Il secolo delle ideologie, il secolo delle masse, il secolo della scienza e della tecnologia. E ancora: il secolo delle guerre, il secolo americano, il secolo delle donne, il secolo della violenza.
È ancora presto per dare una definizione conclusiva del Novecento, ma certo è possibile ripercorrerne le complesse vicende. Un'ampia selezione di documenti – in quattro volumi – consente di avvicinarsi direttamente ai momenti più significativi e ai protagonisti del secolo, così da misurare i propri interessi e verificare le proprie scelte di campo.
La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa: sono questi i due grandi avvenimenti che dominano questo volume. Due vicende che aprono il Novecento e che, per il loro esito, avranno un'influenza decisiva sugli anni successivi. Con la guerra, gli Stati Uniti entrano prepotentemente sulla scena mondiale, mentre la rivoluzione bolscevica determina la nascita dell'altro grande protagonista della storia politica di tutto il secolo. La conflittualità interna all'Italia è largamente documentata, con una particolare attenzione alle lotte sociali, all'emergere del nazionalismo, alla svolta interventista di Mussolini e all'ingresso del paese in una guerra che vide il rischio di una drammatica sconfitta prima di concludersi con una definitiva vittoria.
Edizione: 2011 Pagine: 398 Collana: Storia e Società ISBN: 9788842094531
L'autore
Vittorio Vidotto
Vittorio Vidotto ha insegnato Storia contemporanea nell'Università di Roma La Sapienza. Per Laterza ha curato Roma Capitale (2002) e Atlante del Ventesimo secolo (4 volumi, 2011) ed è autore, tra l'altro, di Italiani/e (2005), Roma contemporanea (n.e., 2006), 20 settembre 1870 (2020) e Storia moderna (con Renata Ago, n.e., 2021).
Un atlante del Ventesimo secolo: oltre 200 documenti divisi in 4 volumi per orientarsi
e riflettere sul percorso di un secolo di straordinaria complessità. Un secolo che
ha visto i nazionalismi e gli imperialismi in lotta tra loro, due guerre mondiali,
due grandi rivoluzioni comuniste – quella russa e quella cinese –, genocidi e stermini
di massa, la nascita dei totalitarismi, la crisi e la rinascita della democrazia,
l’affermarsi degli Stati Uniti come potenza mondiale, il confronto bipolare con l’Unione
Sovietica, il crollo degli imperi coloniali e la decolonizzazione, guerre locali ad
alta intensità come la guerra di Corea, la guerra d’Algeria, il Vietnam, i Balcani
e innumerevoli guerre minori, il diffondersi e il crollo del comunismo, l’emergere
di nuove grandi potenze politiche ed economiche, come la Cina e l’India. E ancora
conflitti e problemi irrisolti come la questione arabo-israeliana e il nodo del Medio
Oriente e, al finire del secolo, la sensazione di un futuro incerto legata alla nuova
fase di più accentuata globalizzazione, dove il sistema delle interdipendenze sembra
consolidato mentre rimane indeciso l’equilibrio delle forze politiche ed economiche
e la conservazione delle tradizionali egemonie.
Tutto questo è il Ventesimo secolo e molte altre cose ancora. A differenza del Settecento
e dell’Ottocento, per i quali, con procedura arbitraria ma largamente praticata, è
stato estrapolato un solo aspetto caratterizzante, schiacciando tutti gli altri sul
fondo, e dunque sono chiamati convenzionalmente il secolo dei Lumi e il secolo del
progresso, il Novecento non ha ancora un nome suo proprio al di là di quello numerico
che gli deriva dalla sua collocazione lungo la freccia del tempo dell’èra cristiana:
il Ventesimo secolo, appunto, o il Novecento. Ma gli storici, in omaggio alla loro
vocazione e all’insopprimibile ansia di dare un senso e un significato al passato,
chiudendolo in una cornice denominativa, hanno provato e riprovato a nominarlo: rispondendo
alle loro convinzioni e pensando – o illudendosi – di averne colto il significato
ultimo.
E così abbiamo il secolo delle masse, il secolo delle ideologie, della scienza e della
tecnologia. E ancora: il secolo delle guerre, il secolo americano, il secolo delle
donne, l’età della violenza. Oppure: «il secolo breve», una definizione che ha avuto
molta fortuna, ripresa dal titolo italiano del grande libro di Eric J. Hobsbawm, The Age of Extremes (l’età degli estremi).
Sono solo alcune delle tante definizioni del Novecento, ognuna basata su un elemento
che si vorrebbe dominante e tale da caratterizzare l’intero secolo. Ma tante definizioni
possibili ci dicono anche quanto esse siano inevitabilmente parziali e provvisorie.
Del resto, a pochi anni dalla conclusione di un secolo in cui quasi tutti abbiamo
vissuto un tempo più o meno lungo, sarebbe arbitrario e forse impossibile essere certi
che uno dei molti caratteri distintivi proposti sia quello destinato a consolidarsi
e affermarsi col passare degli anni. Anche se questi tentativi rispondono all’esigenza
di conferire a un arco temporale una sua immediata riconoscibilità in grado di rispondere
a un’esigenza di fondo della nostra cultura: quella di misurare, suddividere, segmentare
il passato, utilizzando sempre di più l’unità di misura del secolo. Confidando nella
saldezza del numero e nella sua forza periodizzante per un primo orientamento.
A questa ossessione periodizzante si è aggiunta l’influenza determinante dei mass
media che ha imposto al Novecento anche la divisione per decenni: gli anni Venti,
gli anni Trenta, gli anni Sessanta e così via, ognuno con una sua specifica connotazione
dilatata fino a conferire un significato unitario a tutto il decennio. I «ruggenti»
anni Venti connotati da un vitalismo sfrenato e dalla prima emancipazione femminile,
gli anni Trenta della grande crisi e dei totalitarismi, gli anni Quaranta della guerra
mondiale e della ricostruzione, gli anni Cinquanta della guerra fredda e della decolonizzazione,
gli anni Sessanta del benessere e della rivoluzione studentesca, e così via. Un’operazione
semplificatrice e arbitraria sia per i connotati scelti come prevalenti sia per la
costrizione entro il decennio: eppure tutta la cultura diffusa, ma anche quella specialistica,
non sembra poterne fare a meno. Tanto da rendere inevitabile anche una definizione
per il primo decennio del nuovo secolo Ventunesimo: e così ecco gli «anni zero» o
del «doppio zero», 2001-2009.
È il sistema delle comunicazioni di massa ad aver alimentato questa tendenza fino
al paradosso. Proprio la dilatazione dei mass media da una dimensione nazionale a
una globale porta a consumare freneticamente gli eventi, trascurando la loro rilevanza
comparativa, rendendo sempre meno agevole la comprensione unitaria del nostro presente,
ma anche dell’immediato passato.
Il fatto che nella cultura diffusa sia ancora così viva l’idea di un passato che può
sempre ritornare – un’idea invano osteggiata dagli storici di professione che rivendicano
l’individualità irripetibile degli eventi – testimonia della vitalità di un meccanismo
mentale che sembra offrire un aggancio sicuro, e per certi versi profetico, alla comprensione
del presente e delle prospettive future.
È stato il pensiero cristiano a rompere con l’idea di un ritorno ciclico proiettando
le vicende umane in un destino finalistico individuato dalla rivelazione, ritmato
dalla provvidenza e segnato dalla certezza della fine del mondo. In una concezione
laica priva di un finalismo ultraterreno, alcune filosofie della storia hanno provato
a individuare il motore dello sviluppo e del progresso, e anche delle inevitabili
crisi, nella dialettica antagonista dei corpi sociali secondo una visione meccanica
ma integralmente umana della storia.
Col venir meno di queste e di molte altre certezze, in seguito anche ai terrificanti
orrori e disastri del Ventesimo secolo, è difficile sottrarsi all’angoscia che comporta
la riflessione sul passato e il significato del tempo: «Il tempo è lo spazio trasparente
in cui gli uomini nascono, si muovono e scompaiono senza lasciare traccia»1. Di fronte a questa sensazione che è insieme destino e condanna, gli uomini del nostro
mondo da sempre si arrovellano per dare un significato al tempo che scorre affidando
agli storici in primo luogo il compito di misurarlo, di scandirlo, di legarlo a luoghi,
a volti, a eventi: segnali e presenze per definire uno spazio che altrimenti apparirebbe
vuoto e, appunto, privo di senso.
1 V. Grossman, Vita e destino, Adelphi, Milano 2008, p. 45.
La storia non è memoria. Fornisce piuttosto le procedure e le regole per imporre razionalità
alla memoria individuale e collettiva. Se infatti rimaniamo sul terreno della memoria,
per quanti anni, decenni, secoli siamo in grado di collocare la nostra vicenda personale
o di gruppo, attribuendole un senso nel lungo o anche solo nel breve periodo? In realtà
siamo tutti prigionieri di una dimensione generazionale e privi della capacità di
andare all’indietro tenendo saldo il filo di una conoscenza legata esclusivamente
alla nostra condizione: e smarrito il capo di quel filo torna impellente il bisogno
di affidarsi ad alcuni punti certi, ad alcuni volti, ad alcune vicende.
Di fronte a questa inevitabile miopia appare tanto più significativo l’ancoraggio
ai documenti. I documenti ci raccontano soprattutto i fatti, definiscono un avvenimento
e, attraverso un percorso di selezione, forniscono la dimensione certificabile del
passato e fondano le basi della narrazione storica. E tuttavia la narrazione storica
con il suo incedere prigioniera di un tema o di un percorso cronologico, e obbligata
a rendere conto del complesso interagire dei singoli e delle forze economiche e sociali,
non può avvalersi di quello sguardo circolare sul proprio tempo che solo ai grandi
romanzi (Guerra e pace di Lev Tolstoj, Vita e destino di Vasilij Grossman, Pastorale americana di Philip Rothper citarne solo alcuni) è concesso. Il canone letterario gode di libertà non consentite
a un libro di storia: per quanto molti storici cerchino sempre più di varcare i confini
imposti dalla loro specificità disciplinare, di contaminarsi con la narrazione letteraria
e di potenziare la leggibilità dei loro lavori, storia e letteratura rimangono due
generi diversi con il privilegio per l’opera letteraria di restituire, quasi essa
sola, l’afflato del tempo, il sapore di un’epoca. Tuttavia, in una piccola ma significativa
misura, la vicinanza temporale di documenti anche molto diversi tra loro può riuscire
a dar conto della complessità e della vitalità della ricostruzione storica senza le
scorciatoie dell’immaginazione letteraria.
Salvo qualche esempio di documentazione affidata alle immagini, i documenti di questa
raccolta sono testi scritti, con i loro caratteri specifici e i loro pregi, quelli
dell’autenticità e della rilevanza innanzitutto ma, in una scelta in cui prevale la
storia politica, anche con il limite di non poter cogliere, se non tangenzialmente
o indirettamente, alcune grandi trasformazioni del secolo come quella delle mentalità
e dei comportamenti, raramente condensati nella pagina scritta; e come quella relativa
alla quantificazione dello sviluppo economico, alle dilatazioni o alle contrazioni
demografiche e alla diffusione delle pratiche contraccettive, temi affidati in genere
a grafici e/o a tabelle statistiche, nemiche dei lettori e osteggiate dagli editori.
Ma qual è la tipologia dei documenti che qui vengono proposti? Molti sono documenti
diplomatici, o meglio, relativi alla politica internazionale – quella che si sarebbe
definita la Grosse Politik –, dall’ultimatum alla Serbia del 1914 al patto Molotov-Ribbentrop
del 1939, dal patto di Londra del 1915 agli accordi di Camp David del 1978; e molti
altri ancora: trattati, accordi e convenzioni, compresi quelli che hanno dato origine
e consolidamento all’Europa unita. Importanti discorsi di uomini politici: italiani,
come Giolitti, Mussolini, De Gasperi, Craxi, Berlusconi, e di altri paesi, come Th.
Roosevelt, Clemenceau, Wilson, F.D. Roosevelt, Hitler, Stalin, Churchill, Kennedy,
Martin Luther King. Pagine di libri esemplari da Sigmund Freud a José Ortega y Gasset,
da Frantz Fanon a Hannah Arendt a Renzo De Felice. E ancora: alcune delle più importanti
encicliche papali; testi di leggi, come quella francese sulla separazione tra Stato
e Chiesa o quella sul divorzio in Italia, e costituzioni, da quella di Weimar a quella
italiana che si dà qui per intero; manifesti di propaganda politica da Lenin a Mussolini
a Hitler. Infine documenti, memorie e testimonianze sulla macchina dello sterminio
ripetutamente all’opera nel corso del Ventesimo secolo, contro gli armeni in Turchia,
contro gli ebrei ad opera del nazismo, contro ogni forma di dissidenza nell’Urss di
Stalin e di nuovo in Ruanda negli anni Novanta.
Documenti che rendono conto dei nodi cruciali della guerra e della pace, dei tentativi
di dare ordine al disordine, dell’intelligenza argomentativa dei maîtres à penser, della forza trascinante dei grandi leader, della fascinazione delle ideologie: tutti
elementi che escono con prepotenza da pagine spesso dimenticate.
Il criterio ordinatore di questa raccolta, aperta sul mondo del Ventesimo secolo,
ma con un’attenzione particolare all’Italia (che conta oltre cinquanta documenti),
è quello cronologico: il più semplice e, se si vuole, il più scontato. Ma non l’unico
possibile perché altri criteri, quello tematico o quello geografico, avrebbero potuto
essere adottati. Ma quello cronologico è in ogni caso preferibile, perché consente
una lettura sincronica degli accadimenti e una distribuzione dei testi nei quattro
volumi secondo un ragionevole criterio temporale. Sono le due guerre mondiali a chiudere
il primo e il secondo volume rispettivamente al 1918 e al 1945, mentre il terzo volume
termina al 1968, spartiacque nella storia delle mentalità e dei comportamenti del
Novecento. Forzando l’aritmetica che vorrebbe i cento anni dal 1900 chiudersi al 1999
(e il passaggio del secolo venne celebrato il 31 dicembre di quell’anno), il quarto
volume si conclude al 2000, in un’epoca in cui circolavano, sostenute da una forte
eco mediatica, le teorie di una «fine della storia» legate alla caduta del Muro di
Berlino e al crollo del sistema comunista sovietico. L’apertura del Ventunesimo secolo
avrebbe poi ridicolizzato queste tesi con la sorpresa periodizzante dell’11 settembre
2001, la distruzione delle Twin Towers nel centro del mondo capitalista occidentale.
Eugenio Montale coglieva quanto di imprevedibile e di irrazionale è nel dispiegarsi
degli eventi quando scriveva in Satura: «La storia / [...] si sposta di binario / e la sua direzione / non è nell’orario»
e ancora «Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri / che paralleli slittano /
spesso in senso contrario e raramente / si intersecano»2. Ma agli storici si impone di sottrarsi a queste suggestioni. E dunque, pur nella
frammentata complessità del Novecento, alcuni punti fermi debbono essere sottolineati.
Secolo contrassegnato dalla universale dilatazione dei poteri dello Stato, non solo
nel campo dell’economia e del Welfare, ma anche nel controllo della vita dei singoli
e dei gruppi sociali, fino a raggiungere le forme poliziesche e terroristiche dei
regimi totalitari. Secolo della violenza politica, della violenza sui civili fino
all’anticipazione apocalittica della bomba atomica, ma anche secolo dell’allargamento
dei diritti: dei popoli, in primo luogo, con il grande fenomeno della decolonizzazione
che ha posto fine al dominio dell’Europa sul mondo e ha accompagnato l’emergere delle
nuove grandi potenze degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Ma anche allargamento
dei diritti delle classi lavoratrici, tutelate dai risultati delle lotte sindacali,
e dei diritti delle persone, delle donne innanzitutto. Se per alcuni l’Ottocento è
il secolo della borghesia, il Novecento non ha una classe sociale di riferimento:
è piuttosto il secolo delle masse e del controllo e della manipolazione delle masse
ad opera di una «nuova politica», spesso demagogica e in grado di sollecitare le componenti
irrazionali delle folle, scavalcando i confini culturali e di classe. Protagoniste
le masse prevalentemente come soggetto passivo, ma disposte anche a forme di autonoma
mobilitazione come nella fase iniziale dei movimenti rivoluzionari. Un protagonismo
impensabile senza la forza aggregante di partiti e sindacati e alla dilatazione dei
mass media, dalla radio al cinema, alla televisione, a internet: un sistema di comunicazione
che ha premiato non solo i dittatori e i totalitarismi, ma anche i meccanismi democratici.
Un sistema della comunicazione di cui si sono avvalsi anche i grandi capi religiosi,
i pontefici innanzitutto, grandi comunicatori in una dimensione planetaria e sempre
meno italocentrica anche con gli ultimi papi italiani.
2 E. Montale, L’opera in versi, Einaudi, Torino 1980: La storia, p. 315; Tempo e tempi, p. 342.
Ognuno pensa e si illude di poter controllare il passato, ma di fronte alla fallacia,
alla fragilità e alle incertezze della memoria questa raccolta intende fornire le
certezze documentate della storia, offrendo al lettore un percorso di verifica delle
sue conoscenze, ma anche invitandolo a inoltrarsi in terreni poco noti.
Prefazione
La cornice cronologica di questo primo volume dell’Atlante del Ventesimo secolo inquadra gli anni dal 1900 al 1918, un arco temporale relativamente breve ma denso
di vicende epocali destinate a segnare l’intero secolo: la prima guerra mondiale,
il nuovo protagonismo degli Stati Uniti, la rivoluzione bolscevica.
Il Novecento si apre tra paure e aspettative. Paure legate ai venti di guerra che,
proprio sul finire dell’Ottocento, si erano alzati in paesi lontani, dalla Cina con
la rivolta antieuropea dei Boxer e dal Sudafrica con la guerra anglo-boera. Aspettative
affidate alla continuazione dell’impetuoso sviluppo economico, industriale e scientifico
garanzia di un ininterrotto progresso. Sull’onda dell’ascesa dei movimenti socialisti,
anche per le classi lavoratrici sembra aprirsi un nuovo orizzonte di ascesa politica
e sociale.
Gli anni che a posteriori, dopo i disastri della Grande guerra, appariranno, deformati
dalla nostalgia, come quelli di una belle époque, sono in realtà anni di tensioni tra le potenze, di confronti su scala mondiale,
di esplosioni rivoluzionarie e di inquietudini diffuse.
Il secolo si apre in Italia tragicamente con l’uccisione del re Umberto I e vede negli
anni successivi l’inizio della politica riformatrice di Giolitti, tra le difficoltà
di un paese avviato alla modernizzazione industriale ma segnato dal problema dell’arretratezza
del Sud e da un’endemica emigrazione. Sono gli anni della nascita delle organizzazioni
sindacali, dei contrasti tra socialisti rivoluzionari e riformisti, dell’emergere
di un movimento nazionalista a sostegno di una nuova espansione coloniale che si realizza
nella guerra di Libia.
Sul piano internazionale, mentre si placano le rivalità anglo-francesi in un accordo
duraturo (l’Intesa cordiale del 1904), rimangono sospese in Europa quelle con la Germania
impegnata in un rafforzamento della marina militare, premessa di un confronto con
la Gran Bretagna che scatena una rincorsa agli armamenti navali. A Oriente il giovane
espansionismo giapponese si scontra e sconfigge (1905) il vecchio impero zarista inaugurando
un lungo ciclo di conflitti in Asia orientale destinato a durare settant’anni.
Nel 1902 l’economista inglese John A. Hobson analizza i meccanismi della gara coloniale
e della mentalità imperialista, mentre il medico viennese Sigmund Freud svela i segreti
dell’inconscio aprendo un nuovo campo destinato a scardinare le tradizionali concezioni
del funzionamento della psiche e della sessualità.
Le certezze codificate del mondo delle forme artistiche sono radicalmente sovvertite
dai numerosi movimenti di avanguardia che animano il primo decennio – tra questi il
cubismo in Francia e il futurismo in Italia – con echi in tutta Europa. Si consolida
tra gli ebrei il movimento sionista anche in risposta al diffuso antisemitismo che
codifica stereotipi e falsificazioni nei Protocolli dei «Savi Anziani» di Sion.
