Italiani/e
«Una sintetica panoramica delle profonde trasformazioni che in pochi decenni hanno modificato radicalmente il volto del nostro paese.» Paolo Mieli
«Una sintetica panoramica delle profonde trasformazioni che in pochi decenni hanno modificato radicalmente il volto del nostro paese.» Paolo Mieli
Vittorio Vidotto ha insegnato Storia contemporanea nell'Università di Roma La Sapienza. Per Laterza ha curato Roma Capitale (2002) e Atlante del Ventesimo secolo (4 volumi, 2011) ed è autore, tra l'altro, di Italiani/e (2005), Roma contemporanea (n.e., 2006), 20 settembre 1870 (2020) e Storia moderna (con Renata Ago, n.e., 2021).
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CONSTANTER ET NON TREPIDE
1. Uomini e donne, numeri e ruoli
3. La fine della vecchia Italia rurale
5. Classi, ceti e stratificazioni sociali
6. Consumi e stili di vita, disuguaglianza e mobilità
7. Gli anni della conflittualità
8. Comportamenti sociali ed etiche separate
Chi entrasse oggi in una facoltà di medicina la troverebbe affollata di ragazze, ormai in netta maggioranza, mentre la componente femminile superava di poco il 10% degli aspiranti medici alla fine degli anni Cinquanta.
Su tutt’altro piano, le cronache registravano, nell’autunno del 2004, il successo di un reality show televisivo (L’isola dei famosi) in grado di raccogliere, nella sua puntata finale, 11 milioni di spettatori, il 46% di tutto il pubblico italiano.
Nuovo ruolo dunque e protagonismo delle donne, omogeneità dei comportamenti e nuova identità degli italiani come pubblico televisivo. Sono appena due delle numerose possibili spie dei radicali cambiamenti compiuti dalla società italiana nell’ultimo cinquantennio. Due picchi di un tracciato ricco di spezzate ricostruito qui in una prospettiva storica, non sempre e non necessariamente evolutiva. Ma sottolineando le coincidenze temporali, le accelerazioni, le fratture, le permanenze e le riemersioni. Non segnato dunque da una ineluttabile proiezione in avanti, ininterrotta e lineare.
E tuttavia è possibile individuare due lunghe stagioni: quella del primato della politica e della politicizzazione, culminata negli anni Settanta in un periodo di endemica e rovinosa conflittualità, e quella, successiva, caratterizzata dalla ripresa degli antichi modelli di comportamento della società italiana. Due stagioni non separabili secondo un crinale ben definito, ma venute via via distinguendosi nel corso degli anni Ottanta per precipitare nei primi Novanta in coincidenza con la crisi della Prima Repubblica e l’affermarsi di una nuova pratica politica, personalistica e populista.
Politica e società si presentano come dimensioni intrecciate, così come intrecciati appaiono mutamento e persistenze secondo un andamento di interrelazioni dinamiche piuttosto che di rigide contrapposizioni. Non convince quindi il diffuso cliché delle visioni dicotomiche che domina le interpretazioni usuali, sollecitato anche dalle drammatizzazioni della comunicazione mediatica.
Un punto di vista storico cerca di privilegiare gli elementi portanti, le nervature di un processo, la rilevanza e la collocazione nel tempo dei momenti di cambiamento. È opportuno tuttavia sottolineare l’ambito convenzionale e artificiale nel quale ci si muove quando si parla di «società» o di «società italiana». È un concetto privo di uno statuto definito e tanto meno definitivo. Genericamente richiama una serie di comportamenti, e insieme appare molto vicino al concetto e all’uso che si fa del termine «paese».
Ogni discorso sulla società è accompagnato da una serie di interpretazioni frutto spesso di rappresentazioni impressionistiche. L’unico modo per offrire contorni definiti a queste visioni generali è il rigore numerico delle statistiche. E i numeri talora offrono indicazioni inequivocabili. Così la coincidenza temporale tra il culmine del miracolo economico, nel 1963-1964, e un numero di matrimoni e di nuovi nati mai più raggiunto in seguito segnala la presenza di un vitale ottimismo, di un’aspettativa di benessere e di una inedita propensione a investire nel futuro. Una fase periodizzante, dunque, e insieme una convergenza tra i valori tradizionali della famiglia e della procreazione e le nuove esigenze della società del benessere.
La riduzione dei matrimoni e della natalità accompagnerà da allora tutti i decenni successivi fino ad oggi, connotando profondamente la modernizzazione e secolarizzazione italiana. Protagoniste di questo processo sono le donne: nel lavoro, nell’istruzione, nelle famiglie, nel decidere i tempi della procreazione. La cifra impressionante degli aborti prima e soprattutto dopo l’introduzione dell’interruzione volontaria della gravidanza nel 1978 è un indicatore drammatico del bisogno di difendersi dall’ineluttabilità di un ruolo, ma anche di un sofferto desiderio di emancipazione.
Più donne nelle fabbriche, più donne negli uffici, più donne nelle scuole e nelle università. Il femminismo affiancherà solo in parte questa trasformazione pur rappresentandone, negli anni Settanta, la dimensione più consapevole e combattiva. La nuova società italiana è in larga misura il risultato di questa rivoluzione femminile.
Una rivoluzione femminile che procede di pari passo con la graduale scomparsa del vecchio mondo rurale, con l’incremento dell’occupazione nell’industria, ma soprattutto nel terziario impiegatizio e commerciale. L’aumento di un ceto medio votato al benessere e all’acquisizione dei beni di consumo rappresenta un ulteriore segnale di mutamento.
Di fronte alla nuova realtà sociale le concettualizzazioni del discorso di classe risultano inadeguate: i vecchi parametri del marxismo, per quanto riveduti e adattati, non riescono a cogliere il segno e appaiono appesantiti da un eccesso di sovradeterminazione ideologica. D’altro canto la sconfitta di un disegno riformatore graduale e sistematico lascia spazio alla stagione della conflittualità permanente degli anni Settanta. Inattuali e consunte le forme tradizionali della mediazione politica, ogni gruppo sociale e professionale opera secondo i propri canoni culturali e ideologici, con esiti che vanno dalla esasperazione corporativa alle forme estreme del terrorismo.
