inflazionistico già in
atto. All’inizio del ’23 l’occupazione da parte di Francia e Belgio della Ruhr, regione
vitale per l’economia tedesca, fece precipitare la crisi economica, polverizzando
il valore del marco. A partire dall’estate, il governo di coalizione presieduto da
Stresemann avviò una politica di stabilizzazione monetaria e di riconciliazione con
la Francia e represse, nel novembre dello stesso anno, un tentativo di colpo di Stato
organizzato a Monaco dal Partito nazionalsocialista, guidato da Adolf Hitler. Grazie
al piano Dawes, inoltre, a partire dal 1924 la Germania poté fruire di prestiti internazionali
– soprattutto statunitensi –, che le avrebbero consentito una rapida ripresa economica.
Anche nei paesi più sviluppati dell’Europa occidentale, il “biennio rosso” si concluse
con un riflusso delle agitazioni operaie e una ripresa delle forze conservatrici.
La Francia degli anni ’20 registrò sul piano politico un’egemonia dei moderati, che
– nella seconda metà del decennio – adottarono una politica di stabilizzazione della
moneta e di risanamento del bilancio. Più difficile fu la situazione dell’economia
britannica, caratterizzata da una fase di ristagno per tutti gli anni ’20. In questo
periodo il Partito laburista si affermò come secondo partito del paese – nonostante
la sconfitta subìta dal movimento sindacale nel ’26, in occasione del grande sciopero
dei minatori. Dal punto di vista degli equilibri internazionali, iniziava una fase
di distensione tra Francia e Germania, confermata dagli accordi di Locarno del 1925,
che stabilizzavano i confini definiti a Versailles. A coronare questa fase di distensione,
nel 1926 la Germania fu ammessa alla Società delle Nazioni. Nel 1929 il piano Young
ridusse ulteriormente l’entità delle riparazioni tedesche e ne graduò il pagamento
in sessant’anni. Questa fase di distensione, tuttavia, si interruppe bruscamente all’inizio
degli anni ’30 in coincidenza con la crisi economica mondiale.
Fallite, dopo la guerra con la Polonia, le speranze di esportare la rivoluzione fuori
dalla Russia, i bolscevichi dovettero affrontare la gravissima situazione economica
in cui versava il paese. Nel 1918 fu varato il cosiddetto “comunismo di guerra”, una
politica economica basata sulla centralizzazione delle decisioni e sulla statalizzazione
di gran parte delle attività produttive: furono create le “fattorie collettive” (kolchozy) e le “fattorie sovietiche” (sovchozy) gestite direttamente dallo Stato o dai soviet e in campo industriale furono nazionalizzati tutti i settori più importanti. L’esperienza
si risolse però in un fallimento: una terribile carestia colpì il paese nel ’21. Nel marzo 1921 ci fu un mutamento di
rotta con la Nep (nuova politica economica). Basata su una parziale liberalizzazione
delle attività economiche, la Nep stimolò la ripresa produttiva, mentre, dal punto
di vista sociale, determinò la crescita del ceto dei contadini ricchi (kulaki) e dei piccoli commercianti.
La compagine statale che nel 1922 prese la denominazione di Unione delle Repubbliche
socialiste sovietiche (Urss) fu il frutto dell’unione della Russia – compresa la Siberia
– con le altre province dell’ex Impero zarista, nelle quali i comunisti erano riusciti
a prendere il potere: si trattava in realtà di una compagine priva di reali meccanismi
federativi in cui i russi erano la nazionalità dominante. La nuova Costituzione dell’Urss
(1924) prevedeva un meccanismo consiliare, con al vertice il Congresso dei soviet dell’Unione, ma nella realtà il potere era nelle mani del Partito comunista, il quale,
oltre a guidare l’azione di governo, controllava la polizia politica. Dal punto di
vista sociale i bolscevichi intrapresero una battaglia contro la morale tradizionale
e contro la Chiesa ortodossa. In campo culturale, i primi anni ’20 furono una stagione
di fioritura delle avanguardie artistiche. Con l’ascesa di Stalin alla segreteria
del partito (aprile ’22) e la malattia di Lenin (morto nel gennaio ’24), si scatenò
una dura lotta all’interno del gruppo dirigente bolscevico. Stalin riuscì dapprima
a emarginare Trotzkij, il più autorevole e il più popolare dopo Lenin fra i capi bolscevichi.
Quindi si sbarazzò dell’“opposizione di sinistra” – Zinov’ev, Kamenev – che chiedeva
la fine della Nep e l’accelerazione dello sviluppo industriale. Si affermava, così,
il suo potere personale.
Bibliografia
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Per un’analisi comparata delle vicende economiche e politiche in Francia, Germania e Italia: C.S. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese, Il Mulino, Bologna 1999 (ed. or. 1975). Per uno sguardo di ampio respiro sul dopoguerra: E. Traverso, La guerra civile europea, 1914-1945, Il Mulino, Bologna 2007; A.J. Tooze, The Deluge. The Great War and the Remaking of Global Order, 1916-1931, Allen Lane, London 2014 e I. Kershaw, All’inferno e ritorno. Europa 1914-1949, Laterza, Bari-Roma 2016 (ed. or. 2015).
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Sulla Russia comunista: A. Graziosi, La grande guerra contadina in Urss. Bolscevichi e contadini (1918-1933), Esi, Napoli 1998 e J.D. Smele, The “Russian” Civil Wars, 1916-1926. Ten Years that Shook the World, Oxford University Press, Oxford-New York 2014. Per un inquadramento della politica estera sovietica fino alla fine degli anni ’20, si veda A. Di Biagio, Coesistenza e isolazionismo. Mosca, il Komintern e l’Europa di Versailles, Carocci, Roma 2004.
3. Dopoguerra e fascismo in Italia
3.1. Le tensioni del dopoguerra
Un paese inquieto
Uscita vincitrice dalla prova più impegnativa della sua storia unitaria, l’Italia
si trovò a condividere i problemi politici e le tensioni sociali che la Grande Guerra aveva suscitato in tutta Europa [cfr. 2.4]. L’economia presentava i tratti tipici della crisi postbellica: sviluppo abnorme
di alcuni settori industriali, con conseguenti problemi di riconversione, sconvolgimento dei flussi commerciali, deficit gravissimo del bilancio statale, inflazione galoppante. Rispetto agli altri paesi vincitori, problemi e tensioni si presentavano
però in forma più acuta: sia perché le strutture economiche erano meno avanzate e
più ampie le sacche di arretratezza, sia perché le istituzioni politiche erano meno
radicate nella società. L’esperienza del primo conflitto mondiale aveva fortemente
accelerato il processo di avvicinamento delle masse allo Stato, ma lo aveva fatto in modo traumatico, provocando nuove divisioni. Aveva alimentato
il rifiuto della guerra; ma aveva anche generato, come negli altri paesi, una diffusa
assuefazione alla violenza e accentuato la tendenza a risolvere le questioni controverse con atti di forza.
Una tendenza che, in Italia, si inseriva in un contesto storico da sempre segnato
dalla radicalità dello scontro politico e sociale. Quella che usciva dalla guerra era dunque una società inquieta e attraversata da
profonde fratture, unita però da una generale ansia di rinnovamento, da una sorta
di febbre rivendicativa che tendeva a saltare le mediazioni politiche e a spostare il centro delle lotte dal Parlamento alle piazze.
Scioperi e lotte agrarie
Le tensioni sociali erano legate in primo luogo al continuo aumento dei prezzi al
consumo. Fra il giugno e il luglio del 1919 le principali città italiane divennero
teatro di violenti tumulti contro il caro-viveri, mentre le industrie erano investite da una ondata di scioperi volti a ottenere aumenti salariali. Anche il settore dei servizi pubblici, in genere
meno sindacalizzato, fu sconvolto da una lunga serie di astensioni dal lavoro. Non
meno intense furono in questo periodo le lotte dei lavoratori agricoli. In Val Padana, dove più forte era la presenza dei braccianti – i lavoratori generici
pagati a giornata –, gli scioperi erano organizzati dalle “leghe rosse” controllate dai socialisti, che avevano, a livello locale, il monopolio della rappresentanza sindacale. Nelle regioni centrali, in cui dominavano
la mezzadria e la piccola proprietà contadina, erano attive soprattutto le “leghe bianche” cattoliche. L’aspirazione alla proprietà della terra fu poi all’origine di un altro
movimento che si sviluppò in forma spontanea nelle campagne del Centro-Sud: l’occupazione di terre incoltee latifondi da parte di contadini poveri, spesso ex combattenti.
L’Italia alla conferenza di pace
Ad agitare la scena italiana dell’immediato dopoguerra contribuì anche una cattiva
gestione della pace, che rese il clima più simile a quello di un paese sconfitto che
a quello di una potenza vincitrice. L’Italia era uscita dalla guerra nettamente rafforzata:
aveva ottenuto – secondo gli accordi firmati a Londra nel 1915 [cfr. 1.4] – Trento, Trieste e le altre “terre irredente”; aveva raggiunto i “confini naturali”
segnati dalle Alpi, includendo nel suo territorio anche zone non italiane come il
Sud Tirolo (ribattezzato Alto Adige) o solo parzialmente italiane come l’Istria; aveva
infine visto scomparire dalle sue frontiere il nemico tradizionale, l’Impero asburgico.
Ma la dissoluzione dell’Austria-Ungheria e la nascita del nuovo Stato jugoslavo ponevano
una serie di problemi non previsti nel momento in cui era stato stipulato il patto
di Londra: in base a quel patto, infatti, l’Italia avrebbe dovuto annettere anche
la Dalmazia, una striscia costiera ritenuta importante per il controllo dell’Adriatico, ma abitata in prevalenza da slavi. Non era prevista invece l’annessione della città di Fiume, a maggioranza italiana, che doveva restare all’Impero asburgico. Tuttavia, alla
conferenza di Versailles, il presidente del Consiglio Orlando e il ministro degli
Esteri Sonnino chiesero l’annessione di Fiume sulla base del principio di nazionalità,
in aggiunta ai territori promessi nel 1915.
La “vittoria mutilata”
Tali richieste incontrarono l’opposizione degli alleati, in particolare del presidente
degli Stati Uniti, che si sentiva slegato dagli impegni delle potenze europee ed estraneo
alle logiche che li ispiravano. Nell’aprile del ’19, per protestare contro l’atteggiamento
di Wilson – che aveva cercato di scavalcarli indirizzando un messaggio al popolo italiano
–, Orlando e Sonnino abbandonarono Versailles e fecero ritorno in Italia, dove furono
accolti da imponenti manifestazioni patriottiche. Ma un mese dopo dovettero tornare
a Parigi senza aver ottenuto alcun risultato. Questo insuccesso segnò la fine del
governo Orlando. Il nuovo ministero presieduto da Francesco Saverio Nitti si trovò ad affrontare una situazione già gravemente deteriorata. Gli avvenimenti
della primavera 1919 avevano infatti suscitato in larghi strati dell’opinione pubblica
un sentimento di ostilità verso gli ex alleati, accusati di voler defraudare l’Italia dei frutti della vittoria. Si parlò allora di “vittoria mutilata”: un’espressione coniata da Gabriele D’Annunzio, ormai assurto al ruolo di protagonista
politico, anche in virtù di alcune audaci imprese compiute durante la guerra.
D’Annunzio a Fiume
La manifestazione più clamorosa di questa protesta si ebbe nel settembre 1919, quando
alcuni reparti militari ribelli assieme a gruppi di volontari, sotto il comando di
D’Annunzio, occuparono la città di Fiume, posta allora sotto controllo internazionale, e ne proclamarono l’annessione all’Italia. Concepita all’inizio come un mezzo di pressione sul governo, l’avventura fiumana
si prolungò per quindici mesi e si trasformò in un’inedita esperienza politica. A
Fiume, dove D’Annunzio istituì una provvisoria “reggenza”, furono sperimentati per
la prima volta formule e rituali collettivi – adunate coreografiche, dialoghi fra il capo e la folla – che sarebbero stati ripresi
e applicati su ben più larga scala dai movimenti autoritari degli anni ’20 e ’30.
L’Italia dopo la prima guerra mondiale
3.2. I partiti e le elezioni del 1919
La crisi della classe dirigente
In questa fase di crisi e di profonde trasformazioni, la classe dirigente liberale
si trovò sempre più contestata e isolata, non si mostrò in grado di dominare i fenomeni
di mobilitazione di massa che il conflitto mondiale aveva suscitato e finì così col
perdere l’egemonia indiscussa di cui aveva goduto fino ad allora. Risultarono invece
favorite quelle forze, socialiste e cattoliche, che si consideravano estranee alla
tradizione dello Stato liberale, che non erano compromesse con le responsabilità della
guerra e che, inquadrando larghe masse, potevano meglio interpretare le nuove dimensioni
assunte dalla lotta politica.
Il Partito popolare
Furono i cattolici a portare il primo e più importante fattore di novità, abbandonando la tradizionale
linea astensionistica e dando vita, nel gennaio 1919, a una nuova formazione politica
che prese il nome di Partito popolare italiano (Ppi). Il nuovo partito, che ebbe il suo padre riconosciuto e il suo primo segretario
in un sacerdote siciliano, don Luigi Sturzo, si presentava con un programma di impostazione democratica e, pur ispirandosi apertamente
alla dottrina sociale cattolica, si dichiarava non confessionale. In realtà, il Ppi
era strettamente legato alla Chiesa e alle sue strutture organizzative. La sua stessa
nascita era stata resa possibile dal nuovo atteggiamento assunto dopo la guerra dal
papa e dalle gerarchie ecclesiastiche, preoccupati di opporre un argine alla minaccia socialista. Nelle file del partito erano inoltre confluiti, accanto agli eredi della democrazia
cristiana e ai capi delle leghe bianche (spesso schierati su posizioni socialmente
molto avanzate), anche gli esponenti delle correnti clerico-moderate che avevano guidato
il movimento cattolico nell’anteguerra. Nonostante questi elementi contraddittori,
la nascita del partito rappresentò una svolta in positivo per la democrazia italiana,
la fine di un’anomalia che aveva accompagnato lo Stato unitario fin dalla nascita.
Il Psi e il massimalismo
L’altra grande novità nel panorama politico italiano fu la crescita impetuosa del
Partito socialista, dove si registrava la schiacciante prevalenza della corrente di sinistra, ora chiamata massimalista, su quella riformista, che conservava però una posizione di forza nel gruppo parlamentare
e nelle organizzazioni economiche. I massimalisti, che avevano il loro leader di maggior
spicco nel direttore dell’«Avanti!» Giacinto Menotti Serrati, si ponevano come obiettivo immediato l’instaurazione della repubblica socialista
fondata sulla dittatura del proletariato e si dichiaravano ammiratori entusiasti della
rivoluzione russa, ma avevano poco in comune con i bolscevichi. Più che preparare la rivoluzione,
la aspettavano, ritenendola comunque inevitabile.
Bordiga e Gramsci
In polemica con questa impostazione, si formarono nel Psi gruppi di estrema sinistra, composti per lo più da giovani, che si battevano per un più coerente impegno rivoluzionario
e per una più stretta adesione all’esempio dei bolscevichi russi. Fra questi gruppi
emergevano quello napoletano che faceva capo ad Amadeo Bordiga e quello che operava a Torino attorno ad Antonio Gramsci e alla rivista «L’Ordine Nuovo». Mentre Bordiga puntava soprattutto sulla creazione di un nuovo partito rivoluzionario
ricalcato sul modello bolscevico, Gramsci e gli altri “ordinovisti” (Togliatti, Terracini,
Tasca), che agivano a contatto coi nuclei operai più avanzati e combattivi d’Italia,
erano affascinati dall’esperienza dei soviet, visti come strumenti di lotta contro l’ordine borghese e al tempo stesso come embrioni
della società socialista.
Le illusioni rivoluzionarie
All’indomani della guerra, il grosso del Partito socialista era dunque schierato su
posizioni apertamente rivoluzionarie. Ma questa radicalizzazione finì con l’isolare il movimento operaio e col ridurne i margini di azione politica. Prospettando una soluzione “alla russa”,
i socialisti si preclusero ogni possibilità di collaborazione con le forze democratico-borghesi,
spaventate dalla minaccia della dittatura proletaria. Insistendo nella condanna indiscriminata
di tutto ciò che avesse a che fare col passato conflitto, e rifiutando in generale
ogni logica nazionale, ferirono il patriottismo della piccola borghesia e fornirono
argomenti all’oltranzismo nazionalista dei numerosi gruppi che si formarono nell’immediato
dopoguerra con lo scopo di difendere i “valori della vittoria”.