Nel periodo anteguerra i Giovani turchi avviano una rivoluzione modernizzatrice nell’impero
ottomano; in Messico si scatena un lungo confronto rivoluzionario che coinvolge esercito,
classi dirigenti e mondo contadino; in Russia al tempo della guerra col Giappone e
in Cina nel 1911-1912 le brevi parentesi rivoluzionarie si concludono col ritorno
a forme di governo autoritario. Una grande novità di questi anni è anche la nascita
dei movimenti femministi che si battono per il suffragio alle donne in Gran Bretagna
e negli Stati Uniti.
Il primato dello sviluppo industriale varca l’oceano e nelle officine Ford di Detroit
ha inizio la produzione automobilistica di massa, basata su un nuovo sistema di organizzazione
del lavoro.
Poi viene la guerra, inattesa e imprevedibile nelle sue dimensioni mondiali, moderna,
distruttrice di vite umane e di ricchezze materiali. Alla guerra, alla propaganda
bellica e alle voci critiche, al suo andamento, al dramma delle trincee, sono dedicati
molti documenti, con particolare attenzione all’Italia, al patto di Londra, ai contrasti
tra interventisti e neutralisti, alla disfatta di Caporetto.
E sulla guerra si innestano i due avvenimenti che determinano la prima grande svolta
del Novecento: l’intervento degli Stati Uniti nella guerra europea e la rivoluzione
bolscevica in Russia. Da allora la scena mondiale non potrà prescindere da questi
nuovi protagonisti, mentre inizierà il lento ma inarrestabile declino dell’egemonia
delle vecchie potenze europee.
1. L’uccisione di Umberto I (29 luglio 1900)
Il 29 luglio del 1900, a Monza, l’anarchico toscano Gaetano Bresci colpì a morte con
tre colpi di pistola il re d’Italia Umberto I mentre si recava in carrozza a una
manifestazione ginnica. Bresci, emigrato negli Stati Uniti, era tornato appositamente
in Italia per vendicare le vittime dei tumulti per il caropane del 1898. L’8 maggio
di quell’anno, a Milano, il generale Bava Beccaris aveva impiegato l’artiglieria contro
la folla dei dimostranti, facendo 80 morti e 450 feriti. Come riconoscimento del servizio
reso alla patria, Umberto I aveva insignito Bava Beccaris della Gran Croce dell’Ordine
Militare di Savoia e lo aveva nominato senatore.
Il regicidio ebbe un’enorme risonanza nell’opinione pubblica, e il cordoglio del mondo
politico fu unanime, così come la violenta condanna nei confronti della «belva in
figura d’uomo» che si era macchiata del crimine «parricida». Tuttavia, l’uccisione
del re non bloccò la svolta in corso nel paese, favorita dal successo della sinistra
liberale e dei partiti dell’Estrema nelle elezioni politiche del giugno 1900. Nonostante
il regicidio, infatti, il nuovo re Vittorio Emanuele III mantenne la politica moderata
avviata da Umberto I dopo il fallimento della svolta autoritaria tentata da alcuni
settori della classe dirigente italiana tra 1898 e 1900 (la «crisi di fine secolo»).
Dopo aver confermato il governo di transizione guidato dall’anziano ex presidente
del Senato Giuseppe Saracco, nel 1901 affidò la guida del paese a Giuseppe Zanardelli,
esponente della sinistra liberale.
Condannato all’ergastolo, nel 1901 Bresci fu trovato impiccato nella sua cella: questa
fu la versione ufficiale, mentre era stato ucciso da alcune guardie del penitenziario
dell’isola di Santo Stefano.
I documenti che qui si presentano sono il necrologio del re pronunciato dal presidente
del Consiglio Giuseppe Saracco alla Camera dei deputati e l’articolo pubblicato in
prima pagina dal «Corriere della Sera» dopo l’attentato.
Discorso del Presidente del Consiglio Giuseppe Saracco1
Signori deputati! Mi onoro di annunziare alla Camera, che S.M. il Re, con decreti
del 2 agosto, ha confermato me nell’ufficio di presidente del Consiglio, ministro
dell’interno, e i miei colleghi nelle loro rispettive funzioni. Spetta perciò a me
di compiere il mestissimo ufficio di associarmi, in nome del Governo, ai sentimenti
d’indignazione e di dolore, espressi con rara eloquenza dal vostro degno presidente.
Mi associo a questi sentimenti coll’animo più che con le parole; le quali non bastano
a significare la commozione profonda e il cordoglio che mi strazia.
Io, che vidi le origini del nuovo Regno, e presi parte a tutte le vicende fortunate,
per cui il piccolo Piemonte si trasformò nella Grande Patria Italiana, non avrei mai
creduto di viver tanto per assistere alla strage del mio Re. (Bravo! Bene!)
Ciò che più mi cruccia è il pensiero che la sua vita preziosissima fu troncata dalla
mano d’un italiano. (Bravo! – Approvazioni)
Se la maledizione del popolo non avesse raggiunto il parricida, se non gli pendesse
inesorabile sul capo la maledizione di Dio e di tutto il mondo civile, vorrei anch’io,
con le lagrime negli occhi e con lo sdegno nel cuore, esecrare e maledire questa belva
in figura d’uomo. (Benissimo! – Vive approvazioni)
Ma debbo far forza a me stesso e, come capo del Governo, imporre freno all’indignazione
che mi trabocca dall’animo, imitando l’esempio di forte serenità che ci viene dall’Augusto
Successore.
Raccolti nel dolore, prostriamoci innanzi al feretro del Re leale, buono e generoso,
soldato per la patria e per l’umanità, del Re che riassumeva le virtù civili e militari
della sua eroica stirpe; del Re che fu sempre fortunato interprete dei sentimenti
e delle aspirazioni del suo popolo, cui lascia tanta e così larga eredità di affetti.
L’universale compianto che lo accompagna nel sepolcro è il giusto premio di una vita
tutta spesa nello adempimento del dovere e dedicata al benessere ed alla felicità
del suo popolo.
La fine crudele toccata al più giusto, al più umano dei Sovrani deve ispirarci gravi
riflessioni e suscitare virili propositi.
Di fronte alla frequenza di così mostruosi e brutali delitti che, senza odio e senza
motivo, prendono di mira le più innocenti e le più elevate esistenze; di fronte alle
minaccie incalzanti e feroci di una classe di degenerati senza patria, senza umanità
e senza Dio; (Benissimo! – Vivissime approvazioni) che sognano di rinnovare la società seppellendola sotto le sue rovine; in mezzo
a tanto agitarsi di malsane passioni e di appetiti sfrenati, che avvelenano l’ambiente
e turbano la pubblica coscienza, non è lecito al Governo rimanere impassibile; (Benissimo! – Bravo!) non potete restare impassibili voi, onorevoli deputati, cui sono commesse le sorti
di una così nobile e civile nazione, grande nei suoi slanci patriottici, generosa
e cavalleresca nei suoi sentimenti. (Bene!)
Non è possibile che nel seno di questo bel paese continui a fecondarsi il reo seme
che ha dato frutti così funesti e ne prepara di peggiori per l’avvenire. (Benissimo!)
Tutti coloro che, come noi, son convinti essere la Monarchia la sola forza con la
quale il nostro paese può tenersi unito e prosperare (Benissimo!) hanno l’obbligo di stringersi insieme per studiare e preparare i mezzi acconci a
prevenire le funeste esplosioni di un fanatismo cieco, che minacciano il ritorno di
una barbarie nuova e senza nome. (Approvazioni)
È questo il còmpito che i nuovi pericoli impongono al Governo ed al Parlamento, consci
della loro missione e solleciti dell’onore, della sicurezza e dell’avvenire del paese.
(Benissimo!)
Dopo mezzo secolo di vita politica, attraverso tante vicende, non ho mai perduta la
fede nei benefizi della libertà, che fu la leva del nostro risorgimento e la pietra
angolare del nostro Regno; (Benissimo!) ma, per assicurarla e garentirla, occorre impedire con mano ferma ed energica che
all’ombra e sotto il pretesto della libertà si sovvertano gli ordini dello Stato (Benissimo! – Vivi applausi) e si mettano in serio pericolo le conquiste della civiltà e del progresso. (Benissimo!)
L’immensa sventura che ci strappa così amare lacrime, sia per noi un salutare lavacro
che purifichi gli spiriti e unisca gli animi alla comune difesa.
Sarà questo l’omaggio più degno che possiamo rendere alla venerata memoria del compianto
Sovrano ed il saluto augurale all’Augusto Successore che, giovane ed animoso, seguita
sul trono le orme luminose del Padre e dei suoi Grandi Avi.
I vecchi vi hanno data una Patria e un glorioso retaggio da custodire; spetta a voi
giovani di conservarlo ed accrescerlo con la fede robusta, collo spirito di sacrifizio
e col sentimento di solidarietà, che levarono l’Italia alla presente fortuna. (Benissimo! – Vive approvazioni – Vivi e prolungati applausi)
[Atti parlamentari della Camera dei deputati, legislatura XXI, I sessione, discussioni, tornata del 6 agosto 1906, pp. 337-340]
«La tragica morte di re uUmberto a mMonza»
Il paese, sotto l’impressione di un dolore sinceramente, profondamente sentito, ha
fatto alla memoria del Re, caduto per la orribile mano del parricida, alla monarchia
e a tutto quel complesso di idealità, che si riassumono nel nome della patria, una
di quelle dimostrazioni, che sono a un tempo la rivelazione d’uno spirito buono e
l’affermazione d’un grande pensiero, di una intensa volontà politica. Il popolo italiano,
così preso di mira da faziosi di ogni colore, di ogni gradazione, ha avuto uno scatto
meraviglioso, un impeto sincero come in difesa de’ suoi vecchi sentimenti, come a
tutela dell’opera sua; e il suo dolore ha significato a quanti intesero: devozione
al principato liberale, tenace fermezza nel principio unitario.
Il popolo italiano, colla sua gran voce, ha parlato alto e forte a tutti: ai suoi
nemici interni non meno che agli altri popoli. Questa sua manifestazione di pietà
e di affetto verso il suo amato Capo defunto, verso la Regina sconsolata, verso il
Re che, col cuore ferito, torna da un viaggio, che doveva essere lieto, a raccogliere
la successione; questa manifestazione ha avuto un grande significato politico, dinanzi
al quale paiono oggi ben misera cosa le propagande sovvertitrici. Dove sono, a quest’ora,
e che hanno fatto di bene al popolo, codesti «maestri»? Quanti hanno abbassata la
voce e nascosto un poco la faccia! Quanti hanno mutato il linguaggio!...
La tragedia di Monza ha avuto dunque la potente virtù di riunire intorno al trono
tutti gli italiani in un solo pensiero, in un sentimento solo. Il Sovrano spento tante
volte aveva chiamato il suo popolo alla concordia; egli doveva dare alla concordia
del suo popolo, in olocausto purissimo, anche il suo sangue.
L’onda di dolore, che è passata sulle anime nostre, e le ha squassate, fu così irruente
e così larga, da avvolgere tutta l’Italia. Milano specialmente – questa nostra Milano
– dove le idee sovversive pareva che avessero la miglior fortuna – s’è levata in un
tale impeto di dolore che a nessuno è sfuggito.
Certo la commozione schietta e profonda della città nostra deve essere stata di grande
ammaestramento a quelli che credevano di aver qui condotta a buon punto l’opera di
demolizione, deve averli avvertiti che non si può giungere in fondo senza offendere
le intime e più vitali fibre di tutto il popolo italiano e provocare una ribellione
contro l’opera ribelle. E che il lutto di Milano abbia avuto particolarmente questo
significato lo dimostra la condotta di alcuni, i quali, in quest’ora di dolore, senza
preoccuparsi della coerenza, parlano un linguaggio, tengono una condotta, per loro,
del tutto insoliti.
A tali, che si presumevano maestri, il popolo milanese diede una solenne lezione,
dove è tanta sapienza politica quanta essi, non sapevano che si potesse possedere.
E questo è bene che si dica e si sappia fuori a conforto di tutti, e pegno a sicuro
che il patto unitario con la casa di Savoia è saldo e incrollabile nella fede di tutto
il popolo italiano. Il quale – mentre il morto Re attende di essere composto nel feretro
– sente il bisogno di serrarsi intorno alla Reggia in atto di profonda pietà e di
raccogliere le lagrime della pia e augusta Donna, la più virtuosa delle spose, la
più gentile delle madri, cui il dolore, in mezzo alle donne italiane, ha baciata sul
fronte [sic] e resa sacra. A lei, in un’ora di giubilo, era salita la canzone del
poeta2 così alta come quelle, che resero immortali Beatrice e Laura. A lei, in quest’ora
di lutto angoscioso, salga la voce confortatrice del popolo, che intende i dolori.
2 Ci si riferisce qui all’ode Alla Regina d’Italia, composta da Giosue Carducci nel 1878.
Il pianto d’Italia sia alla Gentile di mesto conforto e infonda al Re, che ritorna,
fede nella sua missione. Vittorio Emanuele III raccoglie la successione in un’ora
tragica per la sua Casa e per la Nazione, in una di quelle ore, in cui la storia si
fa più densa di pensieri e di ammaestramenti. Gli alti esempi de’ suoi maggiori abbondarono;
nelle sue vene scorre quel sangue; il popolo gli va incontro, riunito.
L’ora è profondamente triste; ma contiene, auguriamolo, il germe di un grande avvenire.
[La tragica morte di Re Umberto a Monza, in «Corriere della Sera», 31 luglio-1º agosto 1900]
2. La questione meridionale (1900, 1908)
Il Regno d’Italia si presentò all’appuntamento con il nuovo secolo come un paese diviso.
A quarant’anni dall’unificazione, esistevano di fatto due Italie che si allontanavano
sempre più l’una dall’altra: un Nord in via di rapida industrializzazione, e un Sud
povero, arretrato ed estraneo ai processi di modernizzazione che stavano trasformando
il profilo delle regioni settentrionali. La questione meridionale divenne oggetto
delle riflessioni di studiosi, uomini politici ed intellettuali impegnati a comprendere
le ragioni dell’arretratezza del Sud e ad individuarne i possibili rimedi.
Francesco Saverio Nitti, nato a Melfi (Potenza) nel 1868, fu – oltre che un uomo politico
di livello nazionale – un meridionalista attento e acuto, che mise a frutto nei suoi
studi sul Mezzogiorno le sue competenze di professore di Scienza delle finanze. Nell’opera
Nord e Sud – pubblicata a Torino nel 1900 e di cui riportiamo alcune pagine – egli presentò
una ricca raccolta di dati sull’economia del paese, evidenziando come l’arretratezza
del Sud fosse non già il riflesso di una presunta inferiorità antropologica delle
popolazioni meridionali, bensì il frutto della politica economica messa in atto dalle
classi dirigenti post-unitarie. Al divario tra Nord e Sud occorreva secondo Nitti
porre rimedio attraverso un piano organico di riforme (sgravi fiscali, infrastrutture,
legislazione sociale) e un impegno diretto dello Stato nell’industrializzazione delle
regioni meridionali. Nel secondo documento – un articolo pubblicato sulla rivista
fiorentina «La Voce» nel 1908 – il meridionalista pugliese Gaetano Salvemini (1873-1957)
denunciava con sferzante ironia il malcostume imperante nell’Università napoletana,
specchio fedele del vuoto morale, della mediocrità intellettuale e del servilismo
politico che affliggevano la capitale del Mezzogiorno.
«Nord e Sud»
L’unità d’Italia non poteva esser fatta se non con il sacrifizio di alcune regioni,
soprattutto del Mezzogiorno continentale. Questa grande zona, mentre, all’atto della
costituzione del Regno, portava minori debiti e più grande ricchezza pubblica, dalla
sua situazione geografica era messa alla più grande distanza dal confine. La conformazione
dell’Italia – che non ha riscontro in nessun paese d’Europa – determinava, in un primo
periodo, grandissimo esodo di ricchezza dal Sud al Nord.
L’Italia del Sud era il reame, il reame per eccellenza come dicevano gli storici: l’Italia del Nord era divisa
in molti Stati e ognuno di essi avea istituzioni proprie. Queste ultime furono conservate
con cura; e quando erano meschine furono ingrandite. Il Sud perdé il suo esercito,
la sua burocrazia innumerevole e povera: e vide in pochi anni, quando la ricchezza
non era cresciuta, crescere smisuratamente le imposte.
Tutto è stato fatto senza malevolenza; è stato effetto, anzi, di necessità.
Il confine spostato potea permettere che, come nel 1859, fossero nel Sud quasi 100
mila soldati?
I bisogni imperiosi degli anni che seguirono il 1860 rendevano necessario aumentare
l’entrata. Si poteva adottare il regime fiscale di Napoli, così blando e così disadatto,
a un paese in trasformazione?
La burocrazia meridionale era borbonica: si potea non licenziarla quasi in massa?
La unità era da compiere e le guerre dovevano farsi al Nord. Come non provvedere la
Lombardia, il Piemonte, la Liguria, il Veneto di strade, di ferrovie, di forti? Dinanzi
alla necessità suprema della difesa non è possibile discutere.
Vi era differenza dei debiti pubblici, differenza grande nei patrimoni di ogni Stato;
ma nel momento dell’entusiasmo, nella gioia del sogno realizzato non era strano fare
i conti?
Quando i capitali si sono raggruppati al Nord, è stato possibile tentare la trasformazione
industriale. Il movimento protezionista1 ha fatto il resto, e due terzi d’Italia hanno per dieci anni almeno funzionato come
mercato di consumo.
1 Nel 1878 e in misura maggiore nel 1887 furono introdotti alcuni dazi di importazione
finalizzati a proteggere le nascenti industrie settentrionali dalla concorrenza straniera,
penalizzando le esportazioni dell’agricoltura specializzata meridionale.
Ora l’industria si è formata, e la Lombardia, la Liguria e il Piemonte potranno anche,
fra breve, non ricordare le ragioni prime della loro presente prosperità.
Senz’ombra d’ironia – non è il caso, né io vorrei – il Nord non ha colpa in tutto
ciò: la sperequazione presente che ha messo a così diverso livello regioni dello stesso
paese, è stata frutto di condizioni politiche e storiche.
Ma il Nord d’Italia ha già dimenticato: ha peccato anche di orgoglio. I miliardi che
il Sud ha dato, non ricorda più: i sacrifizi compiuti non vede.
Qualche autore ha detto perfino che in Italia vi sono razze superiori e razze inferiori2. I meridionali appartengono piuttosto a quest’ultima categoria. Esiste una scienza,
anzi una mezza scienza, che prevede senza difficoltà l’avvenire dei popoli e che sa
dire chi sia capace di progredire e chi non. Questa mezza scienza si diletta a dire
che i meridionali sono un ostacolo a ogni progresso; che persino ogni reazione viene
dal Mezzogiorno.
2 Il riferimento è ad Alfredo Niceforo, antropologo e criminologo (1876-1960).
Ora è bene che la verità sia detta: essa renderà l’Italia settentrionale meno orgogliosa
e l’Italia meridionale più fidente. Quando si saprà ciò che quest’ultima ha dato e
quanto ha sacrificato, sia pure senza volere e senza sapere, la causa dell’unità avrà
molto guadagnato.
Non è raro leggere in un giornale di Milano che una elezione di Lombardia vale politicamente
dieci del Mezzogiorno: che i meridionali sono causa del disordine della vita pubblica
italiana. Non è raro sentir dire che da quando nella vita politica italiana l’intervento
dei meridionali è stato maggiore le cose vanno peggio. L’Italia meridionale appare
come una Vandea di baroni assenteisti, di plebi ignoranti e di politicanti corrotti.
Le ferrovie del Mezzogiorno sono la causa delle difficoltà del bilancio; gl’impiegati
meridionali del disordine amministrativo; i politici meridionali del militarismo.
Queste cose si dicono in mezza Italia, ma sommessamente, con quel parlar discreto
ch’è il nostro male. Ebbene, diciamola tutta la verità, facciamola sentire apertamente,
sì come è dovere nostro.
Chi non ha sentito parlare a Milano dei baroni del Mezzogiorno?
Se il pane si paga caro, è per pagare benefizi enormi ai baroni meridionali; se lo
Stato è in disordine, sono sempre i baroni del Mezzogiorno, per cui l’Italia meridionale
non solo ha il latifondo agrario, ma è essa stessa un latifondo politico.
