Valerio Eletti - Manuale di editoria multimediale

Dal tempo allo spazio. La scrittura e l’immagine

La storia della scrittura e dell’immagine mostra come l’introduzione del tempo nei prodotti ipertestuali sia, per certi versi, una conseguenza delle svolte maturate nelle tecniche espressive nel corso del Novecento. Addirittura risalendo ancora più indietro nel tempo vediamo come il movimento ripristini, inaspettatamente, alcune proprietà della forma di espressione umana più antica: la comunicazione orale.

L’oralità affida esclusivamente al supporto sonoro l’espressione del significante linguistico: le parole «sono soltanto suoni che si possono ’richiamare’»4, sono eventi che attestano la presenza immanente di un individuo e coinvolgono gli astanti in uno scambio dialogico.

Nelle culture a oralità primaria si pensava che attraverso le parole «dette» si potesse esercitare un potere sul mondo circostante, che queste, cioè, non fossero delle mere etichette, come invece vengono percepite nelle società permeate dalla scrittura e dalla stampa.

La scrittura e l’immagine, invece, «fissano il pensiero in simboli materiali»5, sottraendolo alla fugacità propria del linguaggio parlato. Entrambe estromettono la dimensione del tempo propria dell’oralità per farsi portatrici di significato, servendosi esclusivamente dello spazio, ma qualificandolo, ciascuna in maniera differente.

La scrittura alfabetica, sottomettendosi all’andamento progressivo della fonazione verbale, dispone i grafemi linearmente attraverso catene regolari di lettere. L’invenzione della stampa a caratteri mobili a partire dal XV secolo porterà a compimento il processo di omogeneizzazione e stilizzazione dei segni6 avviato dalla chirografia: la notazione alfabetica si affermerà come lo strumento più affidabile e preciso per esternare contenuti sempre più indipendenti dal contesto circostante, stabili ed eterni come le pagine dei libri in cui verranno conservate le parole7.

A differenza della tecnica chirografica, l’immagine utilizza la reticolarità dello spazio planare per esprimersi: si serve della topologia delle posizioni (i rapporti oppositivi e relazionali tra le zone di sinistra e destra, alto e basso, centro e periferia) per rendere manifesti i rapporti tra gli oggetti rappresentati, e affida parte del suo messaggio agli equilibri cromatici e plastici tra le sue porzioni8. L’interpretazione di un’immagine risulta senza dubbio più ambigua e indefinita di quella discendente da una pagina scritta, tanto più che la visione segue un andamento itinerante, potendo scivolare tra le zone della rappresentazione senza seguire alcun ordine prestabilito9.

L’immagine, soprattutto a seguito del diffondersi della stampa, svolgerà una funzione principalmente didascalica, dovendo più che altro sopperire alle carenze esplicative del linguaggio verbale, perdendo parte del valore «esegetico» che possedeva nel passato10.

Da quanto detto finora emerge l’opposizione di due modelli di composizione e lettura:

– la scrittura alfabetica, in accordo all’andamento del parlato, dispone i suoi materiali espressivi sequenzialmente, presupponendo quindi una fruizione lineare;

– l’immagine sfrutta l’intera bidimensionalità della superficie spaziale, permettendo una lettura di tipo reticolare11.

Tuttavia la polarizzazione che abbiamo appena esposto non è pienamente esaustiva del corollario di declinazioni che l’espressione scritta e figurativa hanno subito nel corso del tempo.

La stampa, pur accentuando il processo di livellamento del significante scritto, ha infatti di pari passo comportato una diversa attenzione alla forma materiale della parola: dalla poesia di Mallarmé Un coup de dés jamais n’abolira le hasard, alle tavole «parolibere» futuriste12, ai manifesti pubblicitari ispirati alle opere dei suprematisti negli anni Trenta, fino a giungere alle più comuni riviste illustrate dei giorni nostri, vengono fuori numerosi esempi di uno studio mirato dell’estetica della scrittura in funzione del contenuto veicolato, un diverso trattamento dello spazio della pagina che diventa anch’esso materiale significante, tanto da avvicinare talvolta l’espressione alfabetica alle scritture «iconiche» orientali.

Nel Novecento, in particolare, la scrittura perde via via di precisione acquistando in densità informativa, mentre sul versante dell’immagine pittorica si moltiplicano i tentativi di ritrarre, anche se in forma stilizzata, il movimento dei corpi, così come le potenziali forze cinetiche insite nelle forme, nei colori e nei contrasti13. L’immagine viene spogliata del suo ruolo di referente mimetico e si indagano le possibilità espressive connesse al suo linguaggio plastico e cromatico.

L’integrazione di parole e immagini, insieme alle sperimentazioni provocatorie di dadaisti e cubisti, si diffonde nella stampa pubblicitaria e nelle riviste, grazie anche allo sviluppo di nuove tecniche di stampa come l’offset, che consente la compresenza di parole e immagini sulla medesima matrice di stampa. L’ausilio del computer porterà poi a compimento il processo di mescolamento di scrittura e immagine, che diventeranno così forme estemporanee della medesima sostanza: il linguaggio digitale.

L’ipertesto multimediale è dunque l’ultimo traguardo del processo di ibridazione dei due formati espressivi: ciascuna schermata ospita testi scritti e immagini, veicolando al suo interno sia un orientamento di lettura lineare necessario alla fruizione dei testi scritti, che un andamento iterativo e reticolare proprio dei testi iconici.

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Estetica della scrittura e dell’immagine in movimento

Anche la superficie dell’ipertesto ha subito delle notevoli trasformazioni nel corso della sua breve esistenza.

I primi documenti digitali erano prevalentemente testi scritti, e solo successivamente si sono affermate soluzioni grafiche via via più complesse in cui le immagini potessero acquisire un maggiore spazio e un aspetto più elaborato. L’introduzione del movimento rappresenta così l’ultima tappa nell’evoluzione estetica di un prodotto editoriale dedicato principalmente al trasferimento di nozioni e informazioni.

Allo spazio stabile e omogeneo dei documenti a stampa subentra uno spazio espressivo mutevole, plastico e «reattivo».

Il tempo apporta importanti rivolgimenti nelle fattezze del significante scritto. La progressività del discorso orale viene riprodotta (in maniera meno arbitraria rispetto alla notazione alfabetica) tramite il procedere cadenzato delle lettere sullo schermo; la catena sintagmatica dominata dall’omogeneità dei caratteri a stampa viene spezzata o stravolta al fine di enfatizzare il rilievo delle parole stesse. Le lettere transitano sulla pagina, si ingrandiscono, compaiono all’improvviso o scompaiono in relazione agli intenti dell’autore multimediale.

Il movimento si configura, così, come un tratto visivo che sovradetermina il senso delle parole, poiché al significato lessicale si giustappone il significato che esse assumono nel contesto visivo circostante e le accezioni che derivano dalle caratteristiche delle loro trasformazioni.

Le parole in movimento sono così il prodotto della compresenza di due complementari, la scrittura e l’oralità (la vista e il suono), e rafforzano tendenze latenti in entrambe.

Dall’oralità ritornano alcune proprietà andate disperse nella chirografia: le parole sono nuovamente degli «eventi», accadono nel tempo, non sono eterne e stabili. Evidenziando attraverso il dinamismo la presenza di zone attive, esse sono anche agenti di mutazione, «performative», ossia dotate di potere sugli oggetti del mondo visuale cui appartengono, come si pensava fossero i «nomi» nelle civiltà non alfabetizzate.

D’altro canto le parole estrapolate dalla catena del sintagma verbale ricordano da vicino le forme della poesia visiva, in cui la parola veniva utilizzata alla stregua di materiale pittorico, e richiamano la cura del lettering propria delle composizioni a stampa più recenti.

La parola risulta definitivamente un dato della percezione visiva, concretizzandosi però in forme meno stabili di quelle stampate, ripristinando in parte l’evanescenza e la ritmicità propria del procedere sequenziale dell’oralità.

«Le forme tipo/grafiche sono immagini, sono immagini delle parole, sono immagini dei suoni e delle associazioni mentali che questi ultimi riescono a ricreare»14.

Il rapporto tra le parole e le immagini giunge quindi a un’ulteriore svolta. Grazie all’uso di software come Macromedia Flash e Director, si può ovviare alla necessità di linee spartitorie tra le zone della schermata (proprie invece dei siti realizzati con la tecnologia Html): parole e immagini si integrano perfettamente, possono occupare qualsiasi parte dello schermo, incastonarsi e sovrapporsi senza limitazioni.

Anche lo statuto dell’immagine cambia: la segnalazione dell’ingresso ai moduli è sovente affidata a un’immagine animata. Indicando la presenza di un collegamento, essa ne ritrae metonimicamente il contenuto, svolgendo la funzione di campione rappresentativo della classe di oggetti interni al modulo. In questo senso l’immagine viene investita di un ruolo molto prossimo a quello della parola scritta, poiché deve sintetizzare, ma a dispetto della brevità, rendere effettivamente intelligibile ciò che s’incontrerà nel nodo15.

Si parla così di «iperimmagine», ossia scatola cinese dotata di valore operativo oltre che didascalico, che ripristinerebbe quel potere euristico che l’immagine avrebbe perso a seguito dell’affermarsi del linguaggio verbale quale principale veicolo d’espressione16. In questo compito verrà comunque supportata, il più delle volte, dalle indicazioni scritte, così che il suo ruolo di «araldo» della sezione può riguardare più un’anticipazione delle proprietà grafiche del modulo che la denominazione del suo contenuto, operata in modo molto più preciso dalla parola.

I confini tra la scrittura e l’immagine diventano dunque sempre più sfumati, tanto che non ha più senso contrapporre la «razionalità» della prima all’«emotività» della seconda, la «discretizzazione» del tempo alla «continuità» dello spazio.

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La funzionalità del movimento nelle pagine web

«Il movimento è una traslazione nello spazio. Ora, ogni volta che vi è traslazione di parti nello spazio, c’è anche cambiamento qualitativo in un tutto»17.

Nella schermata il movimento produce una modifica delle relazioni formali tra gli elementi visivi: ad esempio l’espansione di un menu comporta la contrazione di un’altra porzione del piano; lo spostamento di un oggetto o la sua trasformazione può delineare un nesso associativo tra unità apparentemente slegate.

Il movimento crea relazioni, ma ha anche il potere di distruggerle, crea delle gerarchie, come fa lo spazio, ma le può in continuazione rinegoziare, trasgredire, annullare. Insomma il movimento, con l’ausilio del tempo che afferma e poi nega, turba la stabilità dei rapporti, fa dell’espressione una struttura mai conclusa, un’opera mai finita, ma fluttuante, fragile.

In questo ricorda l’indefinitezza tipica dell’ipertesto, per natura un dispositivo d’espressione dinamico e processuale: il movimento rende visibile, senza limitazioni, la sua tendenza all’instabilità rafforzando l’imprevedibilità delle vedute, la logica dei balzi improvvisi tra i suoi territori.

Il movimento, nel duplice senso di cambiamento e spostamento, si affianca alle figure spaziali nell’opera di traduzione in forme percettive dei concetti: introduce la durata come criterio di differenziazione degli oggetti, la plasmabilità come strumento di figurativizzazione dell’agire dell’utente, e infine la sequenzialità come nuova dimensione espressiva che realizza nel tempo le connessioni formali e semantiche tra i materiali.

Le distinzioni tra le zone dell’ipertesto e quindi il rilievo di alcune parole chiave vengono segnalate, infatti, attraverso la contrapposizione tra il dinamismo dei link e la stasi dello sfondo, non più solo ricorrendo ad altri artifici grafici di differenziazione, come il rilievo tridimensionale o i riquadri divisori. Si comincia cioè a sfruttare un principio interno alla nostra esperienza percettiva quotidiana: il rapporto tra sfondo e rilievo connota il primo come il luogo da cui provengono le informazioni nuove, inaspettate sullo scenario percepito, mentre in rilievo vi è ciò che già è stato colto, elaborato e identificato dal sistema visivo18.

La comparsa di oggetti sullo sfondo li investe di una forte carica attrattiva, la quale cresce ulteriormente se questi sono sottoposti a movimenti e trasformazioni: l’uomo, così come la maggior parte degli esseri viventi, è estremamente reattivo alla comparsa di stimoli in movimento, percepiti ben prima che ne sia identificabile la forma, e solitamente accolti da uno spostamento repentino dello sguardo19.

L’oggetto dotato di movimento risalta potentemente sullo sfondo se però quest’ultimo è tendenzialmente omogeneo, pressoché statico e quindi non attrae di per sé l’attenzione, «non assuefa» l’osservatore alla presenza di stimoli dinamici.

Nel web il movimento andrebbe quindi utilizzato con parsimonia, evitando le cacofonie e disarmonie che un sovraffollamento di richiami dinamici produce.

Se è vero che il movimento può turbare l’andamento della lettura va detto, però, che ciò non avviene in modo così scontato e meccanico come si potrebbe pensare: se si è concentrati su una determinata porzione del campo visivo e non ci si aspetta la comparsa di niente d’allarmante (situazione congeniale a un utente immerso nella lettura su schermo), non necessariamente il movimento produce uno spostamento del centro d’interesse20.

La dinamizzazione di un link va contemplata come uno strumento di orientamento, ovvero come segnale della presenza di una zona attiva su cui intervenire attraverso la protesi virtuale del cursore. Distorcendosi o mutando di colore i bottoni o i riquadri dinamici si appellano al fare dell’utente, rafforzando l’invito con suoni in sincronia con le immagini o provocati dallo sfioramento del cursore. Il legame tra movimento percepito e azione è infatti piuttosto serrato21: il movimento del link rende visibili le condizioni della sua manipolabilità, instaurando un nesso sinestesico tra percezione visiva e tattile tale da suggerire con la sua foggia cangiante i potenziali effetti del suo «rimaneggiamento».

Il roll over (il passaggio senza clic) su un bottone produce sovente la discesa di un menu a tendina in cui sono presenti i sottomoduli associati al link: l’espansione rende visibile così la dilatazione di tipo concettuale in cui incorre il lessema del collegamento, traduce in forma visiva il passaggio dal termine sintetico e generale del primo raggruppamento alle categorie più specifiche dei nodi finali.

Il movimento è quindi un tratto espressivo che consente una migliore visibilità dell’architettura concettuale, suggerendo all’utente i possibili luoghi dello spazio in cui potrebbe approdare, e palesa le modalità con cui può agire sulla superficie per raggiungere tali isole testuali.

La reattività dei bottoni fornisce un ulteriore contributo alla navigazione: rappresentando i luoghi dove «lo spettatore allunga, letteralmente, le mani sulla scena»22, fornisce delle indicazioni circa la posizione del cursore (e quindi dell’utente) e sanziona, attraverso mutamenti plastici e cromatici, le sue scelte tematiche. Il fruitore trova un proprio rappresentante simulacrale in queste zone attive, un segno evidente della sua presenza e delle sue strategie di posizionamento «somatico» e «cognitivo» nel testo23.

Il movimento fornisce quindi una valida segnaletica – tramite i bottoni, i menu, i riquadri animati dei banner – all’orientamento, indicando le vie di fuga e i varchi tra le porzioni dell’ipertesto.

Nei siti editi con Flash o Director, una volta operata la scelta di una nuova pagina, la schermata non subisce un completo riaggiornamento, la transizione non avviene in modo brusco e immediato, bensì si snoda per tappe in cui le linee portanti della schermata, le parole o le immagini scompaiono lentamente sostituite da nuovi elementi: il primo contatto con il territorio del sito o il passaggio tra i nodi dello stesso sono contrassegnati, così, da brevi animazioni leggere che vanno a costituire i filmati di loading, le intro o i semplici movie di collegamento tra le pagine.