Nell’opinione di molti, storici e commentatori, la stagione conflittuale trova la sua giustificazione nell’inadeguatezza della risposta politica ai bisogni reali della società. La ricostruzione proposta qui punta a sottolineare invece i fattori culturali e ideologici, sovrastrutturali piuttosto che strutturali, ricordando la pesantezza delle parole e la straordinaria forza mobilitatrice del linguaggio antagonista. Senza sfuggire alla domanda se la violenza distruttiva di quegli anni non doveva e poteva essere arginata da forme più efficaci, mirate e tempestive di repressione. Lasciando anche intendere che le responsabilità dei ceti dirigenti contribuirono a far maturare nella generalità del corpo sociale un distacco sempre più marcato nei confronti delle grandi opzioni politiche. Di qui anche il successo delle soluzioni corporative.
I benefici corporativi per singoli individui e gruppi si traducono in forme di ascesa sociale garantita spesso indipendenti da criteri di equità e di merito. Ma contribuiscono anche a irrigidire le opportunità, tanto che nel lungo periodo favoriscono la riduzione complessiva della mobilità ascendente, sempre più affidata alle protezioni clientelari.
Si fa strada, a partire dagli anni Ottanta, la percezione di un uso via via più discrezionale del potere e si rafforza nel senso comune degli italiani la convinzione che la vita collettiva e i rapporti con il potere siano regolati da etiche particolari e separate. Al rispetto della norma generale si cerca di sostituire la deroga e il privilegio. Questo tema porta in primo piano la questione cruciale dei rapporti tra Stato e società, tra politica e società.
La difficile distinzione tra Stato e politica, la convinzione che lo Stato coincida con la parzialità della politica, comportano anche la necessità di distinguere fra identità nazionale e identità italiana. Se l’identità nazionale è il risultato di una costruzione politico-pedagogica dall’alto, l’identità italiana corrisponde invece alla trama dei comportamenti, degli stili di vita, delle autorappresentazioni degli italiani.
Il tentativo di ricomposizione dell’identità nazionale promosso dal presidente della Repubblica Ciampi sull’onda della mobilitazione emotiva intorno a un martirologio che unisce i caduti di Cefalonia alle vittime di Nassiriya, in omaggio a un patriottismo espiativo (per usare, dilatandola, la felice formula di Gian Enrico Rusconi), sembra scontrarsi con molti fattori di disgregazione indotti da alcune forze politiche come la Lega Nord, ma anche legati alle ipotesi di federalismo, ai particolarismi regionali e locali sempre più accentuati, e infine alla stessa politica di integrazione europea.
Ai tanti volti dell’identità italiana corrisponde una debole identità nazionale. Del resto l’assenza di una compiuta pacificazione col proprio passato e con la propria storia contribuisce a spiegare il carattere particolare di una società connotata da una diffusa uniformità dei comportamenti e insieme da una forte diversità nei valori condivisi.
Questo libro è la versione ampliata e aggiornata di un precedente saggio, La nuova società, pubblicato in Storia d’Italia, vol. 6, L’Italia contemporanea. Dal 1963 a oggi, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 3-99.
V.V.
dicembre 2004
Uno sguardo d’insieme alla società italiana dei primi anni del Duemila ci restituisce, nel confronto con gli anni del miracolo economico (1958-1963), alcuni caratteri immediatamente percepibili. Un’Italia meno prolifica e quindi meno giovane e anzi in progressivo invecchiamento, ma più ricca, più istruita, più uniforme. Segnata profondamente da una nuova presenza femminile. Quasi scomparsa la vecchia Italia rurale, profondamente modificata quella industriale, più articolato l’arcipelago delle attività intermedie o terziarie. Meno netti i segni di antagonistiche connotazioni sociali, meno istituzionalizzati e meno drastici i contrasti ideologici, sono riemersi con forza alcuni elementi permanenti del comportamento sociale degli italiani.
Il tentativo di dare un ordine, se non una spiegazione, a questi fenomeni si scontra con la difficoltà preliminare di individuare le scansioni del mutamento e quindi di riuscire a collocarle correttamente nel flusso temporale: in una parola a datarle. La ricchezza dei dati statistici disponibili non fornisce anche i criteri per separare nettamente fasi diverse, e la certezza dei numeri investe quasi esclusivamente gli andamenti generali della demografia. Ma i comportamenti demografici non costituiscono la causa prima di una serie di nuovi assetti sociali. Ne sono piuttosto il riflesso, anche se forniscono un primo saldo aggancio a quel che è meno afferrabile.
Proprio per questi motivi ritrovare negli anni 1962-1963, nella scansione dettata dalla svolta politica di centro-sinistra e dal culmine del miracolo economico, anche i segni e le coincidenze temporali dell’avvio di una profonda trasformazione demografica rafforza l’immagine di un passaggio cruciale, di una fase periodizzante. Nel 1963 si celebrarono 420.300 matrimoni (con un tasso di nuzialità dell’8,2 per mille), una cifra mai più toccata negli anni successivi1. Solo nel 1947-1948 i matrimoni erano stati più numerosi, ma si trattava della ripresa fisiologica dell’immediato dopoguerra. Nel 1964 i nuovi nati supereranno il milione (1.016.120) come non accadeva dal 1948 e come non sarebbe più accaduto in seguito. Il tasso di fecondità totale, che esprime il numero medio di figli per donna in età feconda e misura il livello di riproduzione della popolazione, in ripresa dal 1959, raggiunse il valore di 2,70 nel 1964. Da allora tutti i dati di una forte vitalità demografica cominciarono a scendere.