I baroni del Mezzogiorno sono niente altro che una frase infelice. Se dei baroni meridionali il più antico catalogo è, dicono, quello di Ruggeri il Normanno3 e non si trova in nessuna parte, il più moderno catalogo si trova sempre ed è nei
registri dei debitori morosi nel credito fondiario.
3 Si tratta del Catalogus baronum, elenco di feudi e feudatari dell’Italia meridionale compilato dalla curia regia
normanna intorno al 1150.
Per quanto sia aspra, la verità è preferibile a ogni cosa.
E la verità è che l’Italia meridionale ha dato dal 1860 assai più di ogni altra parte
d’Italia in rapporto alla sua ricchezza; che paga quanto non potrebbe pagare (le alte
cifre delle riscossioni sono il preludio tragico delle espropriazioni innumerevoli);
che lo Stato ha speso per essa, per ogni cosa, assai meno, e che vi sono alcune province
in cui è assenteista per lo meno quanto i proprietari delle terre. La verità è – e
zampilla da ogni pagina di questo libro – che si rimproverano al Mezzogiorno tutte
le cose di cui non ha colpa. Tutte le grandi istituzioni dello Stato sono accentrate,
per lo meno come l’esercito, nelle zone che erano già le più ricche.
Per cause molteplici (unione di debiti, vendita dei beni pubblici, privilegi a società
commerciali, emissioni di rendita) la ricchezza del Mezzogiorno, che potea essere
il nucleo della sua trasformazione economica, è trasmigrata subito al Nord. Le imposte
gravi e la concentrazione delle spese dello Stato fuori dell’Italia meridionale, hanno
continuata l’opera di male. Non vi è ora cosa alcuna, tranne le imposte, in cui il
Mezzogiorno non venga ultimo.
Pure fino al 1880 mai dall’Italia meridionale una voce autorevole si è sollevata a
notare la sperequazione stridente: questa brutta parola è stata inventata in Lombardia e in Piemonte, quando
si credeva che poco i meridionali pagassero per la terra e si voleva costringerli
a pagare di più.
Si dice che i meridionali paghino poco, e chiunque abbia sfiorato soltanto la questione,
sa che pagano di più; che richiedono molto allo Stato, e viceversa si sa che lo Stato
spende pochissimo in e per quasi tutto il Mezzogiorno; che hanno invaso le pubbliche
amministrazioni, e viceversa sono esigua minoranza.
Al momento dell’unione l’Italia meridionale avea tutti gli elementi per trasformarsi.
Possedeva un grande demanio, una grande ricchezza monetaria, un credito pubblico solidissimo.
Ciò che le mancava era ogni educazione politica: ciò che bisognava fare era educare
le classi medie e formare soprattutto l’ambiente politico.
Invece si è seguita la via opposta: un po’ per necessità, un po’ per incoscienza;
soprattutto per colpa stessa dei meridionali.
L’Italia meridionale, unitasi incondizionatamente, era a un livello intellettuale
molto più basso della Toscana e di tutte le regioni dell’Italia settentrionale. A
causa di un dominio secolare si notava allora, si nota tuttavia, un grande contrasto
tra la morale pubblica e la morale privata. Quest’ultima, soprattutto dal punto di
vista familiare, è più elevata, in generale, che in qualsiasi altra terra d’Italia.
La prima era – e chi può negare che spesso sia? – molto scadente. I governi assoluti
avevano proibito quasi ai cittadini di occuparsi di politica: e spesso la politica
voleva dire corruzione o sopraffazione.
È innegabile che politicamente i meridionali hanno rappresentato un elemento di disordine.
Le loro amministrazioni locali vanno, d’ordinario, male; i loro uomini politici non
si occupano, nel maggior numero, che di partiti locali. Un trattato di commercio ha
quasi sempre per essi meno importanza che non la permanenza di un delegato di pubblica
sicurezza. Concordi nel chiedere una legge speciale, un sussidio, sovvenzioni per
danneggiati politici spesso immaginari, sono discordi in ogni grande opera collettiva.
Presi individualmente spesso valgono moltissimo; insieme, poco.
Politicamente l’Italia meridionale è assente: non è né conservatrice, né liberale,
né radicale: è apolitica. È stata troppo tormentata, ha troppo dato, ha troppo sofferto. Vorrebbe avere un
po’ di equilibrio e di assetto; la possibilità di respirare e di vivere.
[...] Ora l’Italia meridionale non deve chiedere né lavori pubblici frettolosi, né
concessioni grandiose e nemmeno forse istituti nuovi. Queste cose servono qualche
volta più all’affarismo che allo sviluppo industriale: più a creare impiegati che
a far risorgere l’economia di un paese.
Ma il passato deve essere una grande scuola.
Coloro che sono più in alto, i più ricchi, i più fortunati gridano di più. Non oso
né meno parlare di istituti o di riforme utili alle classi medie.
Prima di fare nuove istituzioni per gli stessi operai della Lombardia e del Piemonte,
che già ricevono salari di paesi civili, bisogna ricordarsi che quei salari non sarebbero
senza il Mezzogiorno: e che anche adesso nel Mezzogiorno vi sono pianure infinite
dove la malaria uccide.
Prima di fare qualunque cosa che faccia aumentare anche di una lira le imposte, bisognerà
ricordarsi che vi sono terre in cui lo Stato appare più crudele che non in Irlanda
i landlords crudelissimi.
La violenza è qualche volta causa di bene: ogni atto di creazione spesso dalla violenza
deriva. Ora, formata la coscienza del paese, si deve pure con la violenza combattere
tutti quei sistemi che si basano sul criterio che l’Italia meridionale debba fornire
i pretoriani dei ministeri.
L’Italia meridionale ha poca ricchezza e poca educazione industriale: pure lo Stato
quando ha speso per essa, ha speso più per mantenere il parassitismo, che per combatterlo.
Invece è l’educazione industriale che bisogna formare.
Durante le rivoluzioni del 1820, del 1848 e (perché non dirlo?) del 1860 erano nel
Mezzogiorno turbe innumerevoli che chiedevano impieghi di Stato. Anche adesso l’otium cum dignitate di un impiego appare come la felicità: e il sospiro delle madri è il figlio impiegato.
In due studi sul 1820 e sul 1848 ebbi occasione di dire che masse numerosissime invadevano
a Napoli gli uffici chiedendo impieghi. Nel 1860 accadde la stessa cosa, e Garibaldi
nella sua eroica ingenuità, credendo l’Italia ricchissima, voleva che fossero riconosciuti
gli ufficiali dell’esercito meridionale che avevano con lui combattuto: un ufficiale
per ogni sei soldati. L’Italia meridionale ha forse ora pochi impiegati, perché ne
ha voluti troppi. Ora è l’educazione che bisogna mutare, che bisogna anzi rifare.
Il Mezzogiorno d’Italia, se è destinato ad un risveglio grande, non può conquistarlo
che lentamente, purificando le sue amministrazioni e facendo la sua educazione economica.
Ogni tanto sono presentati farraginosi progetti di riforme, tentativi più o meno felici,
dove l’illusione dà mano all’errore. In avvenire, in qualunque progetto di riforma,
qualunque margine abbia il bilancio, bisognerà pensare all’Italia meridionale cui
la natura non fece ricca e che per l’unità ha dato tutto.
La tendenza dei popoli moderni non tollera frazionamenti, e non è possibile, nemmeno
per ipotesi malefica, concepire una Italia divisa. Per il maggior bene di tutti l’unità
è necessaria e deve essere anteposta a ogni cosa. La Germania, la Francia, l’Inghilterra,
quanti popoli sono in Europa in alto nella civiltà hanno tentato anche con la violenza
di rinsaldare i vincoli unitari. L’unità politica, l’unità doganale non vanno quindi
discusse, né meno se a qualche regione possa parere più utile un distacco che, date
le lotte dei popoli moderni, le sarebbe in definitiva nefasto.
La discussione che si apre può avere un pericolo. Nel Sud d’Italia, dove la ricchezza
è poca, le difficoltà sono molte e la piccola borghesia è povera, vi è una massa innumerevole
che cerca impieghi od occupazioni e vuole fomentare piuttosto che distruggere il parassitismo.
E bene, non è di essa che bisogna occuparsi.
L’Italia meridionale, soffocata dal carico tributario, ha bisogno di aria respirabile,
soprattutto di allargare i suoi orizzonti, di formare la sua coscienza collettiva,
di eliminare quanto di antisociale le è rimasto.
Se il bilancio non può tollerare nuove spese, nulla si chieda, purché ad altri più
ricchi e meno tormentati nulla sia dato.
Ma se una riforma finanziaria deve essere tentata, prima di pensare ad altro o ad
altri bisognerà ricordarsi di tante province ove le imposte fanno dieci volte più
male della grandine e dei morbi. Se nuove istituzioni devono essere create, e non
è necessario che siano al confine, bisogna ricordarsi di quella landa amministrativa
che è il Mezzogiorno.
Soprattutto deve mutare lo spirito della politica italiana. Quando nell’Italia meridionale
non saranno mandati i peggiori funzionari, ma i migliori perché l’opera loro è più
difficile; quando le forme attuali di parassitismo saranno combattute e non aiutate,
e non sarà considerato il Mezzogiorno come il campo di conquista di ogni condottiero,
qualche volta di ogni avventuriero parlamentare; quando si agevolerà la formazione
della ricchezza e nessuna nuova imposta verrà a deprimerla; allora si aiuterà la trasformazione
industriale del Mezzogiorno e il problema sarà risoluto.
Se il nome d’Italia è venuto dall’estremo Sud della penisola, anche gran parte della
storia è cominciata in esso. Il problema della libertà e l’avvenire dell’unità sono
ora nella soluzione del problema meridionale.
[F.S. Nitti, Nord e Sud: prime linee di una inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate
e delle spese dello Stato in Italia, Roux e Viarengo, Torino 1900, ora in Scritti sulla questione meridionale, Laterza, Bari 1958, vol. II, pp. 445-458]
«Cocò all’Università di Napoli o la scuola della mala vita»
Gli adolescenti che dopo aver fatto il liceo in una città del Napoletano, lasciano
la famiglia per andare ad addottorarsi all’Università di Napoli, sono forniti assai
di rado di una perfetta e solida coscienza morale. Ma anche nei peggiori non mancano
mai grandi capacità di bene. E basta che un giovane meridionale abbia la fortuna di
trovarsi sbalzato fra i diciotto e i ventidue anni in un centro di lavoro onesto,
in una scuola universitaria seria e sana, perché in lui – fornito quasi sempre di
un’intuizione rapidissima, di un forte amor proprio, di facile adattabilità all’ambiente
– si determini subito una grande crisi di rinnovamento e di epurazione. E da questa
crisi nascono prodotti talvolta mirabili per raffinatezza e per forza, ma non mai
inferiori a quella che è la media intellettuale e morale dei giovani del Settentrione.
La più parte dei meridionali, invece va a finire a Napoli. E Napoli è la piaga del
Mezzogiorno, come Roma è la piaga di tutta l’Italia.
Nelle città universitarie del Nord non mancano, certo, occasioni di sviarsi al giovane,
sfuggito appena alla costrizione della famiglia e della scuola secondaria, e avido
di bere a grandi sorsi la coppa della libertà. Ma una grande ondata di lavoro affannoso
travolge tutto, compensa ogni male, purifica tutto. E il giovane si sente come soggiogato
da un comando universale, perenne, che lo sospinge alla fatica e lo consiglia a farsi
avanti, ad affermarsi conquistatore di quelle forme poderose di vita che lo dominano
e l’affascinano. Napoli invece, vasto centro di consumi e di attività improduttive,
in cui una metà della popolazione campa borseggiando e truffando l’altra metà, sembra
fatta a posta per incoraggiare alla poltroneria e per educare alla immoralità. Tutto
è chiasso, tutto è dolce far niente, quando non è imbroglio e abilità. Dal lazzarone
che si spidocchia al sole, all’alto magistrato, di cui tutti sottovoce dicono che
vende le sentenze; dal questurino, che sfrutta le prostitute, al giornalista ricattatore
che sfoggia sfacciato automobili e amanti; tutto sembra che consigli al giovane: «Arrangiati,
che io m’arrangio: l’onestà e il lavoro sono buoni per gli sciocchi: godere è lo scopo
della vita». Nessuna voce grida alla sua coscienza inquieta e vacillante: «Su via
figliuolo: lavora per te e per gli altri: il lavoro è la gioia, il lavoro è la libertà».
Dopo qualche mese di tirocinio in quell’ambiente pestifero e infetto, la giovane speranza
della giovane delinquenza borghese meridionale ha scelta per sempre la sua strada.
Non è più il ragazzone di facile contentatura, timido e impacciato d’una volta. È
diventato un elegantone: si pettina e si veste in modo da stare fra il cinedo e il
guappo. Si è emancipato da ogni principio morale. Fa la corte alla figlia della padrona
di casa. Abbraccia la serva in cucina e la portinaia per le scale. Molto spesso si
busca la sifilide. Non c’è denaro che gli basti. E tempesta per averne la mamma e
le sorelle di lettere menzognere e minacciose: – povere mamme, che si consumano nella
lotta ineguale contro le ristrettezze del bilancio; povere sorelle, che sfioriscono
nell’ombra, nutrendosi di legumi e rattoppando calzerotti per il fratello lontano!
Qualche volta Cocò si ricorda di essere anche studente universitario: quando c’è da
fare una chiassata. Cocò è quasi sempre anticlericale: quando viveva Giovanni Bovio4, non mancava mai d’andare ad ascoltarlo e di applaudirlo almeno una volta all’anno.
Spesso Cocò è addirittura socialista rivoluzionario: è insuperabile nel rompere
le vetrate, nel fracassare le panche, nel fare con la bocca e con la mano suoni non
perfettamente musicali. Cocò può essere rivoluzionario tanto più agevolmente, in quanto
è sicuro a priori dell’impunità qualunque birbonata faccia: i carabinieri, che moschettano
per dei nonnulla i contadini affamati, non daranno mai noia al caro figlio di papà.
E Cocò è sicuro a tutte l’ore di trovare all’Università qualche migliaio di mascalzoni
simili a lui, protetti dall’impunità come lui, pronti sempre a fare come lui i socialisti
rivoluzionari. Oggi le panche saranno rotte per protestare contro il governo, domani
per anticipare le vacanze, dopo le vacanze per ottenere una riduzione di tariffe
sui trams e poi per conquistare gli esami di massone, poi per solidarietà con i colleghi
bocciati; e avanti, avanti, avanti, con la fiaccola in pugno e con la scure.
4 Giovanni Bovio (1837-1903), libero docente di filosofia del diritto presso l’Università
di Napoli, deputato in Parlamento dal 1876 nelle file della Sinistra, repubblicano
e anticlericale, grande oratore.
Di tanto in tanto lo spirito di Cocò è turbato dallo spettro degli esami. Ma solo
alla morte non c’è rimedio! Una Università in cui 5000 alunni fanno ogni anno, nelle
sole sessioni di estate e di autunno, senza contare quella abusiva di marzo, 17.000
esami, non può cercare troppo il pelo nell’uovo in questo genere di operazioni. Eppoi
parecchi professori ufficiali esercitano anche le libere docenze; inscrivendosi al
loro corso libero, l’elegantone laureato si garantisce abbastanza bene contro i rischi
di quegli esami che dipendono da quei professori. Altri professori ufficiali sono
investiti di incarichi in materie non obbligatorie, che apparirebbero inutili qualora
non vi si inscrivesse un numero sufficiente di volenterosi. Cocò si inscrive anche
a questi corsi, e si assicura altri esami. Parecchi professori ufficiali, specialmente
delle facoltà di giurisprudenza e di medicina, sono avvocati, o esercitano la professione,
o fanno gli affaristi: è facile, quindi, trovare il magistrato, il banchiere, l’elettore
influente, il cliente danaroso, il socio d’affari, che con una raccomandazione metta
a posto qualche altro esame. Poi ci sono i professori indulgenti per natura, o vecchi
o rimbecilliti, che non bocciano mai, mai, mai. Non manca a Cocò che incontrare nell’Università
di Napoli uno dei trecentocinquanta liberi docenti, imbroglione e pasticcione, camorrista
e intrigante, che sa aiutare nei momenti difficili i poveri giovani bisognosi di soccorso.
Basta dare la firma ad uno di costoro, lasciandogli godere tutte le dodici lire e
centesimi dell’indennità e non pretendendo il rimborso immediato di una parte delle
dodici lire, come molti fanno, e la gratitudine e la protezione del libero docente
è assicurata in tutte le commissioni d’esame, di cui egli farà parte.
Ed ecco come l’Università di Napoli sforna ogni anno circa 600 fra medici e avvocati
e una sessantina fra professori di lettere e di scienze, dei quali la più parte non
è assolutamente capace di scrivere dieci righe senza almeno dieci errori di grammatica
ed è intellettualmente abbrutita e moralmente disfatta. Questa vergogna non è peculiare
all’Università di Napoli. Tutte le università italiane sono più o meno ammalate: ed
in fatto di corsi liberi, per es., gli abusi che si commettono dai professori ufficiali
a Palermo, a Torino, a Padova, sono forse superiori a quelli di Napoli. Ma è innegabile
che nell’insieme l’Università di Napoli è quella che accentra in sé il minor bene
e il maggior male; che mentre nelle altre università prevalgono fra i professori ufficiali
in proporzioni più o meno forti gli scienziati sugli affaristi, nell’Università di
Napoli prevalgono gli affaristi sugli scienziati.
Cocò, analfabeta e laureato, si avvede ben presto di essere inetto a vincere un concorso
per la magistratura o per le prefetture o per i ministeri, se è avvocato; è sistematicamente
bocciato nei concorsi per le scuole medie, se professore; non ha nessun titolo di
capacità per ottenere una condotta fuori del paese natio, se è medico. Se ne ritorna,
dunque, sospirando alla casa paterna dove lo aspettano la mamma invecchiata e le sorelle
avvizzite. E qui, impotente a vivere coi frutti della professione libera, privo com’è
di qualunque abilità tecnica, tenta di assicurarsi un reddito, anche minimo, con un
impiego municipale. Dove il partito dominante è solido e potente, Cocò gli striscia
umile ai piedi e gli chiede un tozzo di pane. Dove esiste un’opposizione abbastanza
forte o la maggioranza non si affretta a riconoscere i meriti e i diritti del neolaureato,
costui si mette all’opposizione e combatte la maggioranza nell’interesse della patria.
E allora si vede Cocò, anticlericale fierissimo all’Università, inscriversi a una
confraternita e tenere il baldacchino dietro al Vescovo nelle processioni; e l’ex-socialista
rivoluzionario giocare la sera a terziglio col delegato, col maresciallo dei carabinieri,
e chi applaudiva Giovanni Bovio falsifica le bollette del dazio consumo e ruba i denari
della beneficenza.
L’azione politica degli spostati ha una grandissima importanza nella società moderna,
perché costoro, non avendo nulla da fare, fanno per tutto il giorno della politica:
sono giornalisti, libellisti, galoppini elettorali, conferenzieri, propagandisti.
Fanno di tutto; e in grazia delle loro attività, si conquistano i primi posti nelle
file dei partiti politici, diventano gli uomini di fiducia, i depositari dei segreti,
i guardiani e i padroni delle posizioni strategiche. Per tal modo tutta la vita dei
partiti si accentra in essi; e poiché le idee non girano per le strade sulle proprie
gambe, ma si incarnano in uomini, si ha che le più belle idee, i più bei programmi
di questo mondo, quando cadono nelle mani di quei miserabili, si riducono a pretesto
per conquistare un impiego. E i partiti vanno in rovina; perché, conseguita la vittoria,
la distribuzione degli impieghi è causa di ingiustizia contro gli impiegati antichi
o di dissidi fra gli aspiranti, sempre più numerosi del bisogno; una prima ingiustizia
indebolendo moralmente gli amministratori che l’hanno commessa, li dà mani e piedi
legati in balìa degli elementi peggiori del partito, che, minacciando scandali e pronunciamenti,
ricattano senza posa e senza freno i loro padroni e li obbligano a nuove ingiustizie
o a nuove immoralità; gli impiegati maltrattati si inviperiscono; gli aspiranti delusi
o passano al partito avversario, o restano nel partito a crear nuove scissioni e sospetti
e recriminazioni. E così i partiti, che avevano riportato strepitose vittorie e sembravano
depositari della più scrupolosa giustizia e padroni dell’avvenire, in pochi mesi si
disgregano e precipitano nel fango.