L’apparizione del contenuto si realizza progressivamente, instaurando dei brevi stati di attesa in cui l’utente si dispone a fare da spettatore passivo all’offerta di immagini, suoni e parole animate che si succedono sulla schermata. La sequenzialità dell’audiovisivo si impone quindi all’interno di un dispositivo espressivo dominato più di qualsiasi altro dalla reticolarità: la libertà di movimento trova degli ostacoli nei percorsi obbligati previsti dall’autore multimediale e nel procedere temporalizzato della messa in scena.

Da quanto detto emerge come il movimento connoti i balzi tra i materiali testuali come «momenti liminali», come se ciascun filmato fosse una soglia di arrivo o di partenza da superare per poter accedere alle preziose isole di senso dell’ipertesto24.

Tali soglie risultano spesso piuttosto gradevoli dal punto di vista grafico, veri e propri spazi e tempi d’intrattenimento tramite i quali accrescere il piacere estetico dello scambio comunicativo (le intro ad esempio hanno costituito un vero e proprio genere espressivo specifico, presentando una mescolanza di caratteri tratti dalle sigle promozionali televisive, dalle pubblicità o dai titoli di testa dei film).

Slogan e parole chiave che transitano da una zona all’altra dello schermo in accordo con musiche create ad hoc, foto o microfilmati giustapposti da un montaggio vorticoso, domande oscure rivolte allo spettatore: tutto ciò accoglie l’utente e cerca di stimolarne le aspettative, generando un vago senso di attesa che giungerà presto a termine.

Elementari forme narrative vengono ad esempio proposte nei banner (gli spazi pubblicitari inseriti nelle pagine web), ugualmente al fine di solleticare l’interesse dell’utente attraverso associazioni inedite di parole e immagini dinamiche. L’ambiguità delle frasi o delle immagini avvicina queste forme promozionali alla comunicazione pubblicitaria, per quanto ancora il valore aggiunto che potrebbe essere tratto dall’interattività non viene sfruttato appieno (sono ancora pochi i banner che offrono dei servizi immediati per l’utente o giochi interattivi con cui intrattenerlo).

Il movimento fornisce un valido aiuto agli intenti espressivi dell’autore multimediale, purché costui ne sappia vagliare attentamente il peso percettivo e l’effettiva funzionalità rispetto al valore d’uso del testo, ossia il genere di contenuto e lo scopo che intende raggiungere col proprio prodotto editoriale.

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Il nuovo tempo dell’ipertesto

Il tempo non solo turba la superficie della messa in scena, ma diventa esso stesso materiale espressivo da modulare e plasmare per ottenere determinate reazioni da parte dell’utente, in primo luogo un maggiore coinvolgimento sensoriale e una tensione ritmica in crescita secondo un meccanismo peculiare ai testi narrativi scritti o audiovisivi.

Per la prima volta entro un documento scritto il tempo dell’espressione influisce su quello della fruizione, invadendolo e plasmandolo.

Anche il tempo diventa uno strumento per delineare l’identità del soggetto ritratto, un fattore da contemplare nel progetto di ideazione del sito sapendo che le attese innescate debbono essere compensate da un appropriato soddisfacimento delle necessità del fruitore.

L’utente è posto di fronte a uno spazio composito e soprattutto imprevedibile che simula la complessità propria degli scenari naturali, anch’essi dominati dal principio della mutabilità perenne.

Sapersi muovere tra i paesaggi fittizi di parole e immagini diventa una capacità basilare per condurre a buon esito il contatto, l’azione diventa importante al pari della comprensione, il piacere estetico della comunicazione risulta uno dei capisaldi del rapporto dialogico tra l’utente e il soggetto ritratto nel sito.

La lettura è sempre più simile a un’esperienza di tipo immersivo, la componente sensorea ed emozionale del testo prevale sull’essenzialità e rapidità dello scambio informazionale. Lettura ed esplorazione visiva risultano, così, due programmi d’azione omologhi: lo spazio della scena multimediale contiene le appendici di oggetti nascosti, pronti a emergere, una volta «stanati» dall’utente, e a espandersi in superficie producendo suoni e forme ammalianti. Percorrere il territorio dell’ipertesto significa quindi scovare tutte le opzioni di movimento non manifeste, ma anche abbandonarsi alle sollecitazioni audiovisive imposte dal procedere dell’espressione.

La comunicazione diventa analoga a un’opera di scoperta per tappe della personalità del soggetto rappresentato, simile all’attraversamento di un paesaggio altamente informativo in cui lo spostamento risulta altrettanto importante dell’arrivo.

La lettura su schermo di documenti ipertestuali sempre più complessi presuppone, così, una capacità di valutazione notevole, frutto di una decodifica fulminea delle sollecitazioni visive. Sarà sempre più utile imparare a destreggiarsi tra i materiali espressivi, rispondere alla ridondanza informativa sfruttando l’abitudine alla selezione maturata nel nostro universo di azione quotidiano, in cui siamo in grado di muoverci elaborando veloci interpretazioni e previsioni a fronte dell’intreccio di stimoli cui siamo sottoposti.

L’ambiguità e la densità informativa proprie dell’immagine investono la parola che, iconizzandosi, affida alle proprie fattezze l’espressione di significati aggiuntivi, contaminando anche la lettura con questa nuova natura ibrida, tra sensibile e intelligibile, tra natura e cultura, accrescendo le potenzialità euristiche della comunicazione multimediale.

Probabilmente s’è innescato un processo che non potrà più essere arrestato, in cui le potenzialità della conoscenza sensorea (e quindi la moltiplicazione dei tratti sensibili) verranno sfruttate per rendere più efficace il passaggio di informazioni, segnando il primato della comunicazione iconica su quella verbale.

La tendenza all’associazionismo del pensiero figurativo, le sue doti sintetiche si giustappongono alla linearità logica propria dell’espressione scritta, rompendo gli argini della spartizione di matrice occidentale tra emotività e razionalità, prassi e teoria, spazio e tempo, estetica e funzione.

Allo stesso modo forme d’espressione sequenziali coesistono sulla medesima pagina con forme reticolari, proponendo una moltitudine di spazi tra cui scegliere, e andamenti temporali differenti cui si può decidere di sottoporsi.

Non resta che imparare a utilizzare e modulare il tempo come materiale significante, plasmandolo in relazione ai propri scopi, ma anche tenendo conto delle ripercussioni sull’istanza di fruizione delle dilatazioni e contrazioni temporali.

Spazio e tempo si moltiplicano, trasformano, sfaccettano, confondono per dare vita infine al movimento in qualità di prezioso oggetto significante.

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La razionalizzazione produttiva

Alla base del print on demand, ci sono due nuove tecnologie: la stampa digitale, che permette di razionalizzare la fase produttiva; e Internet, che consente di riorganizzare la distribuzione diminuendone i costi.

Il maggior vantaggio apportato dall’uso delle stampanti digitali consiste nell’eliminazione completa della fase di pre-stampa2 con una conseguente velocizzazione del ciclo produttivo e una drastica diminuzione dei costi. I file di dati vengono inviati direttamente in produzione ed è inoltre possibile attuare delle modifiche all’ultimo minuto o controllarne le prove di stampa, anche interrompendo temporaneamente la tiratura di un altro lavoro.

Il prodotto finale è di buona qualità: i dati digitali mantengono la propria totale integrità nel passaggio dal computer ai sistemi di stampa, tanto da raggiungere risultati qualitativamente molto buoni sia nel caso di copie a colori, sia in bianco e nero.

Il print on demand trae la sua forza anche da Internet. I file possono viaggiare lungo la rete fino ad arrivare allo stampatore digitale più vicino al lettore o alla libreria che richiede il titolo.

In questo modo sarebbero drasticamente ridimensionati i problemi e i costi legati all’attuale distribuzione fisica, la gestione delle rese3 e si risolverebbero i problemi causati dalle migliaia di copie invendute, frequente risultato di un’errata valutazione delle tirature o delle strategie promozionali.

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Le applicazioni potenziali del print on demand

Oggi gli editori sono costretti a lavorare tollerando altissimi livelli di rischio economico: come decidere l’entità della tiratura? Come valutare la possibile reazione dei lettori nei confronti di un nuovo titolo o di un nuovo autore? Valutazioni sbagliate portano all’aumento indiscriminato dei costi, di produzione prima e di gestione poi, costi che possono incidere pesantemente sui bilanci di una casa editrice e quindi sulla sua sopravvivenza nel tempo.

Attualmente gli editori devono produrre migliaia di copie per ammortizzare il costo degli impianti di pre-stampa. Sono così penalizzati gli operatori minori che, rivolgendosi a un mercato locale che può assorbire solo un numero limitato di copie, si trovano a dover affrontare con pochi mezzi i costi di distribuzione, delle rese e del magazzino, dovuti ai libri invenduti. Il print on demand, dando la possibilità di attuare delle «microtirature», potrebbe pertanto introdurre la pratica, economicamente conveniente, di una stampa su misura del prenotato: pubblicare solo un numero di copie pari a quelle richieste. Limitando così i rischi economici che oggi condizionano il mercato, l’editore potrebbe tornare a scommettere e rischiare sul valore e sulla qualità di un nuovo autore o manoscritto, senza combattere le insidie dei costi di produzione, di distribuzione, rese e magazzino. Il PonD è particolarmente adatto per la pubblicazione di opere specialistiche, di norma a bassa tiratura, quali i titoli accademici e specialistici, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo.

Va puntualizzato che gli editori non sono le sole figure coinvolte nel processo di cambiamento innescato dall’adozione delle nuove tecnologie. È opportuno quindi valutare quali possano essere i risvolti causati dall’adozione del print on demand per altre categorie quali gli autori, i librai, i lettori e le biblioteche.

Il print on demand potrebbe aprire nuove strade anche agli autori: abbattuti i costi, le case editrici potrebbero valutare la qualità delle nuove proposte a prescindere dalle prospettive di vendita. Anche l’autopubblicazione potrebbe essere (nel bene e nel male) una nuova opportunità per l’autore4. Società come Xlibris5, infatti, utilizzano le tecnologie digitali, stampano e rilegano i lavori di autori che si rivolgono a mercati estremamente marginali e che, per questo motivo, non troverebbero spazio fra le collane di una casa editrice tradizionale.

Grazie a una diffusione delle tecniche di print on demand, inoltre, i librai potrebbero limitare drasticamente il problema dell’assortimento dei titoli e del «fuori catalogo», di quei titoli cioè che non garantiscono alti livelli di vendita e che la casa editrice non ha convenienza a ristampare. Quante volte è capitato, entrando in libreria, di non trovare più un titolo recente ma forse poco commerciale? Quante volte abbiamo richiesto, senza successo, titoli fuori catalogo? L’editore in effetti deve fare i conti con i risultati di vendita che spesso, quando non sono positivi, determinano la fine della distribuzione di libri che escono così dai cataloghi, scomparendo dagli scaffali delle librerie.

I lettori potrebbero trarre vantaggio dal fatto che le librerie dispongano di macchine per eseguire la stampa su richiesta di determinati titoli (anche se, in questo caso, dovrebbe esistere a monte la volontà di tutti gli operatori della filiera distributiva dell’editoria per la creazione di un ricco catalogo comune e standardizzato di opere digitalizzate, pronte per essere stampate a richiesta). In questo caso, il cliente della libreria potrebbe accedere al database, richiedere il titolo che non è disponibile in libreria e averlo stampato e rilegato, nel giro di pochi minuti, dallo stampatore digitale più vicino che ha ricevuto il libro sotto forma di file. Si potrebbe ipotizzare anche la creazione di consorzi di librerie che acquistano e utilizzano in comune le stampanti digitali dividendo così i costi di acquisto e manutenzione delle macchine, oggi ancora alti.

Con il print on demand, inoltre, si aprirebbe per i lettori una nuova e preziosa opportunità: consultare, o magari acquistare, le copie dei rarissimi testi originali custoditi nelle biblioteche, ma oggi inaccessibili. Grazie agli scanner ottici è infatti possibile digitalizzare i manoscritti più antichi, che potrebbero quindi essere stampati e commercializzati in base alle richieste dei lettori. Nuove opportunità, così, anche per le biblioteche pubbliche, che potrebbero valutare la possibilità di vendere le copie stampate dei loro tesori e garantirsi utili entrate economiche grazie a testi oggi neppure consultabili.

Il settore commerciale è l’unico ad aver già adottato, con successo, la stampa digitale per la produzione di materiale pubblicitario, grazie soprattutto alla possibilità di personalizzare ogni copia (pensiamo per esempio alle buste che ci arrivano nella cassetta della posta, a casa, con una lettera d’accompagnamento che riporta il nostro nome). Molte sono le iniziative di marketing o comunicazione pubblicitaria che fanno della comunicazione one-to-one e della personalizzazione del rapporto con i clienti un aspetto decisivo della strategia adottata; e molte sono già da anni le stampanti sul mercato che supportano tale funzione. I prodotti commerciali stampati in digitale sono moltissimi: da brochure, cataloghi e direct mailing fino a striscioni pubblicitari ed etichette autoadesive. La versatilità dei materiali supportati dalle stampanti digitali è una caratteristica fondamentale per gli operatori commerciali che possono realizzare prodotti originali per creatività e supporti. La possibilità di stampare un elevato numero di copie per minuto e avere il prodotto richiesto pronto per essere trasportato e commercializzato in breve tempo, rende la stampa digitale funzionale nei processi di ottimizzazione di tempi di produzione e qualità dei prodotti.

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L’utilizzo del PonD nell’editoria accademica

La stampa digitale a richiesta può portare a razionalizzare ogni fase del lavoro editoriale anche in ambito accademico, come già avviene in alcuni stati del Nord America.

Nel marzo 2000 la sottocommissione delle biblioteche della Stanford University presentò al senato accademico un documento – Crisis in Scholarly Publishing6 sulla crisi dell’editoria universitaria. L’analisi evidenziò alcuni problemi di fondo: i costi delle pubblicazioni accademiche, ad esempio, avevano subito negli anni un rapido aumento, tanto da diventare una voce di spesa proibitiva per il bilancio di alcune biblioteche universitarie. Ne conseguì la scelta di ridurre il numero di titoli con conseguenti limitazioni gravi per docenti e studenti. Di conseguenza il PonD trovò una situazione favorevole al suo sviluppo.

In Italia le pubblicazioni accademiche seguono iter di produzione e distribuzione molto simile al cammino affrontato dai testi di varia. Essendo infatti limitatissima la presenza di centri editoriali universitari (university press), gli studiosi che devono pubblicare i propri lavori si trovano ad affrontare lo scetticismo e la ritrosia degli editori tradizionali. I limiti di questa realtà sono analizzati approfonditamente da Roberto Di Quirico7, che sottolinea come le caratteristiche delle pubblicazioni universitarie rendano molto difficile la produzione da parte di case editrici tradizionali. Qualora si decida comunque per la pubblicazione, a volte viene chiesto all’autore di rinunciare ai propri diritti.

Oggi però l’editoria elettronica può dare vita a scenari ben diversi: vediamo perché.

La limitatezza del mercato – ridotto al pubblico degli studiosi, delle biblioteche universitarie e talvolta degli istituti di ricerca internazionali – e la sua conseguente «dispersione territoriale» (data anche dalla sovranazionalità della scienza e dei risultati delle ricerche) sono caratteri che potrebbero decretare il successo del print on demand nell’ambito delle pubblicazioni accademiche.

Anche la produzione del materiale di supporto alla didattica potrebbe diventare, grazie alla stampa digitale a richiesta, un’importante attività dei centri stampa che operano all’interno dell’università. In questo modo i docenti potrebbero affidare i loro materiali digitalizzati alle strutture universitarie che provvederebbero a stampare e rilegare le dispense per gli studenti, garantendo l’alta qualità della realizzazione, in bianco e nero o a colori, e il pagamento dei diritti all’autore (così come avviene già in diverse università d’oltre oceano). Soluzione intermedia tra il libro tradizionale e le opportunità offerte dalle nuove tecnologie, il prodotto della stampa digitale a richiesta anche in questo caso può considerarsi come una soluzione per gli editori (che risparmiano così sui costi di produzione e distribuzione), per gli studenti (che hanno un accesso più facile ed economico ai materiali) e per i docenti.