Mussolini e i Fasci di combattimento
Fra questi movimenti, per lo più destinati a vita breve, faceva spicco quello fondato
a Milano, il 23 marzo 1919, da Benito Mussolini [cfr. 1.4]: i Fasci di combattimento. Politicamente, il nuovo movimento si schierava a sinistra, chiedeva audaci riforme
sociali e si dichiarava favorevole alla repubblica; ma nel contempo ostentava un acceso
nazionalismo e una feroce avversione nei confronti dei socialisti. Ai suoi esordi, il fascismo raccolse solo scarse ed eterogenee adesioni (ex repubblicani,
ex sindacalisti rivoluzionari, ex Arditi di guerra), ma si fece subito notare per
il suo stile politico aggressivo e violento. I fascisti furono protagonisti del primo grave episodio di guerra civile dell’Italia
postbellica: lo scontro con un corteo socialista avvenuto a Milano il 15 aprile ’19
e conclusosi con l’incendio della sede dell’«Avanti!». Era il segno di un clima di violenza e di intolleranza destinato ad aggravarsi col
passare dei mesi.
Le elezioni del 1919
Le prime elezioni politiche del dopoguerra, che si tennero nel novembre 1919, mostrarono
la gravità delle fratture che attraversavano la società e il sistema politico. Furono queste
le prime elezioni tenute col nuovo metodo della rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista: metodo che prevedeva il confronto fra liste di partito, anziché
fra singoli candidati, e che, contrariamente al vecchio sistema del collegio uninominale,
assicurava alle forze politiche un numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti,
favorendo i gruppi organizzati su base nazionale. L’esito fu disastroso per la vecchia
classe dirigente. I gruppi liberal-democratici, che si erano presentati divisi alle elezioni, persero la maggioranza assoluta. I socialisti, che pure avevano adottato un programma rivoluzionario, ottennero un successo clamoroso
con 156 seggi (tre volte più che nel 1913). Il Partito popolare italiano (Ppi), con 100 deputati, si affermava come la principale novità politica del dopoguerra.
I due vincitori delle elezioni non potevano però coalizzarsi fra loro, dal momento
che il Psi massimalista rifiutava ogni collaborazione con i gruppi “borghesi”. L’unica
maggioranza possibile era quella basata sull’accordo fra popolarieliberal-democratici. Su questa precaria alleanza si fondarono gli ultimi governi dell’era liberale.
3.3. Il ritorno di Giolitti e l’occupazione delle fabbriche
Il programma di Giolitti
Indebolito dall’esito delle elezioni, il ministero Nitti sopravvisse fino al giugno
1920, quando a costituire il nuovo governo fu richiamato l’ormai quasi ottantenne
Giovanni Giolitti. Rimasto ai margini della vita politica negli anni della guerra,
Giolitti era rientrato in scena alla vigilia delle elezioni con un programma molto
avanzato, in cui si proponeva fra l’altro la nominatività dei titoli azionari (cioè l’obbligo di intestare le azioni al nome del possessore, permettendone così
la tassazione) e un’imposta straordinaria sui profitti realizzati dall’industria bellica. Le preoccupazioni che questo programma suscitava negli ambienti conservatori passarono
in secondo piano rispetto alla speranza che il vecchio statista riuscisse a domare
l’opposizione socialista con le arti del compromesso parlamentare.
Il trattato di Rapallo
In effetti, nei dodici mesi in cui tenne la guida dell’esecutivo, Giolitti diede prova
ancora una volta di abilità e di energia. I risultati più importanti li ottenne in
politica estera, imboccando l’unica strada praticabile per la soluzione della questione adriatica:
quella del negoziato diretto con la Jugoslavia. Il negoziato si concluse, il 12 novembre
1920, con la firma del trattato di Rapallo. L’Italia conservò Trieste, Gorizia e tutta l’Istria. La Jugoslavia ebbe la Dalmazia,
salvo la città di Zara che fu assegnata all’Italia. Fiume fu dichiarata città libera (sarebbe diventata italiana, grazie a un successivo accordo con la Jugoslavia, nel
1924). Il trattato fu accolto con generale favore dall’opinione pubblica e dalle forze
politiche. A Fiume, intanto, D’Annunzio annunciava una resistenza a oltranza; ma,
quando, il giorno di Natale del 1920, le truppe regolari attaccarono la città dalla
terra e dal mare, preferì abbandonare la partita.
I limiti del disegno giolittiano
Più serie furono le difficoltà incontrate da Giolitti sul terreno della politica interna,
in un periodo (il “biennio rosso” 1919-20) segnato in tutta Europa da lotte operaie
e agitazioni sindacali. Il governo impose, nonostante le proteste dei socialisti,
la liberalizzazione delprezzo del pane (tenuto artificialmente basso, a spese dell’erario, fin dagli anni della guerra)
e avviò così il risanamento del bilancio statale. Non riuscì invece a rendere operanti i progetti fiscali, che sarebbero poi stati
affossati dai successivi governi. Ma a fallire fu soprattutto il disegno politico
complessivo dello statista piemontese: disegno che consisteva nel ridimensionare le
spinte rivoluzionarie del movimento operaio accogliendone in parte le istanze di riforma,
nel ripetere insomma l’esperimento già tentato con qualche successo ai primi del secolo.
In realtà, quell’esperienza non era ripetibile: i liberali non avevano più la solida
maggioranza dell’anteguerra; i socialisti erano su posizioni molto diverse da quelle
di vent’anni prima; i popolari erano troppo forti per piegarsi al ruolo subalterno
cui Giolitti avrebbe voluto costringerli; il centro della politica si era ormai spostato
dal Parlamento ai partiti.
L’occupazione delle fabbriche
I conflitti sociali del “biennio rosso” italiano conobbero il loro episodio più drammatico nell’estate-autunno del ’20 con
l’agitazione degli operai metalmeccanici culminata nell’occupazione delle fabbriche. La vertenza vedeva contrapporsi gli
industriali del settore, nucleo di punta del mondo imprenditoriale, e i metalmeccanici,
una categoria operaia compatta e combattiva, guidata dal più forte fra i sindacati
aderenti alla Confederazione generale del lavoro (Cgl): la Federazione italiana operai
metallurgici (Fiom). A Torino e in altri centri industriali del Nord si era poi sviluppata, fuori dal
sindacato, l’esperienza dei consigli di fabbrica, ispirata al modello dei soviet e animata dal gruppo di giovani intellettuali che si riunivano attorno alla rivista
«L’Ordine Nuovo» [cfr. 3.2]. Fu la Fiom a dare inizio alla vertenza, presentando una serie di richieste economiche e normative, cui gli industriali opposero un netto rifiuto. Alla fine di agosto, in risposta
alla chiusura degli stabilimenti attuata da un’industria milanese, la Fiom ordinò ai lavoratori di occupare le fabbriche.
Nei primi giorni di settembre, 400 mila operai occuparono gli stabilimenti metallurgici
e meccanici del Nord, issarono le bandiere rosse sui tetti delle officine e organizzarono
servizi armati di vigilanza (le “guardie rosse”).
Le attese rivoluzionarie e il compromesso sindacale
Molti lavoratori in lotta vissero questa esperienza come l’inizio di un moto rivoluzionario
destinato a estendersi a tutto il paese. In realtà il movimento non era in grado di uscire dalle fabbriche e di porsi in modo concreto il problema del potere. Prevalse invece la linea dei dirigenti
della Cgl, che intendevano riportare la vertenza nei binari di una lotta sindacale.
Tale esito fu favorito dall’iniziativa mediatrice di Giolitti, che si attenne a una linea di rigorosa neutralità fra sindacato e industriali, resistendo alle pressioni del padronato per un intervento
della forza pubblica contro le fabbriche occupate. Si giunse così a un accordo che accoglieva nella sostanza le richieste economiche della Fiom e affidava a una
commissione paritetica l’incarico di elaborare un progetto (che peraltro non avrebbe
mai trovato attuazione pratica) per la partecipazione dei sindacati al controllo delle aziende. Sul piano sindacale, gli operai uscivano vincitori dallo scontro. Ma diffuso era
anche il senso di delusione rispetto alle attese maturate nei giorni dell’occupazione.
D’altro canto, gli industriali non nascondevano la loro irritazione per aver dovuto
subire le pressioni del governo. E la borghesia tutta, passata la “grande paura” della rivoluzione, si apprestava a sfruttare ogni occasione di rivincita.
La nascita del Partito comunista
Le polemiche interne al movimento operaio si intrecciarono con le fratture provocate
dal II congresso del Comintern, dove erano state fissate le condizioni per l’ammissione
all’Internazionale comunista [cfr. 2.4]. Serrati e i massimalisti rifiutarono queste condizioni. Così al congresso del Psi,
che si tenne a Livorno nel gennaio 1921, i riformisti non vennero espulsi e fu invece la minoranza di sinistra guidata da
Bordiga ad abbandonare il Psi per formare il Partito comunista d’Italia. Il nuovo partito nasceva con una base piuttosto ristretta e con un programma rigorosamente leninista, proprio nel momento in cui la prospettiva rivoluzionaria andava svanendo in tutta
Europa [cfr. 2.6]. L’occupazione delle fabbriche e la scissione di Livorno segnarono la fine del “biennio rosso” in Italia. Provato da due anni di lotte e indebolito dalle divisioni interne, il movimento
operaio cominciò ad accusare i colpi della crisi che stava investendo l’economia italiana.
In questo quadro, in larga parte comune a tutta l’Europa, si inserì un fenomeno che
invece non aveva riscontro in nessun altro paese: lo sviluppo improvviso del movimento
fascista.
3.4. L’offensiva fascista
Il fascismo agrario
Fino all’autunno del ’20, il fascismo aveva svolto un ruolo marginale nella politica
italiana: nelle elezioni del 1919 le liste dei Fasci ottennero poche migliaia di voti
e nessun deputato. Tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, il movimento subì però
un rapido processo di mutazione che lo portò ad accantonare l’originario programma
radical-democratico, a organizzare formazioni paramilitari – le squadre d’azione – e a condurre una lotta spietata contro il movimento socialista, in particolare contro le organizzazioni contadine della Val Padana. Questa trasformazione
da piccolo movimento di ceti medi urbani a partito armato radicato nelle campagne (per questo si parlò di “fascismo agrario”) si spiega in parte con la scelta di Mussolini di assecondare l’ondata antisocialista seguita al “biennio rosso”; in parte con la particolare situazione delle campagne
padane, dove lo squadrismo fascista si sviluppò e dove più forte era la presenza delle
leghe rosse.
Il sistema delle leghe
In due anni di lotte aspre e quasi sempre vittoriose, le leghe di molte province padane
non solo avevano ottenuto notevoli miglioramenti salariali, ma avevano creato un “sistema”
apparentemente inattaccabile: attraverso i loro uffici di collocamento, controllavano
il mercato del lavoro, contrattando con i proprietari il numero di giornate lavorative
necessarie alla coltivazione di un fondo e distribuendone il carico fra i propri associati.
I socialisti disponevano inoltre di una fitta rete di cooperative e avevano in mano
buona parte delle amministrazioni comunali. Il sistema non era privo di aspetti autoritari
(chi si sottraeva alla disciplina della lega veniva boicottato, in pratica bandito
dalla comunità) e celava al suo interno non poche contraddizioni: prima fra tutte
il contrasto fra la strategia delle organizzazioni socialiste – che privilegiavano
il ruolo dei braccianti senza terra e indicavano come obiettivo finale la socializzazione
– e gli interessi delle categorie intermedie, ossia dei mezzadri, dei piccoli affittuari, dei salariati fissi stabilmente impiegati
nell’azienda agraria, che aspiravano a distinguere la loro posizione da quella dei
lavoratori giornalieri e a trasformarsi in proprietari.
I fatti di Palazzo d’Accursio
Fu l’offensiva fascista ad aprire le prime brecce nell’edificio delle organizzazioni
rosse. Il 21 novembre 1920 a Bologna gli squadristi si mobilitarono per impedire la cerimonia d’insediamento della nuova
amministrazione comunale socialista. Vi furono scontri e sparatorie dentro e fuori
il municipio. Per un tragico errore i socialisti incaricati di difendere il Palazzo d’Accursio, sede del comune, gettarono bombe a mano sulla folla, composta in gran parte dai
loro stessi sostenitori, provocando una decina di morti. Da ciò i fascisti trassero
pretesto per scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste in tutta la provincia.
Episodi analoghi si verificarono un mese dopo a Ferrara, dopo l’uccisione di tre fascisti.
In entrambi i casi i socialisti furono colti di sorpresa e non riuscirono a organizzare
reazioni adeguate. La loro incertezza e la loro vulnerabilità accrebbero l’audacia
degli avversari.
Lo squadrismo
I proprietari terrieri scoprirono allora nei Fasci lo strumento capace di abbattere il potere delle leghe e cominciarono a sovvenzionarli generosamente. Il movimento fascista vide affluire
nelle sue file nuove reclute: ex ufficiali e soldati reduci della Grande Guerra (tra cui numerosi ex Arditi, cfr. 1.6), che faticavano a reinserirsi nella vita civile; ma anche figli della piccola borghesia alla ricerca di nuovi canali di promozione sociale e di affermazione politica; giovani
e giovanissimi che non avevano fatto in tempo a partecipare alla guerra e che trovavano
l’occasione per combattere una loro battaglia contro quelli che consideravano nemici
della patria. Nel giro di pochi mesi, il fenomeno dello squadrismo dilagò in tutte le province padane, estendendosi anche ad altre zone del Centro-Nord,
mentre pressoché immune dal contagio fascista rimaneva il Mezzogiorno, con l’eccezione
della Puglia dove esisteva una fitta rete di leghe socialiste.
L’offensiva ebbe ovunque le stesse caratteristiche. Le squadre d’azione, inquadrate militarmente,
partivano in genere dalle città e si spostavano in camion per le campagne, verso i
centri rurali. Obiettivo delle spedizioni erano non solo le sedi delle amministrazioni locali e delle rappresentanze sindacali socialiste – i municipi, le Camere del lavoro, le leghe, le Case del popolo –, che vennero sistematicamente
devastate e incendiate, ma le persone stesse, dirigenti e militanti socialisti, sottoposti a ripetute violenze, in qualche caso uccisi e spesso costretti a lasciare
il loro paese. Le amministrazioni locali “rosse” della Val Padana furono in buona
parte costrette a dimettersi. Centinaia di leghe furono sciolte e molti dei loro aderenti
passarono, per scelta o per costrizione, alle nuove organizzazioni costituite dagli
stessi fascisti, che promettevano di incoraggiare la formazione della piccola proprietà.
I fattori del successo
Il successo dell’offensiva fascista non può spiegarsi solo con fattori di ordine “militare”;
né può essere imputato interamente agli errori dei socialisti, che pure furono molti
e di non poco conto: primo fra tutti quello di ferire i sentimenti patriottici dei
ceti medi e di spaventarli con la promessa di una prossima e cruenta resa dei conti
rivoluzionaria. In realtà il movimento operaio, nel 1921-22, si trovò a combattere
una lotta impari contro un nemico che poteva giovarsi della benevola neutralità, o addirittura dell’aperto sostegno, di buona parte della classe dirigente e degli apparati statali. Raramente la forza pubblica, portata a vedere nei fascisti dei naturali alleati
nella lotta contro i “rossi”, si oppose con efficacia alle azioni squadristiche. La
stessa magistratura adottò nei loro confronti criteri ben diversi da quelli usati contro i sovversivi
di sinistra. Ma pesanti furono anche le responsabilità del governo. Giolitti infatti, pur evitando di favorire apertamente lo squadrismo, pensò di servirsi
del movimento fascista per ridurre a più miti pretese i socialisti (e gli stessi popolari)
e di poterlo in seguito assorbire nella maggioranza liberale.