È questa una malattia di tutti i partiti, a qualunque gradazione politica appartengano,
e di tutti i comuni italiani, qualunque la razza che li popoli. E girando per l’Italia
e vivendo a lungo in Romagna, in Lombardia, in Toscana, ho acquistato, sotto questo,
come sotto molti altri rispetti, una discreta stima per l’Italia... meridionale: tutto
il mondo è paese; e anche i nordici sono discretamente sudici. Ma fra l’Italia settentrionale
e l’Italia meridionale ci sono, a danno del Mezzogiorno, le seguenti differenze. 1.
Nel Mezzogiorno le professioni libere offrono meno risorse che nel Settentrione, data
la minore ricchezza del paese e i meno sviluppati bisogni civili della popolazione;
2. nel Mezzogiorno i professionisti, e più specialmente gli avvocati, sono più assai
numerosi che nel Nord, e quindi si riversa sugli impieghi comunali un maggior numero
di spostati; e Cocò è costretto ad una concorrenza più feroce, e non ha modo di fare
le cose per benino e di salvare le apparenze come fanno i suoi analoghi nell’Italia
settentrionale; 3. nel Nord la classe dei professionisti affamati costituisce soltanto
uno fra gli elementi della vita politica ed amministrativa e deve coordinare e subordinare
la propria azione a quella delle altre classi che hanno peso politico: borghesia industriale
e commerciale, proletariato industriale, proletariato rurale, professionisti competenti
e non affamati; nel Mezzogiorno la borghesia capitalistica è poco sviluppata, il proletariato
industriale è agli inizi, il proletariato rurale è escluso dal voto perché analfabeta,
professionisti competenti e non affamati ce ne sono pochini assai. E così gli spostati
– il così detto proletariato dell’intelligenza – formano la grande maggioranza della
classe politicamente attiva, sono ovunque padroni del campo, saccheggiano senza limiti
e senza freno i bilanci comunali; e si possono dare anche il lusso di dividersi in
partiti, secondo che sperano l’impiego dal gruppo amministrativo dominante o dall’opposizione.
E le spese di tutto questo lavoro le fanno sempre, alla chiusura dei registri, i contadini.
E il deputato meridionale è, salvo rarissime eccezioni individuali, il rappresentante
politico di una delle due camorre di professionisti affamati, che si contendono il
potere amministrativo per mangiarsi i denari del municipio e delle istituzioni di
beneficenza e per tosare i contadini. E l’ufficio del rappresentante politico consiste
nell’impetrare l’acquiescienza della prefettura, della magistratura, della questura,
alle cattive azioni dei suoi elettori e seguaci e di votare in compenso la fiducia
al governo in tutte le votazioni per appello nominale.
Così la corruzione della borghesia meridionale arriva a Roma e da Roma impesta tutta
l’Italia. Con questa differenza: che le provincie settentrionali presidiate da una
borghesia non indegna della sua funzione politica e sociale, e forti di una vigorosa
vita autonoma, reagiscono contro l’infezione della Città Eterna, e bene o male fanno
la loro strada. Nel Mezzogiorno la corruzione propinata dal governo centrale si accumula
a quella che pullula nella vita locale, e tutto il paese si sprofonda in una fetida
palude di anarchia intellettuale e morale e di volgarità.
E in tutto questo processo patologico una parte grandissima di responsabilità tocca
ai professori dell’Università di Napoli che sono venuti meno sì spesso al loro dovere
di far servire l’Università a selezionare intellettualmente e moralmente senza debolezze
e senza colpevoli pietà la borghesia meridionale; e hanno lasciato che essa funzionasse
come una scuola superiore di mala vita, e contribuiscono così poderosamente a rendere
impossibile nelle classi dirigenti del Napoletano ogni iniziativa illuminata e benefica,
a dissipare in esse ogni coscienza di dovere e di solidarietà sociale, a distruggere
nel Mezzogiorno ogni capacità di vita locale energica e sana.
[G. Salvemini, Cocò all’Università di Napoli o la scuola della mala vita, in «La Voce», 1908, I, 3, pp. 9-10]
3. Giolitti e la classe operaia (1901)
Nei decenni successivi all’unificazione, la classe dirigente liberale italiana aveva
affrontato l’emergente «questione sociale» come un problema di ordine pubblico, risolvibile
con l’uso della forza. Nel 1898, la violenta repressione dei moti scoppiati nelle
principali città del Centro-Nord per protestare contro il rincaro del prezzo del pane
e le miserevoli condizioni di vita delle classi popolari aveva avuto esiti drammatici,
con decine di morti e feriti e con molti dirigenti del Partito socialista e del movimento
cattolico condannati a lunghe pene detentive. Due anni dopo, lo scioglimento forzato
della Camera del Lavoro di Genova causò in città la proclamazione dello sciopero
generale.
In seguito a quegli episodi, Giovanni Giolitti (1842-1928), già presidente del Consiglio
nel 1892-1893, fu l’uomo politico che con più lucidità comprese che occorreva cambiare
rotta. Con questo discorso, pronunciato alla Camera dei deputati il 4 febbraio 1901,
egli affermò in modo deciso la necessità di riconoscere il diritto di esistenza e
di libertà per le associazioni dei lavoratori, e di mantenere la neutralità dello
Stato nei conflitti tra capitale e lavoro. Secondo il deputato liberale l’organizzazione
autonoma dei lavoratori, anziché essere considerata un pericolo, doveva essere accolta
come un elemento di progresso economico e civile, e in caso di sciopero il governo
sarebbe dovuto intervenire con la forza solo in caso di un’effettiva minaccia di turbamento
dell’ordine pubblico.
Giolitti si candidava così alla guida del paese. Pochi giorni dopo il suo intervento
alla Camera egli fu nominato ministro dell’Interno del nuovo governo Zanardelli, e
negli anni successivi fu per quattro volte, fino al marzo 1914, presidente del Consiglio,
affermando la sua egemonia sulla vita politica italiana: il periodo dal 1900 alle
soglie della prima guerra mondiale è noto infatti come l’«età giolittiana».
La questione ora sollevata in Parlamento, in occasione degli avvenimenti di Genova1, tocca alle più alte questioni di diritto e di politica interna, tocca soprattutto
ai rapporti tra il Governo e le classi lavoratrici e ai limiti delle attribuzioni
del Governo nei conflitti fra capitale e lavoro. Dalla risoluzione di questi quesiti
dipende in massima parte la pace sociale.
1 In seguito allo scioglimento della Camera del Lavoro di Genova, imposto dal prefetto
nel dicembre del 1900 e approvato dal governo guidato da Giuseppe Saracco, i lavoratori
di Genova proclamarono lo sciopero generale, paralizzando il porto e inducendo così
il governo a revocare il decreto.
Purtroppo persiste ancora nel Governo, ed in molti dei suoi rappresentanti, la tendenza
a considerare come pericolose tutte le Associazioni di lavoratori. Questa tendenza
è effetto di poca conoscenza delle nuove correnti economiche e politiche che da tempo
si sono determinate nel nostro come in tutti i paesi civili, e rivela che non si è
ancora compreso che la organizzazione degli operai cammina di pari passo col progresso
della civiltà.
La tendenza, della quale ora ho parlato, produce il deplorevole effetto di rendere
nemiche dello Stato le classi lavoratrici, le quali si vedono guardate costantemente
con occhio diffidente anziché con occhio benevolo dal Governo il quale pure dovrebbe
essere il tutore imparziale di tutte le classi di cittadini.
[...]
Ora queste Camere di lavoro2 che cosa hanno in sé di illegittimo? Esse sono le rappresentanti di interessi legittimi
delle classi operaie: la loro funzione è di cercare il miglioramento di queste classi,
sia nella misura dei salari, sia nelle ore di lavoro, sia nell’insegnamento che giovi
a migliorare e ad accrescere il valore dell’opera loro, e potrebbero, se bene adoperate
dal Governo, essere utilissime intermediarie fra capitale e lavoro, come potrebbero
servire ad altre funzioni, per esempio a diriger bene la emigrazione.
2 Le Camere del lavoro erano associazioni sindacali che, superata la preesistente distinzione
per settori di occupazione, coordinavano l’azione dei lavoratori su base locale. Nate
a Milano nel 1891, esse si diffusero rapidamente in tutte le principali città del
Centro-Nord.
Perché dunque il Governo adotta il sistema di osteggiarle sistematicamente? Si dice
che le Camere di lavoro, come vennero costituite, hanno preso atteggiamenti ostili
allo Stato. Ma questa è una conseguenza inevitabile della condotta del Governo! Colui
che si vede sistematicamente perseguitato dallo Stato, come volete che ne sia l’amico?
(Bravo – Bene! a sinistra – Interruzioni a destra)
Il Governo ha un solo dovere, quello di applicare la legge a queste come a tutte le
altre associazioni: se mancano, deve essere ferma l’azione del Governo...
Saracco, presidente del Consiglio. È quello che si è fatto! (Commenti)
Giolitti. Ma finché non violano la legge, finché esercitino un diritto legittimo, l’intervento
dello Stato non è giustificabile. Se una Camera di lavoro viola la legge, è dovere
del Governo di deferirla all’autorità giudiziaria perché le siano applicate le sanzioni
penali, e in tal caso è suo dovere non arrestarsi sulla sua via. Se la Camera di lavoro
di Genova aveva commesso dei reati, doveva farsene denuncia all’autorità giudiziaria...
Saracco, presidente del Consiglio. E c’è.
[...]
Giolitti. Io credo che al punto a cui siamo giunti sarebbe conveniente di disciplinare per
legge questa materia. Le associazioni operaie hanno diritto ad essere rappresentate
come lo sono gli industriali e i commercianti.
E come ci sono le Camere di commercio regolate per legge, non vedo ragione perché
lo Stato non possa, non debba anzi, disciplinare legislativamente le Camere di lavoro.
Io credo che bisogna mettere allo stesso livello di fronte alla legge tanto il capitalista
quanto il lavoratore; ognuno dei due deve avere la sua rappresentanza legittima riconosciuta
dallo Stato. Questa è una nuova funzione che s’impone allo Stato moderno, ed è inutile
voler governare con metodi che stavano bene cinquant’anni fa ma che ora sono assolutamente
deficienti.
Io poi non temo mai le forze organizzate, temo assai più le forze inorganiche... (Bravo! Bene!) perché su di quelle l’azione del Governo si può esercitare legittimamente ed utilmente,
contro i moti inorganici non vi può essere che l’uso della forza.
La ragione principale per cui si osteggiano le Camere del lavoro è questa: che l’opera
loro tende a far crescere i salari. Il tenere i salari bassi comprendo che sia un
interesse degli industriali, ma che interesse ha lo Stato di fare che il salario del
lavoratore sia tenuto basso? È un errore, un vero pregiudizio credere che il basso
salario giovi al progresso dell’industria; l’operaio mal nutrito è sempre più debole
fisicamente ed intellettualmente: e i paesi di alti salari sono alla testa del progresso
industriale. (Bravo!)
Noi lodiamo come una gran cosa la frugalità eccessiva dei nostri contadini; anche
questa lode è un pregiudizio. Chi non consuma, credetelo pure, non produce! (Commenti)
Il Governo quando interviene per tenere bassi i salari commette una ingiustizia, un
errore economico ed un errore politico. Commette un’ingiustizia, perché manca al suo
dovere di assoluta imparzialità fra i cittadini, prendendo parte alla lotta contro
una classe. Commette un errore economico, perché turba il funzionamento della legge
economica dell’offerta e della domanda, la quale è la sola legittima regolatrice della
misura dei salari come del prezzo di qualsiasi altra merce. Il Governo commette infine
un grave errore politico, perché rende, nemiche dello Stato, quelle classi le quali
costituiscono in realtà la maggioranza del paese.
Solo tenendosi completamente al di fuori di queste lotte fra capitale e lavoro lo
Stato può utilmente esercitare una azione pacificatrice, talora anche una azione conciliatrice,
che sono le sole funzioni veramente legittime in questa materia.
Si disse da alcuni, i quali ne trassero quasi argomento di scandalo, che lo sciopero
di Genova era uno sciopero politico. È questa una vera ingenuità: chi conosce il movimento
operaio, specialmente in tutta l’Alta Italia, sa perfettamente che gli operai hanno
compreso il nesso intimo, indissolubile che esiste fra le questioni economiche e le
questioni politiche. La classe operaia sa perfettamente che da un governo reazionario
non ha da aspettarsi altro che persecuzioni sia nelle lotte per la difesa dei suoi
interessi di fronte al capitale, sia per tutto ciò che riguarda il sistema tributario.
Nessun Governo reazionario adotterà mai il concetto di una riforma tributaria a favore
delle classi meno abbienti; e se la finanza si troverà in bisogno il Governo reazionario
aumenterà il prezzo del sale, il dazio sui cereali o qualche altro sui consumi, ma
una imposta speciale sulle classi più ricche non la proporrà mai. (Bravo! – Approvazioni a sinistra – Commenti) Ed è perciò che non è da meravigliarsi, se questi scioperi assumono, anche indipendentemente
dalla volontà di coloro che vi partecipano, un carattere simile a quello che ha avuto
lo sciopero di Genova.
Il Governo, lo ripeto, deve avere una grande fermezza nell’applicare le leggi, ma
deve adoperare una grande prudenza in tutto ciò che riguarda i rapporti tra lo Stato
e le classi lavoratrici. In caso di sciopero il Governo ha il dovere di intervenire
in un solo caso: quando venisse turbata la libertà del lavoro, quando gli scioperanti
volessero impedire ad altri operai di lavorare; perché la libertà del lavoro non può
essere meno sacra della libertà dello sciopero. (Commenti – Interruzioni)
Forse qualcuno non ama che lo Stato intervenga, quando la libertà del lavoro è turbata.
Ma su questo punto per me non ci può essere dubbio alcuno, chi turba la libertà del
lavoro incorre nelle disposizioni del Codice penale e deve subirne le conseguenze.
(Commenti – Approvazioni)
Per molto tempo si è cercato di impedire l’organizzazione dei lavoratori. Ormai chi
conosce le condizioni del nostro paese, come di tutti gli altri paesi civili, deve
essere convinto che ciò è assolutamente impossibile. L’unico effetto di una resistenza
illegittima da parte dello Stato sarebbe quello di dare un fine politico a quelle
organizzazioni, le quali per sé non hanno e non devono avere che un fine economico.
Una politica avveduta e sapiente deve tener conto dei fatti, quali sono realmente.
Chi è preposto al Governo deve conoscere il paese che ha mandato di governare, senza
di ciò commetterà certamente dei gravi errori.
E in verità le condizioni politiche interne d’Italia purtroppo non sono buone.
Un indizio assai grave delle nostre condizioni interne l’abbiamo avuto nelle elezioni
politiche generali dello scorso anno3. Gli elettori che votarono per candidati costituzionali, di tutte le gradazioni ministeriali
ed oppositori, furono 930 mila.
3 Nelle elezioni politiche del giugno del 1900 i partiti dell’Estrema (socialisti,
radicali, repubblicani) avevano guadagnato molti consensi, aumentando complessivamente
il numero dei propri deputati da 67 a 96 (29 repubblicani, 34 radicali, 33 socialisti).
I candidati dei partiti popolari ebbero 335 mila voti. E se i voti fossero stati dati
tutti utilmente dall’una e dall’altra parte, se cioè gli eletti fossero in proporzione
dei voti riportati, l’Estrema Sinistra sarebbe oggi composta di 134 deputati. Con
due altre elezioni generali, le quali siano fatte con criteri simili alle ultime e
le quali diano risultati proporzionali, l’Estrema Sinistra è in maggioranza. (Esclamazioni – Commenti animati)
Ci sono due altri elementi forse più importanti ancora, dei quali è necessario tener
conto. Abbiamo anzitutto la massa di quegli elettori che non partecipano al voto,
perché non solamente non riconoscono le nostre istituzioni, ma non riconosce neanche
l’unità dell’Italia.
Poi vi è l’immensa massa dei non lettori, che è la classe più povera, più malcontenta
e specialmente più suggestionabile di tutte. Da questa classe che rappresenta la grande
maggioranza del paese, usciranno le nuove falangi di elettori, o perché raggiungono
l’età, o per aumento di istruzione, e queste falangi determineranno l’avvenire dei
nostri partiti politici.
Io considero come veri partiti politici tre soli, il clericale, il socialista ed il
costituzionale, ora io pongo una questione molto grave; quale di questi tre partiti
eserciterà una maggiore influenza sopra quella massa? Il clero ha per sé una grande
forza, una delle forze che più muovono il mondo: il sentimento religioso; ma ciò non
basta e ora si organizza la democrazia cristiana la quale prende a cuore anche gli interessi materiali dei lavoratori, organizza casse
rurali, segretariati del popolo, scuole, ricreatori; e tutto questo movimento recentissimo
ha avuto testé la sanzione della più alta autorità religiosa del mondo4.
4 Giolitti si riferisce all’enciclica di Leone XIII Rerum novarum del 1891, con la quale il papa aveva riconosciuto e legittimato l’attività sociale
delle associazioni cattoliche.
Veniamo ai socialisti5. Non ho bisogno di dirvi quale è la loro azione. Essi promettono maggior benessere,
maggiore dignità alle classi diseredate; organizzano il proletariato, ne assumono
la direzione e la difesa in tutte le occasioni in cui nasce un conflitto, in cui l’interesse
popolare sia in giuoco. Essi hanno però una grande debolezza: che molte delle promesse
che fanno sono impossibili a mantenersi e anche coloro fra di essi i quali sono più
intelligenti e in buona fede ammettono che sono promesse a lunghissima scadenza. (Oooh! – Commenti)
5 Il Partito socialista italiano (chiamato inizialmente Partito dei lavoratori) si
era costituito a Genova nel 1892, e nel 1895 prese il suo nome definitivo.
Ma siccome essi sanno essere l’esperienza che ammaestra il popolo, così hanno avuto
l’abilità di tenersi lontani più che hanno potuto dal fare delle esperienze e dallo
assumere la responsabilità di amministrazioni; in conseguenza di ciò per ora la loro
autorità rimane maggiore di quella che, a mio avviso, dovrebbe essere. Ma è cieco
chi non vede i loro progressi.
Ed il Governo, che rappresenta indistintamente tutti i partiti costituzionali nelle
grandi linee, che cosa ha fatto per attirare a sé queste classi lavoratrici?
L’Italia è uno dei paesi in cui la media dei salari è più bassa, ma è il primo paese
del mondo per le imposte che colpiscono i generi di prima necessità.
Pensate che specie di sofferenze producono in chi ha due o tre lire al giorno per
mantenere sé e la famiglia, il dazio consumo, la tassa sul grano, la tassa sul sale,
la tassa sul petrolio e tutto il sistema protettivo nostro che rincara enormemente
tutto ciò che è necessario alla vita! (Approvazioni a sinistra)
È forse possibile paragonare i sacrifici che costoro fanno col sacrificio che fa ciascuno
di noi pagando le imposte? Ma e i piccoli proprietari? In molte parti d’Italia il
fisco li sta ricacciando nella classe dei nullatenenti. (Approvazioni) Il complesso delle nostre imposte, nessuno ormai più lo nega, è progressivo a rovescio.
Abbiamo fatto delle leggi sociali; ma che efficacia, che applicazione pratica hanno
queste leggi sociali? Ma che ne è della Cassa pensioni per gli operai, una delle migliori
istituzioni? Lo Stato non ha saputo nemmeno farla conoscere agli operai, quando voi
girate le campagne, non trovate uno su cento il quale sappia che questa Cassa esiste!
(Interruzioni all’estrema sinistra)
Voci. È vero.