In conclusione possiamo affermare che la stampa digitale a richiesta potrebbe configurarsi a breve, anche in Italia e in particolare nell’ambiente accademico, come una fra le possibilità proposte a coronamento del ciclo produttivo e distributivo delle pubblicazioni, insieme con il libro di carta, l’e-book o la fruizione del testo dallo schermo di un Pc: tutte alternative a disposizione dei lettori, che potrebbero così scegliere di volta in volta a seconda delle esigenze personali del momento.

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La nascita dell’«e-book» e lo sviluppo dei dispositivi di lettura

Già cento anni fa ci si interrogava sul declino della carta stampata. Matteo Cuomo, scrittore napoletano, si chiedeva come sarebbe stato il libro del 2000, e Thomas Edison, l’inventore della lampadina e del fonografo, pronosticava una grande rivoluzione nel campo dei libri: «la carta sarà sostituita da foglietti di nichel, spessi un duemillesimo di millimetro. Un libro avrà uno spessore di due centimetri e potrà contenere quarantamila pagine»16. L’idea del libro elettronico è nata di fatto nel 1968, insieme a quella del personal computer, dalla mente di Alan Kay17 che ideò, nei laboratori del centro di ricerca Xerox a Palo Alto, il primo computer portatile. Il Dinabook, così fu chiamato il prototipo, nella visione di Kay doveva essere piccolo e trasportabile, una sorta di «libro dinamico». Negli anni Settanta questo prototipo ispirò sia i progetti di sviluppo del personal computer dello stesso Kay sia quelli di altri pionieri dell’informatica. Sempre dal Dinabook scaturì, nelle successive interfacce grafiche dei primi Pc, il concetto di «finestre» che si aprono e si chiudono come le pagine di un testo stampato.

Da quel momento in poi, nel progettare dispositivi hardware finalizzati a permettere una confortevole lettura su schermo, si cercano di ottenere le stesse caratteristiche che hanno permesso il successo del libro a stampa, ovvero la maneggevolezza, l’elevata portabilità, la qualità visiva, la resistenza del materiale. La ricerca e lo sviluppo di apparecchi hardware per la lettura è avvenuta lungo tre direttrici18:

1. dispositivi monofunzionali, finalizzati cioè esclusivamente alla lettura e alla consultazione di libri;

2. dispositivi per l’accesso a distanza dell’informazione (news tablet);

3. dispositivi per il personal computing tascabile, come i palmari.

Le prime realizzazioni di congegni hardware dedicati si hanno già negli anni Ottanta.

La Franklin Electronic Publishers realizzò il primo e-book nel 1986. Si trattava di una specie di agenda elettronica, utilizzata per il genere reference, che consentiva di ricercare, ascoltare, consultare e leggere dizionari ed enciclopedie. Il target era prevalentemente quello degli uomini d’affari e dei professionisti. Questo primo esempio di e-book non fu in grado di attrarre l’interesse dei grandi editori, ma il fatturato che generò consentì ugualmente alla Franklin di costruire un piccolo catalogo e di ritagliarsi una precisa nicchia di mercato, senza alcun concorrente fino alla metà degli anni Novanta, quando comparvero i primi computer palmari.

La Sony scese in campo intorno al 1990 con il Data Discman, una sorta di walkman per la conservazione dei dati, ma benché tale dispositivo avesse ottenuto inizialmente un discreto successo in Giappone, le unità del Sony Data Discman vendute nei cinque anni successivi furono 800.000 in tutto.

Questi primi device dedicati non ebbero dunque un grande successo, né sul mercato né presso l’industria libraria. Si trattava del resto di electronic reference book, adatti cioè solo a una lettura breve, tipica della consultazione di un dizionario o di un’enciclopedia. Le aziende che li avevano realizzati non avevano potuto concepirli come strumenti idonei a un tipo di lettura lunga e impegnativa, a causa delle gravi limitazioni imposte dalla tecnologia allora esistente. Tali dispositivi erano penalizzati da schermi di bassa qualità, comandi troppo complessi, batterie di breve durata e il loro design era poco accattivante. Inoltre, non suscitarono l’interesse dei grandi editori, anche perché non offrivano di fatto alcun vantaggio reale all’industria libraria.

Solo a partire dal 1998, anno in cui è stato prodotto dalla Società Nuvomedia il Rocket eBook19, si è assistito a una lieve inversione di tendenza, anche perché solo allora, sulla scia di Internet, nel mercato statunitense prende piede una certa penetrazione del libro elettronico.

Dal 2000 anche in Europa si sono iniziati a produrre nuovi prototipi e a commercializzare quelli già creati in Nord America.

La seconda linea di tendenza, quella dei news tablet20, suscita pareri contrastanti. Alcuni ritengono che sia una strada poco promettente, mentre altri, al contrario, la più proficua in assoluto. C’è infatti chi sostiene che l’intera progettazione e produzione di hardware dei primi dieci anni del Ventunesimo secolo sarà diretta in tal senso.

Al momento, i dispositivi esistenti sono ancora piuttosto costosi e orientati in prevalenza a una fascia di mercato professionale. Ciononostante, i fattori che si riveleranno cruciali per il loro successo e la loro diffusione su larga scala risultano ormai abbastanza chiari, ossia l’implementazione di tecnologie per i display basate sull’impiego di polimeri flessibili21 e la diffusione della connettività wireless.

La terza direttrice, quella del mobile computing, costituisce in un certo senso lo sfondo su cui si va a inserire il fenomeno dell’e-book. La diffusione dei dispositivi mobile è incominciata verso la metà degli anni Novanta e si ritiene che saranno utilizzati su larga scala appena si integreranno con i telefoni cellulari di terza generazione. Sono strumenti multifunzionali, che permetteranno all’utente di svolgere varie operazioni e utilizzare funzioni attualmente deputate ai tradizionali personal, di connettersi alla rete ad alta velocità da qualunque luogo e in ogni momento, grazie all’impiego delle tecnologie di trasmissione wireless, e di leggere un qualsiasi e-book.

In sostanza, in questi ultimi anni stanno maturando gli elementi che consentiranno l’apertura di un mercato reale dell’e-book. I motivi li riassumiamo qui di seguito.

Per prima cosa i notevoli progressi compiuti dal punto di vista della miniaturizzazione e dell’integrazione dei componenti hardware hanno consentito la realizzazione dei computer «tascabili» (i sub-notebook), che ormai sono paragonabili ai tradizionali desktop per funzionalità e capacità, e soprattutto dei dispositivi palmari. In altre parole, grazie a tali sviluppi sono attualmente disponibili una serie di apparecchi, mono o multifunzionali, di gran lunga migliori rispetto ai primi prototipi sotto il profilo dell’ergonomia e della versatilità, in grado di consentire un’esperienza di lettura molto più confortevole rispetto a quella che avviene tramite lo schermo di un personal computer tradizionale.

Contemporaneamente si è avuto un certo sviluppo di sistemi per la creazione, la distribuzione e la fruizione dei contenuti in formato digitale, e la messa a punto di piattaforme tecnologiche per garantire la protezione del copyright dell’opera d’ingegno in versione elettronica (Drm: Digital Right Management), punto quest’ultimo di cruciale importanza per convincere gli editori a rendere disponibili alcuni titoli del loro catalogo in formato e-book.

Infine, si faceva un grande passo avanti con il perfezionamento delle tecniche per la visualizzazione su schermo dei caratteri: le tecnologie di sub-pixel font rendering22, come Cleartype di Microsoft e Cooltype di Adobe.

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I formati di codifica: alla ricerca di uno standard

La questione dei formati di codifica che possono essere adottati in una pubblicazione digitale è una tra le più delicate e importanti che si stanno affrontando in questi ultimi anni, poiché dalla loro scelta dipende sia la capacità di rappresentare in modo esaustivo ogni tipo di contenuto, sia l’accessibilità da parte di chiunque.

Da questo punto di vista il libro tradizionale, pur nella sua estrema variabilità, è uno strumento dotato di un’ottima capacità di rappresentazione del testo, di un’estrema facilità d’uso e, soprattutto, di immediata accessibilità, senza alcun limite di spazio e di tempo.

Al contrario, i documenti in versione elettronica necessitano, per essere fruiti, di specifici dispositivi hardware e software, che spesso si basano su piattaforme e soluzioni tecnologiche incompatibili e sono soggetti a un’obsolescenza rapidissima. I rischi che tutto ciò comporta sono evidenti sia in termini di diffusione universale e di archiviazione a lungo termine del sapere, sia per la nascita e l’affermazione di un mercato dei prodotti culturali in versione elettronica23.

E proprio per risolvere tali problemi si cerca di stabilire e favorire l’adozione di sistemi standard24.

I processi che portano alla creazione di uno standard sono molteplici. A volte una tecnologia sviluppata da un certo produttore è talmente efficiente nello svolgere le funzioni per cui è stata implementata da guadagnare la fiducia e il consenso generale degli utenti, diventando così uno standard de facto; tuttavia una standardizzazione avvenuta in questo modo comporta spesso dei problemi, sia perché richiede lunghi tempi di incertezza, sia perché lo standard così ottenuto, essendo proprietà intellettuale di un singolo produttore, finisce per occupare una posizione di monopolio (tipica è quella della Microsoft), che alla lunga comporta svantaggi commerciali per gli utenti e rallenta lo sviluppo tecnologico. Senza contare poi che la rapida obsolescenza tipica dei prodotti di questo settore può portare in pochi anni alla sostituzione del precedente formato chiuso e proprietario con una nuova tecnologia, rendendo inaccessibili i contenuti digitalizzati fino a quel momento, e imponendo per il loro recupero e la loro preservazione a lungo termine costosi e difficili processi di conversione.

Al contrario iniziative di standardizzazione esplicite, portate avanti da enti pubblici o privati, portano alla creazione di standard sufficientemente stabili. Si creano formati aperti, non implementati e controllati da una singola casa produttrice (attenta principalmente alla tutela dei propri interessi economici), formati che sono il risultato di un pubblico dibattito all’interno di una comunità cui appartengono sviluppatori, studiosi di settore, utenti e, in generale, ogni soggetto interessato.

Attualmente due diversi formati si contendono il primato nel settore dell’e-book: il primo è stato sviluppato dall’Open eBook Forum (Oebf), ente di cui fanno parte importanti aziende informatiche ed editoriali, centri di ricerca e singoli esperti del settore; il secondo è il più noto Pdf (Portable Document Format) realizzato da Adobe.

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L’Open eBook Forum: il formato Oeb

L’unico standard aperto e non proprietario del settore degli e-book è il formato Oeb, sviluppato dall’Open eBook Forum, un’organizzazione internazionale senza scopo di lucro fondata con lo scopo di sviluppare e affermare standard tecnologici e pratiche condivise nel settore dell’e-book25. L’Oebf riunisce società produttrici di hardware e software (tra cui Microsoft, Adobe, Ibm, Gemstar, Franklin Electronic Publishers, Nokia, Palm, Versaware), numerose case editrici (come Time Warner, Random House, McGraw-Hill, HarperCollins, Mondadori e Somedia del Gruppo L’Espresso), enti e associazioni (la Library of Congress, l’Association of American Publishers), centri di ricerca, autori, singoli esperti e utenti.

Il 16 settembre del 1999, l’Open eBook Authoring Group ha rilasciato la versione 1.0 dell’Open eBook Publication Structure Specification26 aggiornata poi negli anni successivi fino alla release 1.2 del 2002. Si tratta di un manuale che definisce il linguaggio di codifica in base al quale rappresentare il contenuto di un libro elettronico, fornendo congiuntamente una serie di raccomandazioni e norme applicative. Il fine con cui tale documento è stato redatto è quello di fornire ai content provider (ossia i fornitori di contenuti, come editori, autori e simili) e ai produttori dei dispositivi di lettura hardware e software, alcune linee guida minime e comuni che assicurino «fedeltà, accuratezza, accessibilità e visualizzazione del contenuto elettronico sulle diverse piattaforme e-book». Si tratta insomma del tentativo di definire uno standard comune, affinché tutti i libri elettronici, da chiunque vengano prodotti, siano leggibili su qualsiasi piattaforma. Grazie alla sua adozione, i fornitori di contenuti potrebbero produrre e-book senza doversi preoccupare delle differenze tecniche esistenti fra i dispositivi di lettura, mentre gli utenti avrebbero la possibilità di accedere a ogni titolo pubblicato in forma digitale, indipendentemente dal programma di visualizzazione che usano o preferiscono.

Lo standard Oeb è stato creato utilizzando la sintassi di Xml27, che consente di generare dei linguaggi di markup, basati cioè sull’uso di tag (o marcatori) che definiscono la struttura logica di un testo contenuto nei documenti elettronici, in modo da segnalare a un browser come deve essere trattata una determinata informazione. Utilizza inoltre i metadati Dublin Core28 per associare al testo codificato le informazioni descrittive e bibliografiche. Per quanto riguarda i contenuti non verbali, attualmente si limita alle sole immagini29.

I vantaggi dell’adozione di tale formato sono evidenti. In primo luogo si tratta di uno standard aperto e non proprietario; inoltre, a differenza del Pdf, che sposa l’idea di una rappresentazione a schermo fedele alla pagina del libro cartaceo, si concentra sulla strutturazione logica del documento. D’altra parte, Oeb è nato esplicitamente per creare un linguaggio di codifica standard con cui rappresentare il contenuto di un libro elettronico su un dispositivo di lettura diverso dalla carta. Se concepiamo l’e-book in tal modo, cioè come un testo in versione digitale da fruire su un apposito device, non si può sapere a priori la grandezza dello schermo su cui l’utente lo leggerà. Per questo motivo è di fondamentale importanza che i contenuti siano organizzati in modo da potersi adattare fluidamente a qualsiasi tipo di dispositivo di lettura senza che ciò comporti alcuna perdita.

Tuttavia non mancano alcuni limiti: l’integrazione di oggetti multimediali è ancora ridotta e non sono stati previsti meccanismi per garantire la protezione del copyright.

Il formato Oeb può essere letto su un normale computer con qualsiasi sistema operativo, tramite un programma di browsing recente (come le versioni 4 o successive di Internet Explorer o Netscape). Tuttavia, questa modalità di visualizzazione è piuttosto scomoda, dato che fa sì che il libro elettronico si legga come una normale pagina web, rinunciando a molte delle caratteristiche proprie dell’interfaccia software di un e-book. Al momento, dispositivi di lettura software in grado di visualizzare direttamente un libro elettronico in formato Oeb sono eMonocle della IONSystems30 e Mentoract Reader della Globalmentor31. Entrambi questi programmi sono realizzati in Java e possono quindi essere utilizzati su diverse piattaforme (Windows, Mac, Linux…) per le quali sia disponibile una Java Virtual Machine. In fase di sviluppo c’è anche un reader prodotto da Libergnu, iniziativa promossa dall’associazione culturale Liber Liber in collaborazione con il progetto GNUtemberg32, nell’intento di aiutare gli sviluppatori e i programmatori, che aderiscono alla linea di pensiero del manifesto GNU di Richard Stallman, a realizzare un software con licenza GNU GPL per creare, manipolare e visualizzare e-book in formato .oeb (o in qualsiasi altro formato comunque libero)33.