1 I dati statistici, ove non altrimenti indicato, sono tratti dalle pubblicazioni Istat e i confronti europei da quelle Eurostat, accessibili anche in rete. Nel 2002 e nel 2003 i matrimoni sono stati, rispettivamente, 265.635 e 258.580.
L’incremento dei matrimoni e il picco delle nascite (il baby boom degli anni Sessanta) rappresentarono non più di un’onda anomala nella riduzione della natalità in atto dal 1890 circa. La popolazione italiana si trovava ormai nella fase terminale di quel lungo processo di transizione demografica che in ogni paese sviluppato aveva segnato il passaggio da una demografia naturale a una demografia controllata. Un passaggio caratterizzato dalla riduzione della mortalità e da una contemporanea, ma meno accentuata, diminuzione della natalità alle quali si aggiungeva la fortissima crescita della speranza di vita. Dal 1881-1890 al 1951-1960 il tasso di mortalità diminuì del 65%, quello di natalità del 53%; la speranza di vita alla nascita raddoppiò, passando da 35 anni nel 1880 a poco meno di 70 nel 1960. L’Italia non deviò da questo percorso ancora per una dozzina di anni. Ma dal 1977 cominciò a essere misurabile una tendenza ormai in atto in molti altri paesi sviluppati, quella che i demografi chiamano «seconda transizione demografica»: il tasso di fecondità totale scese al di sotto di 2, la soglia che consente il rimpiazzo della popolazione2. L’Italia era entrata in una fase di stagnazione caratterizzata dalla graduale diminuzione del saldo fra nascite e morti fino a quando tale saldo, a partire dal 1993, non diventò negativo3. Negli anni successivi la crescita della popolazione complessiva, peraltro bassissima, era affidata sempre più all’immigrazione e ai rimpatri. Fra il 1981 e il 2001 la popolazione italiana cresceva appena dello 0,77%, mentre nel ventennio precedente era aumentata dell’11,7%; il tasso di incremento dal 1991 al 2001 è stato inferiore a quello di tutti gli altri quindici membri dell’Unione Europea.
2 Il Nord scese stabilmente sotto quota 2 a partire dal 1975, il Centro dal 1976, il Sud dal 1983; ma già negli anni Cinquanta nel Nord e nel Centro la fecondità totale era scesa al di sotto del tasso di sostituzione, per poi risalire alla fine del decennio.
3 Nel 2000, dei quindici paesi che costituivano l’Unione Europea, oltre all’Italia (-0,4 per mille) anche la Grecia, la Svezia e la Germania presentavano un saldo naturale negativo. Ma in Germania tale tendenza era in atto a partire dagli anni Settanta. Fra i dieci nuovi membri che si sono aggiunti all’Unione nel 2004 era la Lettonia a detenere (sempre nel 2000) il primato negativo nel tasso di crescita naturale più basso (-5,0 per mille), mentre Cipro presentava quello più alto (4,6).
Non si trattava dunque di una semplice omologazione al comportamento demografico degli altri paesi europei. Il primato negativo nel tasso di fecondità totale dai primi anni Novanta (giunto all’1,17 nel 1996) – un primato mantenuto nonostante l’incremento registrato nei primi anni del Duemila (1,26 nel 2001, 1,27 nel 2002) – e il conseguente minimo nella percentuale di popolazione sotto i 15 anni (14,2 nel 2004) segnalano qualcosa di più. Nel consegnare definitivamente a un passato ormai lontano l’immagine tradizionale di nazione giovane e prolifica, l’Italia ha compiuto negli ultimi venticinque anni una vera e propria accelerazione malthusiana sospinta da un profondo cambiamento delle mentalità, e della mentalità femminile in primo luogo. Non pare dubbio infatti che nel settore così intimo e privato delle scelte procreative (e soprattutto di quelle relative alle gravidanze successive al primo figlio) il ruolo determinante della donna e delle relazioni femminili sia decisivo.
Nella caduta della natalità avvenuta negli anni Settanta, e in particolare nella marcata intensificazione di questo processo fra il 1975 e il 19804, si possono individuare i primi risultati di una vera e propria rivoluzione dei comportamenti. Nel campo dei rapporti fra i sessi la rivolta giovanile del Sessantotto, amplificando aspirazioni maturate negli anni precedenti, aveva sperimentato su larga scala e successivamente diffuso libertà un tempo solo astrattamente rivendicate, e pochissimo praticate5. Non si trattava semplicemente del rifiuto della tradizionale dimensione monogamica o del diffondersi di rapporti prematrimoniali, ma della nascita di una nuova autonoma connotazione femminile impressa alle relazioni sessuali.
4 In questi anni il tasso dei nati vivi scende in media del 5,5% annuo, mentre negli anni precedenti e successivi il calo supera di poco il 2%.
5 M. Barbagli, M. Castiglioni, G. Dalla Zuanna, Fare famiglia in Italia. Un secolo di cambiamenti, il Mulino, Bologna 2003, pp. 104-112.
Nello stesso periodo la vittoria delle posizioni divorziste nel referendum abrogativo del maggio 1974, nonostante l’elevata politicizzazione dello scontro e l’ampia mobilitazione delle organizzazioni cattoliche, aveva misurato l’ampiezza e la diffusione di una mentalità ormai largamente secolarizzata. Il matrimonio perdeva anche ufficialmente ogni residuo di sacralità. In alcuni settori della società si modellava come progetto di vita fuori dai vincoli della tradizione e dagli obblighi procreativi. Altri valori si collocavano al centro della vita privata: la difesa di un benessere raggiunto o raggiungibile per la coppia e la realizzazione di sé nel lavoro e nell’istruzione per la donna. E così «la regolazione della fecondità appare sempre più non solo un progetto di coppia, ma un progetto individuale, delle donne»6. Un progetto confermato dal progressivo innalzamento dell’età media di procreazione del primo figlio: dopo essere scesa sotto i 25 anni alla metà degli anni Settanta cresceva ai 27,5 anni del 1980 e ai 30,4 del 2002. Ne risultava un evidente, anche se non necessariamente esplicito, rifiuto del modello femminile incarnato dalle generazioni precedenti, da quelle madri che «apparivano timide nei confronti del mondo esterno, e sottomesse tra le pareti domestiche; custodi di un’immagine di femminilità come ‘corpo’, ‘natura’, avulsa dalla storia [...] al tempo stesso autoritarie e socialmente deboli, complici e custodi della propria esclusione, ostili al cambiamento»7.