Giolitti. Dell’istruzione popolare poi non parlo perché è riconosciuta la sua deficienza,
e quando qualche amministrazione comunale per rendere possibile la frequenza alle
scuole ha pensato di dare ai bambini poveri che la frequentano un pezzo di pane, quest’idea
parve rivoluzionaria. (Bravo! all’estrema sinistra e a sinistra – Commenti e rumori a destra e al centro)
Il Governo molte volte proibì ai comuni quella concessione quasi ché fosse un atto
illecito. (Interruzioni – Commenti – Approvazioni a sinistra)
Ma la cosa più grave è questa: che tutti i mali da me ora sommariamente accennati
sono stati riconosciuti ufficialmente dal Governo. Non vi è programma ministeriale,
forse non vi sono in questa Camera dieci deputati che nei loro programmi elettorali
non li abbiano riconosciuti e non abbiano promesso di portarvi rimedio. Tutti i discorsi
della Corona da anni e anni, predicano la necessità di provvedere alle classi lavoratrici;
e che cosa abbiamo fatto?
Un momento di grande speranza sopra il Ministero attuale è sorto quando il nuovo Sovrano
fece un discorso veramente degno ed alto per prestare giuramento dinanzi alla Rappresentanza
Nazionale6; quel discorso imponeva al Governo degli alti doveri. Ma che cosa avvenne? A quel
discorso altissimo successe un povero programma, e di questo programma nulla è stato
attuato. (Bravo! a sinistra) [...]
6 Il nuovo sovrano era Vittorio Emanuele III, salito al trono nell’agosto del 1900
dopo l’uccisione del padre Umberto I da parte dell’anarchico Gaetano Bresci.
Ma il problema, nei termini in cui si pone, è assai difficile a risolvere. Infatti
si comincia dal dire: faremo tutte queste riforme, quando ci sarà un avanzo di bilancio,
e intanto ogni giorno si presentano leggi di maggiore spesa in tutti i rami dell’Amministrazione
e ogni bilancio propone nuovi aumenti ancora. D’altra parte non si ha il coraggio
di affrontare il problema sotto la forma di trasformazione dei tributi.
A mio avviso tanto il Governo quanto la Camera hanno il torto di guardare questa questione
esclusivamente dal lato finanziario e di trascurare del tutto il lato morale. Poiché
io vi prego a considerare quale effetto morale ottimo produrrebbe il fatto di vedere
le classi dirigenti assumere sopra di sé qualche parte, fosse pur piccola, del peso
enorme che schiaccia le classi povere7. L’effetto morale di un simile atto eccederebbe di molto l’effetto materiale del
disgravio.
7 Giolitti fa riferimento qui a una proposta di riforma tributaria che aveva già avanzato
qualche mese prima in una lettera aperta al quotidiano «La Stampa», ma che fu di fatto
accantonata negli anni del suo governo.
Non andiamo predicando da anni, che il sistema tributario non và, che non è equo,
che non è giusto e non ci decidiamo mai a provvedere, non calcolando che il giorno
in cui il provvedimento ci sarà imposto da avvenimenti gravi, bisognerà concedere
molto, ma molto di più di quello che oggi basterebbe. (Approvazioni)
Di fronte a questa inazione del Governo quale meraviglia che i partiti estremi, socialisti
e clericali guadagnino in Paese? (Mormorio)
Una voce alla estrema sinistra.E i repubblicani?
Giolitti. Ebbene, se volete dirò partiti popolari. (Commenti)
Le conseguenze di questa inazione possono essere molto diverse nelle diverse parti
d’Italia.
Dove il disagio economico è minore, dove l’educazione politica è più progredita, i
partiti popolari potranno conseguire in parte la conquista del potere per mezzo del
voto; ma dove maggiore è il disagio economico, il pericolo è assai più grave, è assai
più immediato, perché ivi è difficile raccomandare la pazienza.
Noi sentiamo in questi giorni, giungere a noi delle voci di sofferenze gravissime
da molte parti d’Italia, specialmente dalle Puglie. Sono avvisi che sarebbe follia
il trascurare. [...]
Eppure, per quanto le condizioni interne nostre sieno difficili, io credo che un indirizzo
sapiente di Governo potrebbe rapidamente migliorarle, e potrebbe togliere quel pericolo
che ora sarebbe follia il non vedere.
Il popolo italiano non ha tendenze rivoluzionarie: il popolo italiano tende, per lunga
tradizione, a confidare nel Governo; e nessun popolo forse ha sofferto per secoli
con tanta rassegnazione mali così gravi come il popolo italiano. Un periodo di seria
giustizia sociale che venisse dal Governo e dalle classi dirigenti, richiamerebbe
queste popolazioni all’amore verso le istituzioni nostre.
Io non chiedo privilegi né per i lavoratori, né per i capitalisti. Il Governo deve
stare al disopra di queste contese fra capitale e lavoro. Quando in quelle contese,
lo ripeto, si violi la legge e la libertà del lavoro, intervenga il Governo, intervenga
energicamente, e mantenga sempre l’impero della legge. Dove la legge non è la più
forte di tutti, ivi non può essere né Governo, né libertà. (Commenti – Approvazioni)
Le nostre leggi sono più che sufficienti, se applicate energicamente, costantemente,
e non a sbalzi, quasi che fossero atti di violenza.
Se la pubblica sicurezza funziona così male (e credo che lo stesso onorevole presidente
del Consiglio riconoscerà che io non ho torto) è assai più per difetto di uomini che
di leggi. Il còmpito del Governo in Italia è gravissimo, e l’opera sua non può essere
che molto lenta, perché una gran parte dei nostri ordinamenti va rifatta pezzo per
pezzo. Noi abbiamo un pessimo sistema tributario; abbiamo l’amministrazione della
giustizia che certamente non riscuote la fiducia universale; abbiamo la pubblica sicurezza
in quelle condizioni che tutti sanno; e le amministrazioni comunali in molti luoghi
nelle mani di vere camorre. (Mormorio – Commenti)
Di grave ostacolo a immediati e seri provvedimenti sono le condizioni della finanza,
e quindi noi, non potendo immediatamente attuare provvedimenti che cambino un po’
sostanzialmente lo stato delle cose, siamo costretti ad invocare la pazienza delle
classi sofferenti. Ma questa pazienza non si deve invocare a parole, bisogna invocarla
con i fatti, dimostrando loro che tutto ciò che è possibile, il Governo lo fa.
Il Governo deve avere un piano organico di provvedimenti, deve sapere quali sono i
più urgenti, quali quelli che si possono differire, deve seguire una politica che
svolga sotto tutte le forme il lavoro, deve iniziare subito ed in modo sensibile l’esecuzione
delle promesse che ha fatte. Se non sa ispirare fiducia alle classi lavoratrici, qualsiasi
promessa ulteriore non può essere che un male. (Commenti – Bravo! a sinistra)
Noi siamo all’inizio di un nuovo periodo storico, ognuno che non sia cieco lo vede.
Nuove correnti popolari entrano nella nostra vita politica, nuovi problemi ogni giorno
si affacciano, nuove forze sorgono con le quali qualsiasi Governo deve fare i conti.
E la stessa confusione dei partiti parlamentari dimostra che le questioni che dividono
oggi non sono più quelle che dividevano una volta. (Commenti)
Il moto ascendente delle classi popolari si accelera ogni giorno di più, ed è un moto
invincibile perché comune a tutti i paesi civili, e perché poggiato sul principio
dell’eguaglianza tra gli uomini. Nessuno si può illudere di potere impedire che le
classi popolari conquistino la loro parte di influenza economica e di influenza politica.
Gli amici delle istituzioni hanno un dovere soprattutto, quello di persuadere queste
classi, e di persuaderle con i fatti, che dalle istituzioni attuali esse possono sperare
assai più che dai sogni dell’avvenire (Bene! – Commenti); che ogni legittimo loro interesse trova efficace tutela negli attuali ordinamenti
politici e sociali. (Bene! a sinistra)
Dipende principalmente da noi, dall’atteggiamento dei partiti costituzionali nei rapporti
con le classi popolari, che l’avvento di queste classi sia una nuova forza conservatrice,
un nuovo elemento di prosperità e di grandezza o sia invece un turbine che travolga
la fortuna della Patria! (Vivissime approvazioni ed applausi a sinistra – Rumori a destra – Molti deputati si
congratulano con l’oratore)
[Discorsi parlamentari di Giovanni Giolitti, pubblicati per deliberazione della Camera
dei Deputati, vol. II, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma 1953, pp. 626-633]
4. La critica dell’imperialismo: John A. Hobson (1902)
Negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, l’espansione coloniale europea conobbe
una fase di intensa accelerazione. Nel 1902, quando l’economista, sociologo e riformatore
inglese John A. Hobson (1858-1940) pubblicò il suo studio sul fenomeno dell’imperialismo
– di cui presentiamo alcuni brani –, pressoché l’intero globo era stato raggiunto,
occupato e sottomesso; la Gran Bretagna, appena uscita vincitrice dalla durissima
guerra ingaggiata contro i boeri per la conquista del Sud Africa, univa ormai sotto
il suo impero quasi un quarto della popolazione mondiale e gli Stati Uniti avevano
fatto il loro ingresso nella gara imperialistica strappando alla Spagna le Filippine.
Di fronte alla febbre di conquista che aveva contagiato governi, parlamenti e opinioni
pubbliche dei principali paesi europei, Hobson denunciò il carattere mistificatorio
della propaganda imperialista, mostrando come la conquista dei territori d’oltremare
non fosse economicamente conveniente se non per gruppi ristretti di capitalisti, speculatori
e uomini d’affari, mentre aveva effetti negativi per l’insieme del paese. Dopo aver
individuato i fondamenti dell’imperialismo nella necessità di trovare oltremare sbocchi
commerciali al surplus produttivo e ai capitali della madrepatria, sosteneva che una
diversa e incisiva politica fiscale avrebbe potuto drenare la ricchezza verso i salari
dei ceti popolari, aumentando la loro propensione al consumo e quindi rendendo superflua
la lotta per la conquista dei mercati stranieri. Le tesi di Hobson esercitarono grande
influenza sui teorici marxisti dell’imperialismo, in particolare su Rosa Luxemburg,
ma anche Lenin riprese alcuni suoi temi. Più tardi avrebbe ricevuto anche il plauso
di John Maynard Keynes.
All’analisi economica Hobson affiancava anche interessanti riflessioni sugli aspetti
di psicologia sociale della mentalità imperialista. In essa si intrecciano, tra l’altro,
lo spirito di avventura delle classi agiate, la sopravvivenza della «passione animale
per la lotta», la tradizione della caccia diffusa anche negli strati rurali della
popolazione. Questi ingredienti, solo parzialmente disciplinati dalla diffusione delle
pratiche sportive, tendono a esaltare la combattività innata delle diverse classi
sociali traducendola in spirito militare e guerresco. Una dimensione patrocinata anche
dal sistema educativo, dove l’idea della superiorità della razza si accompagna a un
imperialismo «mascherato da patriottismo».
Se è vero [...] che l’imperialismo degli ultimi sessanta anni è chiaramente da condannare
come politica economica, perché, a prezzo di grandissime spese, ha procurato un aumento
di mercati scarso, di cattiva qualità e insicuro, e perché ha messo in pericolo l’intera
ricchezza nazionale suscitando un forte risentimento in altre nazioni, dobbiamo allora
domandarci: «come mai la nazione britannica è spinta a imbarcarsi in una politica
così irragionevole?». L’unica risposta possibile è che gli interessi economici del
paese nel suo insieme sono subordinati a quelli di certi interessi particolari che
usurpano il controllo delle risorse nazionali e le usano per il loro profitto privato.
Questa non è un’accusa né strana né mostruosa: è la malattia più comune di tutte le
forme di governo. Le famose parole di Sir Thomas More sono tanto vere ora come quando
le scrisse: «ovunque vedo una cospirazione di uomini ricchi che cercano il proprio
vantaggio sotto il nome e il pretesto del bene comune».
Sebbene il nuovo imperialismo sia stato un cattivo affare per il nostro paese, esso
è stato un buon affare per certe classi e certi commerci all’interno della nazione.
Le grandi spese per armamenti, le guerre costose, i gravi rischi e difficoltà della
politica estera, i freni imposti alle riforme sociali e politiche interne, benché
abbiano portato grave danno alla nazione, sono serviti molto bene ai concreti interessi
economici di certe attività e professioni.
È inutile occuparsi di politica se non si riconosce chiaramente questo fatto centrale
e se non si capisce quali siano questi interessi particolari, nemici della salvezza
nazionale e del bene pubblico. Dobbiamo abbandonare le analisi puramente sentimentali
che spiegano le guerre e gli altri gravi errori nazionali come scoppi di animosità
patriottica o come manchevolezze nell’arte di governo. Senza dubbio a ogni scoppio
di guerra non solo l’uomo della strada, ma anche l’uomo in divisa è spesso ingannato
dall’astuzia con cui motivazioni aggressive e avidi propositi si vestono con abiti
difensivi. Infatti si può affermare con sicurezza che non vi è stata una sola guerra
che si ricordi che, per quanto scopertamente aggressiva possa apparire allo storico
spassionato, non sia stata presentata alla gente che era chiamata a combattere come
una necessaria politica di difesa, in cui erano in ballo l’onore dello stato e forse
anche la sua stessa esistenza.
La follia disastrosa di queste guerre, il danno materiale e morale che ne deriva anche
al vincitore, appare così chiaramente allo spettatore disinteressato che egli comincia
a disperare che uno stato raggiunga l’età della ragione; e tende a considerare questi
cataclismi come prodotti dall’esistenza di un irrazionalismo di fondo nella politica.
Ma un’attenta analisi delle relazioni esistenti tra gli affari e la politica mostra
che l’imperialismo aggressivo, che cerchiamo di spiegare, non è per niente il prodotto
delle cieche passioni delle razze o della follia mista alle ambizioni dei politici.
È molto più razionale di quanto non appaia a prima vista. Irrazionale com’è dal punto
di vista dell’intera nazione, esso è invece perfettamente razionale dal punto di vista
di alcune classi interne alla nazione. Uno stato pienamente socialista che tenesse
buoni libri contabili e presentasse regolari bilanci delle spese e del patrimonio
scarterebbe subito l’imperialismo; e lo stesso farebbe un’intelligente democrazia
liberista che nella sua politica attribuisse il dovuto peso a tutti gli interessi
economici. Ma uno stato nel quale certi interessi economici ben organizzati riescono
ad avere più importanza degli interessi deboli e sparsi della comunità è portato a
seguire una politica che corrisponde alla pressione degli interessi dei più forti.
Per poter spiegare l’imperialismo sulla base di questa ipotesi dobbiamo rispondere
a due domande. Troviamo in Gran Bretagna un gruppo ben organizzato di interessi economici
e sociali specifici che è in condizione di ottenere grandi vantaggi dall’imperialismo
aggressivo e dal militarismo ad esso legato? Se un tale insieme di interessi esiste,
ha il potere di far prevalere la sua volontà nell’arena della politica?
Qual è dunque il diretto risultato economico dell’imperialismo? Un gran dispendio
di denaro pubblico per navi, fucili, equipaggiamento e provviste per l’esercito e
la marina, che cresce e produce enormi profitti quando ci si trova di fronte a una
guerra o a un allarme di guerra; nuovi prestiti pubblici e fluttuazioni significative
nelle borse interne e in quelle estere; più posti per soldati e marinai e per servizi
diplomatici e consolari; miglioramento nelle condizioni di investimento all’estero
tramite la sostituzione della bandiera straniera con quella britannica; conquista
di mercati per certi tipi di esportazioni, protezione e assistenza per i commerci
britannici in queste attività; occupazioni per ingegneri, missionari, cercatori d’oro,
allevatori di bestiame e altri emigranti.
Così alcuni interessi economici e professionali specifici che prosperano sulla spesa
imperialistica o sulle conseguenze di tale spesa si contrappongono all’interesse comune,
e, convergendo istintivamente verso una stessa meta, si trovano uniti da una grande
comprensione reciproca nel sostenere qualsiasi impresa imperialistica.
Se sottoponessimo ad attenta analisi i 60 milioni di sterline che possono venir considerate
come il minimo di spesa per gli armamenti in tempo di pace, ci accorgeremmo che la
maggior parte di essi andrebbe direttamente nelle casse di certe grandi aziende che
costruiscono navi da guerra e mezzi di trasporti, che li equipaggiano e li riforniscono
di carbone, oppure che producono cannoni, fucili, munizioni, aeroplani e veicoli a
motore di ogni tipo, o che forniscono cavalli, carri, selle, cibo, vestiti per le
forze armate, o prendono in appalto i lavori per le caserme e per altre necessità.
Inoltre, attraverso questi canali principali, milioni di sterline vanno a nutrire
molte produzioni sussidiarie; molte delle quali sanno bene che lavorano eseguendo
contratti per le forze armate. Qui abbiamo dunque un nucleo importante dell’imperialismo
economico. Alcune di queste attività, soprattutto quelle della costruzione di navi,
di caldaie, di cannoni e di munizioni, sono svolte da grandi imprese con immensi capitali
i cui capi conoscono bene l’uso che si può fare del potere politico per scopi commerciali.
Questi uomini sono imperialisti per convinzione; una politica aggressiva è per loro
assai conveniente.
Nella stessa posizione stanno i grandi produttori di manufatti per l’esportazione,
che guadagnano soddisfacendo i bisogni veri o artificiali dei nuovi paesi che noi
annettiamo o verso i quali ci apriamo una strada. Manchester, Sheffield e Birmingham,
per citare tre casi rappresentativi, sono pieni di fabbriche in concorrenza tra loro
per imporre sui nuovi mercati tessuti e oggetti di metallo, motori, attrezzi, macchinari,
liquori, armi da fuoco. I debiti pubblici che maturano nelle nostre colonie e nei
paesi stranieri che cadono sotto il nostro protettorato o la nostra influenza, sono
in grande misura prestiti che noi abbiamo fatto sotto forma di ferrovie, motori, armi
da fuoco e altro materiale tecnicamente avanzato prodotto da fabbriche inglesi. La
produzione di ferrovie, canali e altre opere pubbliche, l’insediamento di fabbriche,
l’apertura delle miniere, il miglioramento dell’agricoltura nei nuovi paesi stimolano
un interesse specifico in importanti industrie manifatturiere e alimentano una salda
fede imperialista nei loro proprietari.
La parte di questi commerci sul totale dell’attività industriale della Gran Bretagna
non è grande; ma alcuni di essi sono estremamente influenti e capaci di esercitare
una grande pressione sul mondo della politica, attraverso le camere di commercio,
i rappresentanti al parlamento ed anche tramite corpi semi-politici e semi-commerciali
come l’Associazione imperiale del Sud-Africa o la Società della Cina.
Il commercio di navi ha un interesse molto preciso nell’imperialismo. Lo mostra bene
la politica dei sussidi dello stato reclamata oggi dalle imprese costruttrici di navi
come stabile diritto volto a incoraggiare l’industria navale britannica ai fini della
sicurezza e della difesa imperiale.
Le forze armate sono, naturalmente, imperialiste per convinzione e per interesse professionale;
e ogni aumento dell’esercito, della marina e dell’aviazione accresce il potere politico
che esse esercitano. L’abolizione delle cariche ereditarie all’interno dell’esercito,
aprendo la carriera alla borghesia, ha aumentato molto questo stimolo diretto a favore
del sentimento imperiale. La potenza di questo elemento naturalmente è dovuta in larga
misura al desiderio irresistibile di gloria e di avventura che provano gli ufficiali
al cospetto di frontiere dell’impero controverse o incerte. Questa è stata un’importante
causa di espansione imperialista in India. D’altra parte, l’influenza professionale
diretta delle forze armate porta con sé anche un appoggio, meno organizzato ma potente
e carico di comprensione, da parte dell’aristocrazia e delle classi ricche, che cercano
nelle forze armate una carriera per i loro figli.
Al servizio militare possiamo aggiungere la burocrazia statale dell’India e i numerosi
posti di funzionari e di semi-funzionari statali nelle nostre colonie e protettorati.
D’altra parte, ogni espansione dell’impero è vista da queste stesse classi come creazione
di nuove occasioni per i loro figli per diventare allevatori di bestiame, proprietari
di piantagioni, ingegneri e missionari. Questo punto di vista è ben riassunto da un
alto funzionario dell’India, Sir Charles Crossthwaite, quando discute le relazioni
britanniche con il Siam: «La vera questione era quella di chi doveva commerciare con
loro e di come potevamo trarne i maggiori vantaggi possibili, in modo da trovare nuovi
mercati per le nostre merci e anche occupazione per queste cose superflue dei nostri
tempi, i nostri ragazzi».