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Pdf: il Portable Document Format di Adobe

Il Pdf è un formato di codifica proprietario34 per la rappresentazione e la distribuzione di documenti su supporto digitale, introdotto sul mercato dalla Adobe nel 199435. Gli operatori del settore editoriale che desiderano lavorare con una soluzione professionale estremamente affidabile per la pre-stampa e per la circolazione di documenti on line, utilizzano questo formato già da svariati anni. Il Pdf è inoltre molto diffuso anche nell’intero mondo aziendale, perché rappresenta un ottimo strumento per distribuire contenuti di manualistica e di letteratura tecnica; nel maggio 2000 l’Ansi (l’ente di standardizzazione americano) l’ha approvato come standard.

Tale formato deriva dal PostScript, un linguaggio sviluppato sempre dalla Adobe per la gestione delle stampanti professionali; la sua peculiarità consiste nel mantenere perfettamente i caratteri, la formattazione, i colori e le immagini del documento di origine, indipendentemente dall’applicazione e dalla piattaforma utilizzate per crearlo. Per la visualizzazione l’Adobe ha creato Acrobat Reader, un programma leggero e di facile utilizzo, distribuito gratuitamente e liberamente ridistribuibile, disponibile su varie piattaforme come Windows, Mac Os e Linux.

Inoltre, il formato Pdf supporta in modo nativo un efficiente sistema di cifratura, basato su un metodo di crittografia asimmetrica36 o a doppia chiave. Si tratta di un meccanismo cruciale per proteggere i materiali coperti da copyright pubblicati on line. A tal proposito, è opportuno sottolineare che quando si compra un libro elettronico, quello che in realtà viene acquistato non è tanto il file digitale corrispondente, ma una licenza, che consiste appunto in una chiave software personalizzata, che permette di decrittare il file Pdf cifrato in cui il libro vero e proprio è contenuto. In altre parole, a pagamento effettuato, un piccolo file di decrittazione (Rmf) viene trasferito dal server dell’editore a una directory di sistema del computer del cliente. Il download dell’e-book può infatti avvenire anche indipendentemente dall’acquisto. Tuttavia, trattandosi di un file protetto da crittografia, non può essere visualizzato fino a quando la transazione non è ultimata con il rilascio della relativa licenza dietro pagamento. Facendo un parallelo con il mondo fisico, è come se i libri tradizionali fossero a disposizione di tutti, ma serrati ermeticamente con un lucchetto che si apre solo con una chiave speciale, diversa per ogni copia. Se non la si acquista, il libro è del tutto inutilizzabile. È quindi la coppia di file Pdf/Rmf che rappresenta il documento consultabile vero e proprio. Qualora si verifichi una cancellazione accidentale della licenza, ciò non costituisce un problema, perché Acrobat ne memorizza una copia nella cartella del sistema operativo e, quando si va ad aprire il relativo file Pdf, ricostruisce automaticamente l’Rmf corrispondente.

Il vero problema consiste invece nel fatto che la licenza viene costruita in base a delle caratteristiche ben precise del computer dell’utente, come il numero di serie del processore, oppure del disco rigido, o di entrambi. Ogni volta che si apre l’e-book, la decifrazione avviene «al volo» verificando i numeri di serie dell’hardware prestabilito. Se non sono più gli stessi, l’operazione fallisce. Ciò significa che il libro elettronico può essere letto esclusivamente sul dispositivo fisico tramite cui è stato acquistato. Se vengono cambiate le caratteristiche tecniche in base alle quali la chiave è stata costruita (ad esempio si aggiorna il processore, o l’hard-disk, come comunemente si fa ogni due o tre anni), il libro diventa di nuovo impenetrabile.

Nel complesso il sistema Drm della Adobe risulta piuttosto flessibile nonostante i limiti dovuti alla creazione di chiavi individuali dipendenti dall’hardware installato e dalla sua configurazione. Anche perché la politica delle licenze è in realtà a discrezione dell’editore (o comunque del content provider). È l’editore a decidere dei criteri più o meno restrittivi (ad esempio se rilasciare o meno più chiavi all’utente, oppure se e in quale misura consentire la stampa del documento, il prestito, ecc.).

Inoltre, nel giugno 2002 Adobe ha rilasciato la versione 3.0 di Adobe Content Server, introducendo importanti novità: con l’adozione di tale sistema, le biblioteche possono prestare e distribuire testi in formato Adobe Pdf e i content provider offrire a consumatori e dipendenti abbonamenti digitali a contenuti in formato Adobe Pdf. In sintesi, per quanto riguarda le biblioteche, i libri elettronici sono automaticamente registrati in entrata e in uscita e possono essere integrati con il sistema di catalogazione, semplificandone la gestione. Si possono stabilire a propria discrezione delle licenze di utilizzo, ad esempio che gli e-book scadano dopo un determinato intervallo di tempo. Al termine del prestito, l’e-book viene automaticamente disabilitato dal personal computer del cliente e ritorna nel catalogo della biblioteca. Da parte sua l’utente può, attraverso l’interfaccia web della biblioteca, richiedere e ricevere libri in formato elettronico, scaricarli sul proprio Pc, senza dover restare connesso a Internet per la lettura.

Rispetto allo standard Oeb, il Pdf gode di alcuni indubbi vantaggi. Il più importante è la capacità di integrare contenuti multimediali (come filmati e clip audio), grafica vettoriale e moduli interattivi. Inoltre, possiede una migliore capacità espressiva sia dal punto di vista della grafica sia dell’impaginazione del testo, e supporta anche link ipertestuali con le pagine web (oltre che internamente al documento).

Il limite del Pdf è invece la sua intrinseca rigidità (elemento dal duplice risvolto, visto che è stato anche il motivo principale del suo grande successo), ma soprattutto il fatto che si concentra esclusivamente sugli aspetti formali e presentazionali di un documento, e non sulla sua struttura logica. La sua base è infatti il PostScript, cioè un linguaggio di descrizione della pagina, non del contenuto. La conseguenza è l’incapacità di gestire il page flow in modo dinamico: ciò significa che la distribuzione del testo nelle diverse pagine del documento rimane fissa, anziché adattarsi alle dimensioni e alla risoluzione dello schermo.

Per superare questi problemi sono già disponibili alcuni sistemi (e altri se ne stanno studiando) in grado di associare meta-informazioni ai file Pdf37.

Inoltre, non si tratta di uno standard aperto e pubblico, anche se è diffusissimo in tutto il mondo, ma di un formato chiuso e proprietario, e abbiamo già visto in precedenza i rischi a cui si va incontro in tali casi. Sarebbe auspicabile una compatibilità diretta con lo standard Oeb. Al momento, la conversione dal formato Oeb al formato Pdf continua a richiedere strumenti piuttosto costosi o di difficile utilizzo.

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«E-paper» ed «e-ink»: il futuro?

Nei laboratori della Xerox Parc e del Media Lab di Boston si lavora da svariati anni alla progettazione di supporti veramente rivoluzionari: l’electronic paper e l’electronic ink. L’idea di fondo di queste ricerche è riuscire a realizzare un supporto di visualizzazione flessibile, leggero e sottile come la carta vera e propria, ma in grado di svolgere tutte le funzioni di output visivo proprie dei normali monitor a tubo catodico o a cristalli liquidi. In poche parole, si punta a realizzare una specie di foglio riscrivibile all’infinito, dotato per di più di tutte le qualità tattili della carta vera e propria.

Queste tecnologie sono in parte già disponibili sul mercato, ma alcuni limiti tecnici e il loro costo ancora eccessivo le rendono inadatte a porsi per il momento come validi sostituti agli schermi tradizionali.

La storia dell’e-paper38 inizia negli anni Settanta, quando a Palo Alto Nick Sheridon incominciò a studiare delle soluzioni alternative ai monitor per visualizzare gli output di un computer. Tuttavia le sue idee furono messe da parte dai dirigenti della Xerox fino ai primi anni Novanta, periodo in cui si è riacceso l’interesse per la carta elettronica.

Un foglio di e-paper si basa sulla tecnologia Gyricon: si tratta di un sottile strato di plastica trasparente, che utilizza minuscole sfere, per metà di un colore chiaro e per metà scuro (ad esempio bianco e nero, o bianco e rosso), caricate elettricamente. Applicando una corrente elettrica, esse ruotano in un verso o in un altro. L’effetto di molte sfere permette di visualizzare forme, e quindi caratteri, che resteranno impressi sul foglio finché non viene applicato un nuovo voltaggio. Finora sono stati messi a punto alcuni prototipi capaci di visualizzare testo e immagini in bianco e nero, sia in modo semi-permanente, tramite una sorta di stampante che carica elettricamente i fogli di e-paper, sia in modo dinamico, funzionanti cioè come veri e propri monitor di Pc. In sostanza un foglio Gyricon è elettricamente scrivibile e cancellabile, può essere riutilizzato migliaia di volte e opera con poca energia39.

Nello stesso periodo in cui alla Xerox sono riprese le ricerche sull’e-paper, al Media Lab il fisico Joseph Jacobson ha iniziato a lavorare a un progetto di inchiostro elettronico (e-ink)40. Dopo mille difficoltà tecniche, insieme ai suoi collaboratori è riuscito a sviluppare un prototipo perfettamente funzionante.

L’e-ink è costituito da milioni di microcapsule, riempite di liquido blu e avvolte da un involucro trasparente. Nel liquido sono immerse delle microscopiche particelle bianche, caricate positivamente. Le microcapsule sono inserite fra due strati, di cui uno trasparente. Applicando un opportuno potenziale elettrico a ogni singola microcapsula, si possono generare delle forme bianche su sfondo blu e viceversa.

La società di sviluppo del prodotto41 guidata da Jacobson, sulla quale hanno investito aziende informatiche del calibro di Ibm e Lucent, ha già commercializzato i primi prodotti basati sull’e-ink: si tratta di grandi cartelloni pubblicitari controllati a distanza grazie a un apparato di comunicazione wireless.

Le applicazioni pratiche di queste tecnologie sono per il momento abbastanza circoscritte, ma la ricerca mira a realizzare fogli di carta elettronica ad alta definizione e a colori. Molti esperti pronosticano che nel giro di una decina di anni l’e-paper sostituirà la carta tradizionale nella maggior parte delle sue funzioni. Arriveremo molto probabilmente a possedere giornali, libri, riviste, costituiti da alcuni fogli di carta elettronica, in grado di visualizzare testi, immagini, video e di collegarsi alla rete in modalità wireless42.

Dispositivi di questo genere, quando arriveranno allo stadio della distribuzione commerciale, forniranno ai testi elettronici un’interfaccia di lettura molto simile a quella del libro a stampa. Con un ulteriore vantaggio, rappresentato dal risparmio dei consumi: mentre un tradizionale monitor consuma energia senza interruzione per mantenere le informazioni in video, tecnologie come l’e-ink e l’e-paper consumano energia solo quando si carica nuova informazione (in sostanza, solo quando «si cambia pagina»), aumentando così notevolmente l’autonomia del dispositivo di lettura.

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1. Cos’è l’usabilità

Lo standard Iso/Iec 9126 definisce l’usabilità come «la capacità del software di essere compreso, appreso, usato e gradito dall’utente quando usato in determinate condizioni»2.

Lo standard Iso 9241-11, invece, definisce l’usabilità come «il grado in cui un prodotto può essere usato da classi di utenti per raggiungere specifici obiettivi con efficacia, efficienza e soddisfazione in un contesto d’uso determinato»3.

In sintesi possiamo dire che, per essere usabile, un prodotto deve:

– essere adeguato ai bisogni e alle aspettative degli specifici utenti finali che lo usano in diverse, determinate condizioni;

– risultare facile da capire, da imparare, da usare, ed essere gradevole;

– consentire di eseguire le specifiche attività lavorative in modo corretto, veloce e con soddisfazione;

– generare pochi errori non critici.

L’usabilità va ricercata seguendo due principi fondamentali4:

– compatibilità cognitiva uomo-computer: un’interfaccia deve essere non solo fisicamente compatibile con le caratteristiche della percezione e dell’azione umana, ma deve essere anche cognitivamente compatibile con le caratteristiche della comunicazione, della memoria e della soluzione di problemi umani;

– contestualità del compito: l’azione degli esseri umani non può essere presa in considerazione senza fare riferimento al contesto generale in cui essa si svolge, poiché l’agire nasce, appunto, dall’incontro dell’attore umano con l’ambiente.

Obiettivo finale dell’usabilità è quello di rendere la tecnologia sottostante invisibile, trasparente all’utilizzatore, il quale deve potersi concentrare esclusivamente sul compito, anziché sul mezzo.

L’evoluzione del concetto di usabilità

L’evoluzione del concetto di usabilità è parallela a quella dei prodotti software e del tipo di utenti dei sistemi5.

Prima del 1980, l’usabilità non è necessaria

Fino agli anni Ottanta, il software veniva prodotto ma anche utilizzato quasi esclusivamente dagli ingegneri informatici. Se l’utente di un sistema è la stessa persona che lo ha sviluppato, ovviamente l’usabilità è un problema che non esiste, dato che modello del progettista e modello dell’utente coincidono.

La maggiore diffusione di computer, anche se solo fra addetti ai lavori, dà comunque l’avvio alla riflessione sull’interazione uomo-macchina.

In quegli stessi anni nasceva infatti la Human Computer Interaction (Hci), una scienza che cercava di capire e aiutare le persone a interagire con e per mezzo della tecnologia. La serie di studi che costituiscono la pietra miliare dell’Hci venne allora definita «Psicologia del software». Obiettivo di questa disciplina era quello di provare l’utilità di un approccio comportamentale alla comprensione del design del software, della programmazione e dell’uso dei sistemi interattivi, producendo una descrizione generale dell’interazione uomo-macchina che fosse riassumibile in linee guida per gli sviluppatori.

Anni Ottanta, i laboratori di usabilità

Nel 1983 la Apple realizza il primo personal computer con interfaccia grafica e mouse destinato alla diffusione su larga scala; l’introduzione sempre crescente del computer fa sorgere contemporaneamente i primi problemi di usabilità: gli utenti non appartengono infatti più alla stessa classe degli informatici e non hanno competenze comuni con i progettisti.

Con l’insorgere delle prime difficoltà di utilizzo si verificano i primi episodi di rifiuto della nuova tecnologia: del resto, gli alti costi per la formazione, e i mancati successi di molte esperienze di automazione di uffici non accelerano il processo di familiarizzazione. Per ovviare a questi inconvenienti e a questi rifiuti, vengono allestiti i primi laboratori di usabilità: obiettivo principale era quello di testare i prodotti con utenti potenziali prima del lancio commerciale.

Lo studio dell’usabilità assunse subito un carattere prettamente empirico: il metodo utilizzato veniva definito «design iterativo» e consisteva nella realizzazione di prototipi sui quali venivano condotti test di usabilità, che a loro volta indicavano le modifiche da effettuare per migliorare il progetto. Questi studi diedero l’impulso alla creazione di linee guida sulla base delle quali la progettazione di un’interfaccia poteva garantire al prodotto finale i requisiti di usabilità.

Questo nuovo approccio venne ben presto largamente accettato e in molti si convinsero della necessità di progettare mediante l’utilizzo di prototipi. Ne consegue che la partecipazione degli utenti alla progettazione aumentò e il metodo della prototipazione rapida divenne, di fatto, uno standard. In considerazione di questo approccio pratico alla soluzione dei problemi, si cominciò a parlare di «ingegneria dell’usabilità».

Fine anni Ottanta-inizio anni Novanta, design iterativo

L’ingegneria dell’usabilità introdusse tre nozioni chiave:

– venne proposto che la progettazione iterativa venisse condotta inseguendo obiettivi pratici definiti e misurabili, detti «specifiche di usabilità»;

– si cercò di ampliare il campo d’azione degli studi empirici e delle tecniche di design cooperativo, per arrivare a definire un nuovo approccio, detto anche «design contestuale», che tenesse conto sempre più dei bisogni dell’utente e del contesto reale in cui il prodotto veniva utilizzato, data la sterilità dei risultati ottenuti in laboratorio in condizioni decontestualizzate;

– la terza nozione chiave dell’ingegneria dell’usabilità divenne il rapporto costo/ricavo; infatti, uno dei problemi maggiori dei metodi di progettazione iterativa consisteva appunto negli alti costi che i vari cicli di riprogettazione richiedevano.