6 C. Saraceno, Fecondità, famiglia e lavoro, in G.A. Micheli (a cura di), La società del figlio assente, Angeli, Milano 1995, p. 199.
7 A. Scattigno, La figura materna tra emancipazionismo e femminismo, in M. D’Amelia (a cura di), Storia della maternità, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 285.
Questi nuovi comportamenti non avevano bisogno, per manifestarsi, di una verbalizzazione, di un’enunciazione esplicita: si venivano affermando soprattutto nella pratica, sospinti dai nuovi ruoli assunti dalle donne. I movimenti femministi rappresentarono, nel corso degli anni Settanta, la coscienza critica di questo passaggio, fornendo peso teorico e mobilitazione organizzativa alla dimensione conflittuale di un processo ormai in atto. Del resto in quegli anni si era manifestata una crescita significativa dell’occupazione femminile. Fra il 1971 e il 1981, se l’occupazione complessiva nell’industria rimase stagnante, si ebbe tuttavia un incremento del 7,4% di quella femminile a fronte di una diminuzione dell’1,7% di quella maschile. Nel terziario, che era invece in forte espansione con un incremento complessivo di oltre il 30%, l’occupazione femminile aumentò del 60%, quella maschile solo del 18,9%8. In molti casi erano collocazioni nuove o innovative per la donna, ma contava soprattutto la rilevanza numerica del processo. Se nelle élites colte e politicizzate e nei piccoli gruppi minoritari delle femministe si faceva strada una riflessione articolata e complessa sul ruolo di madre, e sul significato politico e sociale della procreazione, con il risultato di una maternità sospesa o posticipata, per la maggioranza delle donne era in atto un grande rifiuto9. Così si mantenne elevata, per quasi tutti gli anni Settanta, la risposta consueta alla gravidanza imprevista e indesiderata: il ricorso all’aborto clandestino con le sue umiliazioni e sofferenze (tollerate anche perché considerate inevitabilmente normali) testimoniava l’insufficiente diffusione di sistemi anticoncezionali sicuri, il cui impiego stentava ad affermarsi in questa fase in quanto continuava ad apparire come un rivelatore troppo manifesto di comportamenti trasgressivi.
8 La diminuzione dell’occupazione ufficiale in agricoltura era, nello stesso periodo, più alta per gli uomini (32,3%) che per le donne (23,8%).
9 Cfr. le testimonianze raccolte in Maria, Medea e le altre. Il materno nelle parole delle donne: rassegna stampa, Lerici, Roma 1982.
La battaglia per la legalizzazione dell’aborto ad opera delle organizzazioni di sinistra e dei gruppi femministi, che si concluse con il varo della legge 194 del maggio 197810, contribuì a far uscire allo scoperto le dimensioni di una pratica e di un sistema in cui si intrecciavano sfruttamento, doppia moralità e illeciti arricchimenti secondo le consuetudini di tollerata illegalità caratteristiche di tanti altri aspetti del vivere in società nel nostro paese. Si può ritenere che, al momento del varo della legge per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, gli aborti, clandestini e illegali, fossero in Italia non meno di 350.00011, una cifra pari al 45-47% del totale dei nati vivi. Una volta instauratosi, il sistema pubblico non riuscì comunque a rispondere a tutta la domanda che rimase in alcune regioni prevalentemente clandestina, facilitata dalla obiezione di coscienza (consentita dalla legge) di una parte dei medici. E tuttavia la traduzione in pubblico di una scelta radicale e profondamente privata testimoniava un passaggio cruciale della consapevolezza femminile e del ruolo centrale ormai assunto dai circuiti femminili di sostegno. In seguito, la diminuzione delle interruzioni volontarie della gravidanza, passate dalle 230.000 circa del 1982-1983 alle 140.000 del 1997 e alle circa 132.000 del 200112, e del tasso di abortività dal 17 al 9,3 per mille donne in età feconda, ha confermato con il suo andamento un evidente processo di graduale acculturazione contraccettiva. L’abortività era originariamente più alta dove la scelta del servizio pubblico testimoniava forme di maggiore emancipazione e insieme una più alta disponibilità delle strutture sanitarie. Si abortiva di più in ospedale nel Nord e nel Centro dove era meno avvertito il controllo sociale; di meno nel Meridione che invece alla metà degli anni Novanta aveva il tasso più alto di abortività (9,9). Faceva eccezione la Puglia, con la Campania e la Sicilia una delle regioni più feconde d’Italia, che manteneva costantemente i valori più alti di abortività, tanto all’inizio che alla fine del periodo considerato13. In regioni come l’Emilia-Romagna e la Liguria, dove agli inizi degli anni Ottanta si toccavano circa 700 aborti per 1000 nati vivi, dopo un decennio le cifre si erano dimezzate. Se infatti complessivamente le donne abortivano di meno, la diminuzione era più significativa nelle regioni dove si era formata una coscienza contraccettiva più alta e un rapporto più maturo con la procreazione. E non è certo casuale che in tutte le fasi di applicazione della legge 194 le donne occupate siano ricorse all’aborto meno delle casalinghe.
10 G. Galeotti, Storia dell’aborto, il Mulino, Bologna 2003, pp. 112-123.
11 Se, superata la fase di avvio della legge, si sommano alle interruzioni volontarie di gravidanza dei primi anni Ottanta (215-230.000) gli aborti clandestini nello stesso periodo (stimati in quasi 100.000) e i circa 50.000 aborti spontanei da intendere come interruzioni indotte, che infatti scompaiono dalle statistiche dopo il 1978, la cifra complessiva dell’abortività clandestina intorno al 1977 era difficilmente inferiore a 350-380.000. Elementi che consentono di pervenire a queste cifre si possono trarre da L’interruzione volontaria di gravidanza in Italia, Istat, Roma 1997, in part. p. 44.