3.5. Mussolini alla conquista del potere
Le elezioni del 1921
Nelle elezioni del maggio 1921 il disegno di Giolitti si concretizzò con l’ingresso
di candidati fascisti nei cosiddetti blocchi nazionali, cioè nelle liste di coalizione in cui i gruppi “costituzionali” (conservatori, liberali,
democratici) si unirono per impedire una nuova affermazione dei partiti di massa.
I fascisti ottenevano così una legittimazione da parte della classe dirigente, senza per questo dover rinunciare ai metodi illegali tipici dello squadrismo. Anzi, la campagna elettorale fornì loro lo spunto per intensificare
intimidazioni e violenze contro gli avversari. Ciononostante, i risultati delle urne
delusero chi aveva voluto le elezioni. I socialisti subirono una limitata flessione.
I popolari addirittura si rafforzarono. I gruppi liberal-democratici migliorarono
le loro posizioni, ma non tanto da riacquistare il completo controllo del Parlamento.
In definitiva, la maggior novità fu costituita dall’ingresso alla Camera di 35 deputati fascisti, capeggiati da un Mussolini deciso a giocare il ruolo di nuovo arbitro della politica
nazionale.
Il patto di pacificazione
L’esito delle elezioni di maggio mise praticamente fine all’ultimo esperimento governativo
di Giolitti, che si dimise all’inizio di luglio. Il suo successore, l’ex socialista
Ivanoe Bonomi, tentò di far uscire il paese dalla guerra civile favorendo una tregua d’armi fra
le due parti in lotta. Nell’agosto 1921, fu in effetti firmato un patto di pacificazionetra socialisti e fascisti con cui le due parti si impegnavano a rinunciare alla violenza e a sciogliere le
loro formazioni armate: i socialisti, in particolare, accettavano di sconfessare le
formazioni degli “Arditi del popolo”, ossia quei gruppi di militanti che si erano
formati spontaneamente in alcune città per contrastare lo squadrismo fascista. Il
patto rientrava in quel momento nella strategia di Mussolini, che mirava a inserirsi
nel gioco politico “ufficiale” e temeva il diffondersi di una reazione popolare contro
lo squadrismo. Questa strategia non era però condivisa dai fascisti intransigenti, che si riconoscevano nello squadrismo agrario e nei suoi capi locali, i cosiddetti
ras. I ras (Grandi a Bologna, Farinacci a Cremona, Balbo a Ferrara, per citare solo i più noti)
sabotarono in ogni modo il patto di pacificazione e giunsero a mettere in discussione
l’autorità di Mussolini.
La nascita del Pnf
La ricomposizione si ebbe al congresso dei Fasci tenutosi a Roma ai primi di novembre. Mussolini si rese conto di non poter fare a
meno della massa d’urto dello squadrismo agrario e sconfessò il patto di pacificazione
(che del resto non aveva mai funzionato sul serio). I ras riconobbero la guida politica di Mussolini e accettarono la trasformazione del movimento
fascista in un vero e proprio partito, cosa che avrebbe limitato non poco la loro
libertà d’azione. Nasceva così il Partito nazionale fascista(Pnf), che poteva contare su una base di oltre 200 mila iscritti, in gran parte nelle regioni
del Centro-Nord.
L’agonia dello Stato liberale
Il ministero Bonomi cadde nel febbraio del 1922. Alla guida del governo fu allora
chiamato Luigi Facta, un giolittiano di scarsa autorevolezza. Il governo non mise alcun freno alla violenza
fascista che si rese protagonista di operazioni sempre più ampie e clamorose: scorrerie
che coinvolgevano intere province, occupazione in armi di grandi centri, come Ferrara,
Bologna e Cremona. All’inizio di agosto, in risposta alla decisione dei dirigenti
sindacali di proclamare uno sciopero generalelegalitario in difesa delle libertà costituzionali, i fascisti lanciarono una nuova e più violenta
offensiva. Il movimento operaio non seppe opporre all’attacco squadrista né una mobilitazione
di massa né un’iniziativa politica volta ad appoggiare, come chiedevano i riformisti,
un governo capace di far rispettare la legge. L’unica conseguenza dei dissensi all’interno
del partito fu una nuova e ormai inutile scissione. Ai primi di ottobre del 1922 – poche settimane prima che il fascismo andasse al
potere –, in un congresso tenuto a Roma, i riformisti guidati da Turati abbandonarono il Psi per fondare il nuovo Partito socialista unitario (Psu).
Il doppio gioco di Mussolini
Sconfitto il movimento operaio, il fascismo doveva porsi il problema della conquista
dello Stato. Solo insediandosi al potere il partito avrebbe potuto andare incontro
alle aspettative delle masse ormai ingenti che si raccoglievano nelle sue file ed
evitare il pericolo di una reazione di rigetto da parte di quelle forze moderate che,
avendo appoggiato lo squadrismo in funzione antisocialista, avrebbero potuto ritenerne
ormai esaurito il ruolo. In questa delicata fase Mussolini giocò, come al solito,
su due tavoli. Da un lato intrecciò trattative con tutti i più autorevoli esponenti liberali in vista della partecipazione fascista a un nuovo governo; rassicurò la monarchia sconfessando le passate simpatie repubblicane; si guadagnò il favore degli industriali annunciando di voler restituire spazio all’iniziativa privata. Dall’altro lasciò
che l’apparato militare del fascismo si preparasse apertamente alla presa del potere
mediante un colpo di Stato.
La marcia su Roma
Prese così corpo il progetto di una marcia su Roma, ossia di una mobilitazione generale di tutte le forze fasciste, con obiettivo la conquista del potere centrale. Un piano del genere non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se avesse incontrato
una ferma reazione da parte delle autorità. Per quanto agguerrite, le squadre fasciste
erano pur sempre delle bande indisciplinate ed equipaggiate in modo approssimativo,
non certo in grado di affrontare uno scontro con l’esercito regolare. Ne era consapevole
lo stesso Mussolini, che contava soprattutto sulla debolezza del governo e sulla benevola neutralità della monarchia. In effetti, nel generale disfacimento dei poteri statali, decisivo fu l’atteggiamento
del re. Spaventato dalla prospettiva di una guerra civile, Vittorio Emanuele III rifiutò,
la mattina del 28 ottobre 1922, il giorno fissato per la marcia fascista sulla capitale, di firmare il decreto per
la proclamazione dello stato d’assedio (cioè per il passaggio dei poteri alle autorità militari), che era stato preparato
in tutta fretta dal governo Facta, già dimissionario.
Il governo Mussolini
Il rifiuto del re aprì alle camicie nere (così venivano chiamati gli squadristi per
via della loro divisa) la strada per la capitale e al loro capo la via del potere:
forte della resa ottenuta, Mussolini non si accontentò della soluzione auspicata dal
re e dagli ambienti moderati (partecipazione fascista a un governo guidato da un esponente
conservatore), ma chiese e ottenne di essere chiamato lui stesso a presiedere il governo. La mattina del 30 ottobre 1922, mentre gli squadristi entravano nella capitale senza
incontrare alcuna resistenza da parte della forza pubblica, Mussolini fu ricevuto
dal re. La sera stessa il nuovo ministero era già pronto. Ne facevano parte, oltre
ai fascisti, esponenti di tutti i gruppi che avevano partecipato ai precedenti governi:
liberali giolittiani, liberali di destra, democratici e popolari.
Cambio di governo o nuovo regime?
La crisi si era dunque risolta in modo quanto meno ambiguo. I fascisti gridarono al
trionfo e si convinsero di aver attuato una rivoluzione che in realtà era stata soltanto
simulata. I moderati si rallegrarono perché la legalità costituzionale, violata nei
fatti, era stata rispettata almeno nelle forme. I rivoluzionari (socialisti massimalisti
e comunisti) si illusero che nulla fosse cambiato nella sostanza, dal momento che
ai loro occhi ogni governo borghese era espressione della stessa dittatura di classe.
Il paese nel suo complesso seguì gli eventi con un misto di indifferenza e di rassegnazione.
Pochi capirono che il sistema liberale aveva ricevuto un colpo mortale e che il cambio
di governo sarebbe presto diventato un cambio di regime.
3.6. Verso il regime
Il Gran consiglio e la Milizia
Salito al potere con una finta rivoluzione, Mussolini, con 35 deputati (meno del 7%
dei seggi), non disponeva di una sua maggioranza alla Camera. Riuscì ugualmente a
consolidare il suo potere grazie anche al sostegno delle forze moderate, liberali e cattoliche (i cosiddetti “fiancheggiatori”),
che facevano parte della maggioranza di governo e che continuarono a garantire il
loro appoggio in Parlamento anche quando fu chiaro che il Partito fascista intendeva
assumere un ruolo incompatibile con i princìpi basilari dello Stato liberale. Nel
dicembre 1922 fu istituito il Gran consiglio del fascismo, che aveva il compito di indicare le linee generali della politica fascista e di
servire da raccordo fra partito e governo. Nel gennaio 1923 le squadre fasciste vennero
inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale: un corpo armato di partito che aveva come scopo dichiarato quello di «proteggere
gli inesorabili sviluppi della rivoluzione», ma che, nelle intenzioni di Mussolini,
doveva anche disciplinare lo squadrismo e limitare il potere dei ras.
L’istituzionalizzazione della Milizia non servì peraltro a far cessare le violenze
illegali contro gli oppositori, alle quali ora si sommava la repressione “legale” condotta dalla magistratura e dagli organi di polizia mediante sequestri di giornali,
scioglimenti di amministrazioni locali, arresti preventivi di militanti. Levittime principali furono i comunisti, costretti già dal 1923 a una sorta di semiclandestinità. Le conseguenze di questa
azione combinata su quel che restava delle organizzazioni del movimento operaio furono
disastrose. Il numero degli scioperi, già in rapido calo a partire dal ’21, scese
nel ’23 a livelli insignificanti. I salari reali subirono una costante riduzione,
riavvicinandosi ai livelli dell’anteguerra.
La ripresa economica
La compressione dei salari era del resto una componente importante della politica
economica del governo che, fedele alle promesse della vigilia, mirò soprattutto a
restituire libertà d’azione e margini di profitto all’iniziativa privata. Fu alleggerito il carico fiscale sulle imprese, privatizzato il servizio telefonico
e contenuta la spesa statale con un energico sfoltimento dei dipendenti pubblici (vennero
colpiti soprattutto i ferrovieri, una delle categorie più sindacalizzate). Sul piano
economico e finanziario, la politica liberista ottenne discreti successi: fra il ’22 e il ’25 vi fu un notevole aumento della produzione
e il bilancio dello Stato tornò in pareggio. Il risultato era in buona parte dovuto
all’opera degli ultimi ministeri liberali, ma valse ugualmente a rafforzare il governo
e a rinsaldare i legami fra potere economico e fascismo.
Chiesa e istruzione
Un altro sostegno decisivo Mussolini lo ebbe dalla Chiesa cattolica in cui, dopo l’elezione
del nuovo papa Pio XI nel febbraio 1922, stavano riprendendo il sopravvento le tendenze più conservatrici.
Per molti cattolici il fascismo, al di là dei suoi orientamenti ideologici, aveva
il merito di aver allontanato il pericolo di una rivoluzione socialista. Dal canto
suo Mussolini, abbandonati i toni anticlericali del primo fascismo, si mostrò disposto
a importanti concessioni. La riforma scolastica varata nella primavera del 1923 dall’allora ministro della Pubblica Istruzione, il
filosofo Giovanni Gentile, prevedeva l’insegnamento della religione nelle scuole elementari e l’introduzione di un esame di Stato al termine di ogni ciclo di studi: una misura da tempo richiesta dai cattolici, in
quanto metteva sullo stesso piano scuole pubbliche e private. La prima vittima dell’avvicinamento
fra Chiesa e fascismo fu il Partito popolare, considerato ormai dalle gerarchie ecclesiastiche
un ostacolo sulla via del miglioramento dei rapporti con lo Stato. Nell’aprile 1923
Mussolini impose le dimissionidei ministri popolari dal suo governo. Poco dopo, don Sturzo, sotto le pressioni del Vaticano, lasciò la
segreteria del Ppi.
La nuova legge elettorale
Liberatosi del più scomodo fra i suoi alleati, Mussolini aveva il problema di crearsi
una sua maggioranza parlamentare, affermando al tempo stesso la posizione di preminenza
del fascismo. Fu questo lo scopo della nuova legge elettorale maggioritaria, varata nell’estate del 1923 col voto favorevole di buona parte dei liberali e dei
cattolici di destra. La legge Acerbo (così chiamata dal nome dell’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio)
avvantaggiava vistosamente la lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa (con
almeno il 25% dei voti), assegnandole i due terzi dei seggi disponibili. Quando, all’inizio
del 1924, la Camera fu sciolta, molti esponenti liberali (compresi Orlando e Salandra)
e alcuni cattolici conservatori accettarono di candidarsi assieme ai fascisti nelle
“liste nazionali” presentate in tutti i collegi col simbolo del fascio. Le forze antifasciste erano invece profondamente divise. I socialisti, i comunisti, i popolari, i liberali di opposizione guidati da Giovanni
Amendola e gli altri partiti minori si presentarono ciascuno con proprie liste: il
che significava condannarsi a sicura sconfitta.
Le elezioni del ’24
Nonostante questo vantaggio iniziale, i fascisti non rinunciarono alla violenza contro
gli avversari, sia durante la campagna elettorale sia nel corso delle votazioni, che
ebbero luogo il 6 aprile 1924. La scontata vittoria fascista assunse così proporzioni
clamorose, tanto da rendere inutile il meccanismo della legge maggioritaria: le “liste
nazionali”, infatti, ottennero il 65% dei voti e più di tre quarti dei seggi. Il successo fu massiccio soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole, cioè nelle regioni
in cui il fascismo aveva minori radici, ma si era rapidamente imposto grazie all’adesione
dei notabili moderati e delle loro clientele.
Il delitto Matteotti
Poco più di due mesi dopo le elezioni, un evento tragico e inatteso intervenne a mutare
bruscamente lo scenario. Il 10 giugno 1924, il deputato socialista Giacomo Matteottifu rapito a Roma da un gruppo di squadristi, caricato a forza su un’auto e ucciso a pugnalate. Il suo cadavere, abbandonato in una macchia boscosa a pochi chilometri dalla capitale,
sarebbe stato trovato solo due mesi dopo. Dieci giorni prima di essere ucciso, Matteotti
aveva pronunciato alla Camera una durissima requisitoria contro il fascismo, denunciandone
le violenze e contestando la validità dei risultati elettorali. Era dunque naturale
che la sua scomparsa suscitasse nell’opinione pubblica, pur assuefatta alla violenza
politica, un’ondata di indignazione contro il fascismo e il suo capo. Sebbene gli esecutori materiali del crimine fossero stati subito individuati e arrestati,
né allora né in seguito si poterono individuare con certezza i mandanti diretti. Il
paese capì tuttavia che il delitto era il risultato di una pratica ormai consolidata
di violenze e di impunità, di cui Mussolini e i suoi seguaci portavano intera la responsabilità.
Il fascismo, che fino a pochi giorni prima era parso inattaccabile, si trovò improvvisamente
isolato.
L’Aventino
Ma l’opposizione, drasticamente ridimensionata dalle elezioni, non aveva la possibilità
di mettere in minoranza il governo, né d’altra parte era in grado di affrontare una
prova di forza sul piano della mobilitazione di piazza. L’unica iniziativa concreta
presa dai gruppi antifascisti fu quella di astenersi dai dibattiti nelle aule parlamentari e di riunirsi separatamente
finché non fosse stata ripristinata la legalità democratica. La secessione dell’Aventino,come fu definita in riferimento a un episodio della storia romana (la plebe che si
ritira sul colle Aventino per protestare contro i patrizi), aveva un indubbio significato ideale, ma era di per sé priva di qualsiasi efficacia pratica. I partiti “aventiniani” si
limitarono infatti ad agitare di fronte all’opinione pubblica una “questione morale”, sperando in un intervento della Corona o in uno sfaldamento della maggioranza fascista.
Ma il re non intervenne. E i fiancheggiatori non tolsero l’appoggio al governo.