Nel 1986 viene pubblicato il libro di Norman e Draper User Centered System Design: New Perspectives on Human-Computer Interaction6: vi si nota che l’utente non può essere preso come individuo isolato, ma come soggetto che appartiene a una cultura e a una organizzazione specifica: la fruizione della tecnologia è influenzata dal contesto all’interno del quale avviene il suo utilizzo. Per questi motivi l’introduzione di linee-guida sul fattore umano o la definizione di specifiche generiche non poteva portare a una effettiva usabilità dei prodotti.

Con il modello user centered7, che inizia ad affermarsi su larga scala tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, si riconosce l’importanza non solo delle capacità e dei vincoli fisici e cognitivi dei singoli utenti, ma anche delle relazioni culturali, sociali e organizzative, nonché degli artefatti cognitivi distribuiti nell’ambiente che influenzano il modo di lavorare dell’uomo.

Anni Novanta, design partecipativo

La consapevolezza dei costi e degli sforzi di formazione, nonché l’alto numero di errori generati dall’interazione, costringe sempre di più gli sviluppatori a mettere l’utente e le sue esigenze al centro della progettazione.

Dal diretto coinvolgimento degli specialisti si passa al diretto coinvolgimento degli utenti. L’utente partecipa a tutte le fasi definitorie del processo, assumendo in qualche modo il ruolo di corresponsabile, insieme con il progettista, del prodotto finito. La produzione del software non è più un processo lineare, ma tende sempre più a essere un processo iterativo, attraverso cui si perviene al risultato finale grazie agli aggiustamenti successivi guidati dalla continua verifica delle reazioni e delle esigenze dell’utente finale.

Il concetto di usabilità oggi

Attualmente il concetto di usabilità subisce delle ulteriori trasformazioni dovute all’ingresso nella discussione sull’Hci di figure nuove, provenienti dall’antropologia e dalle scienze sociologiche, che dirigono l’attenzione verso orizzonti più ampi.

Sono emersi problemi nuovi, legati non più all’aspetto tecnico ma alle implicazioni di carattere sociale, alle relazioni di potere tra utilizzatori di status diverso e al pericolo che l’esasperazione dell’usabilità possa portare a un impoverimento dei compiti e delle qualifiche richieste ai lavoratori.

Ciò implica un mutamento della definizione di utente da «fattore umano» (tradizionalmente inteso come agente passivo e spersonalizzato) ad «attore umano»: un individuo attivo, capace di controllo e scelta. L’esigenza diventa, perciò, quella di abbandonare la ricerca di tecniche e linee guida valide per tutti, in qualsiasi occasione, e di accettare di confrontarsi con la complessità che deriva dalla progettazione di strumenti dedicati a persone diverse tra loro, ognuna impegnata sui propri obiettivi e immersa nel proprio ambiente.

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2. I tre settori dell’usabilità

Tre sono i settori dell’usabilità: l’architettura informativa, la progettazione dell’interfaccia e l’analisi dei flussi interattivi.

L’architettura informativa8

L’architettura informativa (o «infodesing») di un prodotto multimediale interattivo disegna la mappa informativa che permette agli utenti di trovare il proprio percorso personale verso la conoscenza, rendendo chiara la complessità. L’infodesign:

– determina quali contenuti e funzioni deve avere il prodotto;

– specifica come gli utenti saranno in grado di raggiungere le informazioni all’interno del prodotto, definendone l’organizzazione, la navigazione, il naming e il sistema di ricerca;

– chiarisce la mission e la vision del prodotto, bilanciando le esigenze dei produttori con quelle degli utenti;

– prevede come il prodotto possa evolvere e crescere nel corso del tempo.

Gli utenti notano l’architettura informativa di un sistema solo quando funziona male; quando non la notano, significa che si sposa perfettamente con la loro mappa concettuale: l’informazione è quindi ben strutturata.

La progettazione dell’interfaccia grafica9

Il design di un prodotto informatico interattivo deve tenere conto non solo dell’estetica dell’interfaccia, ma anche e soprattutto delle norme grafiche di usabilità e leggibilità derivate dalle scienze percettive e cognitive.

L’aumentata capacità di calcolo dei sistemi informatici e la sempre più ampia larghezza di banda disponibile per i sistemi in rete lasciano molto più spazio alla creatività dei designer. Sempre più spesso però assistiamo a delle vere e proprie «indigestioni multimediali»: main menu di CdRom o home page di siti web colme di immagini, loghi, animazioni e testi, collocati insieme senza alcuna gerarchia informativa, con l’unico risultato di disorientare l’utente.

Dall’altro lato, una buona interfaccia grafica non sempre deve essere graficamente essenziale: importante è che sia un’interfaccia strutturata e ordinata, nella quale ogni elemento grafico abbia il suo posto in funzione della gerarchia percettiva riservata.

Nella progettazione dell’interfaccia grafica convergono dunque più competenze e discipline di studio: dal graphic design alla psicologia percettiva, allo studio dei linguaggi e dei software di sviluppo.

L’analisi dei flussi interattivi

Lo studio delle interazioni uomo-macchina collega l’usabilità con l’ergonomia e con la Hci (Human Computer Interaction).

L’ergonomia è lo studio dell’interazione uomo-strumenti-ambiente nel suo complesso. La Società italiana di ergonomia la definisce come «un corpus di conoscenze interdisciplinari in grado di analizzare, progettare e valutare sistemi semplici o complessi in cui l’uomo figura come operatore o utente. Persegue coerenza e compatibilità tra il mondo che ci circonda – oggetti, servizi, ambienti di vita e di lavoro – ed esigenze di natura psicofisica e sociale, anche con l’obiettivo di migliorare l’efficienza e l’affidabilità dei sistemi».

Molto simile a quella di ergonomia è la definizione di Hci che si ritrova nel capitolo 2 del Curricula for HCI dello Special Interest Group on Computer-Human Interaction (Sigchi): «l’interazione uomo-calcolatore è una disciplina che riguarda la progettazione, la valutazione e l’implementazione di sistemi interattivi per l’uso da parte degli esseri umani e lo studio dei più importanti fenomeni ad essi collegati».

La differenza tra l’ergonomia cognitiva e l’Hci riguarda l’ambito di intervento. Infatti, mentre l’ergonomia spazia su oggetti, servizi, ambienti di vita e di lavoro, l’Hci si focalizza principalmente sui sistemi ipermediali.

Per quanto riguarda l’usabilità, l’analisi dei flussi interattivi si svolge attraverso l’applicazione dell’user centered design all’interno del ciclo di sviluppo del prodotto ipermediale, con varie tecniche di indagine sperimentale e analisi esperta.

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3. Principi del buon design10

Fornire un buon modello concettuale del sistema

Un buon modello concettuale permette di prevedere gli effetti delle azioni. Senza un modello adeguato si può operare meccanicamente, alla cieca. Finché le cose funzionano come si deve, non si hanno problemi. Ma quando sorge un imprevisto o una situazione nuova, ecco che si ha bisogno di una migliore comprensione: un modello concettuale del sistema.

Il modello progettuale è il modello concettuale del progettista.

Il modello dell’utente è il modello mentale sviluppato attraverso l’interazione con il sistema.

L’immagine del sistema risulta dalla struttura fisica che è stata costruita, la parte visibile del dispositivo.

Il progettista si aspetta che il modello dell’utente sia identico al (proprio) modello progettuale. Ma il progettista, anche se dovrebbe, non parla direttamente con l’utente; tutta la comunicazione avviene attraverso l’immagine del sistema. E quindi, se l’immagine del sistema non rende chiaro e coerente il modello progettuale, l’utente potrebbe formarsi un modello mentale sbagliato.

Rendere visibili le cose

La visibilità funge da efficace richiamo mnemonico di ciò che si può fare e permette a ogni tipo di comando di rendere chiaro all’utente come deve essere eseguita l’azione. La relazione trasparente e motivata fra la posizione del comando e la funzione cui assolve permette all’utente di trovare facilmente il comando giusto per la manovra da eseguire.

Il che significa che in questi casi l’utente non ha bisogno di imparare e ricordare le funzioni dei singoli comandi.

I problemi causati dall’insufficiente attenzione alla visibilità si possono verificare anche su apparecchi a noi particolarmente familiari, come il telefono. Le corrispondenze spesso sono davvero arbitrarie, dato che non c’è senso alcuno nella relazione fra le azioni da eseguire e i risultati che si ottengono. Ad esempio, per accedere alla casella vocale può essere richiesto di «digitare cancelletto, quattro, cinque, sei, proprio codice segreto, cancelletto». Perché questa e non un’altra sequenza numerica?

I rapporti fra le intenzioni dell’utente, le azioni richieste e i risultati finali sono completamente arbitrari. I comandi hanno funzioni multiple.

Inoltre non c’è quasi mai un’adeguata informazione di ritorno, per cui l’utente non è mai certo di aver ottenuto il risultato sperato. Il sistema, in generale, non è comprensibile; le sue capacità non sono evidenti.

Ogni volta che il numero delle azioni possibili eccede il numero dei comandi, è facile che ci siano difficoltà.

Il «mapping»

Mapping è un termine tecnico usato per indicare la relazione fra due cose, in questo caso fra i comandi e il loro azionamento e i risultati che ne derivano nel mondo esterno. Un mapping naturale, che cioè sfrutta analogie fisiche o modelli culturali, porta alla comprensione immediata. Per esempio, il progettista può utilizzare l’analogia spaziale: per sollevare un oggetto, muovere il comando verso l’alto. Alcune di queste correlazioni naturali sono di natura culturale, convenzionale o biologica, come il modello universale secondo cui un livello che sale rappresenta un aumento e quindi un più. Altre correlazioni derivano dai principi della percezione: ad esempio il blu è percepito istintivamente come un colore di sfondo, il rosso come un colore di primo piano; o, ancora, l’occhio è attirato dal movimento e nota prima la luminosità di un oggetto che il suo colore.

Il feedback

Il feedback è l’informazione di ritorno che dice all’utente quale azione ha effettivamente eseguito e quale risultato si è realizzato. Si tratta di un concetto ben noto nella cibernetica e nella teoria dell’informazione. Immaginate di cercare di parlare a qualcuno senza poter udire la vostra voce o di disegnare con una matita che non lascia segni: non ci sarebbe nessun feedback e quindi non sareste in grado di regolare il vostro volume di voce o controllare la correttezza del tratto.

Un dispositivo è facile da usare quando c’è visibilità dell’insieme delle azioni possibili, quando i quadri di comando e controllo sfruttano correlazioni naturali, quando c’è un’informazione di ritorno che tiene al corrente l’utente dello stato del sistema.

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4. I cinque aspetti della «usability»11

L’usabilità è una caratteristica «pluridimensionale» di un’interfaccia, con una moltitudine di diverse componenti tradizionalmente associate con 5 aspetti fondamentali:

Learnability: il sistema deve essere semplice da imparare in modo che l’utente possa velocemente iniziare a lavorarci.

Efficiency: il sistema deve essere efficiente da utilizzare in modo che, una volta imparato, l’utente possa raggiungere un alto livello di produttività.

Memorability: il sistema deve essere facile da ricordare, in modo che l’utente casuale sia in grado di tornare a utilizzare il sistema anche dopo un lungo periodo di inutilizzo, senza la necessità di dover nuovamente imparare qualcosa.

Error: il sistema deve avere un basso livello di induzione all’errore, in modo che gli utenti compiano solo pochi errori durante l’utilizzo. E soprattutto deve essere sempre possibile tornare indietro velocemente da percorsi errati (non devono esistere errori di percorso irreversibili).

Satisfaction: il sistema deve essere soddisfacente per l’utente che l’utilizza.

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5. I principi di usabilità12

Realizzare un dialogo semplice e naturale

Il linguaggio utilizzato a livello di interfaccia deve essere semplice e familiare per l’utente e rispecchiare i concetti e la terminologia a lui noti; vanno evitati il più possibile un linguaggio tecnico e orientato al sistema che utenti non esperti di informatica possono non comprendere: non vanno utilizzate parole come, per esempio, default, directory, o frasi del tipo «documento.zip trasferibile via ftp».

Semplificare la struttura dei compiti

I compiti o le attività che l’utente deve svolgere in interazione con il sistema devono avere una struttura semplice o devono essere semplificati.

Donald Norman suggerisce quattro diversi approcci per semplificare i compiti:

– mantenere il compito invariato, ma offrire sussidi mentali;

– usare la tecnologia per rendere visibile quello che altrimenti sarebbe invisibile, offrendo sussidi esterni (che supportano le capacità cognitive dell’utente per non costringerlo a ricordare tutto a mente) e feedback (che consentono all’utente di controllare le componenti non visibili del sistema, al fine di verificarne l’adeguato funzionamento);

– automatizzare alcune sue parti (quelle più rischiose, ripetitive o complicate), mantenendo il compito sostanzialmente invariato;

– cambiare la natura del compito: l’obiettivo rimane lo stesso ma il modo in cui viene raggiunto è totalmente diverso.

Favorire il riconoscimento piuttosto che il ricordo

Osservando l’interfaccia, l’utente deve poter capire cosa deve fare, come può farlo e, una volta eseguita una azione, deve poter riconoscere cosa è successo e quali sono stati i risultati.

Dal momento che è più facile riconoscere e ricordare una cosa vedendola direttamente, piuttosto che recuperare l’informazione dalla memoria, il modo più semplice per agevolare l’utente è quello di rendergli visibili le opzioni e le operazioni sull’interfaccia, ovvero fornirgli dei sussidi esterni che gli agevolino il ricordo.

Il modo migliore per favorire il ricordo è dato dalla facilitazione nella comprensione effettiva, da parte dell’utente, del modello concettuale del prodotto e della sua interazione. Per facilitare la comprensione del modello è necessario sfruttare il mapping naturale, ovvero la correlazione naturale che esiste tra due cose, tra causa ed effetto, tra comandi, loro azionamento e risultati. Un esempio di mapping naturale è la manipolazione diretta degli oggetti: con queste tecniche, infatti, l’utente non è costretto a ricordare il modo di utilizzare degli oggetti o a descrivere le azioni da eseguire; più semplicemente, le esegue direttamente sullo schermo, per esempio spostando un documento dalla scrivania virtuale del suo Pc al cestino, così come farebbe nel mondo reale.

Rendere visibile lo stato del sistema attraverso feedback

Il feedback rappresenta l’informazione di ritorno, la reazione del sistema in risposta all’azione che l’utente ha eseguito sulla interfaccia; il feedback serve a segnalare all’utente lo stato corrente del sistema e l’esito della propria azione: comprende quindi anche i messaggi di errore. Ma bisogna tenere presente che il feedback non si riferisce solo alle azioni scorrette dell’utente e alla relativa messaggistica di errore, ma include tutti i modi per trasmettere informazione all’utente sullo stato del sistema:

– quale azione ha eseguito o sta eseguendo l’utente;

– qual è la reazione del sistema all’azione sull’interfaccia da parte dell’utente;

– qual è il nuovo stato del sistema a seguito dell’azione effettuata.

Ma entro quanto tempo deve essere fornito il feedback? Si è valutato che, come ordini di grandezza:

– 0,1 secondo è il tempo utile per dare la sensazione che il sistema ha reagito istantaneamente;

– 1 secondo è il tempo utile per mostrare i risultati dell’azione dell’utente senza interrompere il suo flusso di ragionamento, anche se questi noterà il ritardo nella riposta del sistema;

– 10 secondi è il tempo massimo per mantenere l’attenzione dell’utente focalizzata sullo schermo;

– oltre i 10 secondi, generalmente, l’utente inizia un’altra attività mentre il computer sta lavorando.