Da questo punto di vista le nostre colonie sono ancora come le descrisse cinicamente
James Mill1, «un vasto sistema di soccorso esterno per le classi ricche».
In tutte le professioni militari e civili, nell’esercito, nella diplomazia, nella
chiesa, nell’avvocatura, nell’insegnamento, nell’ingegneria, l’impero britannico serve
da sbocco, che alleggerisce la congestione del mercato interno e offre altrove occasioni
di occupazione per i suoi cittadini più temerari e avventurosi; mentre crea un comodo
rifugio per personaggi caduti in disgrazia e per carriere rovinate. Il reale ammontare
di impieghi fruttuosi così forniti dalle nostre recenti acquisizioni imperiali è nel
complesso trascurabile, ma esso produce quell’interesse sproporzionato che sempre
si crea attorno a quelle occupazioni che si trovano al margine. Il desiderio di allargare
questo margine è una potente spinta verso l’imperialismo.
Queste influenze, che hanno una base principalmente economica – sia pur mescolata
a fattori di carattere sentimentale –, sono attive soprattutto nei circoli dei militari,
del clero, degli accademici e della burocrazia statale, e alimentano da lì una tendenza
favorevole all’imperialismo in tutti i circoli colti.
Ma il fattore economico di gran lunga più importante per spiegare l’imperialismo riguarda
gli investimenti. Il crescente cosmopolitismo del capitale è stato il principale cambiamento
economico degli ultimi decenni. Ogni nazione industrialmente avanzata ha puntato a
collocare una parte sempre maggiore dei suoi capitali al di fuori della sua area politica,
in paesi stranieri, o nelle colonie, e a ricavare un reddito crescente da questa fonte.
[...]
L’imperialismo aggressivo, che costa così caro al contribuente, che è di così scarso
valore al produttore e al commerciante, che è causa di così gravi e incalcolabili
pericoli per i cittadini, è invece una fonte di grandi guadagni per l’investitore
che non riesce a trovare in patria impieghi profittevoli per il suo capitale e insiste
che il governo lo aiuti per poter fare investimenti profittevoli e sicuri all’estero.
[...]
Questa è la rassegna delle forze economiche che vogliono l’imperialismo: un ampio
gruppo di attività economiche e professionali in cerca di affari vantaggiosi e di
occupazioni lucrose tramite l’espansione dell’esercito e della burocrazia, le spese
per le operazioni militari, l’apertura di nuovi tratti di territorio e dei commerci
che ciò favorisce, e tramite la fornitura del nuovo capitale che queste operazioni
richiedono; tutte queste forze trovano il loro principale elemento di guida e di direzione
nel potere dell’alta finanza.
Il gioco di queste forze non appare apertamente. Esse sono essenzialmente parassiti
del patriottismo e trovano protezione dietro la sua bandiera. In bocca ai loro rappresentanti
vi sono nobili frasi, che esprimono il desiderio di estendere l’area della civiltà,
stabilire il buon governo, convertire alla cristianità, estirpare la schiavitù ed
elevare le razze inferiori. Alcuni di questi uomini d’affari che parlano un tale linguaggio
possono avere un genuino desiderio, che tuttavia di solito è assai vago, di ottenere
questi scopi; ma essi sono principalmente occupati nei loro affari, e non ignorano
l’utilità di avere dalla loro parte forze disinteressate per far avanzare i loro fini.
[...]
È ammesso da tutti gli uomini d’affari che la crescita della capacità produttiva nei
loro paesi eccede l’aumento dei consumi, che si possono produrre più beni di quanti
possono essere venduti ad un prezzo profittevole, che esiste più capitale di quanto
può trovare un investimento remunerativo.
È questa situazione che rappresenta la radice economica dell’imperialismo. Se i consumatori
del nostro paese aumentassero il loro livello di consumo in modo tale da mantenere
il passo con l’aumento della nostra capacità produttiva, non vi sarebbe un eccesso
di merci o di capitali così rilevante da farci usare l’imperialismo per trovare mercati
«di sbocco»: il commercio estero, naturalmente, esisterebbe lo stesso; ma non vi sarebbe
difficoltà a scambiare un piccolo sovrappiù dei nostri manufatti con il cibo e le
materie prime di cui abbiamo annualmente bisogno e tutti i nostri risparmi, se lo
desiderassimo, potrebbero venir investiti in Gran Bretagna. [...]
Le questioni di fondo [...] sono queste: «Perché succede che in un paese il consumo
non sta al passo automaticamente con lo sviluppo della capacità produttiva?». «Perché
esiste il sotto-consumo o il sovra-risparmio?» È evidente infatti che la capacità
di consumare, che, se esercitata, terrebbe tirate le redini della produzione, viene
invece in parte trattenuta; o in altre parole viene «risparmiata» e immagazzinata
per gli investimenti. Naturalmente non tutti i risparmi a scopo di investimento implicano
un indebolimento della produzione; al contrario. Il risparmio è economicamente giustificato,
da un punto di vista sociale, quando il capitale in cui si incarna trova pieno utilizzo
per contribuire a produrre merci che, una volta prodotte, saranno consumate. Ma un
risparmio in eccesso di questa quantità causa danni, perché prende la forma di capitale
in sovrappiù che non è necessario per provvedere al consumo corrente, e che o rimane
inutilizzato, o tenta di soppiantare il capitale esistente dal suo impiego, oppure
cerca un uso speculativo all’estero sotto la protezione del governo.
Ma si potrebbe chiedere: «Perché dovrebbe esserci questa tendenza a sovra-risparmiare?
Perché coloro che possiedono la capacità di consumo dovrebbero risparmiare una quantità
più grande di quella che potrebbe venir impiegata utilmente?». Poniamo la domanda
da un altro punto di vista: «Perché la pressione dei desideri attuali non dovrebbe
tenere il passo di ogni possibile crescita della capacità di soddisfarli?». La risposta
a queste importanti domande ci porta ad affrontare la questione più generale della
distribuzione della ricchezza. Se esistesse una tendenza a distribuire la ricchezza
o la capacità di consumo secondo i bisogni, è evidente che i consumi crescerebbero
con ogni aumento della capacità produttiva, poiché i bisogni umani sono illimitati,
e non potrebbe esistere un eccesso di risparmio. Ma la situazione è completamente
diversa in una economia dove la distribuzione non ha una relazione fissa con i bisogni,
ma è determinata da altre condizioni che attribuiscono ad alcune persone una capacità
di consumo largamente superiore ai loro bisogni o ad ogni possibile uso, mentre altri
sono privati della possibilità di consumare perfino quello che serve a mantenere la
loro efficienza fisica. [...]
Non è il progresso industriale che richiede l’apertura di nuovi mercati e di nuove
aree di investimento, ma la cattiva distribuzione della capacità di consumo che impedisce
l’assorbimento di merci e di capitali all’interno del paese. [...] I sovra-risparmi,
che sono la radice economica dell’imperialismo, consistono in rendite, profitti di
monopolio ed altri redditi eccessivi o non guadagnati; i quali, poiché non rappresentano
la remunerazione di un lavoro mentale o manuale, non hanno una raison d’être2 legittima. Non avendo alcuna relazione naturale con lo sforzo produttivo, essi non
spingono il loro destinatario a una soddisfazione corrispondente nel consumo: formano
una ricchezza in sovrappiù la quale, non avendo un suo posto effettivo nella normale
economia della produzione e del consumo, tende ad accumularsi come risparmio eccedente.
Se ogni nuova ondata delle forze economico-politiche sottraesse a questi proprietari
il loro reddito in eccesso e lo facesse fluire verso gli operai sotto forma di più
alti salari, o verso la comunità sotto forma di tasse, in modo da venir speso anziché
risparmiato, e in modo da servire in entrambi i casi a rafforzare lo sviluppo dei
consumi, allora non ci sarebbe più bisogno di combattere per impossessarsi di mercati
stranieri o di aree d’investimento estere. [...]
L’acquiescenza e perfino il sostegno attivo e entusiastico del corpo di una nazione
a un corso politico che è fatale ai suoi veri interessi, è assicurato in parte con
appelli alla missione di civiltà, ma soprattutto giocando sugli istinti primitivi
della razza.
Non è facile esplorare la psicologia di questi istinti, ma certi fattori principali
appaiono chiaramente. La passione che uno scrittore francese descrive come chilometrite
o migliomania, l’istinto di controllo della terra, risale ai tempi primitivi in cui
un ampio terreno era necessario per procacciarsi il cibo per nutrire uomini o bestiame,
ed è legato alle abitudini delle «migrazioni», che sopravvivono nei popoli civili
con più forza di quanto si suppone comunemente. L’abitudine «nomade» coltivata per
necessità sopravvive come un ingrediente principale nell’amore per i viaggi, e si
trasforma in «spirito d’avventura» quando incontra altre passioni primitive. Questo
«spirito d’avventura», specialmente nel mondo anglosassone, ha preso la forma dello
«sport», che nei suoi aspetti più forti o «più avventurosi» implica un appello diretto
alla brama di uccidere e alla lotta crudele per la vita. La passione animale per la
lotta, che una volta era una necessità, sopravvive nel sangue, e nella misura in cui
a una nazione o a una classe resta un margine di energia o di tempo libero da una
pacifica attività economica, essa cerca soddisfazioni attraverso lo «sport», nel quale
sono ingredienti vitali la caccia e la soddisfazione fisica di assestare un colpo.
Le classi agiate in Gran Bretagna, le cui energie sono in gran parte libere dal lavoro,
si specializzano naturalmente nello «sport», e in questo modo il bisogno per la salute
di trovare un sostituto al lavoro aiuta la sopravvivenza di un istinto selvaggio e
vi si mescola. Poiché solo le espressioni più miti di questa passione sono permesse
negli incontri fittizi o artificiali degli sport domestici, dove scompaiono i giochi
selvaggi e i combattimenti tra persone più pericolosi del gioco del calcio sono proibiti,
vi è una pressione sempre più forte affinché lo «spirito d’avventura» che era stato
represso possa avere un forte e libero gioco alle frontiere della civiltà. Questi
sentimenti sono alimentati da un fiume di letteratura di viaggio e di invenzione,
mentre la sicurezza e la monotonia della comune routine del mondo civile infonde un
fascino sempre crescente alle zone più selvagge della terra. Le più miti soddisfazioni
offerte dallo sport alle classi elevate nel loro tempo libero sono imitate in patria
dalle masse operaie, che hanno ora più tempo ed energia da dedicare alla ricreazione,
e che, nel passare dalle condizioni rurali a quelle cittadine, non hanno mai abbandonato
gli sport più umili della vita di campagna ai quali erano dedite da tempo immemorabile.
«Il calcio è un buon gioco, ma meglio del calcio, meglio di ogni altro gioco, è quello
della caccia all’uomo».
Gli aspetti sportivi e militari dell’imperialismo formano, perciò, una base molto
forte di richiamo popolare. Il desiderio di inseguire o di uccidere, sia all’interno
di un grande gioco che nella realtà, può essere soddisfatto solo dall’espansione e
dal militarismo. Invero si può dire con sicurezza che la ragione per cui il nostro
esercito ha ufficiali così inefficienti, se confrontati con la truppa, è che in un’epoca
in cui per ogni professione intellettuale è richiesta una seria preparazione scientifica
e una selezione, la maggior parte degli ufficiali britannici scelgono l’esercito e
intraprendono questo lavoro con spirito «sportivo». Forse anche il comune «Tommy»3 è mosso soprattutto dagli stessi motivi, ma la «scienza» è meno importante nel suo
caso, e ogni mancanza di serietà professionale è più largamente compensata dalla disciplina
che gli viene imposta.
Ma ancor più importante del sostegno al militarismo dell’esercito è la parte giocata
dalla «guerra» come sostegno dell’imperialismo nella parte non-combattente della nazione.
Sebbene il richiamo attivo dello «sport» sia ancora forte, perfino tra gli abitanti
delle città, sono visibili chiari segni di degradazione di questo interesse attivo
tra coloro che partecipano all’ozioso eccitamento dello spettatore. Fino a che punto
lo sport sia degenerato può essere misurato dal fatto che ovunque un professionalismo
specializzato si è sostituito al dilettantismo, ed è cresciuto conseguentemente il
vizio delle scommesse, che esprime la peggior forma di eccitamento sportivo, poiché
elimina qualsiasi simpatia disinteressata dai meriti della competizione, mentre concentra
questi ultimi sull’elemento irrazionale della fortuna combinata con l’avidità e con
una bassa furbizia. L’equivalente di questa degradazione dell’interesse nello sport
è lo sciovinismo in relazione alla realtà della guerra. Lo sciovinismo è semplicemente
la brama dello spettatore, che, senza alcuno sforzo, rischio o sacrificio personale,
gode dei pericoli, dei mali e dei massacri di altri uomini che egli non conosce, ma
il cui annientamento desidera in una passione cieca di odio e di vendetta, creata
artificialmente. Per lo sciovinista tutto sta nella furia cieca e casuale della lotta.
La difficile e preoccupante monotonia della marcia, i lunghi periodi di attesa, le
dure privazioni, la noia terribile delle campagne prolungate, non trovano posto nella
sua immaginazione; i fattori che riscattano la guerra, il fine senso di cameratismo
ispirato da un comune pericolo personale, i frutti della disciplina e dell’autolimitazione,
il rispetto per la personalità del nemico di cui si deve ammettere il coraggio e che
si arriva a considerare come proprio simile – tutti questi elementi di compensazione
presenti nella guerra sono eliminati dalla passione dello sciovinista. È precisamente
per queste ragioni che alcuni amici della pace sostengono che i due più potenti controlli
sul militarismo e sulla guerra sono l’obbligo per tutti i cittadini di fare il servizio
militare e l’esperienza in una invasione.
Non sta a noi decidere se questi rimedi dispendiosi siano realmente efficaci e necessari,
ma è del tutto evidente che la brama di assistere allo spettacolo da parte degli sciovinisti
è un fattore molto serio dell’imperialismo. La drammatica falsificazione, sia della
guerra sia di tutta la politica di espansione imperialista, richiesta per alimentare
questa passione popolare forma una parte non piccola del lavoro dei veri organizzatori
delle imprese imperialiste, il piccolo gruppo di uomini d’affari e di politici che
sanno ciò che vogliono e come ottenerlo.
Fregiandosi delle glorie vere o fittizie dell’eroismo militare e delle magnifiche
pretese di costruire un impero, lo sciovinismo diventa il nucleo di un tipo di patriottismo
che può essere spinto a qualsiasi follia e a qualsiasi crimine.
Quando lo spirito del nudo dominio ha bisogno di rivestirsi per mostrarsi alle classi
istruite di una nazione, allora le necessarie decorazioni morali e intellettuali gli
vengono cucite su misura; la chiesa, la stampa, la scuola e l’università, e la macchina
politica, i quattro strumenti principali dell’istruzione popolare, sono adatti al
suo servizio. Dal cristianesimo del «rimboccarsi le maniche» della generazione che
ci precede al cristianesimo imperiale di oggi vi è solo un passo; l’aumento dei poteri
attribuiti ai sacerdoti e la dottrina dell’autorità nelle chiese ufficiali si accordano
bene col militarismo e con l’autocrazia politica. [...] Quanto alla potentissima macchina
della stampa e dei giornali, nella misura in cui non è direttamente posseduta e adoperata
dai finanzieri per scopi finanziari (come è generalmente il caso in ogni grande centro
industriale e finanziario), è sempre influenzata e spesso dominata dagli interessi
delle classi che controllano la pubblicità da cui dipende la sua sopravvivenza; via
via che il gruppo di interessi che formano il nucleo economico dell’imperialismo si
rafforza e diventa più consapevole della sua politica, si fa ogni anno più rara e
più precaria l’esistenza di giornali indipendenti, che abbiano una circolazione così
vasta e così solida da poter «controllare» o trattenere la pubblicità in barba a una
politica che non piace alle classi che fanno la pubblicità. La macchina politica è
«mercenaria» perché è una macchina, e ha bisogno di costanti riparazioni e lubrificazioni
da parte dei membri ricchi del partito; il macchinista sa da chi prendere i soldi,
e non può andare contro il volere di coloro che sono in effetti i padroni del partito
e basta che stringano i cordoni della borsa per fermare automaticamente la macchina.
[...]
Più serio di tutti è il persistente tentativo di assicurare il sistema scolastico
all’imperialismo mascherato da patriottismo. Catturare l’infanzia del paese, meccanizzare
il suo libero gioco nella routine dell’esercitazione militare, coltivare le sopravvivenze
selvagge della combattività, avvelenare la sua prima comprensione della storia con
false idee e pseudo-eroi, e di conseguenza con la denigrazione e l’ignoranza di ogni
lezione del passato veramente vitale e nobile, stabilire un punto di vista «geocentrico»
dell’universo morale in cui gli interessi dell’umanità sono subordinati a quelli del
«paese» (e così, con una facile rapida e naturale deduzione, quelli del «paese» a
quelli dell’«io»), alimentare l’orgoglio sempre arrogante della razza in un’età in
cui il più delle volte prevale una fiducia in sé, che per necessaria conseguenza porta
a disprezzare le altre nazioni, e in questo modo avviare i bambini alla vita con false
misure di valore e senza il desiderio di apprendere dalle fonti straniere – imprimere
questa insularità di fondo della mentalità e della morale all’infanzia di una nazione
e chiamarlo patriottismo è il più scorretto abuso di educazione che sia possibile
immaginare. Tuttavia il potere della chiesa e dello stato sull’istruzione primaria
è volto coerentemente a questo scopo, mentre la mescolanza di clericalismo e accademismo
autocratico che domina l’istruzione secondaria di questo paese riversa il suo entusiasmo
negli stessi nefasti canali. Infine, i massimi centri della nostra cultura, le università,
corrono il pericolo di una nuova distorsione della libertà di indagine e di espressione.
[...]
L’imperialismo è una scelta corrotta della vita nazionale, imposta da interessi egoistici
che sopravvivono in una nazione fin dai primi secoli della lotta animale per l’esistenza
e che fanno appello alle brame di grandi guadagni e di imposizione con la forza. Il
fatto che venga adottato come politica significa una deliberata rinuncia a coltivare
quelle intime nobili qualità che per una nazione come per un individuo costituiscono
la vittoria della ragione sull’istinto bruto. È il vizio inveterato di tutti gli stati
che hanno avuto dei successi, e, nell’ordine naturale delle cose, la sua punizione
è inevitabile.
[J.A. Hobson, L’imperialismo, Isedi, Milano 1974, pp. 43-55; 72-77; 181-185; 308-309]
5. Il sionismo
A partire dagli ultimi anni dell’Ottocento, la prospettiva del ritorno del popolo
ebraico nella Terra d’Israele – mantenuta viva per millenni dalla tradizione religiosa
– assunse una connotazione laica e politica. In un’Europa che assisteva all’esplosione
del caso Dreyfus, all’elezione di un dichiarato antisemita come Karl Lueger a borgomastro
di Vienna, ai pogrom nell’impero russo, il ritorno degli ebrei a Sion (Gerusalemme),
prima concepito nelle forme dell’attesa messianica, divenne concreto programma d’azione
e nell’ideologia sionista Israele si trasformò da patria religiosa a progetto di un
vero e proprio Stato nazionale.
Alla diffusione del sionismo politico, la cui nascita viene fatta risalire alla pubblicazione
del libro Lo Stato degli ebrei (1896) di Theodor Herzl, era volta l’«Organizzazione sionista mondiale», di cui,
insieme allo stesso Herzl, fu principale animatore il medico, sociologo e giornalista
ungherese Max Nordau (pseudonimo di Maximilian Simon Südfeld, 1849-1923). Nordau,
già assai noto negli ambienti intellettuali come autore di un libro intitolato Degenerazione (1892-1893) – una critica alla cultura e all’arte contemporanea condotta sulla scorta
delle teorie lombrosiane e destinata a un immediato successo – era figlio di un rabbino
ortodosso, ma prima della sua conversione al sionismo si era completamente allontanato
dalla comunità ebraica.