Il discorso del 3 gennaio
Nel giro di pochi mesi l’ondata antifascista rifluì. E Mussolini, premuto dall’ala
intransigente del fascismo, decise di contrattaccare. Il 3 gennaio 1925, in un discorso
alla Camera, il capo del governo ruppe ogni cautela legalitaria, assumendosi la «responsabilità politica, morale e storica» di tutto quanto era avvenuto e minacciando apertamente di usare la forza contro le
opposizioni. Nei giorni successivi, una raffica di arresti, perquisizioni e sequestri
si abbatté sui partiti d’opposizione e sui loro organi di stampa. Anziché provocare
la fine dell’avventura fascista, la crisi Matteotti aveva determinato la disfatta
dei partiti democratici e accelerato il passaggio a una vera e propria dittatura. A questo punto non restava spazio per equivoci e compromessi. La scelta era tra fascismo e antifascismo, tra dittatura e libertà. Molti politici e uomini di cultura che avevano fino ad allora mantenuto nei confronti
del fascismo un atteggiamento di benevola neutralità sentirono la necessità di prendere
posizione. A un Manifesto degli intellettuali fascisti diffuso nell’aprile ’25 per iniziativa di Giovanni Gentile, gli antifascisti risposero con un “contromanifesto” redatto da Benedetto Croce, che rivendicava i diritti di libertà ereditati dalla tradizione risorgimentale.
3.7. La dittatura a viso aperto
Repressione e fascistizzazione
Fra il 1925 e il 1926, con la chiusura di ogni residuo spazio di libertà politica
e sindacale, giunse a compimento il processo di fascistizzazione dello Stato. Molti
esponenti antifascisti furono costretti a prendere la via dell’esilio. Giovanni Amendola morì in Francia nell’estate del ’26 dopo aver subìto un’aggressione squadrista. Sempre
in Francia era morto pochi mesi prima il giovane liberale di sinistra Piero Gobetti che era stato, con la sua rivista «La Rivoluzione liberale», uno degli animatori
del dibattito politico fra il ’22 e il ’24. Gli organi di stampa dei partiti antifascisti
furono messi nell’impossibilità di funzionare. I grandi quotidiani di informazione,
che avevano assunto una linea critica verso il governo dopo il delitto Matteotti,
furono “fascistizzati” mediante pressioni sui proprietari che licenziarono i direttori
antifascisti. Nell’ottobre ’25, il sindacalismo libero venne neutralizzato dal patto di Palazzo Vidoni, con cui la Confindustria si impegnava a riconoscere la rappresentanza dei lavoratori
ai soli sindacati fascisti.
La fine dello Stato liberale
Eliminate o ridotte al silenzio le voci d’opposizione, il fascismo non si accontentò
più di esercitare una dittatura di fatto, ma procedette alla formulazione di nuove leggi destinate a stravolgere definitivamente i connotati dello Stato liberale. La nuova
legislazione ebbe il suo maggior artefice nel ministro della Giustizia, il giurista
Alfredo Rocco, proveniente dalle file del movimento nazionalista che si era fuso col fascismo nel
1923.
La prima importante legge costituzionale del regime fu quella del dicembre 1925 che
rafforzava i poteri del capo del governo sia rispetto agli altri ministri sia rispetto al Parlamento.
Seguì, nel febbraio ’26, una riforma delle amministrazioni locali che aboliva l’elettività dei sindaci e dei consigli comunali. Nell’aprile ’26, una
legge sindacale proibì lo sciopero e stabilì che solo i sindacati “legalmente riconosciuti” (cioè
quelli fascisti) avevano il diritto di stipulare contratti collettivi.
Le leggi fascistissime
Nel novembre ’26, all’indomani di un fallito attentato alla vita di Mussolini, i «provvedimenti per la difesa dello Stato»– in realtà una raffica di misure repressive – cancellarono le ultime tracce di vita
democratica: furono sciolti tutti i partiti antifascisti e soppresse tutte le pubblicazioni
contrarie al regime; furono dichiarati decaduti dal mandato i deputati aventiniani;
fu reintrodotta la pena di morte per i colpevoli di reati “contro la sicurezza dello
Stato”; fu istituito, per giudicare questi reati, un Tribunale speciale composto non da giudici ordinari, ma da ufficiali delle forze armate e della Milizia.
La costruzione del regime sarebbe stata completata nel 1928 con due provvedimenti:
la nuova legge elettorale che introduceva il sistema della lista unica (con tanti candidati quanti erano i seggi da occupare) e lasciava agli elettori solo
la scelta se approvarla o respingerla in blocco; e la “costituzionalizzazione” del Gran consiglio che diventò un organo dello Stato, dotato di prerogative molto importanti, fra cui
quella di preparare le liste elettorali. Ma già le leggi “fascistissime” del novembre
’26 avevano messo fine allo Stato liberale nato con l’Unità d’Italia e avevano dato
vita a un nuovo regime: un regime a partito unico, in cui era stata abolita la separazione dei poteri e tutte le decisioni importanti erano concentrate nelle mani di un solo uomo.
3.8. I regimi autoritari negli anni ’20
Il successo del fascismo in Italia non fu un caso isolato. Già nel corso degli anni
’20, il regime mussoliniano rappresentò per molti paesi un possibile modello, alternativo a quello democratico-liberale. Nelle stesse democrazie occidentali non pochi guardarono a quel modello come a una
soluzione praticabile in quei paesi in cui le istituzioni rappresentative non poggiavano
su una solida base di cultura e di tradizione liberale, scontando invece il peso preponderante
dei militari, dell’aristocrazia terriera e delle Chiese.
L’Europa centro-orientale
Il primo paese a sperimentare, prima ancora dell’avvento del fascismo, un autoritarismo
di questo tipo fu l’Ungheria dell’ammiraglio Miklós Horthy [cfr. 2.4], ex comandante della marina asburgica divenuto nel 1920 “reggente” in attesa di
una futura (e mai attuata) restaurazione monarchica: il regime rappresentativo sopravvisse
solo formalmente e le libertà politiche e sindacali furono fortemente limitate. Un
altro regime semidittatoriale si affermò in Polonia nel 1926, quando l’ex socialista Józef Pisudski guidò una “marcia su Varsavia” e modificò la Costituzione in senso
autoritario. Anche in Austria le tensioni fra il Partito cristiano-sociale al potere e l’opposizione socialdemocratica
portarono, nella seconda metà degli anni ’20, a una netta involuzione autoritaria.
Nel 1934, il cancelliere Engelbert Dollfuss, dopo aver represso sanguinosamente una
rivolta operaia scoppiata nella capitale (la Comune di Vienna), avrebbe messo fuori legge il Partito socialdemocratico e varato una nuova Costituzione di ispirazione clericale e corporativa.
Gli Stati balcanici
Non meno agitate furono negli anni ’20 le vicende degli Stati balcanici. In Grecia il regime repubblicano nato nel ’24 non riuscì a funzionare regolarmente per i continui
interventi dei militari e per la ricorrente minaccia dei gruppi monarchici che, nel
’35, avrebbero riportato sul trono la dinastia regnante. In Bulgaria l’esperimento democratico attuato dal primo ministro Stambolijski, leader del Partito
dei contadini e promotore di un’ampia riforma agraria, fu interrotto nel ’23 da un
colpo di Stato militare. Un caso a parte era rappresentato dalla Jugoslavia, dove la scena politica era dominata dal contrasto fra i diversi gruppi etnici. Per
domare la protesta dei croati, che si sentivano oppressi dal centralismo serbo, il
re Alessandro I attuò nel 1929 un colpo di Stato, col risultato di aggravare le tensioni e di spingere
il movimento separatista croato (gli ustascia) sulla via del terrorismo.
Spagna e Portogallo
Nel complesso si trattava di regimi autoritari di tipo tradizionale, sostenuti dall’esercito
e dai gruppi conservatori, e privi di una base di massa, molto simili a quelli che
nello stesso periodo si affermarono in un’altra area geografica, anch’essa afflitta
da grave arretratezza economica e da profonde disuguaglianze sociali: la penisola
iberica. In Spagna, un colpo di Stato fu attuato nel 1923 dal generale Miguel Primo de Rivera, con l’appoggio del sovrano Alfonso XIII. Nel 1930, dopo sette anni di governo semidittatoriale,
Primo de Rivera fu costretto a dimettersi di fronte a una massiccia ondata di proteste
popolari. Nelle elezioni amministrative del 1931 i partiti democratici e repubblicani
ottennero un larghissimo successo, che indusse il re a lasciare il paese. Si formò
così una Repubblica, destinata anch’essa – come si vedrà in seguito – a vita breve
e travagliata. Anche in Portogallo furono i militari a interrompere, nel 1926, l’esperienza di una fragile democrazia
parlamentare. Ma fu un economista cattolico, António de Oliveira Salazar (ministro delle Finanze dal ’28, presidente del Consiglio dal ’32), ad assumere il
ruolo di ispiratore e guida di un regime autoritario, clericale e corporativo che
sarebbe rimasto in vita per quasi mezzo secolo.
Sommario
L’Italia del dopoguerra era un paese inquieto attraversato da problemi politici e
tensioni sociali. Le tensioni sociali erano alimentate prima di tutto dal caroviveri,
che fu all’origine di una serie di tumulti di piazza, mentre le industrie erano investite
da una ondata di scioperi volti ad ottenere aumenti salariali. A questo si aggiunse
la questione della cosiddetta “vittoria mutilata”, ovvero l’insoddisfazione di una
parte dell’opinione pubblica per il trattamento riservato all’Italia nella conferenza
di pace. Clamorosa fu la protesta attuata da D’Annunzio con l’occupazione della città
di Fiume (settembre 1919), a maggioranza italiana, la cui assegnazione non era però
prevista dal patto di Londra.
In Italia i problemi del dopoguerra furono aggravati dalla crisi della classe dirigente
liberale. I cattolici abbandonarono la linea astensionistica e diedero vita a una
nuova formazione politica, il Partito popolare (1919), guidata da Luigi Sturzo e ispirata
a un programma democratico. I socialisti, invece, conquistarono moltissimi nuovi consensi
ma non riuscirono a superare le divisioni interne al partito, dove continuavano a
essere prevalenti le correnti rivoluzionarie. Questa connotazione contribuì ad alimentare le paure dei ceti medi e creò un terreno
favorevole alla nascita di movimenti di ispirazione nazionalista, come i Fasci di
combattimento, fondati da Benito Mussolini nel 1919, con un programma che coniugava
un audace riformismo con un nazionalismo aggressivo. Le elezioni del novembre 1919,
tenute col sistema proporzionale, segnarono la sconfitta delle forze liberali di governo
e il successo clamoroso del Partito socialista e del Partito popolare.
Nel giugno 1920 Giolitti tornò al potere, con un governo di coalizione formato da
popolari e liberal-democratici. Risolta la questione fiumana con il trattato di Rapallo
(che assegnava l’Istria all’Italia, la Dalmazia, eccetto Zara, alla Jugoslavia e proclamava
Fiume città libera), Giolitti dovette affrontare gravi problemi di politica interna,
come l’agitazione dei metalmeccanici, che rappresentò il momento più critico del “biennio
rosso” italiano. Nell’estate-autunno del ’20 la vertenza culminò nella occupazione
delle fabbriche che coinvolse 400 mila operai, prefigurando l’inizio di un moto rivoluzionario
destinato a estendersi a tutto il paese. In realtà prevalse la linea dei sindacati,
che videro accontentate le loro richieste economiche. Questa conclusione – fortemente voluta da Giolitti – risultò deludente per chi aveva sperato nella rivoluzione
e accentuò le divisioni nel movimento socialista che avrebbero portato, nel congresso
di Livorno del gennaio 1921, alla scissione dell’ala più vicina alla Terza Internazionale
e alla nascita del Partito comunista.
Dalla fine del ’20, le squadre d’azione fasciste attaccarono il movimento socialista,
con azioni violente in particolare contro le leghe rosse della Val Padana. Conquistato
l’appoggio dei proprietari terrieri, l’offensiva squadrista dilagò anche in altre
zone del Centro-Nord, colpendo le sedi delle amministrazioni locali e delle rappresentanze
sindacali socialiste che venivano sistematicamente devastate e incendiate, ma anche
le persone dei dirigenti e militanti. L’offensiva fascista godette anche della neutralità
degli apparati statali: le forze di polizia solo di rado si opposero alle violenze,
mentre lo stesso Giolitti pensò di servirsene per ridimensionare il peso politico
di socialisti e popolari.
Nelle elezioni del 1921 i fascisti, inseriti nei “blocchi nazionali”, entrarono alla
Camera con 35 deputati, ma continuarono a rendersi protagonisti di azioni squadristiche,
profittando della debolezza dei governi. Nell’estate-autunno del 1922 Mussolini avviò
trattative con i leader liberali in vista di una partecipazione al governo, ma intanto
lasciava che le milizie fasciste preparassero una presa violenta del potere. Il 28
ottobre, giorno fissato per la “marcia su Roma”, il rifiuto del re di firmare il decreto
di stato d’assedio aprì ai fascisti la strada della capitale. Il 30 ottobre Mussolini
ricevette dal sovrano l’incarico di formare un nuovo governo. Pochi, nella classe
politica, capirono che il sistema liberale aveva ricevuto un colpo mortale.
Diventato presidente del Consiglio senza disporre di una maggioranza alla Camera,
Mussolini riuscì a consolidare il suo potere per la miopia degli alleati di governo
che continuarono ad appoggiarlo anche di fronte a misure incompatibili con i fondamenti
dello Stato liberale. Alla fine del 1922 furono creati due nuovi organismi: il Gran
consiglio del fascismo, che doveva fungere da raccordo fra il Partito fascista e il
governo; e la Milizia volontaria, un corpo armato di partito cui erano attribuite
funzioni pubbliche. Il “duce” cercò inoltre l’appoggio della Chiesa (anche attraverso
la riforma Gentile della pubblica istruzione) e del potere economico, grazie a una
politica di stampo liberista. Nell’estate del 1923, dopo aver costretto alle dimissioni
dal governo i ministri del Partito popolare, Mussolini riuscì a far approvare dal
Parlamento una legge elettorale maggioritaria che di fatto consegnava la maggioranza
alla “Lista nazionale”, risultata vincitrice con largo margine nelle elezioni dell’aprile
’24. Nel giugno 1924 il deputato socialista Matteotti fu assassinato da una squadra
fascista. L’ondata di sdegno che ne seguì fece vacillare il potere di Mussolini. Ma
la reazione dei partiti di opposizione – che sollevarono una questione morale e si
astennero dai dibattiti in Parlamento (“Aventino”) – fu debole e l’ondata antifascista
si esaurì, lasciando a Mussolini la possibilità di contrattaccare, col discorso del
3 gennaio 1925, e di sfidare le opposizioni prospettando l’uso della forza.
Tra il ’25 e il ’26 furono presi numerosi provvedimenti che rafforzavano i poteri
del governo e riducevano gli spazi per la libertà di stampa e di associazione e per
la contrattazione sindacale. Provvedimenti culminati, nell’autunno del ’26, nella
«legge per la difesa dello Stato», che fra l’altro decretava lo scioglimento dei partiti
antifascisti e istituiva un Tribunale speciale per i reati «contro la sicurezza dello
Stato».
Il successo del fascismo in Italia non fu un caso isolato. Regimi autoritari di tipo
tradizionale, sostenuti dall’esercito e dai gruppi conservatori, e privi di una base
di massa, si affermarono in Ungheria nel 1920 e in Polonia nel 1926. Anche in Austria
le tensioni fra il Partito cristiano-sociale al potere e l’opposizione socialdemocratica
portarono a una netta involuzione autoritaria. In Spagna, un colpo di Stato fu attuato
nel 1923 dal generale Miguel Primo de Rivera, con l’appoggio del sovrano, mentre in
Portogallo un economista cattolico, António de Oliveira Salazar, assunse nel 1926
la guida di un regime autoritario, clericale e corporativo che sarebbe rimasto in
vita per quasi mezzo secolo.
Bibliografia
Sugli effetti della guerra sulla politica italiana, si vedano: A. Ventrone, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica, Donzelli, Roma 2003; A. Baravelli, La vittoria smarrita. Legittimità e rappresentazioni della Grande Guerra nella crisi del sistema liberale (1919-1924), Carocci, Roma 2006eF. Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo, Utet, Torino 2009. In particolare, sull’impresa di Fiume: M. Franzinelli-P. Cavassini, Fiume. L’ultima impresa di D’Annunzio, Mondadori, Milano 2009.