12 140.166 (1997), 134.740 (2000), 132.073 (2001).
13 I dati del 2001 vedevano il Nord in linea con il dato nazionale di 9,3, il Centro, con il 10,2, registrava il valore più alto, mentre il Mezzogiorno era sceso all’8,8, ma con la Puglia al 13,3.
Da qualsiasi punto di vista, la nuova dimensione femminile, affermatasi negli anni Settanta, si è consolidata nei decenni successivi. Nell’istruzione si è realizzato un forte incremento della scolarità femminile, con sue specifiche caratteristiche, non solo in termini assoluti, ma soprattutto in rapporto a quella maschile. Nelle scuole medie inferiori le femmine salgono dal 42% del totale nel 1960 al 47,5 nel 1975 e mantengono da allora una quota che è di poco inferiore alla percentuale di popolazione femminile nella corrispondente fascia d’età14. Nelle superiori passano dal 37% del 1960 al 48,4% del 1980 e al 49,0 del 2003. È noto il tradizionale, larghissimo predominio femminile negli istituti magistrali ma, a partire dal 1969, le ragazze cominciano a essere in maggioranza nei ginnasi-licei classici. La prevalenza femminile era stata già raggiunta, nel 1961, negli istituti d’arte e nei licei artistici. Comunque la percentuale di ragazze sale in ogni ordine di scuola: complessivamente nei licei di ogni tipo era il 56,7% nel 1998-1999 (nei classici il 68,7)15. Nei tecnici passa dal 22,3% del 1961 al 38,4 del 1998-1999; nello stesso arco di tempo nei professionali dal 33,7 al 45,2. E ovunque le donne registrano una migliore resa scolastica16.
14 Si ricordi che solo a partire dalla fascia di età dei 45-54 anni il numero delle femmine comincia a superare quello dei maschi.
15 Nei licei scientifici le ragazze non raggiungevano il 20% nel 1961, ma erano ormai il 50,8 nel 1998-1999.
16 Nell’anno scolastico 2002-2003 il tasso dei ripetenti nelle superiori era il 9,0% per i maschi e il 4,7% per le femmine.
La stessa tendenza si è manifestata negli studi universitari, determinando nel tempo il consolidarsi di una prevalenza femminile. Nel 1960 le ragazze rappresentavano il 27,7% del totale degli iscritti alle università, con la crescita di poco più di un punto percentuale dal 1950. Nel 1970 erano il 37,6%, nel 1980 il 44% per raggiungere nell’anno accademico 2002-2003 il 57,1% degli iscritti e il 57,0 dei laureati (2002). Inoltre, mentre agli inizi degli anni Sessanta il dominio femminile era circoscritto ai settori letterari, a quelli della matematica, delle scienze naturali e biologiche, in sostanza a quelli che offrivano il tradizionale sbocco nell’insegnamento, a metà degli anni Novanta le studentesse, oltre ad essere in larga maggioranza nei settori letterario, linguistico, pedagogico, psicologico, geo-biologico, chimico-farmaceutico, prevalevano ormai sui maschi anche in quelli medico, giuridico e politico-sociale. Il tradizionale predominio maschile si era attenuato nei settori della fisica, dell’architettura e degli studi economico-statistici, mentre solo ingegneria rimaneva una facoltà a nettissima prevalenza maschile17.
17 In medicina la presenza femminile era salita dall’11% nel 1960 al 54,8 nel 1999-2000, mentre in ingegneria era passata dal 3,7% al 17. In architettura le ragazze costituivano il 49,4%, nel settore economico-statistico il 47,1. Le immatricolazioni complessive del 2000 segnalavano una netta prevalenza femminile (56,2%).
Il ritmo delle cifre scandisce esplicitamente il carattere epocale dell’emancipazione femminile. Il crescente inserimento delle giovani donne in settori nei quali la presenza femminile era un tempo ridotta ha determinato l’avvio di un vero e proprio rovesciamento di ruoli.
Il più lungo apprendistato negli studi, l’attesa e l’ingresso nel mondo del lavoro, le aspettative legate all’autorealizzazione appaiono tutti elementi di un cambio di mentalità. È il risultato della scelta consapevole di un progetto di vita articolato intorno a scansioni diverse, studio e lavoro. Un processo più evidente nei ceti medi colti, fra le donne più istruite e che lavorano, e più in generale nelle realtà urbanizzate.
Fattore decisivo di questo mutamento è stata la straordinaria rapidità con cui le donne italiane hanno aumentato la loro presenza nel mondo del lavoro: fra il 1970 e il 1989-1990 la partecipazione femminile cresce del 50% per le donne di 20-24 anni e del 200% per quelle di 25-39 anni. Rapidità alla quale non corrispondeva un adeguamento dei servizi e delle politiche sociali. Di fronte all’insufficienza delle strutture il peso del cambiamento ricadeva sui nuclei familiari, e dunque prevalentemente sulle donne, alle quali, nella divisione del lavoro all’interno della famiglia, rimaneva quasi per intero il carico della cura dei più piccoli e/o dei più anziani18. Anche se, sostiene il demografo Livi Bacci, in un confronto con altre realtà europee, a determinare il crollo della fecondità non fu tanto la nuova occupazione femminile, quanto la velocità del cambiamento «e la lentezza con cui la società si adatta[va] ai cambiamenti»19.
18 C. Saraceno, Modelli di famiglia, in Ritratto di famiglia degli anni ’80, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 71.
19 M. Livi Bacci, Esiste davvero una seconda transizione demografica?, in Micheli (a cura di), La società del figlio assente cit., p. 97.