Da cui deriva che, se si vuole mantenere l’attenzione dell’utente sull’applicazione o sul sito, la risposta alla sua azione deve essere mostrata non oltre i 10 secondi.

Prevenire e limitare gli errori di interazione

Commettere errori nell’interazione con un prodotto è naturale. Ogni azione dell’utente va concepita come un tentativo verso una giusta direzione: si tratta di una componente naturale del dialogo utente-sistema che va assolutamente tollerata e anzi prevista, garantendo la giusta flessibilità di utilizzo che consenta agli utenti di navigare liberamente senza entrare in vicoli ciechi e in situazioni critiche.

E dunque è importante che il sistema sia progettato in modo da diagnosticare gli errori quando occorrono e facilitarne la correzione, fornendo:

– funzioni bloccanti, che impediscano la continuazione di azioni che possono portare a risultati distruttivi;

undo che permettano di tornare immediatamente e facilmente allo stato precedente;

– indicazioni e sussidi orientati alla risoluzione dei problemi emersi.

Essere coerenti

La coerenza permette all’utente di trasferire agevolmente la conoscenza da un’applicazione all’altra favorendone la comprensione e aumenta la predicibilità delle azioni-reazioni del sistema.

La coerenza deve essere garantita a diversi livelli:

– nell’architettura informativa: disposizione e naming delle informazioni;

– nel linguaggio e nella grafica: la stessa parola, la stessa icona, lo stesso colore devono identificare «sempre» lo stesso tipo di informazione o lo stesso tipo di azione;

– negli effetti: gli stessi comandi, le stesse azioni, gli stessi oggetti devono avere lo stesso comportamento e produrre gli stessi effetti in situazioni equivalenti; agli stessi comandi non devono essere associati oggetti e azioni diversi;

– nella presentazione: gli stessi oggetti o lo stesso tipo di informazioni devono essere collocati tendenzialmente nella stessa posizione, avere la stessa forma e lo stesso ordine in tutte le schermate.

Facilitare la flessibilità d’utilizzo e l’efficienza

Nella definizione degli strumenti in grado di agevolare la flessibilità e l’efficienza, è fondamentale considerare il fatto che le esigenze degli utenti variano in relazione al loro livello di esperienza rispetto al compito e alle tecnologie informatiche.

Gli utenti alle loro prime esperienze, ad esempio, amano essere guidati passo per passo, mentre gli utenti più esperti preferiscono utilizzare scorciatoie, delle quali anche gli utenti non esperti, man mano che aumenta il loro livello di esperienza, possono usufruire.

Tenendo conto di queste opposte esigenze di fronte a uno stesso prodotto di editoria ipermediale, si può agevolare la flessibilità e l’efficienza del suo uso fornendo:

– assistenza intelligente (l’anticipazione da parte del sistema nell’inserimento di un termine) e shortcut (una combinazione di tasti che sostituiscano una serie di clic);

– strumenti di navigazione (pulsantiere) che permettono di fruire il prodotto in maniera libera, ad esempio «riavvolgendo» una animazione o passando direttamente alla schermata successiva (skip);

– funzioni di personalizzazione dell’interfaccia in base alle esigenze del compito, alle caratteristiche dell’utente e alle sue preferenze personali.

Fornire «help on line» e manuali

L’argomento della documentazione (help in linea o manuali utente) è piuttosto controverso:

– un buon prodotto, teoricamente, non dovrebbe richiedere la consultazione di tale documentazione;

– la documentazione viene spesso usata per compensare eventuali problemi di usabilità del prodotto;

– nella maggior parte dei casi, comunque, gli utenti rifuggono da questi strumenti di supporto.

Gli utenti generalmente ricorrono all’help in linea o alla documentazione solo come ultimo tentativo, cercando la soluzione al proprio caso specifico (non è così, in fondo, anche per i manuali del videoregistratore o della fotocamera digitale?); tendono a non approfondire gli argomenti, leggendo rapidamente solo poche righe. Come per le altre caratteristiche del prodotto, la comprensibilità di help e manuali, se non accuratamente verificata con gli utenti finali, non sempre è garantita.

Considerati questi aspetti, quando la documentazione può essere necessaria, essa va realizzata con l’obiettivo di garantire:

– facilità di consultazione;

– comprensibilità e brevità dei testi;

– orientamento all’attività dell’utente;

– efficacia nella risoluzione del problema (ad accesso diretto).

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6. Il processo «user centered»

Alla base dell’usabilità, come abbiamo già anticipato, c’è il processo user centered. L’essenza di questo processo, che prevede il coinvolgimento dell’utente finale del prodotto in tutto il ciclo di ideazione, progettazione e sviluppo, può essere definita come «la pratica di disegnare i prodotti in modo da permettere all’utente di assolvere i propri compiti con il minimo stress e la massima efficienza».

Le caratteristiche dello user centered design sono:

– una reale focalizzazione sugli utenti e i loro compiti: è necessario un approccio sistematico e strutturato agli utenti, che permetta di registrare tutte le informazioni relative ai loro compiti e che li coinvolga in tutte le fasi del ciclo di vita del prodotto;

– un processo iterativo: si attua un processo di valutazione «prototipo > modifica > nuovo prototipo»; questo percorso permette di raggiungere elevati standard di usabilità già nelle prime fasi di produzione e permette interventi più incisivi e meno costosi (il percorso attraverso piccoli aggiustamenti progressivi permette inoltre anche la scoperta di un più alto numero di incongruenze nel prodotto);

– un approccio multidisciplinare del team di usability, che sia in grado di avere una conoscenza trasversale di campi anche molto diversi tra loro come marketing, formazione, fattori umani, progettazione multimediale.

Le attività del processo «user centered»13

Conoscenza degli utenti

Se l’utente deve essere al centro del processo, si deve essere in grado di conoscere le sue caratteristiche.

Spesso l’utente-target è identificato dagli obiettivi di marketing, che definiscono a chi è indirizzato il prodotto, costituendo il profilo del target principale e del target secondario: età, sesso, esperienza rispetto al dominio, livello di competenza tecnologica, ecc.

Ma non deve essere considerato solo il profilo dell’utente: devono anche e soprattutto essere definiti l’insieme di compiti e di attività che l’utente svolgerà o vorrà svolgere, il contesto d’utilizzo del prodotto nei suoi vari aspetti sociali e tecnologici, e i diversi possibili sviluppi futuri d’utilizzo.

Analisi comparativa

Se si è nelle condizioni di sviluppare un prodotto per il quale esistono già competitor, diventa fondamentale definire dei benchmark che potranno essere utilizzati come indici di riferimento: il nuovo prodotto dovrà fornire agli utenti un livello di prestazioni superiore a quello del prodotto concorrente che compensi lo sforzo per il passaggio dall’uno all’altro.

Definizione dei requisiti di usabilità

Si devono definire le priorità dei vari aspetti dell’usabilità del prodotto. Questa gerarchia dovrà guidare nella scelta fra soluzioni diverse: ad esempio, se il prodotto prevede un utilizzo saltuario, l’accento dovrà essere posto più sulla facilità di apprendimento e utilizzo, piuttosto che sulla personalizzazione.

Per ciascuna caratteristica vanno individuate delle misure di riferimento (se possibile sfruttando l’analisi comparativa) e i limiti di accettabilità.

Progettazione parallela

L’utilizzo di diversi progettisti che lavorano in maniera autonoma e indipendente a diverse soluzioni permette all’inizio di esplorare vie diverse senza allungare i tempi di produzione. Una volta completate le diverse prototipazioni – dal costo molto basso poiché in forma schematica, spesso semplicemente su carta – si passa all’unione delle caratteristiche migliori di ogni soluzione in un nuovo prototipo coerente.

Una possibilità ulteriore è offerta dallo sviluppo di diversi prototipi specializzati: ogni soluzione pone l’accento su una caratteristica, permettendo di approfondirne gli aspetti specifici.

Prototipazione

La realizzazione e la valutazione dei prototipi sono fondamentali in due fasi:

– nella progettazione parallela, dato che permettono di esplorare varie strade a costi limitati;

– nelle prime fasi di produzione, dato che permettono di correggere fin da subito le prime incongruenze, avendo la possibilità di arrivare in fase di sviluppo con delle indicazioni molto precise.

Le valutazioni dei prototipi si conducono con vari metodi di indagine in funzione delle risorse e dei tempi a disposizione, e del tipo di risultati che si vogliono ottenere. Una prassi molto efficace è quella di modificare il prototipo on the fly, in modo da applicare immediatamente le modifiche e valutarle nuovamente, dato che c’è sempre la possibilità che le nuove modifiche introducano ulteriori problemi.

Valutazione sperimentale di usabilità

L’insieme di attività di indagine e analisi sperimentale svolte durante tutto il ciclo di produzione permette di arrivare al test finale – precedente il rilascio del prodotto – già con un buon livello di usabilità validato durante il ciclo produttivo.

Indagine follow-up

Una volta avviata la commercializzazione del prodotto, si dovranno condurre delle indagini che permettano di monitorare le reazioni dei clienti, il loro effettivo grado di soddisfazione ed eventuali nuovi errori di usabilità. Le nuove osservazioni verranno utilizzate per le successive edizioni del prodotto.

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7. Valutazione di usabilità: metodi sperimentali e metriche14

Il design iterativo che contraddistingue il processo user centered porta ad applicare varie volte i test di usabilità all’interno del ciclo di produzione.

I metodi di indagine di usabilità di un prodotto sono numerosi: ognuno è caratterizzato da obiettivi diversi e dallo stato del prodotto (non è necessario avere un prodotto funzionante per applicare test di usabilità, bastano anche i prototipi cartacei) e quindi viene utilizzato nelle varie fasi del ciclo di vita.

Heuristic evaluation

Con la heuristic evaluation (valutazione euristica) si rileva la fedeltà e l’aderenza del prodotto ai principi di usabilità. In questo caso vengono coinvolti solamente gli esperti di usabilità, senza chiamare in causa gli utenti finali: per questo motivo il test è facilmente eseguibile, economico e rapido.

Dal punto di vista pratico, la heuristic evaluation consiste in una serie di navigazioni del prodotto effettuate separatamente da ciascun esperto. Durante l’utilizzo, il prodotto viene valutato sia per gli aspetti statici dell’interfaccia (layout delle finestre, etichette, pulsanti, ecc.) sia per gli aspetti di interazione (logica e processi, flussi) rispetto alle linee guida di riferimento. Una volta terminate le indagini da parte di ogni esperto, i risultati vengono confrontati e si arriva a delle conclusioni comuni.

Gli studi statistici effettuati indicano che un solo esperto individua circa il 35% dei problemi di usabilità, mentre cinque esperti circa il 75%: dunque è necessario effettuare una heuristic evaluation con almeno cinque esperti di usabilità.

Cognitive walkthrough

Questo metodo si basa sulla teoria che le varie caratteristiche di un prodotto sono correlate con la facilità di apprendimento: se il modello del prodotto è difficile da comprendere, allora sarà anche difficile da imparare e ricordare.

Il cognitive walkthrough si concentra quindi sugli errori di progettazione dell’interfaccia che potrebbero rendere difficile o impossibile l’apprendimento delle modalità di utilizzo da parte dell’utente finale.

Una sessione di cognitive walkthrough coinvolge il progettista, chiamato a illustrare il prodotto a un gruppo di valutazione composto da altri progettisti, esperti di usabilità, utenti esperti. In particolare saranno indicate:

– la descrizione degli utenti di prodotto;

– la descrizione delle attività e dei compiti;

– la descrizione della corretta sequenza di azioni da compiere per assolvere il compito.

Si eseguono quindi i vari compiti e il gruppo di valutatori giudica i tratti critici dell’interfaccia: quelli che forniscono legami tra la descrizione del compito dell’utente e l’azione corretta, e quelli che forniscono feedback, indicando che la prima azione fatta dall’utente è in esecuzione.

Thinking aloud

Questo metodo, che mutua i propri strumenti dalla ricerca psicologica, consiste nel far verbalizzare a degli utenti-cavie quello che pensano durante l’esecuzione di una attività o di un compito ben preciso.

Obiettivo del thinking aloud è quello di far emergere le logiche di interazione e il modello cognitivo dell’utente.

Il ricercatore può rivestire un ruolo passivo di osservatore o può affiancare l’utente, intervenendo in caso di difficoltà, per approfondire l’indagine nelle fasi critiche di errore.

Task analysis

Questa metodologia permette più delle altre una rilevazione quantitativa e comparativa delle caratteristiche di usabilità; prevede il coinvolgimento diretto degli utenti finali, che sono chiamati a usare il prodotto all’interno dei laboratori di usabilità o nei loro contesti di utilizzo naturali.

Prima dell’inizio dei test vengono definiti gli obiettivi tipici di utilizzo del prodotto e, in funzione di questi, vengono progettati dei task da far eseguire nella sperimentazione. Per ciascuno di essi sono fissati degli indici di riferimento e dei limiti di accettabilità.

Durante l’effettuazione dei compiti, i ricercatori registrano le azioni degli utenti e analizzano le criticità di utilizzo; in sede di analisi si confronteranno poi i risultati sia dal punto di vista qualitativo che statistico-quantitativo.

Metriche

La misurazione dell’usabilità si basa sull’analisi dei dati relativi all’interazione utente-prodotto: per questo si presta più facilmente per quelle tecniche di indagine che coinvolgono direttamente l’utente finale, come la task analysis o i questionari.

Le metriche utilizzate per la misura quantitativa dell’usabilità sono:

Efficacia: la misura in cui un utente è in grado di raggiungere l’obiettivo di un compito in modo corretto e completo;

Efficienza: la quantità di risorse spese in relazione all’efficacia;

Soddisfazione d’uso: la piacevolezza e il gradimento dell’utilizzo del prodotto;

Facilità di apprendimento: in relazione alla curva di apprendimento dell’utente che indica il tempo necessario per eseguire correttamente i compiti;

Facilità di ricordo: la facilità con cui le procedure di interazione del prodotto vengono memorizzate dall’utente.

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Introduzione: un po’ di storia

La storia del diritto d’autore è intimamente connessa con l’evoluzione dei supporti tecnologici voluti dall’uomo per fissare, conservare e tramandare il prodotto della propria creatività. L’evento che più di ogni altro ne accelerò il processo di sviluppo e di diffusione può essere ricondotto all’invenzione di Gutenberg nel Quattrocento, che permise la produzione in serie di prodotti editoriali.

Il libro esce così dalla ristretta cerchia della tradizione ecclesiastica e inizia a diffondersi attraverso gli strati più colti della popolazione.

La figura dell’autore, sino a quel tempo pressoché sconosciuta, fatta eccezione per alcuni classici, assume una rilevanza crescente e sempre più numerose iniziano a divenire le opere commissionate da parte di mecenati e regnanti. La primordiale forma di individuazione di chi fosse, quindi, il titolare dei diritti sull’opera – anche se di diritti, certo, non si parlava all’epoca – generò un certo grado di confusione: spesso il finanziatore, l’ispiratore, l’autore vero e proprio e lo stampatore, a seconda del loro ruolo nella sfera sociale, venivano riconosciuti di volta in volta quali i «legittimatari» cui tributare onori e compensi.

Con l’aumentare delle tirature e della diffusione, si avvertì il bisogno di una forma di tutela che, non tanto per l’aspetto economico quanto per quello della paternità, garantisse l’onore e la reputazione dell’autore.

Si è soliti far risalire la disciplina del diritto d’autore intorno all’inizio del XVIII secolo, con lo Statuto della Regina Anna, del 1709, che introdusse il copyright, ossia il «diritto di copiare un’opera nel rispetto di talune norme a favore anche dell’autore del bene». Questo importante traguardo permetteva per la prima volta all’autore di essere riconosciuto come tale e, in misura modesta, di partecipare al vantaggio economico derivante dall’opera nonché alla sua tutela.