L’opera classica sul dopoguerra e le origini del fascismo, pubblicata per la prima volta a Parigi nel 1938, è quella di A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, La Nuova Italia, Firenze 2002. Si vedano inoltre le opere di altri testimoni e contemporanei: P. Nenni, Storia di quattro anni (1919-1922), Sugarco, Milano 1976, scritto nel 1926 ma pubblicato solo dopo la guerra; G. Salvemini, Lezioni di Harvard. L’Italia dal 1919 al 1929, stese nel 1943 e oggi pubblicate in Id., Le origini del fascismo in Italia: lezioni di Harvard, Feltrinelli, Milano 2015.
Fra le opere scritte nel secondo dopoguerra, le più significative e documentate sono quelle di R. De Felice, Mussolini il Rivoluzionario. 1883-1920, Einaudi, Torino 2010 (ed. or. 1965) e Mussolini il fascista, I, La conquista del potere. 1921-1925, Einaudi, Torino 2006 (ed. or. 1966); A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, Roma-Bari 1982 (ed. or. 1973); R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, 2 voll., Il Mulino, Bologna 2012 (ed. or. 1991); vedi inoltre il vol. VIII della Storia dell’Italia moderna di G. Candeloro, La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l’avvento del fascismo, Feltrinelli, Milano 2016 (ed. or. 1978); e il vol. IV (Guerre e fascismo. 1914-1943) di G. Sabbatucci-V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, Laterza, Roma-Bari 1998 (ed. or. 1997) e, in particolare, il saggio di G. Sabbatucci, La crisi dello Stato liberale. Sulla presa del potere da parte dei fascisti: G. Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2006 ed E. Gentile, E fu subito regime. Il fascismo e la marcia su Roma, Laterza, Roma-Bari 2014 (ed. or. 2012). Sulla figura di Mussolini, oltre ai volumi già citati di Renzo De Felice: P. Milza, Mussolini, Carocci, Roma 2015 (ed. or. 1999); A. Campi, Mussolini, Il Mulino, Bologna 2001. Sul delitto Matteotti: M. Canali, Il delitto Matteotti, Il Mulino, Bologna 2015.
Sulla scissione di Livorno e il Pci: P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, I. Da Bordiga a Gramsci, Einaudi, Torino 1982 (ed. or. 1967). Sui Fasci di combattimento e il Partito fascista: E. Gentile, Storia del Partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Laterza, Roma-Bari 1989. Sugli aspetti culturali e ideologici del fascismo, si veda dello stesso Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Il Mulino, Bologna 2011 (ed. or. 1975).
Sulla diffusione dei regimi fascisti: S.J. Woolf (a cura di), Il fascismo in Europa, Laterza, Roma-Bari 1984 (ed. or. 1968); G. Albanese, Dittature mediterranee. Sovversioni fasciste e colpi di Stato in Italia, Spagna e Portogallo, Laterza, Roma-Bari 2016. In particolare, sul Portogallo: G. Adinolfi, Ai confini del fascismo. Propaganda e consenso nel Portogallo salazarista, 1932-1944, Franco Angeli, Milano 2007; M. Ivani, Esportare il fascismo. Collaborazione di polizia e diplomazia culturale tra Italia fascista e Portogallo di Salazar (1928-1945), Clueb, Bologna 2008. Sulla Spagna: L. Casali, Franchismo. Sui caratteri del fascismo spagnolo, Clueb, Bologna 2005.
4. La grande crisi: economia e società negli anni ’30
4.1. Sviluppo e squilibri economici
La ripresa economica
Nella seconda metà degli anni ’20, l’Europa e il mondo industrializzato, superati
i traumi del primo conflitto mondiale, sembravano avviarsi verso una nuova stagione
di prosperità, simile a quella vissuta all’inizio del ’900. I rapporti fra le maggiori
potenze attraversavano una fase di distensione, grazie anche al consolidamento della
democrazia in Germania. L’economia dell’Occidente capitalistico, trainata dalla spettacolosa
espansione produttiva degli Stati Uniti, aveva ripreso a svilupparsi con discreta
regolarità dopo le convulsioni dell’immediato dopoguerra.
Le contraddizioni della crescita
L’apparente ritorno alla normalità dell’economia internazionale nascondeva però alcuni
squilibri profondi che interessavano in primo luogo il Vecchio Continente. Durante
la guerra, gli apparati produttivi dei maggiori Stati europei erano stati piegati
alle esigenze dello sforzo bellico; e la domanda mondiale di beni di consumo, oltre
che di materie prime, era stata soddisfatta in larga parte da quei paesi extraeuropei
che erano rimasti estranei al conflitto o vi avevano preso parte solo marginalmente.
A guerra finita, l’economia internazionale si trovò di conseguenza alle prese con
una sovrapproduzione cronica.
Isolazionismo e protezionismo
Un altro problema fu costituito dalla scelta “isolazionista” degli Stati Uniti [cfr. 1.12]: ossia dal loro rifiuto di assumersi non solo il ruolo di protagonista del nuovo
ordine internazionale ma anche quello di leader dell’economia mondiale, a cui la loro
stessa potenza li chiamava. Gli Stati Uniti attuarono così scelte di politica economica
che penalizzavano fortemente le nazioni europee, introducendo nuovi dazi doganali
sulle merci importate (praticando cioè una politica protezionistica) e varando provvedimenti che limitavano drasticamente l’immigrazione. In questo modo, impedirono alle merci provenienti dall’estero di trovare sbocco
nel ricco mercato nordamericano e negarono a quegli europei che al ritorno dalla guerra
non avevano trovato lavoro la possibilità di cercare fortuna oltreoceano, come invece
avevano fatto le precedenti generazioni.
Una crisi epocale
Gli squilibri e le contraddizioni dell’economia internazionale vennero allo scoperto
alla fine del 1929, quando ebbe inizio una crisi economica tanto imprevista quanto
catastrofica. Scoppiata negli Stati Uniti nell’autunno del 1929 e prolungatasi per
buona parte degli anni ’30, la “grande crisi” – come ancora oggi viene chiamata – fece sentire i suoi effetti anche sulla politica
e sulla cultura, sulle strutture sociali e sulle istituzioni statali, segnando una
netta cesura, che si aggiunse a quella creata dalla Grande Guerra, nello sviluppo
delle società occidentali. La crisi sconvolse i vecchi assetti e accelerò trasformazioni
già in atto. Diede un’ulteriore, decisiva spinta alla decadenza dell’Europa liberale,
creando le premesse per l’affermazione di regimi autoritari. Compromise seriamente
gli equilibri internazionali, mettendo in moto una catena di eventi che avrebbe portato,
nel giro di un decennio, a un nuovo conflitto mondiale.
4.2. Gli Stati Uniti: dal boom al crollo di Wall Street
Il primato economico degli Usa
Usciti vincitori da una guerra per loro relativamente breve (e combattuta lontano
dal proprio territorio), gli Stati Uniti videro definitivamente confermato nel dopoguerra
il loro ruolo di grande potenza economica mondiale. Erano il primo paese produttore in tutti i settori più importanti dell’industria e dell’agricoltura. Ma erano anche
il primo esportatoredi capitali e il primo creditore, in virtù dei prestiti concessi agli alleati nel corso del conflitto. A guerra finita,
il dollaro era la nuova moneta forte dell’economia internazionale. E, accanto al mercato
finanziario di Londra, cresceva di importanza quello di New York. A partire dal 1921,
superata una breve fase di stagnazione, l’economia statunitense cominciò a crescere
a ritmi molto rapidi. La diffusione della produzione in serie – grazie all’introduzione
della catena di montaggio nelle grandi industrie – e i miglioramenti nell’organizzazione
del lavoro in fabbrica – dove sempre più si affermava il modello fordista-taylorista
– favorirono un notevole aumento della produttività e dei salari. Contemporaneamente, però, diminuiva il numero degli occupati nell’industria: gli sviluppi della tecnica, infatti, avevano causato una diminuzione della quantità
di lavoro necessaria a ottenere un determinato prodotto. Crebbe, invece, per l’espansione
delle funzioni organizzative e burocratiche, l’occupazione nel settore terziario, mentre la diffusione fra i ceti medi di beni fino ad allora riservati a pochi (automobili
ed elettrodomestici) faceva degli Stati Uniti il laboratorio di nuovi modi di vivere
e di nuovi modelli di consumo.
Conservatorismo e razzismo
A questo indiscusso primato non corrispondeva però una adeguata capacità di guida
dei processi economici. All’isolazionismo in politica estera fece riscontro una forte
egemonia conservatrice. I repubblicani, che rimasero al potere per tutti gli anni
’20, alimentarono le aspettative più ottimistiche sull’immancabile crescita della
prosperità americana, senza troppo preoccuparsi dei gravi problemi sociali che pure continuavano a manifestarsi nel paese. La distribuzione dei redditi, infatti,
era fortemente squilibrata e comportava l’emarginazione di consistenti fasce della
popolazione. A tutto questo si aggiunse un’ondata di ostilità nei confronti delle minoranze etniche. L’introduzione dileggi limitative dell’immigrazione, oltre a sostenere la politica isolazionista e
protezionista intrapresa in quegli anni, aveva anche lo scopo di preservare i caratteri
etnici della popolazione bianca e di impedire la diffusione di ideologie sovversive
di origine europea. Il punto culminante di questa reazione fu il processo ai due anarchici
italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, accusati ingiustamente di omicidio e mandati a morte nel 1927. Contemporaneamente
si inasprirono le pratiche discriminatorie nei confronti della popolazione nera: la setta del Ku Klux Klan, espressione del razzismo più isterico, raggiunse negli Stati del Sud le dimensioni
di un’organizzazione di massa. Consistenti settori della popolazione si chiusero in
una difesa ottusa e fanatica dei valori della civiltà bianca e protestante: anche cattolici ed ebrei venivano guardati con diffidenza. Lo stesso proibizionismo – cioè il divieto di fabbricare e vendere bevande alcoliche, introdotto nel 1920
e rimasto in vigore fino al 1934 – scaturì da questo retroterra culturale, poiché
l’ubriachezza era ritenuta un vizio tipico di neri e proletari in genere.
La febbre speculativa
Nonostante queste tensioni, la borghesia statunitense rimaneva fiduciosa in una continua
moltiplicazione della ricchezza. La conseguenza più vistosa di questo clima fu la
frenetica attività della Borsa di New York (chiamata Wall Street dal nome della via in cui tuttora ha sede). Incoraggiati dalla prospettiva di facili
guadagni, infatti, i risparmiatori acquistavano azioni per rivenderle a prezzo maggiorato, confidando nella continua ascesa delle quotazioni,
sostenuta dalla crescente domanda di titoli. Questa incontenibile euforia speculativa poggiava in realtà su fondamenta assai
fragili. La domanda sostenuta di beni di consumo durevoli aveva fatto sì che nel settore industriale si formasse una capacità produttiva sproporzionata rispetto alle possibilità di assorbimento del mercato interno: possibilità limitate
sia dalla particolare natura di quei beni (che, non avendo bisogno di essere continuamente
sostituiti, tendevano a “saturare” il mercato), sia dalla crisi del settore agricolo, che teneva bassi i redditi dei ceti rurali, limitandone il potere di acquisto.
Il legame con l’Europa
L’industria statunitense aveva ovviato a questa difficoltà con l’aumento delle esportazioni nel resto del mondo, in particolare nel Vecchio Continente. Così si era venuto a
creare uno stretto rapporto di interdipendenza fra economia americana ed economia europea: l’espansione americana finanziava con un cospicuo afflusso di prestiti la ripresa
europea e quest’ultima, a sua volta, alimentava con le sue importazioni lo sviluppo
degli Stati Uniti. Questo meccanismo, però, poteva incepparsi da un momento all’altro,
anche perché i crediti statunitensi all’estero erano generalmente erogati da banche private e dunque legati a puri calcoli di profitto. Quando, nel 1928, molti capitali americani
furono dirottati verso le più redditizie operazioni speculative di Wall Street, le
conseguenze sull’economia europea si fecero sentire immediatamente, ripercuotendosi
subito dopo sulla produzione industriale degli Stati Uniti, il cui indice cominciò
a scendere già nell’estate del 1929.
La caduta della Borsa
In una situazione già carica di segnali allarmanti si abbatterono gli effetti catastrofici
del crollo della Borsa di New York: un evento che fu a un tempo la spia del malessere dell’economia mondiale e l’elemento
propulsore che portò d’un tratto in superficie tutti gli squilibri accumulatisi nel
precedente periodo di espansione. Il valore dei titoli a Wall Street raggiunse i livelli più elevati all’inizio di
settembre del 1929. Seguirono alcune settimane di incertezza, durante le quali cominciò
a emergere la tendenza degli speculatori a vendere i propri pacchetti azionari per
realizzare i guadagni fino ad allora ottenuti. La corsa alle vendite determinò naturalmente – secondo la legge della domanda e dell’offerta – una precipitosa
caduta del valore dei titoli, distruggendo in pochi giorni i sogni di ricchezza dei loro possessori. A metà novembre
le quotazioni si stabilizzarono su valori più o meno dimezzati. Ma intanto molte fortune
si erano volatilizzate.
Il crollo del mercato azionario colpì in primo luogo i ceti ricchi e benestanti. Ma,
riducendo drasticamente la loro capacità di acquisto e di investimento, ebbe conseguenze
disastrose sull’intera economia nazionale, colpendo tutti gli strati della popolazione: un’industria chiudeva i battenti perché priva di ordini, licenziando i suoi dipendenti;
i lavoratori disoccupati erano costretti a ridurre i loro consumi; il mercato diventava
così sempre più asfittico, provocando il crollo di altre imprese, portando alla rovina
gli esercizi commerciali, aggravando la crisi dell’agricoltura che non trovava più sbocchi per i suoi prodotti e costringendo masse di contadini
a emigrare in cerca di fortuna.
4.3. Il dilagare della crisi
La crisi innescata dal crollo del 1929 raggiunse in poco tempo un’estensione mai vista
in precedenza. La recessione economica si diffuse rapidamente in tutto il mondo –
con l’eccezione dell’Unione Sovietica – come una spaventosa epidemia, presentandosi
ovunque con i medesimi sintomi e con la stessa dinamica. Fra il 1929 e il 1932 la
produzione mondiale di manufatti diminuì del 30% e quella di materie prime del 26%.
I prezzi caddero bruscamente sia nel settore industriale sia, soprattutto, in quello agricolo, dove il calo fu
di oltre il 50%. I disoccupati raggiunsero il numero di 14 milioni negli Stati Uniti e di 6 milioni in Germania,
cui si deve aggiungere la cifra, ingente anche se incalcolabile, dei sotto-occupati.
La diffusione internazionale della crisi era il risultato delle strette relazioni
commerciali e finanziarie che univano le diverse aree del mondo fra loro e le rendevano
tutte dipendenti, sia pur in diversa misura, da quanto accadeva nel paese leader dell’economia
mondiale, gli Stati Uniti. Quando, con lo scoppio della crisi, le banche americane
ridussero, fino a sospenderla, l’erogazione di crediti all’estero, gli Stati europei
si trovarono a corto di capitali, mentre le loro esportazioni negli Usa si ridussero
per il generale calo della domanda. A tutto ciò si aggiunse la decisione, presa nel 1930 dal presidente degli Stati
Uniti, Herbert Hoover, di inasprire il protezionismo per difendere la produzione interna.
Protezionismo e svalutazioni
La crisi e le risposte che ad essa vennero date dai governi provocarono un brusco
passo indietro nell’integrazione tra i diversi mercati nazionali. L’inasprimento del
protezionismo statunitense indusse gli altri paesi ad adottare analoghe misure a difesa della propria bilancia commerciale. Molti Stati, poi, svalutarono le loro monete, per rendere più competitivi i prezzi delle proprie merci e quindi favorire le esportazioni. Anche in questo caso, si avviarono reazioni a catena che ebbero l’effetto di rendere
altamente instabili i rapporti di cambio tra le diverse monete. La conseguenza di
tutto ciò fu una contrazione drastica del commercio internazionale, che fra il 1929 e il 1932 – l’anno in cui la crisi giunse al culmine – si ridusse
di oltre il 60% rispetto al triennio precedente.