Nel testo che qui si pubblica, oltre a sottolineare la specificità della nazione ebraica
e a confutare le false certezze degli assimilazionisti, il sociologo ungherese ribadisce
con forza la dimensione laica del progetto sionista, da attuarsi al di fuori di ogni
prospettiva miracolistica. La salma di Nordau, morto a Parigi nel 1923, fu trasportata
a Tel Aviv nel 1926.
Il nuovo sionismo, che è stato definito «politico», si differenzia dal vecchio sionismo
religioso, messianico, in quanto rinnega tutto il misticismo, non si identifica più
con il messianismo, e non aspetta che il ritorno in Palestina sia determinato da un
miracolo, ma vuole preparare la strada con le proprie forze.
Il nuovo sionismo è nato solo in parte dagli stimoli interni allo stesso giudaismo:
dall’entusiasmo degli ebrei moderni e istruiti per la loro storia e il loro martirologio,
da un risveglio dell’orgoglio per le qualità della loro razza, e dall’ambizione di
salvare l’antico popolo consegnandolo a un futuro destinato a durare molto a lungo
e di aggiungere alle gesta degli antenati nuove grandi imprese compiute dai discendenti.
Per il resto, il sionismo è il risultato di due spinte provenienti dal di fuori: la
prima è il principio di nazionalità, che domina il pensiero e il sentimento in Europa
da mezzo secolo e determina la politica mondiale; e la seconda è l’antisemitismo,
a causa del quale gli ebrei di tutti i paesi soffrono in qualche misura.
Il principio di nazionalità ha risvegliato un senso di identità in tutti i popoli;
ha insegnato loro a considerare valori le proprie qualità peculiari e ha fatto nascere
in loro un ardente desiderio di indipendenza. Dunque non poteva non lasciare qualche
segno negli ebrei istruiti. Li ha indotti a ricordare chi e che cosa sono, a sentirsi
ancora una volta un popolo, e a pretendere per sé un destino nazionale normale. Nelle
sue esagerazioni, il principio di nazionalità ha portato ad eccessi. Si è perso nello
sciovinismo, si è degradato a odio insensato per gli stranieri e si è abbassato a
una grottesca autocelebrazione. Il nazionalismo ebraico non corre il rischio di diventare
una caricatura di se stesso. L’ebreo nazionalista non soffre di presunzione; al contrario,
sente di doversi impegnare continuamente per rendere l’appellativo «ebreo» un titolo
onorifico. Egli riconosce, con modestia, le buone qualità di altri popoli e cerca
diligentemente di farle proprie, per quanto gli è possibile armonizzarle con le sue
attitudini naturali. Sa quale danno terribile secoli di schiavitù o di impotenza hanno
fatto al suo carattere, che in origine era orgoglioso e saldo, e cerca di curare se
stesso con grande autodisciplina.
Anche l’antisemitismo ha insegnato a molti ebrei istruiti la via che li riconduce
al loro popolo. Esso ha avuto l’effetto di una dura prova che i deboli non riescono
a sopportare ma da cui i forti escono più temprati e con maggiore fiducia in se stessi.
È sbagliato dire che il sionismo è soltanto un gesto aggressivo o un atto di disperazione
contro l’antisemitismo. È vero invece che soltanto l’antisemitismo ha spinto alcuni
ebrei istruiti a condividere ancora una volta la sorte di tutto il popolo ebraico,
ed essi si tirerebbero nuovamente indietro se i loro connazionali cristiani non li
accettassero in maniera amichevole. Tuttavia, per la maggior parte dei sionisti, l’antisemitismo
ha avuto unicamente l’effetto di costringerli a riflettere sul loro rapporto con altre
nazioni, e questa riflessione li ha portati a conclusioni che rimarranno radicate
nelle loro menti e nei loro cuori anche se l’antisemitismo sparisse completamente.
L’unico punto che esclude, probabilmente per sempre, la possibilità di accordo tra
ebrei sionisti e non sionisti è la questione della nazionalità ebraica. Chi crede,
e sostiene, che gli ebrei non sono una nazione non può certamente essere un sionista;
non può aderire a un movimento la cui ragion d’essere è il desiderio di portare alla
normalità un popolo che vive e soffre in condizioni anormali. Per converso, chi è
convinto che gli ebrei sono un popolo deve necessariamente diventare sionista, dal
momento che soltanto il ritorno nella propria patria può salvare la nazione ebraica
– che viene odiata, perseguitata e oppressa dovunque – dalla distruzione fisica e
intellettuale.
Molti ebrei, specialmente in Occidente, nel profondo del loro cuore hanno rotto definitivamente
con il giudaismo, ed è probabile che presto lo paleseranno anche apertamente; e se
non se ne distaccano del tutto, lo faranno i loro figli o i nipoti. Queste persone
desiderano integrarsi completamente con i loro connazionali cristiani. Avvertono profonda
irritazione quando altri ebrei proclamano: «Noi siamo un popolo a parte e vogliamo
creare una separazione netta tra noi e le altre nazioni». Il loro grande e costante
timore è che nella terra in cui sono nati, e dove sono liberi cittadini, possano essere
definiti estranei. Hanno paura che questo abbia probabilità assai maggiori di verificarsi
se gran parte del popolo ebraico rivendicherà apertamente il proprio diritto di proclamarsi
nazione indipendente, e, ancora peggio, se in una qualunque parte del mondo dovesse
essere realmente creato un centro politico e intellettuale ebraico, nel quale milioni
di ebrei sarebbero uniti come fossero una nazione.
Tutti questi sentimenti degli ebrei integrazionisti sono comprensibili. Dal loro punto
di vista sono giustificati. Gli ebrei, comunque, non hanno alcun diritto di aspettarsi
che il sionismo si suicidi nel loro interesse. Gli ebrei che sono felici e contenti
nella loro terra natale e che rifiutano indignati il suggerimento di abbandonarla
sono circa un sesto del popolo ebraico, diciamo due milioni su dodici milioni di persone.
Gli altri cinque sesti, ovvero dieci milioni di individui, hanno tutti i motivi di
essere profondamente infelici nei paesi in cui vivono. A questi dieci milioni di ebrei
non si può chiedere di sottomettersi per sempre, e senza resistenze, alla loro schiavitù,
e di rinunciare a ogni tentativo di riscattarsi dal loro stato miserevole solo per
non turbare il benessere di due milioni di ebrei felici e contenti.
Inoltre, i sionisti sono fermamente convinti che le apprensioni degli ebrei integrazionisti
siano infondate. La ricomposizione del popolo ebraico in Palestina non avrà le conseguenze
da loro temute. Quando vi sarà una patria ebraica gli ebrei avranno la scelta di emigrarvi
o di rimanere nei paesi dove vivono attualmente. Non c’è dubbio che molti non vorranno
spostarsi – e la loro scelta sarà la prova che preferiscono il paese in cui sono nati
alla terra della loro stirpe e della loro nazione. È possibile che gli antisemiti
lanceranno loro in faccia, ancora, il grido sprezzante e perfido di «estranei!». Ma
i veri cristiani tra i loro connazionali, coloro le cui emozioni e i cui pensieri
sono guidati dall’insegnamento e dagli esempi del Vangelo, saranno persuasi dall’idea
che gli ebrei che rimangono nella terra in cui sono nati non vi si considerano estranei.
Gli autentici cristiani comprenderanno il vero significato di questa loro rinuncia
volontaria a un ritorno a una terra degli ebrei, e del loro attaccamento ai loro paesi
e ai vicini cristiani.
I sionisti sanno di avere intrapreso un lavoro di difficoltà senza confronti. Mai,
nel passato, si è fatto lo sforzo di trapiantare diversi milioni di persone, provenienti
da vari paesi, in pace e in un breve periodo di tempo; mai si è tentato di trasformare
milioni di proletari fisicamente degenerati, senza mestiere o professione, in contadini
e pastori; di portare gente di città, bottegai e mercanti, impiegati e persone che
svolgono lavori sedentari, di nuovo a contatto con l’aratro e con la madre terra.
Sarà necessario fare in modo che ebrei di differenti origini si adattino l’uno all’altro,
educarli concretamente all’unità nazionale, e allo stesso tempo superare gli ostacoli
sovrumani delle differenze di linguaggio, di livello culturale, di modi di pensare,
e i vari pregiudizi di persone che arriveranno in Palestina da tutti i paesi del mondo.
Ciò che dà ai sionisti il coraggio di cominciare queste fatiche di Ercole è la convinzione
di essere impegnati in un compito necessario e utile, un lavoro di amore e di civiltà,
un lavoro di giustizia e di saggezza. Vogliono salvare otto o dieci milioni di loro
simili da sofferenze intollerabili. Desiderano liberare i popoli in mezzo ai quali
questi ebrei ora vegetano da una presenza considerata sgradevole. Vogliono privare
l’antisemitismo, che dovunque svilisce i principi morali della comunità e alimenta
gli istinti peggiori, della sua vittima. Vogliono fare degli ebrei, ai quali oggi
si rimprovera di essere parassiti, un popolo innegabilmente produttivo. Desiderano
irrigare con il loro sudore e dissodare con le loro mani una terra che ora è un deserto,
finché torni a essere il giardino fiorito di un tempo. Così, il sionismo sarà ugualmente
utile agli ebrei infelici e ai popoli cristiani, alla civiltà e all’economia mondiale.
I servigi che il sionismo può e vuole rendere sono grandi abbastanza da giustificare
la sua speranza che anche il mondo cristiano li apprezzerà, e sosterrà il movimento
con la sua solidarietà attiva.
[M. Nordau, Zionism (1902), in The Zionism Idea: a Historical Analysis and Reader, a cura di A. Hertzberg, Atheneum, New York 1959, pp. 242-245]
6. L’Intesa Cordiale (8 aprile 1904)
A partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, tutte le principali potenze europee si
impegnarono in un’intensa opera di colonizzazione del continente africano: era la
cosiddetta «zuffa per l’Africa» («scramble for Africa», la definì nel 1884 il «Times»di Londra), che ebbe tra i suoi principali protagonisti l’Inghilterra e la Francia.
Negli ultimi anni del secolo, le direttrici espansionistiche dei due grandi imperi
coloniali erano arrivate ad intersecarsi pericolosamente, portando inglesi e francesi
sull’orlo della guerra. In seguito, però – anche per effetto dell’aggressiva politica
estera tedesca, che sembrava voler sfidare la supremazia coloniale di Londra e Parigi
–, i rapporti tra i due paesi divennero più distesi, finché, con un patto siglato
l’8 aprile del 1904 e definito «Intesa cordiale», la Francia e l’Inghilterra posero
definitivamente fine ai loro contrasti coloniali in Africa, consacrando ufficialmente
il proprio riavvicinamento.
Il patto prevedeva l’accettazione francese dell’occupazione britannica dell’Egitto
in cambio del riconoscimento inglese degli interessi francesi in Marocco. Inoltre,
i due paesi si assicuravano reciprocamente il libero passaggio dello Stretto di Gibilterra
e del Canale di Suez e riconoscevano gli interessi spagnoli sul tratto di costa marocchina
adiacente alle città di Ceuta e Melilla. Il patto era seguito da 5 articoli segreti
e da una «convenzione» relativa a Terranova, il Siam (Thailandia), il Madagascar e
le Nuove Ebridi.
L’Intesa cordiale segnò l’avvio sia della lunga tradizione di amicizia tra Francia
e Inghilterra, sia della loro ostilità nei confronti della Germania; un’amicizia e
un’ostilità entrambe ribadite nelle circostanze drammatiche delle due guerre mondiali.
Accordi anglo-francesi per l’Egitto e il Marocco
Londra, 8 aprile 1904
Art. 1. Il Governo di S.M. Britannica dichiara che non ha l’intenzione di mutare lo stato
politico dell’Egitto1.
1 L’Inghilterra aveva stabilito nel 1882 un protettorato sull’Egitto, destinato a durare
per 40 anni.
Da parte sua, il Governo della Repubblica francese dichiara che non ostacolerà l’azione
dell’Inghilterra in questo paese, chiedendo che sia fissato un termine all’occupazione
britannica o in qualsiasi altra maniera. [...]
Art. 2. Il Governo della Repubblica francese dichiara che non ha l’intenzione di mutare
lo stato politico del Marocco.
Da parte sua, il Governo di S.M. Britannica riconosce che appartiene alla Francia,
segnatamente come Potenza limitrofa del Marocco per una vasta estensione, di vigilare
sulla tranquillità in questo paese, e di prestargli la sua assistenza per tutte le
riforme amministrative, economiche, finanziarie e militari, di cui ha bisogno2. [...]
2 La trasformazione del Marocco in un protettorato francese, alla quale l’Inghilterra
dava qui il suo consenso, sarebbe avvenuta nel 1912, nonostante la dura reazione tedesca.
Art. 4. I due Governi, ugualmente attaccati al principio della libertà commerciale sia
in Egitto che al Marocco, dichiarano che non vi si presteranno ad alcuna ineguaglianza.
[...]
Questo impegno reciproco è valido per un periodo di trent’anni. In mancanza di una
denuncia espressa fatta almeno un anno prima, questo periodo sarà prolungato di cinque
in cinque anni. [...]
Art. 6. Al fine di assicurare il libero passaggio del Canale di Suez, il Governo di S.M.
Britannica dichiara di aderire alle stipulazioni del trattato conchiuso il 22 ottobre
1888 e alla sua messa in esecuzione3.
3 La convenzione internazionale del 29 ottobre 1888 aveva stabilito il libero accesso
al Canale di Suez da parte di tutte le potenze firmatarie (Egitto, Inghilterra, Francia,
Italia, Paesi Bassi, Spagna, impero ottomano e impero russo).
Art. 7. Al fine di assicurare il libero passaggio dello Stretto di Gibilterra, i due
Governi convengono di non lasciare innalzare fortificazioni od opere strategiche qualsiasi
sulla parte della costa marocchina compresa tra Melilla e le alture che dominano la
riva destra del Sebu, esclusivamente. Questa disposizione non si applica tuttavia
ai punti attualmente occupati dalla Spagna sulla riva marocchina del Mediterraneo.
Art. 8. I due Governi, ispirandosi ai loro sentimenti sinceramente amichevoli per la
Spagna, prendono in particolare considerazione gli interessi che essa deriva dalla
sua posizione geografica e dai suoi possessi territoriali sulla costa marocchina del
Mediterraneo, circa i quali [interessi] il Governo francese si concerterà col Governo
spagnolo.
Sarà data comunicazione al Governo di S.M. Britannica dell’accordo che potrà intervenire
in proposito tra la Francia e la Spagna.
4 Henry Petty-Fitzmaurice, quinto marchese di Lansdowne, fu ministro degli Esteri inglese
tra il 1900 e il 1905; Paul Cambon fu ambasciatore francese in Gran Bretagna tra il
1898 e il 1920.
Articoli segreti
Art. 1. Nel caso in cui l’uno dei due Governi si vedesse costretto, dalla forza delle
circostanze, a modificare la sua politica nei riguardi dell’Egitto o del Marocco,
gli impegni che essi hanno contratto l’uno verso l’altro con gli articoli 4, 5, 6
della Dichiarazione odierna rimarrebbero intatti.
Art. 2. Il Governo di S.M. Britannica non ha l’intenzione di proporre, per ora, alle
Potenze modifiche al regime delle capitolazioni5 e all’organizzazione giudiziaria in Egitto.
5 Accordi che garantivano privilegi particolari (giuridici, fiscali, commerciali, religiosi,
ecc.) ai cittadini europei nei paesi dell’impero ottomano.
Nel caso che fosse indotto a considerare l’opportunità d’introdurre sotto questo rispetto
delle riforme tendenti ad assimilare la legislazione egiziana a quella degli altri
paesi civili, il Governo della Repubblica francese non rifiuterebbe di esaminare queste
proposte, ma alla condizione che il Governo di S.M. Britannica accettasse di esaminare
le suggestioni che il Governo della Repubblica francese potrebbe rivolgergli per introdurre
nel Marocco riforme della stessa natura.
Art. 3. I due Governi convengono che una certa quantità di territorio marocchino adiacente
a Melilla, Ceuta ed altri Presidi deve, il giorno in cui il Sultano cessasse di esercitare
su di essa la sua autorità, cadere nella sfera d’influenza spagnola e che l’amministrazione
della costa da Melilla fino alle alture della riva destra del Sebu, esclusivamente,
sarà affidata alla Spagna.
Tuttavia, la Spagna dovrà dare preventivamente la sua adesione formale alle disposizioni
degli articoli 4 e 7 della Dichiarazione odierna e impegnarsi ad eseguirli.
Essa s’impegnerà inoltre a non alienare in tutto o in parte i territori posti sotto
la sua autorità.
Art. 4. Se la Spagna, invitata ad aderire alle disposizioni dell’articolo precedente,
credesse di doversi astenere, l’accordo tra la Francia e la Gran Bretagna, quale risulta
dalla Dichiarazione odierna, sarebbe nondimeno immediatamente applicabile.
[Seguono: la Convenzione concernente Terranuova, la Senegambia, le isole di Los, i
territori alla destra del Niger, il lago Tchad; la Dichiarazione concernente il Siam,
il Madagascar e le Nuove Ebridi.]
P. Cambon, Lansdowne
[E. Anchieri, La diplomazia contemporanea. Raccolta di documenti diplomatici 1815-1956, Cedam, Padova 1959, pp. 72-73 (il testo integrale francese è in Documents diplomatiques français 1871-1914, II Série 1901-1911, Tome IV 5 octobre
1903-8 avril 1904, Imprimerie Nationale, Paris 1932, pp. 533-535)]
7. Il primo sciopero generale in Italia (settembre 1904)
Nelle zone arretrate del Sud, dove l’organizzazione sindacale era meno sviluppata
che nelle grandi città del Nord, i movimenti sociali dei lavoratori si esprimevano
in forme violente e disorganizzate, provocando la dura repressione delle forze dell’ordine.
Nel settembre del 1904, in seguito a due ennesimi «eccidi proletari» che avevano provocato
la morte di alcuni lavoratori in Sardegna e successivamente in Sicilia, la protesta
dilagò tra i militanti socialisti: uno sciopero generale, deciso inizialmente dalla
Camera del Lavoro di Milano, coinvolse rapidamente da nord a sud le principali città
italiane.
Furono essenzialmente le Camere del lavoro a guidare lo sciopero, che rimase tuttavia
mal coordinato e privo dell’apporto dei ferrovieri, mentre il Partito socialista era
paralizzato dalla contrapposizione tra i riformisti e i rivoluzionari che pure ne
controllavano la direzione politica.
Lo sciopero sconvolse e paralizzò l’intero paese, suscitando nei ceti dirigenti il
timore di una rivoluzione imminente. Giolitti però rimase fermo sui suoi principi
e invitò i prefetti a intervenire solo nei casi più gravi, convinto che questo fosse
il metodo migliore per placare l’agitazione, inevitabilmente effimera, dei lavoratori.
I fatti gli dettero ragione: lo sciopero rientrò nel giro di pochi giorni, e alle
successive elezioni (novembre 1904) il Partito socialista scese da 33 a 29 seggi,
pur continuando a rappresentare oltre il 20% dei suffragi. Particolarmente critici
nei confronti dello sciopero furono i riformisti che, come si evince da questo lungo
editoriale – pubblicato sulla loro rivista all’indomani dello sciopero –, giudicavano
il mito dello sciopero generale politico nient’altro che un «abbacinamento delle coscienze
proletarie coll’illusione di una forza invincibile».
L’ora delle responsabilità lo sciopero generale e la situazione politica
Lo sciopero generale politico, che mantenne in orgasmo per cinque giorni mezza Italia
e parve a molti la «grande manovra» prenunzia di future non lontane guerre civili,
fra i parecchi benefizî e danni che può aver recato alla causa democratica e al proletariato
– dei quali non è ancor facile erigere il bilancio sicuro – arrecò, secondo noi, una
utilità indiscutibile, che era affatto estranea ai suoi fini intrinseci e alle previsioni
dei suoi promotori ed attori: quella di render chiare e palpabili molte cose, che,
nel cozzare delle teoriche astratte, rimanevano, per la più gran parte anche di coloro
che si occupano di politica, impervie ed oscure; e di agevolare così quell’opera di
sincerità e di precisione nell’atteggiamento dei partiti, che è la prima e più fondamentale
condizione di ogni lotta politica feconda; di dare, per conseguenza, un impulso, speriamo,
decisivo a delineazioni politiche, che s’indugiavano volentieri nell’equivoco e concorrevano
perciò da troppo tempo a mantenere in uno stato di paralisi tutta l’azione – sarebbe
più esatto parlare di inazione – dei nostri partiti popolari e quella, di riflesso, degli altri partiti e dello
stesso Governo. [...]