I nuovi comportamenti femminili e la rapidità della loro diffusione prescindevano dall’inadeguatezza delle strutture e dei servizi di sostegno, dimostrando che le scelte delle donne trovavano la loro ragione principale in quella rivoluzione dei valori che accomunava l’Italia ad altri paesi dell’Europa meridionale come Spagna e Grecia. Tutti paesi che in tempi diversi, ma ravvicinati, hanno ricuperato con insolita rapidità parte considerevole del divario che li separava dal resto dell’Europa nel processo di ridefinizione dei ruoli femminili.
La posposizione del matrimonio, il sempre più diffuso rifiuto delle gravidanze successive alla prima e in molti casi una rinuncia ai figli: questi fenomeni appaiono legati a due coordinate principali. La scelta prioritaria del benessere per sé e per i propri figli (spesso per l’unico figlio), secondo un modello di «società familistica ad alta accumulazione impegnata in un continuo incremento di reddito e in processi di mobilità ascendente»20 e la rottura del modello rigido donna-madre che prevale anche sulla disponibilità di risorse assistenziali. Sono state infatti regioni non certo prive di servizi sociali, come ad esempio Friuli, Liguria, Emilia-Romagna, a imboccare più precocemente la via della denatalità. È divenuto così possibile, alla metà degli anni Novanta, individuare due comportamenti dominanti per le donne che hanno scelto di procreare: il modello a figlio unico nel Centro-Nord e quello a due figli (tendenzialmente ravvicinati) nel Sud21.
20 G. Dalla Zuanna, Meglio soli. Famiglia e natalità in Italia, in «il Mulino», 1995, n.1, p. 115.
21 A. Santini, La fecondità, in M. Barbagli, C. Saraceno (a cura di), Lo stato delle famiglie in Italia, il Mulino, Bologna 1997, pp. 119-120.
Sempre più donne negli studi, nell’insegnamento, negli impieghi, nelle professioni22: alla grande rilevanza numerica ha corrisposto una significativa ascesa nelle gerarchie e nei posti direttivi e di responsabilità, anche se in misura ben lontana da configurare un avvicinamento paritario a posizioni ancora saldamente presidiate dalle tradizioni e dalle competenze maschili23.
22 Nel 2000 la femminilizzazione della pubblica amministrazione aveva raggiunto il 59,9%.
23 Nel 1997 erano donne il 7,8% dei dirigenti ministeriali, il 6,9% dei primari ospedalieri, l’11,4% dei deputati, l’8,3% dei senatori, il 6,4% dei sindaci; rappresentavano il 30% della magistratura giudicante e il 25% di quella inquirente (le donne erano rimaste escluse dalla magistratura fino al 1965).
Questo universo di nuove presenze femminili è in certa misura sostenuto dal rafforzarsi nel tempo del predominio numerico femminile. Se i maschi sono più numerosi alla nascita, le femmine, grazie al più basso tasso di mortalità, cominciano a prevalere nelle classi di età superiori ai 45 anni, per dilagare poi in quelle oltre i 65 anni24. Nel 2001 si contavano 105,9 donne ogni 100 uomini, ma mentre fino a 14 anni il rapporto fra i sessi era di 94,4 a 100, oltre i 45 diveniva di 119,4 a 100, e fra gli ultrasessantacinquenni di 144,8 a 100. La femminilizzazione era favorita dall’invecchiamento complessivo della popolazione, divenuto anch’esso un carattere distintivo non solo della demografia, ma anche della società italiana nel suo insieme. Se nel 1961 la popolazione fino a 14 anni rappresentava il 24,6%, nel 1991 era scesa al 15,8 e nel 2004 al 14,2. Gli ultrasessantacinquenni invece erano passati nello stesso periodo dal 9,5% al 15,3 nel 1991 e al 19,2 nel 2004 e l’Italia si confermava come il paese europeo con la popolazione più anziana.
24 A determinare la maggiore longevità femminile hanno contribuito nel corso del secolo, oltre a ragioni fisiologiche e genetiche, la riduzione della mortalità per parto, l’abbandono dei tradizionali atteggiamenti discriminatori nei confronti delle bambine, destinatarie di minori cure infantili e, secondo alcuni, la ridotta diffusione, fra le donne, della personalità competitiva tipicamente maschile, a più alto rischio di malattie cardiocircolatorie: cfr. A. Pinnelli, La longevità femminile. Cifre, dimensioni, valori, in «Memoria», 1986, n. 1, pp. 42 sgg.
Si confrontano così due facce della femminilizzazione italiana: quella delle donne giovani e nella prima età matura, largamente inserite nei processi di studio e di lavoro, portatrici di una nuova etica della famiglia e dei rapporti sociali, e un’altra, quella delle donne anziane, in gran parte partecipi di ruoli subalterni, che hanno osservato (e subìto) nella loro cerchia più ristretta la smentita e il disgregarsi di tradizioni e valori di cui esse per prime erano e pensavano di essere portatrici. Rimanendo tuttavia, nella loro sempre più frequente solitudine, a tutela di quelle continuità familiari (e di quelle gerarchie di fatto) che, pur in una connotazione diversa dal passato, rimangono al centro delle priorità affettive e dei rituali familiari del nostro paese.
Innovazione e tradizione sono gli estremi dei percorsi femminili nell’Italia dell’ultimo trentennio. In un contesto in cui molti osservatori e studiosi segnalano fra le caratteristiche permanenti della società italiana una particolare solidità delle trame di parentela «importanti sia in termini affettivi che di qualità della vita complessiva»1, anche in questo ambito si sono prodotti significativi mutamenti. Tali mutamenti riguardano le strutture familiari arricchitesi di nuove tipologie che, a partire dalla metà degli anni Settanta, hanno cominciato a rendersi via via più visibili. Il diffondersi delle nuove famiglie non solo era in stretta connessione con le tendenze della demografia, ma si spiegava in rapporto agli effetti ormai di lungo periodo della nuova dimensione femminile nel lavoro e negli studi e, per entrambi i generi, del consolidarsi del divorzio: tutte espressioni di un arco più ampio e più consapevole di scelte di vita.