Fu la Rivoluzione francese, però, attraverso i principi ispiratori della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità, a sancire lo sviluppo e la diffusione del moderno concetto di diritto d’autore ammettendo per la prima volta l’esistenza di una proprietà letteraria e artistica.

Tralasciando in questa sede ogni ulteriore indagine storica, ci limiteremo a concludere facendo presente soltanto che la moderna legislazione in materia di diritto d’autore è frutto dell’elaborazione di un consesso internazionale di giuristi che, con la Convenzione di Berna, dettò le basi interpretative della materia, concordandone i punti salienti e la ratio generale. Successive convenzioni in materia sono rappresentate dalla Convenzione universale del diritto d’autore firmata a Ginevra nel 1955 e dal Trattato per la protezione dei diritti degli esecutori, interpreti e produttori fonografici di Roma del 1961.

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Diritto d’autore e copyright: dall’editoria su carta a quella multimediale

Il principio di base della moderna legge sul diritto d’autore, in termini generali, prevede l’individuazione di due parametri fondamentali connessi all’opera: il cosiddetto corpus mysticum, elemento immateriale e intangibile atto a rappresentare l’originalità creativa dell’autore, e il cosiddetto corpus mechanicum, elemento, di contro, materiale e fungibile, dimostrante la combinazione dei mezzi e delle tecniche grazie alle quali l’estro creativo dell’autore ha fisicamente realizzato l’opera.

La normativa italiana, raccogliendo e adottando i principi della Conferenza di Berna, è oggi regolata dalla legge 22 aprile 1941, n. 633 – e relativo regolamento di applicazione del 18 giugno 1942, n. 1369 – che, nonostante successive modifiche e integrazioni, riesce oggi faticosamente a inquadrare e a tutelare il sempre maggiore e più specifico ambito del diritto d’autore.

Il legislatore, nello sforzo di adeguare alle realtà dei tempi l’angusto ambito originario della legge, ha recepito nel corso degli anni alcune fondamentali direttive europee in materia di diritto d’autore, determinando le basi per quello che, necessariamente, dovrà essere il terreno di una futura e più adeguata regolamentazione del settore.

Nonostante ogni sforzo di adeguamento, comunque, i principi basilari e la sempre attuale concezione della Lda (come d’ora innanzi indicheremo la Legge sul diritto d’autore) non verranno meno, imponendo solo un adeguamento di carattere tecnologico e interpretativo.

Volendo fornire una sintetica e agevole introduzione al diritto d’autore, possiamo senz’altro concordare sul fattore basilare relativo all’oggetto della tutela, che non è la tangibile rappresentazione della creazione dell’autore, bensì il concetto alla base della sua «realizzazione».

Il legislatore ha voluto riconoscere il ruolo predominante, centrale e fondamentale dell’autore e del suo estro creativo, grazie al quale è possibile ottenere il prodotto fisico e tangibile dell’opera. A tal fine riconduce l’acquisto del diritto da parte dell’autore al momento dell’ideazione dell’opera, momento in cui lo stesso conferisce ad essa il suo carattere di originalità e novità.

Gli artt. 1 e 2 della l. 633 del 1941 indicano genericamente il novero delle opere oggetto di tutela, includendo le opere letterarie, quelle musicali, quelle appartenenti alle arti figurative, all’architettura, al teatro e alla cinematografia, nonché le opere fotografiche e i programmi per elaboratore. Tale classificazione deve considerarsi peraltro puramente indicativa e non esaustiva.

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Il diritto morale

L’opera tutelata dalla Lda gode di un duplice ambito di diritti: da un lato, infatti, viene riconosciuto e tutelato l’aspetto economico e prettamente patrimoniale; dall’altro quello di ordine morale e personalissimo dell’autore.

Il diritto morale è di per sé inalienabile e il legislatore ha voluto con ciò tutelare la sfera più personale dei diritti dell’autore e della sua personalità. Sotto un profilo esclusivamente economico, invece, il diritto si estingue per decorso del termine legale di protezione, con termini che variano a seconda dell’opera. In base a ciò, quindi, la Lda riconosce all’autore il diritto alla paternità dell’opera, il diritto di poterla – o meno – pubblicare o distribuire, il diritto di ritirarla dal commercio e di tutela dell’integrità dell’opera stessa.

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I diritti connessi

Con l’espressione «diritti connessi» il legislatore ha voluto riconoscere accanto al diritto d’autore una ulteriore serie di diritti similari, connessi con la produzione e la diffusione delle opere oggetto di tutela. Tali diritti riconoscono una forma di tutela connessa allo sfruttamento delle opere stesse a un novero di ulteriori soggetti partecipanti alla realizzazione dell’opera, come per esempio gli attori.

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Le libere utilizzazioni

Le libere utilizzazioni, cui sono dedicati gli artt. dal 65 al 71 della Lda, si riferiscono a diritti che dovrebbero essere in capo all’autore ma che, per tutelare interessi socialmente rilevanti, sono attribuiti a terzi. Assai brevemente potrà essere utile ricordare che:

– art. 65: prevede la possibilità di riproduzione degli articoli di attualità, economia, politica, religione, ecc., pubblicati in riviste o giornali con il dovere di citare la fonte originale correttamente, purché la riproduzione non sia stata espressamente riservata;

– art. 67: consente di riprodurre opere, o parti di esse, nelle procedure giudiziarie;

– artt. 68 e 69: hanno subito una profonda modificazione a seguito della l. 18 agosto 2000, n. 248. La fotocopia è adesso consentita solo in misura del 15% rispetto al volume totale dell’opera ed è prevista la corresponsione di un compenso in forma forfettaria per gli autori da parte di coloro che rendono possibile la fotocopia al pubblico. L’art. 69, invece, esenta lo Stato e gli enti pubblici dal divieto del prestito dell’opera, spettante in via esclusiva all’autore;

– art. 70: libertà di citazione, riassunto e riproduzione parziale a scopo di critica, discussione e insegnamento. Nonostante gli apparenti limiti estensivi della norma, l’art. 22 del regolamento di applicazione ne ridimensiona la portata complessiva, sottolineando il principio della non economicità dell’operazione o, alternativamente, dell’attribuzione di un equo compenso;

– art. 71: sottrae al diritto d’autore le pubbliche esecuzioni di opere musicali effettuate da bande e fanfare dei corpi armati dello Stato, purché non effettuate a scopo di lucro.

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Termini di protezione del diritto d’autore

Successivamente all’emanazione della direttiva 93/98/Cee, concernente l’armonizzazione della durata di protezione del diritto d’autore e di alcuni diritti connessi, la legge 6 febbraio 1996, n. 52, art. 17, ha stabilito i nuovi termini di durata per la protezione dei diritti di utilizzazione economica sulle opere dell’ingegno.

70 anni per le seguenti opere:

– opera dell’ingegno individuale;

– opera anonima o pseudonima;

– opera pubblicata per la prima volta dopo la morte dell’autore;

– opera collettiva (quali riviste, giornali, antologie, ecc.);

– opera cinematografica: a partire dalla data della prima proiezione pubblica;

– opera fotografica: dall’anno di produzione dell’opera;

– programma per elaboratore.

50 anni per i seguenti diritti, previsti come diritti connessi al diritto d’autore:

– diritti dei produttori di dischi fonografici e di apparecchi analoghi, riproduttori di suoni e di voci;

– diritti di coloro che esercitano l’attività di emissione radiofonica o televisiva;

– diritti dei produttori di opere cinematografiche o audiovisive o sequenze di immagini in movimento;

– diritti degli artisti interpreti e degli artisti esecutori.

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La legge di riconoscimento del software e delle banche dati

Un primo e significativo passo in direzione di quello che in un futuro sarà l’inquadramento giuridico della cosiddetta «opera multimediale» è rappresentato dal decreto legislativo del 29 dicembre 1992, n. 518. Con tale norma il «programma per elaboratore» ha trovato espressa tutela, inserendosi a pieno titolo tra le opere comprese tra quelle indicate all’art. 1 della Lda.

Ai sensi di tale provvedimento i programmi per elaboratore, al pari delle altre opere previste dalla Lda, debbono necessariamente possedere il requisito della originalità ed essere, quindi, il risultato di una creazione intellettuale dell’autore. In tale senso, quindi, sono state espressamente escluse dalla tutela accordata al software «tutte le idee ed i principi che stanno alla base di qualsiasi elemento di un programma, compresi quelli alla base delle sue interfacce».

Con il decreto legislativo dell’11 maggio 1999, n. 169, recependo la direttiva 96/9/CE dell’11 marzo 1996, viene invece accordata anche alle banche dati una tutela specifica, equiparando le stesse a una creazione dell’ingegno propria del loro autore. La definizione esatta del d.lgs. prevede che le banche dati consistano in «una raccolta di opere, dati o altri elementi indipendenti sistematicamente o metodicamente disposti ed individualmente accessibili grazie a mezzi elettronici o in altro modo», non estendendosi quindi la tutela ai contenuti della banca dati stessa. L’oggetto della tutela, quindi, è il complesso dei dati e/o delle opere che compongono la banca dati e la sua razionale organizzazione, e non già lo specifico elemento in esso contenuto.

L’autore di una banca dati gode, quindi, del diritto esclusivo di eseguire o autorizzare:

– la riproduzione permanente o temporanea, totale o parziale, con qualsiasi mezzo e in qualsivoglia forma;

– la traduzione, l’adattamento, una diversa disposizione e ogni altra modifica;

– qualsiasi forma di distribuzione al pubblico dell’originale o di copie della banca dati.

La prima vendita di una copia di una banca di dati nella comunità da parte del titolare del diritto o con il suo consenso esaurisce il diritto di controllare all’interno della comunità:

1. le vendite successive della copia;

2. qualsiasi comunicazione, presentazione o dimostrazione in pubblico;

3. qualsiasi riproduzione, distribuzione, comunicazione, presentazione o dimostrazione in pubblico dei risultati delle operazioni di cui al punto 2.

La tutela sulla banca di dati è accordata dal momento della sua completa costituzione. Il diritto, invece, si estingue trascorsi 15 anni dal 1° gennaio dell’anno successivo alla data del completamento. Ogni modifica sostanziale, valutata in termini qualitativi o quantitativi, del contenuto di una banca dati, e in particolare ogni modifica sostanziale risultante dell’accumulo di aggiunte, stralci o modifiche successivi che permetta di ritenere che si tratti di un nuovo investimento, consente di attribuire alla banca derivante da tale investimento una propria specifica durata di protezione.

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La cosiddetta «opera multimediale» e i suoi diritti di sfruttamento

Ciò che distingue la cosiddetta «opera multimediale» dalle tipologie tradizionali indicate all’art. 1 della Lda è la tecnologia digitale alla base del processo di realizzazione e fruizione dell’opera. La tecnologia digitale, poi, è di per sé «multimediale», consentendo quindi di combinare in un unico prodotto una più estesa gamma di modalità espressive, come quelle visive, audio, grafiche e di interazione, determinando la configurazione di un prodotto nuovo sostanzialmente ben più articolato e potente, in termini di fruizione, dei tradizionali elementi singoli riconducibili nella gran parte dei casi alle opere tradizionali.

La tecnologia digitale, poi, ha una modalità espressiva dell’opera assolutamente immateriale, attraverso l’adozione di un linguaggio di compilazione di tipo binario, fatto quindi di codici elettronici e non di supporti espressivi fisici.

Ciò che è necessario riscontrare nella cosiddetta opera multimediale è la sussistenza dei medesimi parametri identificativi delle opere tradizionali e, in particolar modo, l’originalità e la novità.

«Ciò che conferisce all’opera multimediale il carattere dell’originalità» è dunque la sofisticata e innovativa capacità di espressione delle piattaforme, consentendo una fruizione combinata assolutamente non lineare dei diversi elementi che la compongono. Non è perciò, come erroneamente affermato in passato, un semplice assemblamento di sistemi diffuso attraverso un unico linguaggio: è invece un nuovo e innovativo sistema che consente la contestuale fruizione di risorse storicamente disponibili solo disgiuntamente o, nel migliore dei casi, con una limitata interazione tra sistemi.

Nonostante ciò, però, l’opera multimediale non ha ancora trovato una precisa e sistematica collocazione in alcun ordinamento, lasciando spazio a un ricco novero di interpretazioni.

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Opera multimediale in quanto tale

È la fattispecie più semplice ed elementare – ma anche la più difficile solitamente da riscontrare – entro cui ricomprendere l’opera multimediale: è costituita dunque dall’originale e autonoma creazione dell’opera in ogni sua singola componente, laddove però l’esperienza ci insegna che è pressoché impossibile pensare a un’opera che sia il frutto di un unico autore solitario.

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Opera multimediale quale opera collettiva

L’opera collettiva, definita all’art. 3 della Lda, si riferisce essenzialmente a una creazione autonoma risultante dalla mera riunione di opere preesistenti al fine di realizzare un prodotto di carattere letterario, scientifico, didattico, ecc., quale ad esempio un’antologia o un’enciclopedia. Si riconosce in tale ambito all’organizzatore di detto materiale preesistente il diritto a essere riconosciuto quale unico autore della risultante opera, pur riconoscendo al tempo stesso e tutelando gli autori di ogni singolo frammento in esso contenuto.

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Opera multimediale quale «composizione»

La «composizione», talvolta qualificata anche come «opera composta», è riconducibile alla fattispecie genericamente prevista dagli artt. 33 sgg. e 44 sgg. della Lda, laddove il legislatore, seppur riconoscendo la titolarità del diritto d’autore per ogni elemento contenuto in una «composizione di opere», riconosce al contempo la sussistenza di un contributo preminente nell’ambito di tali fattispecie, cui attribuisce un ruolo di coordinamento e organizzazione, e al quale riconosce, inoltre, l’esercizio dei diritti di sfruttamento economico.

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Opera multimediale quale «opera derivata»

Tra l’opera collettiva e quella «composta» è possibile ravvisare una ulteriore fattispecie, prevista dal legislatore all’art. 4 della Lda, e contenente al suo interno opere preesistenti trasformate, rielaborate e unificate però in modo sostanziale per permettere la specifica forma di fruizione cui sono destinate. In questo caso, quindi, il legislatore ha riconosciuto un’autonomia propria, cui consegue il riconoscimento della tutela accordata a ogni opera protetta dal diritto d’autore, a tutte quelle elaborazioni risultanti sì dall’acquisizione e dall’accorpamento di opere preesistenti ma caratterizzate altresì da una concreta, tangibile e soprattutto originale rielaborazione creativa delle opere stesse.

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Il contratto: rimedio a una lacuna normativa

È facilmente comprensibile come, mancando un riferimento diretto e certo in seno alla disciplina della Lda circa l’opera multimediale, le consuetudini del mercato e le necessità della produzione impongano di adottare sofisticati ed elaborati strumenti contrattuali che, seppur costruiti in sintonia con la Lda, ne completano gli aspetti lacunosi e permettono di identificare con chiarezza e precisione la natura dell’opera in oggetto.

L’espediente maggiormente apprezzabile da un punto di vista operativo è quello fornito dalla realizzazione, successivamente alla definizione del progetto base, di un «diagramma di flusso» di ogni fase della produzione stessa. In tal modo gli autori potranno visivamente individuare tutti i «colli di bottiglia» ove sia possibile ravvisare la necessità di realizzare un contratto. A questo punto, quindi, saranno identificate – necessariamente con l’ausilio di un legale – le specifiche necessità in ogni singola fase, onde poter garantire l’armonioso e profittevole sviluppo secondo una linea logica altrimenti difficile da individuare.