L’aumento delle disuguaglianze
Anche i paesi meno sviluppati, in America Latina, Asia e Africa, pagarono un ingente prezzo. Le loro economie si basavano in larga parte sull’esportazione di prodotti agricoli e materie prime verso i paesi più ricchi e quindi furono fortemente
penalizzate dalle politiche protezionistiche. Nel giro di pochi anni i ricavi delle esportazioni si ridussero di quasi due terzi
per l’America Latina e l’Asia e di circa il 40% per l’Africa. Negli stessi anni, in
quei continenti si accelerava la crescita demografica: non solo quindi la ricchezza prodotta diminuiva, ma si doveva distribuire a un numero
più elevato di persone. In quel periodo il divario tra i paesi più ricchi e quelli
meno sviluppati toccò una delle sue punte massime.
L’assenza di collaborazione
Dopo l’inizio della crisi i governi dei paesi più industrializzati provarono a mettere
a punto soluzioni condivise per fronteggiare le emergenze. Tuttavia, gli incontri
e le conferenze internazionali non portarono ad alcun risultato. Al crescente allentamento
dei legami commerciali e finanziari corrispose l’assenza di una effettiva collaborazione
tra gli Stati. La crisi più grave fino ad allora sperimentata in età contemporanea,
la prima ad avere un’estensione realmente globale, fu quindi affrontata senza meccanismi di controllo e di governo adeguati. Se alla vigilia della prima guerra mondiale il mondo sembrava, sul piano economico,
sempre più unificato da flussi crescenti di merci, capitali e persone, venti anni
dopo appariva frammentato da nuovi confini, barriere doganali e linee di separazione,
mentre gli scambi si concentravano in aree specifiche sempre meno comunicanti le une
con le altre.
4.4. La crisi in Europa
La crisi finanziaria
In Europa al declino delle attività produttive e commerciali si sovrappose una crisi
finanziaria che ebbe le sue prime manifestazioni in Austria e in Germania, dove il
fallimento di alcune importanti banche portò al collasso dell’intero sistema del credito. I crolli verificatisi in Austria e Germania provocarono un allarme incontrollato
sulla solidità delle finanze del Regno Unito (molti capitali britannici erano stati
infatti investiti in quei due paesi) e sulla stessa tenuta della sterlina. Le banche dovettero far fronte a un precipitoso ritiro dei capitali stranieri e a ingenti richieste di conversione delle sterline nel loro equivalente in oro.
Nel settembre 1931, esauritesi le riserve auree della Banca d’Inghilterra, fu sospesalaconvertibilità della sterlinain oro e la moneta fu svalutata: si trattò di un avvenimento che destò sensazione, poiché
sanzionava emblematicamente la decadenza della Gran Bretagna dal ruolo di “banchiere
del mondo”.
Le politiche di austerità
Quando la crisi ebbe inizio, i governi dei paesi industrializzati si preoccuparono
di mettere ordine nei bilanci statali e cercarono di ridurre il deficit tagliando
drasticamente la spesa pubblica: vennero così ridotti gli stipendi ai pubblici dipendenti, furono diminuite le prestazioni
sociali fornite dallo Stato e furono imposte nuove tasse. Questi provvedimenti compressero
ulteriormente la domanda interna, aggravando la recessione e la disoccupazione.
La crisi in Germania
In Germania le conseguenze della crisi si fecero sentire più che in ogni altro Stato
europeo, a causa della stretta integrazione che il sistema dei prestiti internazionali
aveva creato fra l’economia statunitense e quella tedesca, ancora gravata dall’onere
delle riparazioni di guerra. La crisi mise in difficoltà il governo di coalizione allora guidato dai socialdemocratici,
provocando un dissenso insanabile fra questi ultimi e i partiti di centro-destra sui
sussidi di disoccupazione e sulle altre prestazioni sociali assicurate dallo Stato,
che i moderati volevano ridimensionare sensibilmente. Il governo cadde e il nuovo
cancelliere, il cattolico-conservatore Heinrich Brüning, attuò una severissima politica di sacrifici, anche allo scopo di rivelare al mondo
l’intollerabile onere che la Germania era condannata a sopportare per tener fede all’obbligo
delle riparazioni. Lo scopo fu in parte raggiunto nel 1932, quando una conferenza
internazionale ridusse sensibilmente l’entità delle riparazioni e ne sospese il versamento
per tre anni (trascorsi i quali, comunque, i pagamenti non furono mai ripresi). Ma
intanto la politica di Brüning aveva prodotto ben più tragici frutti: 6 milioni di
lavoratori disoccupati facevano da sfondo alla rapida ascesa del Partito nazionalsocialista
di Hitler [cfr. 2.5] che, come si vedrà nel prossimo capitolo, seppe sfruttare il disagio e il risentimento
largamente diffusi nella popolazione.
Francia e Gran Bretagna
Anche in Francia la politica di austerità fu applicata con estremo rigore. Qui la crisi giunse in
ritardo, nella seconda metà del ’31, ma durò più a lungo (nel ’38 la produzione non
era ancora tornata ai livelli del ’29) anche perché i governi vollero legare il loro
prestigio alla difesa della moneta nazionale, il franco, ritardandone fino al ’37 la svalutazione. La crisi economica coincise
con un periodo di grande instabilità della situazione politica francese: fra l’ottobre del ’29 e il giugno del ’36 si succedettero ben diciassette
governi, ora di centro-destra ora di centro-sinistra.
In Gran Bretagna il ministero guidato dal laburista Ramsay MacDonald cercò di fronteggiare la crisi con un programma che prevedeva, fra l’altro, un drastico
taglio del sussidio ai disoccupati. Questo programma incontrò però la ferma opposizione delle Trade Unions, le associazioni sindacali, nerbo del movimento laburista. A quel punto (agosto 1931)
MacDonald ruppe clamorosamente col suo partito e, seguito da una minoranza di deputati
laburisti, si accordò con liberali e conservatori per la formazione di un “governo nazionale” di cui egli stesso assunse la presidenza. Fu sotto questo governo che la Gran Bretagna
svalutò la sterlina e abbandonò la sua secolare tradizione liberoscambista, adottando
un sistema di tariffe doganali che privilegiava gli scambi commerciali nell’ambito del Commonwealth.
A partire dal 1933 l’economia europea cominciò a manifestare sintomi di miglioramento.
Ma nella maggior parte dei paesi la ripresa fu molto lenta: un vero rilancio produttivo
si ebbe solo alla fine del decennio e fu dovuto anche al generale incremento delle
spese militari conseguente all’aggravarsi delle tensioni internazionali.
4.5. Il New Deal di Roosevelt
La vittoria di Roosevelt
Nel novembre 1932, dopo tre anni di crisi che avevano gettato la popolazione in un
angoscioso stato di insicurezza, si tennero negli Stati Uniti le elezioni presidenziali.
Il presidente uscente, il repubblicano Herbert Hoover, che non aveva conseguito alcun successo nella lotta contro la crisi, fu nettamente
sconfitto dal democratico Franklin Delano Roosevelt, governatore dello Stato di New York. Già nella campagna elettorale Roosevelt seppe
far valere le sue notevoli doti di comunicatore, instaurando con i cittadini un rapporto
diretto, convinto com’era che la condizione preliminare di un’azione politica efficace
stesse nella capacità di infondere speranza e coraggio nella popolazione. Diventato presidente, avrebbe aperto un nuovo canale di comunicazione
con i cittadini: le Conversazioni al caminetto, una trasmissione radiofonica in cui illustrava le sue scelte con tono familiare
e suadente.
Il New Deal
Nel discorso che aveva ufficializzato la sua candidatura, il 2 luglio 1932, Roosevelt
annunciò di voler inaugurare un New Deal (“nuovo patto” o “nuovo corso”) nella politica degli Stati Uniti: un nuovo corso che si sarebbe caratterizzato soprattutto
per un più energico intervento dello Statonei processi economici. Il New Deal fu avviato immediatamente nei primi mesi della presidenza Roosevelt – i cosiddetti
“cento giorni” – con una serie di provvedimenti che dovevano servire da terapia d’urto
per arrestare il corso della crisi: si cercò in primo luogo di ristrutturare e risanare,
con ingenti aiuti pubblici, il sistema creditizio, sconvolto da cinquemila fallimenti bancari che avevano polverizzato i risparmi di
milioni di americani; furono facilitati i prestiti per consentire ai cittadini indebitati
di estinguere le ipoteche sulle case; furono aumentati i sussidi di disoccupazione e fu svalutato il dollaro per rendere più competitive le esportazioni.
A queste misure di emergenza, il governo affiancò alcuni provvedimenti più organici
e qualificanti, caratterizzati dall’uso di nuovi e originali strumenti d’intervento.
L’Agricultural Adjustment Act (Aaa) si proponeva di limitare la sovrapproduzione nel settore agricolo, assicurando premi in denaro a coloro che avessero ridotto coltivazioni e allevamenti.
Il National Industrial Recovery Act(Nira) imponeva alle imprese operanti nei vari settori dei “codici di comportamento” volti a evitare, mediante accordi sulla produzione e sui prezzi, le conseguenze di
una concorrenza troppo accanita, ma anche a tutelare i diritti e i salari dei lavoratori. Particolare rilievo ebbe, infine, l’istituzione della Tennessee Valley Authority(Tva), un ente che aveva il compito di sfruttare le risorse idroelettriche del bacino del Tennessee, producendo energia a buon mercato a vantaggio degli agricoltori,
ed era anche impegnato in opere di sistemazione del territorio.
Spesa pubblica e legislazione sociale
Se l’esperienza della Tva – rimasta come un modello di intervento organico sul territorio
da parte del potere centrale – rappresentò per Roosevelt un notevole successo sia
sul piano economico sia su quello propagandistico, le altre iniziative ebbero effetti
più lenti e contraddittori. Il calo della produzione agricola previsto dall’Aaa causò
l’espulsione dalle campagne di vaste masse di lavoratori. Alla fine del ’34 gli investimenti
erano ancora stagnanti, mentre i disoccupati raggiungevano gli 11 milioni. Per porre rimedio a questa situazione, il governo federale
allargò al di là di ogni consuetudine il flusso della spesa pubblica, nella convinzione che ciò avrebbe favorito l’aumento della produzione e del reddito.
Parallelamente, si intensificò l’impegno nel campo delle riforme sociali. Nel 1935 furono varate una riforma fiscale, una legge sulla sicurezza sociale – che garantì alla maggior parte dei lavoratori la pensione di vecchiaia e riorganizzò
l’assistenza statale a favore dei bisognosi – e una nuova disciplina dei rapporti
di lavoro, che garantiva il libero svolgimento dell’azione sindacale.
Consensi e opposizioni
Con le sue misure progressiste in campo sociale Roosevelt si guadagnò l’appoggio del movimento sindacale che, negli anni del New Deal, attraversò una fase di espansione grazie anche a un’ondata di lotte operaie senza
precedenti nella storia americana. D’altra parte, le novità del New Deal e i suoi risultati non sempre brillanti diedero spazio al formarsi di un’ampia coalizione avversa al presidente. Tra il 1935 e il 1936 la Corte suprema degli Stati Uniti, massimo organo del potere
giudiziario, cercò di bloccare le riforme di Roosevelt dichiarando l’incostituzionalità del Nira e dell’Aaa. Forte dello schiacciante
successo ottenuto nelle elezioni presidenziali del ’36, Roosevelt reagì ripresentando
con lievi modifiche le leggi bocciate.
In conclusione, l’azione di Roosevelt, se da un lato smentì un principio cardine del
liberismo – secondo cui lo Stato deve lasciare libero corso alle leggi del mercato
e all’iniziativa imprenditoriale – dall’altro non riuscì a conseguire completamente
il fine ultimo che si era proposto: quello cioè di ridare slancio all’iniziativa economica
dei privati. Per tutti gli anni ’30 l’economia americana ebbe bisogno di continue
iniezioni di denaro pubblico. Sarebbe giunta a una vera ripresa, nonché alla piena occupazione, solo durante la
seconda guerra mondiale, con lo sviluppo della produzione bellica.
4.6. Il nuovo ruolo dello Stato
La sfiducia nel mercato
Prima dello scoppio della grande crisi, l’intervento dei poteri pubblici in economia
era stato largamente attuato, soprattutto in Europa, per favorire l’industrializzazione,
per moderare i conflitti di classe e, in forme particolarmente incisive, per organizzare
la produzione in tempo di guerra. Ma la cultura dominante fra gli economisti e gli
statisti dei paesi industrializzati considerava ancora queste forme di intervento
come una conseguenza di specifiche situazioni o al massimo come un supporto che doveva
rendere più scorrevole il funzionamento del mercato. La crisi del 1929 fece però sorgere
un complesso di problemi la cui soluzione non poteva essere affidata all’iniziativa
dei soggetti privati. E lafiducia nella capacità del mercato di autoregolarsi e di espandersi per forza propria
precipitò. Molti, in quegli anni, subirono il fascino delle alternative di sistema
che si andavano affermando in Europa: dal collettivismo integrale dell’Urss di Stalin agli esperimenticorporativi (basati cioè sulla gestione diretta dell’economia da parte delle rappresentanze sociali)
proposti, ma mai realmente attuati, dal fascismo italiano e dai regimi autoritari
di destra [cfr. 6.4].
Le forme dell’intervento
Ovunque, dopo la crisi del ’29, lo Stato assunse nuovi e importanti compiti. Dalle
tradizionali misure di sostegno alle attività produttive (come i dazi sulle importazioni)
si passò all’adozione di più radicali misure di controllo (sul cambio della moneta, sui prezzi e sui salari) e, infine, all’assunzione da parte
dei poteri pubblici di un ruolo attivo nel promuovere l’espansione economica. In alcuni
casi, come quello appena visto degli Stati Uniti, si agì soprattutto attraverso lo
stimolo alla domanda interna mediante l’espansione della spesa pubblica; in altri, come in Italia, si giunse all’assunzione diretta da parte dello Stato
di imprese industriali in difficoltà [cfr. 6.4]; altrove – in Gran Bretagna e, in forme più incisive, nei paesi scandinavi – si
puntò sull’elaborazione di programmi di sviluppo che si proponevano di orientare,
tramite il credito o la manovra fiscale, l’attività economica verso obiettivi fissati dal potere politico.
Le teorie di Keynes
Il primo e più importante tentativo di sistemazione teorica delle trasformazioni in
corso giunse nel 1936, con la pubblicazione da parte dell’economista inglese John Maynard Keynes del volume Occupazione, interesse e moneta. Teoria generale, che aprì un capitolo nuovo nella storia della scienza economica. Il crollo del ’29
e la successiva crisi fornirono a Keynes gli elementi per confutare alcune proposizioni
fondamentali della teoria economica classica, in particolare quella secondo cui il
mercato tenderebbe spontaneamente a produrre l’equilibrio tra domanda e offerta e a raggiungere la piena occupazione. Keynes riteneva invece che i meccanismi spontanei
del capitalismo non fossero in grado di garantire da soli un’utilizzazione ottimale
delle risorse. Ciò lo indusse a criticare radicalmente le politiche deflazionistiche che, riducendo il potere d’acquisto dei privati mediante il contenimento della spesa
pubblica e la restrizione del credito, aggravavano, nelle situazioni di crisi, le
difficoltà dell’economia. Era dunque compito dello Stato sostenere la domanda con
politiche di aumento della spesa pubblica, anche a costo di allargare, per periodi determinati, il deficit del bilancio statale
e di accrescere la quantità di moneta in circolazione. Gli effetti inflazionistici
di queste misure sarebbero stati compensati dai benefici arrecati ai redditi e alla
produzione.
Le linee di intervento proposte da Keynes in sede di teoria economica rispecchiavano
molto da vicino quelle che Roosevelt stava attuando – o aveva già attuato – negli
Stati Uniti del New Deal. Politiche analoghe, basate essenzialmente sull’espansione della spesa pubblica,
sarebbero state adottate da quasi tutti i governi occidentali dopo la fine della seconda
guerra mondiale.