Sa essa che cosa vuole l’Estrema Sinistra? La domanda – perfettamente legittima –
fu da noi formulata cento volte, anche in queste stesse colonne; né a formularla attendemmo
che lo sciopero generale ci venisse coi pugni negli occhi. Ma è probabile che lo sciopero
generale la costringa alfine – e, quel ch’è meglio, la aiuti – a dare la risposta
netta e precisa, che il paese da gran tempo attende da lei. [...]
Or noi pensiamo che, non solo a tutti i socialisti, ma a gran parte dei deputati di
Estrema Sinistra, siano comuni e pacifici questi principii:
1. Che lo sciopero generale economico è in se stesso un assurdo. La dimostrazione ne fu data troppe volte perché sia pregio
dell’opera ripeterle ancora.
2. Che lo sciopero generale politico, a fine di manifestazione, di protesta, di ammonimento, non può essere respinto e
condannato in via assoluta. [...]
3. Che lo sciopero generale è un’arma a doppio taglio, da usarsene con estrema cautela,
in casi eccezionalissimi, e da non potersi mai erigere a mezzo normale di lotta proletaria.
Soltanto Enrico Leone1 sostenne nell’Avanti! un diverso avviso: ma crediamo che la sua rimanga, in tutto il partito socialista,
un’opinione solitaria. Data la mentalità arretrata, la scarsa educazione politica
e la ancora deficiente solidarietà delle masse operaie; data la esistenza, sopratutto
nei grandi centri, di sottostrati sociali, pronti sempre a pescare nel torbido, profittando
di ogni commozione popolare per sfogare i loro istinti brutali; è estremamente difficile
che uno sciopero generale non trascenda in atti di violenza; i quali, per essere strettamente
connessi collo sciopero, rimbalzano luce sinistra sulla manifestazione di cui sono
episodii. Con che non intendiamo consentire nell’opinione che i conflitti, gli eccessi,
gli atti di teppismo siano parte integrante e conseguenza inesorabile dello sciopero
generale: basterebbe l’esempio già citato del 1° maggio, che appunto, nei primordii,
suscitò consimili terrori e sono ormai quattordici anni che si affanna a smentirli;
basterebbe, in questa recente occasione, l’esempio eloquentissimo di Monza, la piccola
Manchester di Lombardia, che fu prima a dare il segnale, dove diecimila operai abbandonarono
gli stabilimenti il giovedì a mezzogiorno per riprendere il lavoro la mattina del
sabato, compatti e disciplinati come l’avevano lasciato, senza che alcun atto di violenza
fosse lamentato. A parte ciò, il ripetersi frequente dello sciopero generale politico,
anche il più civile e pacifico, mentre da un lato, per la stessa sua frequenza, lo
destituirebbe di ogni benefico effetto morale, dall’altro canto, turbando violentemente
i rapporti ordinarî della vita economica, non potrebbe che condurre a risultati di
reazione. È impossibile concepire che le classi padronali, che i ceti commerciali,
che gli stessi cittadini di ogni ordine, i quali dallo sciopero generale sentono turbati
i loro più vitali interessi, non reagiscano e non premano sul Governo per ottenere
leggi compressive – che sarebbero indubbiamente consentite dalle maggioranze parlamentari
e favorite nella loro applicazione dalla maggioranza del paese – quando lo sciopero
generale diventasse un metodo di lotta e di protesta periodicamente adottato. È indubitabile
che, in questo caso, ogni spediente verrebbe posto in opera – vincolo di cauzioni
imposto agli operai, introduzione accelerata di macchine con aumento conseguente di
disoccupazione permanente, addestramento di krumiri, ecc. – per ovviare al pericolo; che alle nuove leggi si aggiungerebbe un rincrudimento
della giurisprudenza nei rapporti della responsabilità civile per rottura di contratto,
sia rispetto agli operai, sia rispetto ai loro capi e rappresentanti; che ogni sorta
di rappresaglie – serrate, boicottaggi, licenziamenti – avrebbe luogo e parrebbe
giustificata; che infine la causa proletaria perderebbe tutto quell’ambiente di simpatie,
di presidii, di incoraggiamenti, che le è assolutamente necessario per le sue graduali
conquiste, il proletariato si isolerebbe nella società, nella quale esso non è ancora
maggioranza numerica né forza prevalente, e l’esasperazione dei ceti dirigenti condurrebbe
il conflitto delle classi a un grado di tensione cronica, che ostacolerebbe qualsiasi
possibilità di riforme e di progressi popolari, i quali – senza il consenso morale
di gran parte della cittadinanza – non riuscirebbero possibili.
1 Esponente di spicco dei sindacalisti rivoluzionari (1875-1940).
4. Che, ad evitare questi effetti, lo sciopero generale dev’essere breve, proporsi
un fine ben determinato e facilmente conseguibile, essere diretto con spirito di concordia
e con chiarezza di propositi da rappresentanti autorevoli, godenti la fiducia delle
masse. Solo a questi patti – che non è facile, lo ammettiamo, veder tutti avverati
– è possibile che lo sciopero generale politico resti contenuto nei limiti che ragionevolmente
può proporsi. Essenziale sovratutto è la brevità, poiché è chiaro che lo sciopero
ferisce innanzi tutto quella massa operaia cui vengono a mancare i salarii, la cui
maggioranza ha scarsissime riserve e gode di un credito estremamente limitato, che
non può essere tutta quanta ed ugualmente disposta fuorché ad un breve sacrificio:
onde, se il sacrificio si prolunghi, è fatale nella massa medesima la diserzione parziale
e il conflitto fra compagni, inevitabile l’intervento della forza, probabili le sciagure,
certo insomma il tralignare del movimento.
5. Che, allo stesso scopo, deve lo sciopero rispettare i servizî pubblici essenziali,
le produzioni di assoluta necessità generale – la luce, il pane, l’acqua potabile,
i servizî igienici e sanitarii, le comunicazioni postali e telegrafiche, la stampa
quotidiana, ecc. La soppressione di questi servizî, mentre non è necessaria alla solennità
della protesta o della manifestazione popolare, offende le ragioni supreme della civiltà,
pregiudiziali a qualsiasi lotta politica o di classe, riesce deleteria agli stessi
fini dello sciopero, schierando contro di esso le resistenze, non pure di una classe
sociale o del Governo, ma di quasi tutta la popolazione, non esclusa la maggioranza
degli stessi operai – e rafforza poderosamente quelle correnti reazionarie, delle
quali già dicemmo più sopra. Lo sciopero, senza queste cautele, ferisce se stesso
e la causa cui dovrebbe servire.
6. Che, infine – quando lo sciopero è scoppiato – debbono gli uomini, che godono di
autorità sulle masse, lo approvino o no, farvi atto di presenza, per dire in esso
intero il proprio pensiero e spendere ogni loro influenza al fine di contenerlo –
nell’interesse del proletariato medesimo – entro limiti di temperanza, di civiltà
e di ragione.
Senza la pretesa di aver tracciato in poche linee il «manuale del perfetto sciopero
politico» – fenomeno che sarebbe pedantesco presumere di codificare, nei minuti particolari,
stringendolo entro il letto di Procuste di un troppo schizzinoso Galateo – pensiamo
che supergiù a questi principii di senso comune intuitivo – che non è nostra colpa
se non possono ridursi alla tenue formuletta recisa, delizia degli spiriti semplici
ed accidiosi – sottoscriverebbero, smentendo la asserita «confusione delle lingue»,
gli otto decimi almeno dei deputati di Estrema Sinistra, e la enorme maggioranza di
quanti all’organizzazione e all’azione proletaria consacrarono – spinti da una fede
severa – il meglio del loro cervello e dell’anima loro.
Non certo a questi o a somiglianti principii s’informarono coloro – i nomi sono risaputi
– che, dalla sede della Camera del Lavoro e dal pulvinare2 dell’Arena milanese, dettarono al recente sciopero generale il significato e le leggi,
riuscendo a farlo apparire [...] la loro esclusiva vittoria. Costoro hanno recato
qui, dal Congresso di Brescia3, la teorica del sasso che, scagliato nella macchina sociale, ne arresta e ne infrange
il congegno, e il prodigio dell’atto risolutivo, e il miraggio del liberatore colpo
di mano. Per essi, gli omicidii impuniti della polizia, i poveri morti di Buggerru,
di Castelluzzo e di Sestri, il dolore non mentito e la virile protesta dei lavoratori,
reclamanti l’inviolabilità della vita dei loro fratelli, non furono, non dovevano
essere, se non il confessato pretesto ai primi esperimenti pratici della loro dottrina.
3 A Brescia si era svolto nel febbraio 1904 un congresso regionale del Psi.
Nello svolgimento della quale – rendiamo loro il meritato onore – essi furono del
tutto conseguenti, né si sentirono inceppati da esitanze o da scrupoli umani. Alleatisi
– essi, cui manca la patente e non gioverebbe – a qualche anarchico patentato – e
gli anarchici erano i soli che dovessero sentirsi a loro agio in quell’avventura –;
soppressa per tutti, tranne che per sé, la voce molesta e il temuto controllo della
stampa quotidiana d’ogni colore; inanimiti4 a facile eroismo dalla latitanza, ordinata dal Governo, degli agenti della pubblica
forza; iniziarono la loro predicazione ingegnandosi di persuadere alla folla scioperante,
convenuta ai Comizii, esser essa, per un nuovo e peregrino portento, con una piccola
anticipazione umoristica dell’anno duemila, divenuta, senza sforzo e d’un balzo, la
sola ed assoluta signora, non pure di una grande città, ma dell’intera nazione; costituirono
una grottesca parodia di Governo provvisorio, emanante ukasi e prescrivente alla Municipalità la forma e il tenore dei manifesti ufficiali; presunsero
di impartire ordini, come a liberti, ai deputati del popolo e di dichiararne, a loro
libito, la decadenza dal mandato; improvvisarono una polizia per loro uso e risuscitarono,
nella cittadinanza, i ricordi e il senso di terrore delle esecrabili giornate dello
stato d’assedio5; tentarono di lanciare una valanga di popolo, sovreccitato e minaccioso, all’assalto
notturno delle sedi dei ferrovieri, per imporre ad essi, renitenti (e perciò proclamati
«indegni del nome di lavoratori»), la solidarietà dello sciopero; e, poiché il tentativo
– gravido di possibili dolorosi conflitti – fu sventato, essi, sovrapponendosi al
voto – concertato con loro medesimi! – dei rappresentanti le organizzazioni proletarie,
ritentarono la prova abortita, adoprandosi a prolungare di alcuni giorni – perché
poi dovesse spegnersi in una miserabile agonia carnevalesca – lo sciopero già languente
ed esinanito6. Promisero solennemente nei Comizî la caduta del Governo, prima della quale l’astensione
dal lavoro non doveva – così proclamarono – a nessun patto cessare; e, contro chi
ammoniva della fraudolenta follia di così fatti propositi, suscitarono i fischî e
gli urli della folla, ebbra già in parte del propinato veleno; ma a distanza di poche
ore – spettacolo ameno di ilotismo7 – rimangiavansi con gesuitici rigiri di frasi, arcifischiati a loro volta dalla massa
truffata e delusa, le spavalde promesse della vigilia, e mascheravano la ritirata
protestando quello essere stato nient’altro che un primo sperimento di mobilitazione
proletaria, da riprendersi «per fini più ampii» a una ventura occasione: nella quale
non il solo Governo, né la sola forma di Governo, ma ben altro si sarebbe spazzato
via; come disse un dei loro più accreditati oratori, «si sarebbero mandati all’aria
baracca e burattini». E, in quel documento da manicomio che ebbe nome di supplemento
all’Avanguardia e di «Bollettino della Camera del Lavoro», qualificarono la loro effimera orgia personale
«dittatura del proletariato»!
Ora, se tutto ciò è molto triste, se questa farsa, che potea volgere al tragico –
e, se non volse, non fu merito certamente degli allegri impresarii che l’hanno messa
in iscena – lascia impresso un incancellabile stigma sul generoso movimento proletario
nel quale parassiticamente si insinuò ed al quale artificialmente si sovrappose –
sarebbe tuttavia mancanza d’ogni acume politico, o delirio di piccoli borghesi spaventati
e tremanti, confondere una cosa coll’altra e pretendere dell’una e dell’altra un unico
ed uguale giudizio. No, la predicazione, fra pazzesca e maccheronica, di Labriola
e dei Mocchi, dei Corradi e dei Lazzari8 – questo epifenomeno transeunte e quasi quasi unicamente milanese dello sciopero
generale politico – non è stata affatto lo sciopero, né fu di esso la conseguenza necessaria e inscindibile. Diciamo di più: essa non
fu l’opera, discussa, consaputa, voluta, della Camera del Lavoro, delle organizzazioni
proletarie; le quali se, per vero, non reagirono – dando segno con ciò di una ancora
troppo scarsa consapevolezza ed educazione politica – non perciò si confessarono complici,
e meditano certamente in quest’ora la portata e le conseguenze possibili dell’avvenuto;
e presso le quali, di poi, la loro Commissione esecutiva non trovò miglior via di
salvezza che proporre e far accogliere – con astuta abilità di sentimentali pretesti
– la rinuncia ad ogni discussione. Perocché, dall’analisi postuma dei fatti, essa
doveva temere formidabile il risveglio della critica nelle coscienze operaie e la
sua propria condanna.
8 Arturo Labriola, Walter Mocchi, Costantino Lazzari erano esponenti della corrente
rivoluzionaria del Psi. Corradi era un esponente della Camera del Lavoro di Milano.
Ma se una Camera del Lavoro – si comprende di leggieri – poté essere, senza troppi
guai, il soggetto passivo di una breve gazzarra che non penetrò le sue viscere, ben
altrimenti la questione si pone davanti al partito socialista italiano. Perocché quei
guidatori dello sciopero milanese, quei predicatori della violenza redentrice, quegli
apologisti della «piazza» conquistata e conquistatrice, che il lavoro faticoso e complesso
dell’esercito proletario tentano ricondurre alle miserevoli gesta primitive dell’orda,
sono pure – se guardiamo ai quadri – suoi legittimi figli. Essi stanno alla testa
di una sua Sezione, anzi di quell’unica Sezione ufficiale, nella quale (lacrimevole
burla!) si vorrebbero costringere a domicilio coatto tutti i socialisti milanesi;
essi pubblicano un loro giornale9, che si giova del prestigio e dell’egida del partito socialista italiano, non importa
se per dissolverlo e per vituperarlo, e nel quale – è giustizia riconoscerlo – niuna
foglia pudibonda di fico dissimula la fede e i propositi loro. Con essi più d’un nostro
compagno della vecchia guardia fraternizza nei bivacchi d’una battaglia, reputata
comune; di loro altri compagni si valsero, come di ausilio decisivo, per salire alle
più sublimi vette del partito; e il Congresso di Bologna10 li issò – sia pure per persone interposte – a spartirsi i posti nella Direzione del
partito. Ond’è che, se parlarono ed agirono ieri, se domani parleranno e agiranno
in nome del partito socialista italiano, usarono ed useranno del loro buon dritto.
10 Al congresso di Bologna (8-11 aprile 1904) la corrente rivoluzionaria aveva conquistato
la maggioranza del partito.
Si chiede: il partito socialista italiano, i deputati del Gruppo parlamentare, riconoscono
questa solidarietà, che prorompe dalle cose? – Si badi: finché il dissidio rimaneva
nei libri, nelle formule, negli articoli di giornale e negli ordini del giorno, era
possibile – non diciamo fosse onesto – fare il trasognato e lo gnorri; parlare, crollando
le spalle, di beghe personali; gingillarsi in restrizioni mentali, scantonare inneggiando
alla libertà della critica e alla disciplina nell’azione, scovare il comodo alibi delle tendenze intermedie; sconfessare, nei momenti bruschi, «caso per caso», gli
speculatori sull’ingenuità delle masse, e schernire sistematicamente gli operosi artefici
del lavoro di riforme; e alle antitesi più violente opporre – come la croce a Mefistofele
– il feticcio e il gioco di parole dell’unità del partito. L’indirizzo, dato dalla
Federazione socialista – nella pelle della Camera del Lavoro milanese – allo sciopero
generale politico, rompe brutalmente tutte queste cabale. Qui le idee diventano persone,
le formule fatti; e i fatti dell’oggi preludono nettamente, clamorosamente, a quelli
del domani. Nel crocicchio dello sciopero generale è in questione tutta quanta l’azione
del partito socialista, è in questione tutto il socialismo.
Da un lato: educazione delle coscienze e della solidarietà proletaria nella resistenza,
nella cooperazione, nell’arringo elettorale amministrativo e politico; studio, propaganda,
conquista di istituti, di leggi, di costumi tutelatori del lavoro, procacciatori di
forze intellettive, tecniche, morali, presidianti il proletariato nella lotta di classe
quotidiana; penetrazione graduale ed intensa della classe proletaria, dei suoi rappresentanti,
della sua influenza nelle posizioni politiche riserbate fino a ieri agli uomini, ai
rappresentanti, alle esclusive influenze della classe borghese; abilitazione sempre
maggiore alla gestione diretta della società economica e politica; preparazione e
salvaguardia di ordinamenti di Governo schiettamente democratici e arditamente riformatori;
lotta di classe efficace, accorta, coordinata alla potenzialità dello sviluppo generale
economico, misurata, civile; rivoluzione preparata e guarentita dall’evoluzione.
Dal lato opposto: abbacinamento delle coscienze proletarie coll’illusione di una forza
invincibile – non potenziale, ma attuale – inesistente nel fatto o appena iniziale;
conseguente disdegno dell’elettorato, del Parlamento, delle riforme legislative, considerate
come tranelli che rinforzano e guarentiscono il dominio di classe della borghesia;
esaltazione della conquista immediata ed in blocco del potere; miraggio di dittature
proletarie, ottenute nella piazza, con movimenti di piazza; abbandono necessario di
ogni paziente lavorio di preparazione e costruzione positiva; lotta di classe sfrenata,
selvaggia, distruggitrice delle forze economiche, interrotta periodicamente da convulsioni
e da reazioni sanguinose; sfacelo e schiacciamento inevitabile delle organizzazioni
proletarie; provocazione di leggi restrittive, coercitive, immobilizzanti; impossibilità
di ogni Governo democratico; miseria crescente, fisica e morale; rivoluzione commessa
alla taumaturgica virtù del miracolo.
Fra le due strade non un punto comune. L’una, per faticose ascensioni, va dritta al
socialismo: l’altra serpeggia nello statu quo peggiorato e precipita alla reazione. Impossibile cercare la scappatoia di un sentiero
intermedio. Il partito socialista non ha che da scegliere.
Ma la scelta è vana, se alla scelta non segua alacre, immediata l’azione. La migliore
delle strade non conduce alla mèta chi non vi si inoltri. E, se la via delle riforme
è disertata – è fatale, per quanto sterile, l’insurrezione dei bisogni, anche incontro
al disastro.
Sennonché il dilemma non si pone al solo partito socialista. Non ad esso soltanto
incombe la direzione e la responsabilità del movimento sociale; questo non è l’opera
di sola una classe. Tutti i partiti popolari, tutti i Gruppi dell’Estrema Sinistra
sollecita la stessa questione. Quello, che parve, e non era, un dissidio di tendenze
socialiste nel partito socialista, si allarga ai partiti vicini nel suo aspetto più
vero, di questione sopratutto morale: è il conflitto, in sostanza, fra l’azione positiva
e il nichilismo frasaiolo, fra la probità politica e l’istrionismo personale, fra
democrazia e demagogismo. Quest’ultimo non è un privilegio del partito socialista.
La scossa, che gli ultimi eventi impressero alla sensibilità politica del nostro paese,
ha precipitato indubbiamente la situazione. Le torbide correnti reazionarie, fiutato
il vento propizio, premono per la convocazione dei Comizii, imperversano contro i
sussidii alle Camere di lavoro, tempestano pe...