1 C. Saraceno, Mutamenti della famiglia e politiche sociali in Italia, il Mulino, Bologna 1998, p. 34. Di qui anche la diffusa consuetudine di abitare vicino ai parenti mantenendo un modello di convivenza che è stato chiamato «intimità a distanza».
Accanto alla tipologia dominante della famiglia nucleare (genitori e figli), la cui percentuale si è mantenuta stabile fra il 55 e il 53%, mentre la famiglia estesa (genitori, figli, ascendenti e/o parenti) ha subito una costante riduzione legata alle trasformazioni del mondo contadino2, almeno tre tipi di nuove famiglie si sono venuti affermando negli ultimi decenni: le famiglie unipersonali, le famiglie con un solo genitore e infine quelle ricostituite. Dire famiglia non implica necessariamente l’esistenza di un matrimonio, anche se in Italia, più che altrove in Europa, si è mantenuto un nesso formale molto stretto fra matrimonio e convivenza, matrimonio e procreazione. Di conseguenza le famiglie di fatto sono percentualmente assai meno numerose in Italia, così come le nascite fuori del matrimonio sono ben distanti dall’andamento medio europeo. I figli naturali, che erano il 2,4% nel 1960, scendono sotto questa cifra nel decennio successivo per risalire al 2,5 nel 1972 e da allora crescere fino all’11,1% del 2001. Il dato è il più basso dell’Unione Europea allargata a 25 paesi, inferiore a quello della Polonia (13,1) e di Malta (12,1) e lontanissimo da quello degli altri maggiori paesi europei, come la Germania, che ne registrava, nello stesso anno, il 25%, o la Gran Bretagna (con il 40) e la Francia (43,7)3.
2 A. Golini, Profilo demografico della famiglia italiana, in P. Melograni (a cura di), La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 364 sgg.; le famiglie estese scesero, fra il 1951 e il 1981, dal 22,5 all’11,2%, ma conservavano una percentuale nettamente superiore alla media in Toscana, Marche e Umbria; nel 1993-1994 erano il 5% circa.
3 In Svezia erano il 55,5%, in Danimarca il 44,6.
L’aumento dei figli naturali, lento se paragonato ad altre realtà europee, attesta tuttavia (almeno in parte) l’esistenza di un numero consistente di procreazioni volute all’esterno del matrimonio e non, come un tempo, solo nascite subite e indesiderate. Un altro segnale di sganciamento dai modelli imposti dalle tradizioni, più evidente ancora per la sua rilevanza numerica, è stato l’aumento dei matrimoni celebrati con il rito civile, passati dall’1,2% del 1966, il livello più basso del dopoguerra, al 28,5% nel 2003. Ma l’indicazione non pare tuttavia univoca: se da un lato certifica un minore ossequio alla tradizione, dall’altro testimonia in parte una maggiore consequenzialità nelle scelte religiose.
Così nelle nuove strutture familiari bisognerà distinguere con cautela fra il risultato di nuovi comportamenti e l’accentuarsi invece di realtà sociali e demografiche preesistenti. Il fenomeno delle famiglie unipersonali è solo in parte nuovo e legato a nuovi stili di vita. Le famiglie unipersonali sono infatti costituite per due terzi da donne, un terzo delle quali vedove già nella fascia d’età fra i 35-64 anni, per salire all’83% circa in quella oltre i 65 anni: donne sole non certo per scelta. Sono questi gli esiti degli squilibri dovuti alla maggiore longevità femminile e alla minore età delle donne all’inizio della vita di coppia: le donne infatti sopravvivono in media dieci anni ai loro mariti o compagni4.
4 A.L. Zanatta, Le nuove famiglie, il Mulino, Bologna 2003, pp. 106 e 113.
Invece nelle fasce di età fino a 34 anni, costituite prevalentemente da celibi e nubili, gli uomini sono in larga maggioranza (60%)5 fra quelli che ormai si è abituati a chiamare «single»: termine del resto che indica piuttosto una scelta autonoma che non una solitudine residuale.
5 Ivi, p. 112 (dati 1999-2000).
Nell’affidarsi alle statistiche o alle stime più o meno ufficiali per individuare le dimensioni del fenomeno dei single bisogna avvertire che le cifre disponibili sono largamente sottostimate. Soprattutto fra i più giovani, e anche fra chi si separa, è diffusa l’abitudine a mantenere la residenza di origine, segno che il passaggio alla vita da soli appare a molti un periodo non definitivo che è inutilmente faticoso formalizzare.
Tutti gli osservatori sottolineano come in Italia il numero dei giovani, maschi e femmine, che rimangono nella famiglia d’origine anche dopo aver raggiunto l’autonomia economica, sia sensibilmente più alto che altrove in Europa. Del resto la lunga convivenza con i genitori non solo risponde alla recente prolungata scolarità, soprattutto delle ragazze, ma in moltissimi casi non pone più vincoli insuperabili alle libere relazioni sessuali dei giovani, da quando viene largamente tollerato e assecondato ciò che fino agli anni Sessanta appariva come una violazione della sacralità della famiglia e un incentivo a uscirne. La permanenza nella famiglia d’origine, che peraltro ha tradizioni antichissime6, appare sovrastimata anche per un altro motivo. Si sono fatte sempre più frequenti, infatti, le uscite parziali, «a elastico», dalle famiglie negli anni di studio universitario e durante le prime esperienze di lavoro. Un numero consistente di studenti sperimenta l’uscita temporanea dalla famiglia durante gli studi compiuti nelle città universitarie, ma mentre altrove in Europa sono numerose le convivenze eterosessuali o di coppia, in Italia sembrano più diffuse convivenze di soli ragazze o ragazzi. In ogni caso tanto gli studenti che i giovani alle prime esperienze di impiego in realtà lontane dalla famiglia risultano solo da un punto di vista formale e anagrafico ancora totalmente legati alla famiglia di origine.