4.7. Nuovi consumi e comunicazioni di massa
Le città e i servizi
Dopo il 1929 l’intero Occidente industrializzato subì, come si è visto, un generale
processo di impoverimento. Ma questo non impedì che nuove abitudini di vita, nuovi e più moderni modelli di consumo si affermassero, anche in Europa, presso vasti strati della popolazione, soprattutto
urbana. Nel corso degli anni ’30, il processo di urbanizzazione accelerò a causa della grave crisi in cui versava il settore agricolo. Crescita delle
città significava sviluppo del settore edilizio. Lo sviluppo edilizio ebbe a sua volta conseguenze notevoli non solo sull’economia,
ma anche sul modo di vivere delle masse urbane. Le case di nuova costruzione, in particolare
quelle destinate ai ceti medi, erano di solito fornite di acqua corrente e di elettricità; inoltre, dato che si trovavano per lo più in zone periferiche, resero necessario
uno sviluppo dei trasporti pubblici – tram elettrici, autobus e metropolitane – e della stessa motorizzazione privata.
I ceti medi
Inoltre la grande crisi, se per un verso accentuò le distanze fra ricchi e poveri,
e fra occupati e disoccupati, per un altro determinò un certo miglioramento nelle retribuzioni reali e nei livelli di consumodi quei lavoratori che avevano mantenuto la loro occupazione e che, grazie al drastico
calo dei prezzi agricoli, avevano potuto ridurre la quota di reddito riservata ai
consumi alimentari, aumentando quindi quella da destinare ad altri beni. Così si spiega
come mai, proprio negli anni ’30, in Europa alcuni settori sociali – in primo luogo
i ceti medi – poterono fruire per la prima volta su larga scala di quei beni di consumo durevoli che si erano diffusi negli Stati Uniti durante il decennio precedente.
La produzione europea di veicoli a motore fece registrare consistenti progressi, anche se restò lontana dai livelli statunitensi:
nel 1938 circolavano in Europa oltre 8 milioni di autovetture, contro i 5 del 1930,
mentre nello stesso periodo gli Usa passarono da 25 a 30 milioni. In Europa l’automobile
rimase, per tutti gli anni ’30, un bene riservato a pochi. Ma intanto cominciavano
a comparire anche in Europa le prime vetture “popolari” – come la Volkswagen (“vettura del popolo”) in Germania o la “Topolino” in Italia
– concepite per emulare il successo della leggendaria Ford T, la prima utilitaria,
che negli Stati Uniti, fra il 1908 e il 1924, era stata venduta in 15 milioni di esemplari.
Un discorso analogo si può fare per la produzione degli elettrodomestici. I più costosi, come frigoriferi e scaldabagni, continuarono a essere considerati
beni di lusso, ma il loro uso si andò ugualmente estendendo, almeno fra le categorie
a reddito più elevato. Più ampia diffusione, anche fra i ceti medio-inferiori, ebbero
altri apparecchi domestici, come il ferro da stiro elettrico, la cucina a gas e soprattutto
la radio.
Lo sviluppo della radiofonia
I primi apparecchi per la trasmissione del suono attraverso l’etere senza l’ausilio
dei fili erano stati realizzati e sperimentati da Guglielmo Marconi alla fine dell’800. Durante i primi vent’anni del ’900 la tecnica radiofonica aveva
fatto continui progressi. Il grande salto si ebbe dopo la fine della prima guerra
mondiale, quando la radio si trasformò da mezzo di comunicazione fra singoli soggetti
in strumento di diffusione di programmi di informazione e di svago destinati al pubblico. Le prime trasmissioni regolari si ebbero negli Stati Uniti
nel 1920 e furono organizzate da compagnie private che si finanziavano con gli introiti
pubblicitari. Nei maggiori paesi europei, invece, le trasmissioni si svilupparono, negli anni immediatamente successivi, per lo più
a opera di enti che operavano sotto il controllo statale, sul modello della britannica Bbc (British Broadcasting Corporation), e imponevano agli utenti un canone di abbonamento. Nell’uno come nell’altro caso,
lo sviluppo della radiofonia fu rapidissimo: alla fine degli anni ’20 esistevano circa
3 milioni di apparecchi in Gran Bretagna, altrettanti in Germania e quasi 10 negli
Stati Uniti. Queste cifre si moltiplicarono nel decennio successivo: nel 1939 c’erano
in tutto il mondo circa 100 milioni di radio, metà delle quali nel Nord America.
Le nuove frontiere dell’informazione
Anche come mezzo di informazione la radio non temeva confronti: i notiziari radiofonici potevano essere ascoltati in qualsiasi ora, non richiedevano particolari sforzi di
attenzione né spese supplementari ed erano per giunta molto più tempestivi dei giornali.
A partire dagli anni ’30, infatti, la diffusione della stampa subì un netto rallentamento. I giornali quotidiani continuarono a essere acquistati e letti soprattutto dal pubblico
più qualificato, ma persero molta della loro capacità di espansione fra le classi
popolari. Per riguadagnare il terreno perduto, il settore della carta stampata cominciò
a puntare più sull’immagine: da qui lo sviluppo delle riviste illustrate (capofila del genere fu l’americana «Life»), dove la parte fotografica prevaleva
decisamente sui testi.
Capostipite di una serie di invenzioni destinate a improntare di sé la civiltà contemporanea,
la radio segnò una tappa decisiva nel cammino della società di massa e inaugurò – come a suo tempo il telegrafo e il telefono – un’eranuova nel campo delle telecomunicazioni. Lo capirono alcuni grandi gruppi industriali, in particolare i colossi elettrici
americani e tedeschi, che puntarono decisamente sullo sviluppo della radiofonia. E
se ne resero conto anche gli uomini politici, da Roosevelt a Hitler e Mussolini, che
affidarono alla radio i loro discorsi più importanti e di essa si servirono per assicurare
ai loro messaggi una diffusione capillare.
Il cinema
Gli anni del trionfo della radio videro anche l’affermazione di un’altra forma di
comunicazione di massa tipica del nostro tempo: il cinema. Verso la fine degli anni
’20, con l’invenzione del sonoro, il cinema divenne uno spettacolo “completo”, come lo erano il teatro di prosa o l’opera lirica. Con la differenza che la proiezione
di un film, ripetibile infinite volte, aveva costi incomparabilmente più bassi rispetto
a una rappresentazione teatrale, poteva essere realizzata in qualsiasi locale abbastanza
ampio per contenere uno schermo ed era quindi alla portata di un pubblico vastissimo.
Spettacolo popolare per eccellenza, esempio di fusione fra creazione artistica e prodotto industriale, il cinema non era solo un mezzo di svago. Era anche un veicolo attraverso cui imporre
immagini e personaggi: col boom del cinema nacque il fenomeno del “divismo”di massa, ossia quel particolare rapporto di attrazione, spesso ai limiti dell’idolatria,
che lega il grande pubblico agli attori più popolari, o meglio alla loro immagine
diffusa dagli schermi. Ma attraverso il cinema si potevano anche divulgare messaggi ideologici e visioni del mondo: si pensi al ruolo svolto dalla cinematografia statunitense – la più importante per
prestigio e volume di produzione – nel diffondere in tutto il mondo i valori tipici
della società americana: il coraggio, la tecnica, l’ascesa individuale. Una forma
di propaganda più diretta era quella affidata ai cinegiornali d’attualità che venivano proiettati nelle sale cinematografiche in apertura di spettacolo
e svolgevano una funzione complementare a quella dei notiziari radiofonici.
Politica e spettacolo
Insomma, lo sviluppo delle comunicazioni di massa non solo cambiò radicalmente i modi
di concepire e di usare il tempo libero, ma ebbe effetti rivoluzionari in tutti i
settori dell’attività umana. Radio e cinema costituivano un formidabile moltiplicatore, capace di trasformare in spettacolo di massa qualsiasi manifestazione della vita sociale: la creazione artistica come la competizione
sportiva (fu in questo periodo che lo sport perse il suo carattere di attività dilettantistica
fine a sé stessa per trasformarsi in esibizione destinata essenzialmente al pubblico),
la cultura come la politica. Furono soprattutto i regimi autoritari a sfruttare appieno le possibilità insite nei nuovi mezzi di comunicazione e ad accentuare
il lato “spettacolare” delle manifestazioni di massa. Ma anche nelle democrazie la
radio, il cinema e la stampa illustrata contribuirono a “spettacolarizzare” la competizione
politica, a valorizzarne gli aspetti più eclatanti, a concentrare l’attenzione sulle
figure dei leader.
4.8. La scienza e la guerra
Il potere della scienza
Negli anni fra le due guerre mondiali, l’onda lunga della rivoluzione scientifica e tecnologica cominciata negli ultimi decenni dell’800 continuò a far sentire i suoi effetti sulla
vita quotidiana e sulla salute, sulle attività di pace e sullo sviluppo dei mezzi
bellici. Risalgono agli anni ’20 e ’30 alcune scoperte che avrebbero segnato in modo
decisivo la storia del ’900, dando la misura del carattere non neutrale della scienza moderna. Già la mobilitazione della comunità scientifica al servizio degli interessi delle potenze in guerra durante il primo conflitto mondiale
aveva mostrato del resto le implicazioni politiche e sociali della ricerca scientifica.
La ricerca sull’atomo
A partire dagli anni ’20, un folto gruppo di fisici di diversi paesi, quasi tutti
nati all’inizio del secolo (l’italiano Enrico Fermi, gli inglesi Paul Dirac e James
Chadwick, i francesi Frédéric Joliot-Curie e Louis De Broglie, i tedeschi Erwin Schrödinger
e Werner Heisenberg per citarne solo alcuni), portò avanti gli studi e gli esperimenti sulnucleo dell’atomo avviati all’inizio del ’900 da Ernest Rutherford e da Niels Bohr. Si trattava di
ricerche essenzialmente teoriche, che assunsero però un’immediata risonanza anche
al di fuori degli ambienti scientifici quando, alla fine degli anni ’30, si scoprì
che dalla scissione, provocata artificialmente, di un nucleo atomico di materiale radioattivo era possibile
liberare enormi quantità di energia. Molti intuirono allora che da questa nuova straordinaria
fonte di energia sarebbe stato possibile ottenere un’arma più potente di qualsiasi
altra fino ad allora realizzata. Ma soltanto nel 1942, quando, durante la seconda
guerra mondiale, una équipe di scienziati nordamericani guidata da Fermi (emigrato negli Stati Uniti nel 1938) realizzò il primo reattore nucleare, lo spettro della “guerra atomica” si materializzò minacciosamente, inducendo i due
schieramenti in lotta a un’affannosa e segretissima corsa verso la costruzione della
nuova bomba.
L’aviazione civile
Se i possibili impieghi bellici della fisica nucleare restarono per molto tempo sconosciuti
ai più, nessuno poteva ignorare il nesso strettissimo che intercorreva fra le caratteristiche
della guerra futura e gli sviluppi della tecnica aviatoria. Negli anni ’20 e ’30,
l’aeronautica compì in tutti i paesi industrializzati progressi notevoli: gli aerei divennero più sicuri e più rapidi (i mezzi più veloci toccavano punte di 7-800 chilometri orari), aumentando nel contempo
la loro capacità di carico e la loro autonomia. Imprese come la trasvolata solitaria
dell’americano Charles Lindbergh, che nel 1927 compì per primo su un piccolo aereo il volo senza scalo da New York a Parigi, valsero a esaltare agli occhi dell’opinione pubblica mondiale le nuove possibilità
offerte dal trasporto aereo. L’aviazionecivile, dopo i primi timidi passi negli anni ’20, conobbe nel decennio successivo un considerevole
incremento, soprattutto negli Stati Uniti, pur restando, a causa dei suoi alti costi,
un servizio accessibile solo alle categorie privilegiate.
L’aeronautica militare
I progressi dell’aviazione civile furono però superati dai contemporanei sviluppi
dell’aeronauticamilitare. Dopo aver accolto con scetticismo i primi impieghi bellici dell’aviazione, generali
e uomini di governo finirono col convincersi che un’arma aerea autonoma dall’esercito
e dalla marina era destinata a svolgere un ruolo decisivo nelle guerre future. Tutte
le grandi e medie potenze intensificarono, dall’inizio degli anni ’30, la costruzione
di aerei militari: aerei da caccia sempre più veloci, aerei da trasporto sempre più capienti, bombardieri dotati di sempre maggiore autonomia. L’ipotesi di una guerra in cui i contendenti
si combattessero seminando morte dal cielo fra le popolazioni civili diventava ormai
una tragica certezza.
4.9. La cultura della crisi
La perdita dell’unità
Anche per la cultura europea, gli anni ’20 e ’30 furono anni di crisi e di mutamenti
profondi. Si accentuarono in questo periodo i fenomeni di disgregazione e di perdita
dell’unità che già si erano delineati negli anni precedenti il primo conflitto mondiale
con l’irruzione dell’irrazionale e del relativismo nel campo delle scienze e delle
arti. Le maggiori scuole di pensiero sorte dopo la guerra (il neopositivismo, la fenomenologia,
l’esistenzialismo, lo spiritualismo cattolico e le varie correnti del marxismo) avevano
metodologie e interessi molto distanti fra loro e procedettero quindi senza influenzarsi
in modo significativo.
Le avanguardie
Nell’ambito delle arti figurative e della musica, proseguì in questi anni la tendenza
alla rottura delle forme canoniche e la ricerca, a volte esasperata, di nuovi moduli espressivi. Continuò la stagione delle grandi correnti d’avanguardia che, in una società delusa
e disorientata come quella postbellica, trovarono un pubblico più ampio e disponibile
che in passato. Ai movimenti già affermatisi prima della Grande Guerra (l’astrattismo,
il cubismo, il futurismo e l’espressionismo) se ne aggiunsero altri nuovi come il
surrealismo: lanciato nel 1924 da un Manifesto scritto da André Breton, questo movimento vedeva nell’arte l’espressione delle tendenze
profonde dell’inconscio, e promuoveva, nel campo culturale come in quello politico,
la lotta contro ogni forma di convenzione borghese. Ma nessuna delle correnti che
si diffusero nel primo dopoguerra giunse ad affermarsi sulle altre, tanto da essere
rappresentativa di un’epoca e di una temperie culturale. Non è forse un caso se due
fra le maggiori personalità dell’epoca rispettivamente nel campo pittorico e in quello
musicale, Pablo Picasso e Igor Stravinskij, non si identificarono con una sola corrente d’avanguardia, ma piuttosto le attraversarono
e le utilizzarono tutte con straordinario eclettismo.
La crisi del romanzo borghese
Nel periodo fra le due guerre furono pubblicati anche alcuni tra i più grandi capolavori
del ’900: gli ultimi volumi di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust uscirono a guerra appena terminata, come molti dei racconti e dei
romanzi di Franz Kafka; l’Ulisse di James Joyce è del 1922, La montagna incantata di Thomas Mann del 1924, mentre L’uomo senza qualitàdi Robert Musil fu pubblicato all’inizio degli anni ’30. Queste opere sono accomunate
dalla volontà di rappresentare i problemi e le angosce dell’uomo del ’900 e di esprimere,
in modi anche molto diversi (ora restando, come Mann, nel solco della tradizione del
romanzo ottocentesco ora forzando, come Joyce, strutture letterarie e convenzioni
linguistiche), la rottura dell’universo borghese che aveva fatto da sfondo alla grande narrativa dell’800.
Lo scontro ideologico
Un ulteriore elemento di crisi e di disgregazione della cultura europea di questi
anni fu indubbiamente rappresentato dalle divisioni politico-ideologiche. Anche se le loro opere non recavano spesso alcuna traccia visibile delle vicende
sociali contemporanee e apparivano invece come distaccate e ripiegate sulla sperimentazione formale e sull’introspezione psicologica, letterati e artisti furono fortemente coinvolti nelle grandi contrapposizioni fra
liberalismo borghese e comunismo marxista, tra fascismo e democrazia.