6 Legate anche alla minore diffusione, rispetto ad altri paesi dell’Europa centro-settentrionale, del servizio domestico e dell’apprendistato, nonché alle regole di residenza dopo le nozze che in Italia comportavano, e in parte ancora comportano, una forte componente patrilocale (ossia che la nuova famiglia abiti nella casa del padre dello sposo): Barbagli, Castiglioni, Dalla Zuanna, Fare famiglia in Italia. Un secolo di cambiamenti cit., pp. 39-51.
Le esperienze da single sono dunque più diffuse di quanto non dicano i dati ufficiali e configurano nuclei nella sostanza simili alle famiglie unipersonali, anche se formalmente non registrabili come tali.
Non minore, né meno articolata complessità presentano le famiglie che derivano dalla rottura di un legame matrimoniale o dalla rinuncia, anche solo temporanea, a tale vincolo. Il modo in cui sono strutturate queste famiglie discende in larga misura da due fattori: da un lato la rottura di alcuni codici un tempo largamente condivisi e applicati, come quello del matrimonio per la vita e quello del rispetto delle regole della parentela7, dall’altro la diffusione delle separazioni e dei divorzi.
7 Golini, Profilo demografico cit., p. 347.
Entrambi sono conseguenza in larga misura dell’affermarsi e del prevalere, nella gerarchia dei valori della vita privata, dei sentimenti sui doveri, un mutamento che si è rafforzato man mano che la condizione femminile ha raggiunto gradi di autonomia tali da svincolare il matrimonio dai legami della dipendenza economica. Mentre la società e le istituzioni hanno via via riconosciuto protezione giuridica alla dimensione personale delle scelte affettive.
Ancora una volta è dagli anni Settanta che questi fenomeni cominciano a prendere slancio. I divorzi, superata l’impennata iniziale (seguita all’introduzione della legge nel 1970) che consentì di riassorbire le separazioni più antiche8, passano dai 10.618 del 1975 ai 37.573 del 2000. Le separazioni legali dai 10.269 casi del 1970 ai 17.022 del 1975 ai 71.969 del 2000, ossia da 26 a 256 ogni 1000 matrimoni9. Dal momento che solo il 50% delle separazioni approda a un divorzio10, è a queste soprattutto che bisogna guardare come produttrici di effetti sulle strutture familiari, con un’attenzione particolare agli anni più recenti, quelli in cui si registra un’accelerazione delle separazioni nei primi anni di matrimonio.
8 Come è noto la legge italiana prevede un periodo di separazione legale prima del divorzio. Gli anni di separazione, inizialmente cinque, furono ridotti a tre nel 1987.
9 Zanatta, Le nuove famiglie cit., p. 62.
10 L’Italia ha il tasso di divorzi più basso d’Europa, 0,7 per mille abitanti nel 2001. La Francia ha l’1,9; la Germania il 2,4; la Gran Bretagna il 2,6.
All’inizio del nuovo secolo l’86% circa dei figli minori veniva affidato esclusivamente alle madri in caso di separazione o di divorzio: questo elemento, unito al maggior numero di vedove rispetto ai vedovi, e a quello delle madri nubili, determina il largo prevalere delle donne (più dell’80%) come genitori soli. Del resto, su 100 donne separate o divorziate, 42 danno luogo a una famiglia con un solo genitore mentre sono soltanto 9,5 gli uomini che si trovano nella stessa condizione. Anche questa realtà testimonia della nuova femminilizzazione delle responsabilità, confermata anche dalla circostanza che fra le donne sole con figli la percentuale delle occupate è più alta rispetto a quella registrabile fra le donne che vivono in coppia11.
11 Zanatta, Le nuove famiglie cit., pp. 68 e 59.
Infine una parte almeno delle motivazioni che danno origine alle famiglie di fatto deriva dalla trasformazione dei ruoli tradizionali compiuta dalle donne: sempre più numerose sono quante respingono la semplice assimilazione al ruolo di «moglie di» sottraendosi a una codificazione di dipendenza.
Di qui il numero crescente delle famiglie di fatto: 246.000 nel 1994, 385.000 nel 2000, dall’1,6 al 2,6% di tutte le coppie12. Di esse sono abbastanza note alcune caratteristiche che le collocano nel contesto di una rivoluzione femminile silenziosa. Le coppie non sposate sono più giovani di quelle coniugate anche se la convivenza non è un fenomeno giovanile. I conviventi hanno meno figli dei coniugati, sono più istruiti e più inseriti nel mercato del lavoro13.
Sotto l’aspetto occupazionale, la differenza è particolarmente sensibile per le donne: mentre solo una quota minoritaria delle coniugate lavora, la grande maggioranza delle donne conviventi svolge invece un’attività retribuita. In più, esse sono mediamente più istruite dei loro partner. Questi dati confermano l’ipotesi che tra le donne lavoratrici con titolo di studio medio-alto vi sia una maggiore propensione verso l’unione di fatto, vista come stile di vita che, più del matrimonio, consente loro di superare i ruoli tradizionali e di negoziare col partner una relazione più paritaria14.
14 Ivi, p. 34.
Rientra nelle famiglie di fatto anche un’aliquota significativa (il 35,7% nel 2000) delle famiglie ricostituite o ricomposte, quelle formate «da una coppia sposata o non sposata, con o senza figli, in cui almeno uno dei due partner proviene da un precedente matrimonio interrotto per morte, separazione o divorzio»15. E rientrano nelle unioni di fatto anche le coppie omosessuali, gay e lesbiche, che mostrano una sempre più alta propensione alla stabilità.
15 Ivi, pp. 80 e 86.
Queste diverse tipologie familiari sono in larga misura tutte varianti della famiglia nucleare. Rimane aperto un interrogativo relativo alle tipologie che caratterizzano le minoranze, ormai non più esigue, di immigr...