L’impegno degli intellettuali
L’impegno politico non era certo una cosa nuova per gli intellettuali europei. Ma
ciò che accadde negli anni fra le due guerre fu un fenomeno più esteso e più carico
di implicazioni. Gli intellettuali furono chiamati sempre più spesso non solo a testimoniare,
ma a parteggiare apertamente, a prendere posizione su singoli problemi (fu allora che si diffuse l’uso dei manifesti e degli appelli pubblici firmati da
personalità della cultura); furono mobilitati, e spesso utilizzati spregiudicatamente,
da partiti e governi; si divisero secondo linee di contrapposizione che ricalcavano
gli schieramenti politico-ideologici: se la cultura liberale aveva i suoi maggiori
punti di riferimento in Benedetto Croce e in Thomas Mann, se i comunisti potevano
vantare illustri “compagni di strada” come Pablo Picasso e Maksim Gor’kij, André Gide
e Romain Rolland, anche la destra autoritaria poteva mettere in campo personaggi prestigiosi
come i filosofi Giovanni Gentile e Martin Heidegger (uno dei padri dell’esistenzialismo),
il giurista e politologo tedesco Carl Schmitt e il poeta statunitense Ezra Pound.
Parve a molti che gli intellettuali, lasciandosi coinvolgere così a fondo nelle contese
politiche, tradissero in qualche modo la loro missione, che abdicassero al loro ruolo
di guida delle coscienze per adattarsi a quello di propagandisti.
La “fuga di cervelli” dall’Europa
Divisa e lacerata dalla radicalizzazione ideologica e politica, la cultura europea
subì anche in modo diretto e drammatico le conseguenze dell’avvento dei regimi totalitari. Se la dittatura staliniana provocò la scomparsa fisica di una parte non trascurabile
dell’intellettualità russa (una perdita che si aggiunse alla cospicua “fuga di cervelli”
verificatasi dopo la rivoluzione del 1917), il regime nazista in Germania costrinse
all’esilio centinaia di intellettuali, soprattutto ebrei. Molti si rifugiarono in
Francia, in Gran Bretagna, in Svizzera. Ma i più scelsero come meta della loro emigrazione
gli Stati Uniti. La cultura e la scienza europee subirono così, negli anni ’30, un’emorragia di grandi proporzioni: dopo quello economico, anche il
centro culturale del mondo industrializzato cominciava a dislocarsi al di là dell’Atlantico.
Sommario
La seconda metà degli anni ’20 segnò per l’Europa e il mondo industrializzato un periodo
di ripresa economica e di espansione produttiva non privo di elementi di squilibrio.
Le economie capitalistiche, infatti, si trovarono, a guerra finita, di fronte a una
sovrapproduzione cronica, cioè a una capacità produttiva eccessiva rispetto alle capacità
di assorbimento dei mercati. La situazione fu aggravata dalla scelta degli Stati Uniti
che ostacolarono le importazioni e bloccarono l’immigrazione.
Gli Stati Uniti degli anni ’20 erano il primo paese produttore in tutti i settori
più importanti dell’industria e dell’agricoltura, il primo esportatore di capitali
e il primo creditore; il dollaro aveva scalzato definitivamente la sterlina come moneta
forte dell’economia internazionale. Il tutto in una situazione sociale non priva di
contraddizioni e problemi (diseguaglianza sociale, crescita della intolleranza nei
confronti delle minoranze etniche). La stessa febbre speculativa che portò a investimenti
frenetici in Borsa aveva in realtà fondamenta assai fragili. A far precipitare la
situazione fu la crisi borsistica del ’29, innescata da massicce vendite, che determinarono
la perdita di valore delle azioni e il polverizzarsi di grandi e piccoli risparmi,
la chiusura di molte imprese, il dilagare della disoccupazione.
Dato lo stretto legame di interdipendenza delle economie europea e mondiale con gli
Usa, la crisi innescata dal crollo del 1929 si diffuse in tutto il mondo (eccetto
l’Urss): fra il 1929 e il 1932 la produzione mondiale di manufatti diminuì del 30%,
quella di materie prime del 26%. I disoccupati raggiunsero i 14 milioni negli Stati
Uniti e i 6 milioni in Germania. Tutti i paesi risposero alla crisi adottando, come
gli Stati Uniti, politiche protezionistiche in difesa della produzione nazionale e
svalutando le loro monete, per rendere più bassi i prezzi delle proprie merci e favorire
le esportazioni. Ne conseguì una contrazione drastica del commercio internazionale,
che fra il 1929 e il 1932 si ridusse di oltre il 60%.
In Europa al declino delle attività produttive e commerciali si sovrapposero una crisi
bancaria e una monetaria che, nel 1931, spinsero la Banca d’Inghilterra a sospendere
la convertibilità della sterlina in oro. Tutti i governi risposero alla crisi con
gli strumenti classici (taglio alla spesa pubblica e nuove tasse), aggravando in realtà
la recessione e la disoccupazione. In Germania le conseguenze della crisi furono particolarmente
severe, in quanto il paese, gravato da ingenti riparazioni di guerra, dipendeva ancor
più degli altri dai prestiti statunitensi. In Francia la crisi giunse in ritardo ma
durò più a lungo e coincise con un periodo di instabilità politica. In Gran Bretagna
fu adottato un sistema di tariffe doganali che privilegiava gli scambi commerciali
nel Commonwealth.
Nel 1932 divenne presidente degli Usa il democratico Franklin Delano Roosevelt, abile
politico e uomo di grande carisma e forza comunicativa. La sua politica (New Deal) si caratterizzò per un energico intervento dello Stato nell’economia: ingenti finanziamenti
furono volti a risanare il sistema creditizio, furono facilitati i prestiti ai privati,
aumentati i sussidi di disoccupazione e svalutato il dollaro per rendere più competitive
le esportazioni. A queste misure si aggiunsero alcuni provvedimenti più organici di
sostegno al settore agricolo, industriale, energetico. Il New Deal rappresentò un’esperienza innovativa anche se non riuscì a determinare una piena
ripresa dell’economia americana, che si sarebbe verificata solo con la guerra.
In quasi tutti i paesi la grande crisi favorì l’adozione di nuove forme di intervento
dello Stato in campo economico: una tendenza in radicale contrasto con i princìpi
del liberismo. A livello teorico, l’utilità dell’intervento statale a sostegno delle
attività produttive fu sostenuta dall’economista inglese Keynes che, in particolare,
sottolineò il ruolo della spesa pubblica ai fini dell’incremento della domanda e del
raggiungimento della piena occupazione.
Negli anni ’30 si registrò un’accelerazione del processo di urbanizzazione, che comportò
un boom edilizio e, grazie alla disponibilità di case nuove dotate di servizi, un
miglioramento delle condizioni di vita della popolazione urbana. Aumentò anche la
produzione europea di automobili, che rimasero in Europa però, diversamente dagli
Usa, beni di lusso, come gli elettrodomestici. Grande diffusione ebbe, invece, la
radio, che divenne un fondamentale mezzo di svago e soprattutto di comunicazione di
massa. Gli stessi anni videro anche l’affermazione del cinema, dalla fine degli anni
’20 passato al sonoro. La radio e il cinema costituirono un formidabile moltiplicatore,
capace di trasformare in spettacolo di massa qualsiasi manifestazione della vita sociale.
Alcune scoperte degli anni ’20 e ’30 segnarono in modo decisivo la storia del ’900.
La più importante fu la scoperta dell’energia nucleare, che avrebbe portato alla costruzione
della bomba atomica. Tra le applicazioni belliche della scienza, furono fondamentali
anche i grandi sviluppi dell’aeronautica.
Per la cultura europea gli anni ’20 e ’30 furono anni di crisi e di mutamenti profondi.
Proseguì la tendenza alla rottura delle forme canoniche e la ricerca, a volte esasperata,
di diversi moduli espressivi. Nacquero nuove avanguardie artistiche, come il surrealismo,
e furono pubblicati alcuni dei più grandi capolavori della narrativa del ’900. Letterati
e artisti cominciarono a essere fortemente coinvolti nelle contrapposizioni ideologiche
fra liberalismo borghese e comunismo marxista, tra fascismo e democrazia. Dopo l’affermazione
dei regimi totalitari, molti intellettuali russi e tedeschi abbandonarono i propri
paesi per rifugiarsi all’estero, soprattutto negli Stati Uniti.
Bibliografia
Sul “grande crollo” e la crisi mondiale che ne seguì: J.K. Galbraith, Il grande crollo, Bur, Milano 2017 (ed. or. 1954); C.P. Kindleberger, La grande depressione nel mondo 1929-1939, Etas Libri, Milano 1982 (ed. or. 1973).
Sugli Stati Uniti: E. Foner, Storia degli Stati Uniti d’America, Donzelli, Roma 2017 (ed. or. 1994); O. Bergamini, Storia degli Stati Uniti, Laterza, Roma-Bari 2010 (ed. or. 2002); M. Del Pero, Libertà e impero. Gli Stati Uniti e il mondo, 1776-2016, Laterza, Bari-Roma 2017 (ed. or. 2008) e A. Testi, Il secolo degli Stati Uniti, Il Mulino, Bologna 2017 (ed. or. 2008). In particolare, sugli anni ’20 e ’30, vedi M.E. Parrish, L’età dell’ansia. Gli Stati Uniti dal 1920 al 1940, Il Mulino, Bologna 2003 (ed. or. 1992). L’opera più ampia sugli anni della crisi e del New Deal è quella di A. Schlesinger jr., L’età di Roosevelt, Il Mulino, Bologna 1959-65 (ed. or. 1957-60), in tre volumi. Si vedano inoltre B. Bernanke, Essays on the Great Depression, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2000 e M. Vaudagna, The New Deal and the American Welfare State. Essays from a Transatlantique Perspective (1933-1945), Otto, Torino 2013; e il primo volume, Road to New Deal, di R. Daniels, Franklin D. Roosevelt, University of Illinois Press, Urbana 2015.
Sui nuovi mezzi di comunicazione di massa: A. Briggs-P. Burke, Storia sociale dei media. Da Gutenberg a Internet, Il Mulino, Bologna 2010 (ed. or. 2001); F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia: un secolo di costume, società e politica, Marsilio, Venezia 2013 (ed. or. 1992); A. Sangiovanni, Storia dei media in Italia dall’età liberale alla seconda guerra mondiale, Donzelli, Roma 2012 (ed. or. 2006).
5. L’Europa degli anni ’30: totalitarismi e democrazie
5.1. L’eclissi della democrazia
Autoritarismo e totalitarismo
Negli anni ’30 del ’900, in coincidenza col dilagare della crisi economica, la democrazia visse la sua stagione più buia e rischiò addirittura di vedere le
sue istituzioni e le sue culture cancellate dall’Europa continentale, anche dai paesi
in cui sembravano avere basi più solide. Già nel decennio precedente, regimi autoritari si erano affermati in molti Stati dell’Europa mediterranea e orientale [cfr. 3.8]. Ma, nei paesi più progrediti sul piano dell’economia e delle strutture civili,
questi regimi erano stati visti soprattutto come un prodotto dell’arretratezza economica
e politica e dell’insufficiente radicamento dei princìpi liberal-democratici. Con
la grande crisi del 1929, con i successi del nazismo in Germania e con la crescita
generalizzata dei movimenti antidemocratici soprattutto in Europa orientale, si capì
che il male era più profondo.
In ampi strati dell’opinione pubblica, infatti, si era diffusa la convinzione che
i sistemi democratici fossero troppo deboli per tutelare gli interessi nazionali e troppo inefficienti per garantire il benessere dei cittadini; che la vera alternativa fosse quella fra
il comunismo sovietico e i regimi autoritari di destra. Furono questi ultimi a conoscere negli anni ’30 il loro periodo di maggior fortuna:
sia sotto la veste delle dittature reazionarie di tipo tradizionale, sia nelle forme
più “moderne” del fascismo italiano e poi del nazismo tedesco.
I caratteri dei fascismi
Caratteristica fondamentale dei movimenti e dei regimi che convenzionalmente chiamiamo
fascisti – anche se il fascismo non ebbe mai una base dottrinaria ben definita – era
il tentativo di proporsi come artefici di una propria rivoluzione, di dar vita a un
nuovo ordine politico e sociale, diverso da quelli conosciuti fino ad allora. Sul piano dell’organizzazione politica,
fascismo significava accentramento del potere nelle mani di un capo, strutturagerarchica dello Stato, inquadramento più o meno forzato della popolazione nelle organizzazioni di massa, rigido controllo sull’informazione e sulla cultura. Sul piano economico, il fascismo si vantava di aver inventato una “terza via” fra capitalismo e comunismo: ma questo modello non riuscì mai a prender corpo e l’unica
vera novità in questo campo consistette nella soppressione della libera dialettica
sindacale, oltre che in un complessivo rafforzamento dell’intervento statale in economia.
Fascismo e ceti medi
Eppure, nonostante la sua inconsistenza teorica, il fascismo e i regimi ad esso affini
esercitarono una notevole attrazione, soprattutto sugli strati sociali intermedi. Ai giovani in cerca di avventura, agli intellettuali bisognosi di certezze, ai piccolo-borghesi
delusi dalla democrazia e spaventati dall’alternativa comunista, le nuove dittature
parevano offrire una prospettiva nuova ed emozionante: la sensazione di appartenere
a una comunità e di riconoscersi in un capo, la convinzione, non importa quanto fondata,
di essere inseriti in una gerarchia basata sul merito (e non sulla ricchezza o sui
privilegi di nascita), l’indicazione di un nemico cui attribuire ogni possibile colpa.
Società di massa e totalitarismi
Tutto ciò rappresentava una sorta di protezione contro il senso di schiacciamento
e di anonimato provocato dai processi di “massificazione”: dunque una reazione contro la società di massa, ma al tempo stesso un’esaltazione di alcuni suoi aspetti. Più di quanto non avessero
mai fatto le classi dirigenti liberal-democratiche, il fascismo seppe capire la società
di massa, ne interpretò le componenti aggressive e violente e soprattutto ne sfruttò appieno le tecniche e gli strumenti: i mezzi di propaganda (soprattutto quelli nuovi, come la radio e il cinema), i canali di informazione e
di istruzione, le strutture associative, in particolare quelle giovanili. Questa capacità
di adattamento alla società di massa e di controllo sui suoi meccanismi costituì una
caratteristica specifica del fascismo e del nazismo, ma anche di un regime di opposta
matrice ideologica e sociale come quello sovietico nell’età di Stalin: fu insomma
propria di tutti quei regimi che, per la loro pretesa di dominare in modo “totale” la società, di condizionare non solo i comportamenti ma la stessa mentalità dei cittadini, sono
stati definiti totalitari.
5.2. Totalitarismo e politiche razziali
Il ricorso alla violenza
Un elemento caratterizzante dei regimi totalitari, anche in tempo di pace, fu la scarsa
o nulla considerazione del valore della vita umana e della dignità dell’individuo.
Mai come in questa fase della storia europea – non a caso culminata con le stragi
di massa del secondo conflitto mondiale – si affermò la tendenza a risolvere i problemi
col ricorso sistematico alla forza, con le deportazioni e i campi di concentramento, infine con lo sterminio di intere
popolazioni o gruppi sociali.
Queste pratiche non erano del tutto estranee all’Europa di inizio ’900, che aveva
conosciuto ripetuti e indiscriminati massacri nei territori dell’Impero ottomano (durante
le guerre balcaniche e poi con lo sterminio degli armeni), senza contare gli eccidi
perpetrati nelle guerre coloniali. Il salto qualitativo si ebbe però con la prima
guerra mondiale, che non solo produsse una generale assuefazione alla morte di massa,
ma abituò i gruppi dirigenti e le opinioni pubbliche a ragionare in termini di salute
e di efficienza collettiva (delle forze armate e della stessa nazione), più che di
benessere dei singoli. Infine, la controversa applicazione del principio dinazionalità, a guerra terminata, creò, come abbiamo visto [cfr. 2.3], nuovi problemi di convivenza fra gruppi etnici, spesso risolti con il trasferimento
forzato o la persecuzione delle minoranze, da parte di Stati che si volevano il più possibile omogenei.
Tutto ciò contribuiva a creare un atteggiamento diffuso, quasi un senso comune che
vedeva nella comunità nazionale non tanto un insieme di individui, quanto un’entità collettiva, un organismo unico la cui integrità andava tutelata a ogni costo, anche a prezzo
dell’espulsione di qualsiasi corpo estraneo o dell’amputazione di presunte parti “malate”.
L’eugenetica
In questo quadro si spiega la rinnovata fortuna dell’eugenetica, una teoria nata nella seconda metà dell’800 che sosteneva la necessità di un