La libertà negoziale delle parti, cui il legislatore ha voluto attribuire una rilevante importanza entro i margini concessi dalle vigenti norme, consente all’autore e al produttore di un’opera multimediale di verificare la compatibilità tra le rispettive posizioni, offrendo lo spazio per la definizione di un accordo ad hoc in grado di soddisfare le posizioni e le aspettative di tutte le parti coinvolte nella produzione e distribuzione di un’opera. Le tipologie contrattuali applicabili al settore multimediale, per analogia, sono numericamente elevate e sicuramente idonee a regolamentare la fattispecie. La particolarità che certamente dovrà caratterizzare tali atti, di contro, sarà rappresentata dalla presenza di vocaboli ed espressioni non comunemente parte del linguaggio e della terminologia giuridica.

Nella produzione dei contratti per lo sviluppo delle opere multimediali, quindi, sono spesso presenti – direi sempre – corposi allegati esplicativi destinati a fornire il massimo grado di chiarezza circa la natura del progetto e i diritti di cui si intende disporre.

Elementi di particolare rilevanza nella definizione di contratti per lo sviluppo di opere multimediali sono:

– esatta indicazione delle parti: è necessario soprattutto che il soggetto che cede i diritti sia effettivamente il legittimo detentore dei diritti di interesse dell’editore;

– esatta indicazione del diritto ceduto: essendo il contratto redatto in accordo con la Lda, ma non potendo la stessa prevedere il ricorso al «diritto multimediale», sarà premura delle parti indicare nel modo più esauriente possibile, anche e soprattutto dal punto di vista tecnico della digitalizzazione, il tipo di prodotto, le sue modalità di distribuzione e fruizione, ecc.;

– ambito geografico e/o spaziale di distribuzione del prodotto, con indicazione delle lingue di fruizione;

– esclusività della cessione: possibilità di riservarsi un utilizzo in esclusiva entro una determinata finestra temporale;

– durata;

– precisione nell’individuazione degli specifici elementi da acquisire in connessione all’opera.

Conseguentemente, quindi, potremo disporre di tante fattispecie contrattuali quante saranno le fasi di lavorazione dell’opera, suddividendo il complesso compito in specifici contratti ad hoc realizzati per ogni singola esecuzione necessaria da terzi.

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L’Anee e il suo Osservatorio

Quando parliamo di dati ufficiali, per l’Italia intendiamo le ricerche realizzate dall’Osservatorio dell’Anee. Questa associazione nasce nel dicembre 1992 come Associazione nazionale dell’editoria elettronica3, grazie all’iniziativa di alcuni dei più attivi protagonisti del mondo editoriale italiano. Si costituisce come organismo super partes, rappresentativo di interessi complessivi, e come tale inizia a perseguire il suo obiettivo primario: approfondire le opportunità derivanti dall’evoluzione delle nuove tecnologie. Con l’espandersi del settore, lo sviluppo di nuove tecnologie e la crescita del mercato italiano, l’importanza dell’Anee è cresciuta in questi anni e oggi non rappresenta più solo il settore editoriale ma annovera tra i suoi soci i principali operatori delle diverse filiere tecnologiche dell’on line, dell’off line e del broadcasting, coerentemente con i processi di convergenza in atto nel settore4. Nel 2001 cambia la sua definizione in Associazione dei servizi e dei contenuti multimediali (pur senza cambiare l’acronimo), e si impegna nell’approfondimento e nella rimozione dei vincoli che condizionano lo sviluppo del settore con particolare attenzione proprio alla valorizzazione dei servizi e dei contenuti multimediali.

L’Osservatorio dell’Anee sul mercato dell’editoria elettronica ha pubblicato ogni anno la sua ricerca con l’obiettivo di fornire alle aziende associate, agli operatori del settore e al mondo dei media una fotografia qualitativa e quantitativa del mercato multimediale in Italia (l’attenzione sul settore on line è, come abbiamo detto, sempre più forte). Nelle sue indagini, condotte attraverso l’analisi della letteratura esistente (materiale cartaceo, stampa specializzata, documentazione messa a disposizione dagli editori e materiale prelevato dai siti web del settore) e attraverso interviste dirette e telefoniche agli operatori del settore, l’osservatorio Anee si avvale anche dell’appoggio di importanti centri di ricerche, tra cui Niche Consulting, Eurisko, Unisource Italia, Waterloo New Media, 1to1lab.

Andiamo dunque ora a tracciare il profilo del mercato italiano facendo riferimento ai dati degli ultimi Osservatori Anee, con le (minime) correzioni di tiro che si possono ricavare da più recenti ricerche private o parziali, ponendo il fuoco della nostra analisi prima sul mercato professionale e poi su quello consumer.

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Il mercato dell’editoria digitale professionale

L’utenza cosiddetta professionale comprende le aziende, i liberi professionisti, le istituzioni, e rappresenta in Italia il segmento pioniere dello sviluppo di titoli elettronici, ancor prima che potessero essere definiti multimediali. Già da molti anni, tuttavia, il mercato dei prodotti professionali presenta una certa stabilità5. La maturità del settore è confermata sia dalla saturazione della domanda nei principali segmenti di mercato (avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro), sia dall’alto grado di concentrazione dell’offerta e dalla presenza di elevate barriere all’ingresso, dovute a un problema di investimento sulla proprietà dei diritti e di organizzazione di un’estesa rete di vendita6.

I generi in cui si articola l’offerta di titoli professionali sono essenzialmente cinque: giuridico-normativo (che genera la gran parte del fatturato totale), tecnico-professionale, economico-finanziario, formazione e archivi-stampa. Anche se la composizione dell’offerta è stabile da anni, negli ultimi tempi si è registrata una leggera flessione del genere giuridico-normativo, a cui fa fronte una lieve crescita dei segmenti economico-finanziario e tecnico-professionale e una più sensibile crescita di quello della formazione.

Per quanto riguarda la distribuzione, il canale più rilevante in questo settore particolare è costituito dalla vendita diretta attraverso una rete di agenti, che assorbe il 90% del fatturato; ci sono poi le librerie, il cui fatturato è in leggero aumento; la vendita via Internet, che realizza volumi d’affari sostanzialmente limitati ma con tassi di crescita molto interessanti; la vendita per corrispondenza tramite cataloghi cartacei o coupon, soprattutto per i titoli one shot, cioè senza aggiornamento continuo o abbonamento.

Nonostante la staticità del mercato, possono essere messi in evidenza alcuni elementi che hanno caratterizzato il settore in questi ultimi anni:

• ampliamento della gamma di prodotti «verso il basso», attraverso la pubblicazione di opere minori e a prezzi ribassati, realizzate su contenuti di banche dati più grandi e destinate alle piccole e medie imprese e al mercato SoHo (Small Office-Home Office), attraverso prodotti a carattere divulgativo sul mondo dell’economia, i bilanci, ecc., o attraverso titoli one shot dal prezzo più accessibile, distribuiti in libreria e in edicola (per esempio in opzionale sovrapprezzo con «Il Sole 24 Ore»);

• sviluppo di nuove categorie informatizzate, come quella dei medici o della pubblica amministrazione, prima molto meno sensibili all’offerta di CdRom e oggi nuovi e potenziali segmenti di domanda;

• sviluppo della produzione su commissione, con significative esperienze specialmente nel campo della formazione aziendale (e qui gli esempi si moltiplicano di anno in anno a partire dal 2000);

• nascita di molti editori di piccole dimensioni, attivi solo nel settore dell’editoria elettronica, del software e dei servizi alle imprese, che affiancano i pochi grandi operatori leader del mercato e i maggiori distributori, prevalentemente provenienti dall’estero, come per esempio Bireau Van Dijck o Dea (Diffusione edizioni angloamericane);

• affermazione dell’ambiente Internet e consolidamento dell’attività sul web da parte degli operatori: per la consultazione di banche dati on line, la vendita dei prodotti, la visualizzazione di demo e il download degli aggiornamenti7 (anche se per molti operatori la dimostrazione e l’assistenza personalizzata della rete di vendita diretta restano comunque elementi indispensabili per la commercializzazione dei titoli, relegando Internet a una funzione di vetrina e di marketing diretto);

• abbandono dell’offerta di titoli off line da parte di alcuni operatori (come Zucchetti e Dida*el) che hanno concentrato la propria attività completamente nell’ambiente on line.

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Il mercato «consumer»

Lo sviluppo del mercato consumer, che comprende i titoli destinati al mercato residenziale o domestico, è decollato a partire dal 1996, anno alla fine del quale il parco Pc installato presso le famiglie italiane è arrivato al valore di 1 milione di macchine.

Dal 1999 anche questo settore ha cominciato a mostrare i primi segni di stabilizzazione. Tra il 1999 e il 2000 il tasso di crescita è stato del 15%, ben 6 punti percentuali in meno rispetto all’anno precedente, quando la crescita rispetto al 1998 era stata del 21%8. Negli ultimi anni, il mercato italiano ha raggiunto un livello di saturazione che non lascia prevedere ulteriori sviluppi, a meno che non vengano sfruttate nuove tecnologie e nuovi mercati, con strategie di integrazione e non solo di competizione. L’allusione è naturalmente al presidio della rete Internet, all’aumento del numero dei collegamenti effettuati e allo sviluppo della banda larga.

Con riferimento all’ultima ricerca dell’Anee, il volume d’affari stimato nel 2000 è stato di 460 miliardi di lire, pari a circa 230 milioni di euro. E tale dovrebbe essere rimasto negli anni seguenti.

Come abbiamo fatto per il macro-segmento dell’utenza professionale, è possibile individuare alcune caratteristiche generali anche nel mercato attuale dell’editoria multimediale consumer:

• forte stagionalità della domanda, concentrata negli ultimi tre mesi dell’anno e soprattutto in prossimità delle feste natalizie, dove segue maggiormente le impennate della vendita dell’hardware. In questo trimestre la domanda è rivolta soprattutto al canale retail (vendita al dettaglio), mentre l’edicola (che non viene presa in considerazione per l’acquisto dei regali di Natale) attira una forte domanda proprio subito dopo, nei primi mesi dell’anno successivo;

• concentrazione della domanda verso titoli guida, sia del genere game che del no-game9;

• concentrazione dell’offerta intorno a pochi grandi gruppi editoriali o distributori/localizzatori che presidiano il mercato, nonostante la nascita di numerose realtà imprenditoriali di più piccole dimensioni (spesso però troppo deboli);

• stabilizzazione dei prezzi medi (attualmente intorno ai 9 euro nelle vendite dei CdRom in edicola, per gli opzionali sovrapprezzo come quelli distribuiti da «la Repubblica», «L’Espresso» o «Panorama»);

• crescita dell’attenzione del pubblico verso prodotti di qualità (tra i quali la forza della brand image dell’azienda è sempre più determinante);

• accentuazione della pirateria, soprattutto nelle quote di mercato del game, ma in piccola parte anche nei confronti dei titoli guida e di grande interesse del no-game, conseguentemente alla drastica riduzione di prezzo dei masterizzatori Cd;

• atteggiamento incerto degli operatori sia nei confronti dell’integrazione con l’ambiente on line, attraverso i Cd ibridi, sia nei confronti della piattaforma di nuova generazione, il Dvd Rom.

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I canali distributivi

Il sistema distributivo italiano viene considerato oggi da molti operatori uno dei punti di debolezza del nostro mercato multimediale, anche se la sua struttura ha pesantemente favorito inizialmente lo sviluppo e la maturazione del settore, con caratteristiche del tutto peculiari rispetto agli altri Paesi. Vediamo in dettaglio quindi non solo le caratteristiche ma anche le possibili prospettive di sviluppo dei principali canali distributivi in Italia.

L’edicola. È il canale che ha aperto le porte al mass market dei prodotti ipermediali in Italia10. La sua evoluzione ha rappresentato la più importante spinta allo sviluppo del mercato multimediale come mercato di massa, rendendo disponibili i titoli in decine di migliaia di punti vendita, sparsi omogeneamente nel territorio italiano, a un prezzo particolarmente accessibile.

Con la premessa che calcolare il volume d’affari generato dal canale edicola è un’operazione abbastanza complicata, in quanto di regola il CdRom è venduto come allegato al prodotto cartaceo e quindi incluso nel suo prezzo di copertina, l’Osservatorio dell’Anee registra una crescita del 427% del fatturato dell’edicola tra il 1997 e il 2000. Stando sempre alle stime Anee, il canale edicola negli stessi anni ha raggiunto una quota pari a quasi il 30% del mercato consumer11, trasformandosi in un canale indipendente utilizzato per il lancio dei prodotti (prima era utilizzato per le sole attività di repricing e di republishing).

Naturalmente i titoli professionali, ad alto valore unitario, non si avvalgono della distribuzione nelle edicole, anche se in passato si sono fatte alcune esperienze significative che hanno riscosso un certo successo12.

Le caratteristiche principali del canale sono13:

– tendenza a rendere rapidamente obsoleto un prodotto, quindi alta rotazione dello stock;

– spazio limitato14 e affollamento della superficie espositiva;

– assortimento e gamma limitata di prodotti librari (circa 300 libri);

– diffusione territoriale capillare e omogenea15 con possibilità di raggiungere un mercato di utenti amplissimo;

– prezzo basso, che attrae ampi strati di lettori, anche quelli che non frequentano la libreria;

– distribuzione territoriale più omogenea rispetto alle librerie;

– vantaggiose condizioni fiscali, consentite dall’abbinamento di prodotti editoriali con regimi Iva diversi (4% per prodotti editoriali, 20% per audiovisivi e digitali)16.

A dominare il canale sono sempre più i grandi gruppi multimediali e le grandi testate editoriali, che si assicurano ritorni economici veloci, a fronte di grandi investimenti iniziali (è necessario infatti prevedere alte tirature, gestire rese di decine di migliaia di copie, programmare grandi campagne pubblicitarie affinché il titolo acquisti la massima visibilità e non si confonda tra le mille tipologie di prodotti che affollano la superficie espositiva dell’edicola).

Il game è forse l’unico genere consumer escluso dal canale edicola: nessuno degli editori di titoli game sceglie l’edicola come primo canale di distribuzione; tutti, dopo qualche esperienza non felice, continuano a preferire i computer/software shop e, in maniera crescente, la Gdo (la Grande distribuzione organizzata, come gli ipermercati e i supermercati).

Alcuni operatori riconoscono invece al canale edicola il vantaggio di permettere di sfruttare il prodotto alla fine del suo ciclo di vita17.

A occupare lo spazio espositivo dell’edicola rimangono i titoli come i reference, gli edutainment e gli educational, prodotti a larga utenza e di facile e veloce consultazione.

In prospettiva, possiamo dire che diversi esperti di settore suppongono che in pochi anni l’edicola potrebbe trasformarsi in un «chiosco multimediale», attraverso cui veicolare gli ordini di e-commerce, il print on demand e gli acquisti a catalogo.

La libreria. Il canale libreria ha subito profonde trasformazioni negli ultimi anni: è cresciuta come dimensione del punto vendita e come gamma di prodotti e servizi offerti18, ed è aumentato il numero di punti vendita classificabili come «librerie», coinvolgendo altri retailer con un assortimento di titoli e volumi meno sostanzioso19. È il canale che più degli altri risente della pressione concorrenziale dei grandi canali (la già nominata Gdo) e di nuove formule di vendita, quali offerte temporanee, book-shop museali, librerie virtuali, catene di home video e negozi di informatica e di fotografia, dove sempre più spesso si trovano piccoli assortimenti librari (tra 50 e 500 titoli), nonché da parte delle catene di librerie, che in Italia hanno comunque una quota di mercato ancora lontana dalla media europea. Nel complesso infatti il canale continua a essere caratterizzato da negozi di piccole dimensioni e da carenze di formule commerciali innovative (franchising, unioni volontarie, gruppi d’acquisto).

Su un totale di 4.986 librerie presenti in Italia20, inoltre, solo 1.500 possono essere considerate vere e proprie librerie (con assortimento vasto e offerta di servizi di consulenza e assistenza) e, di queste, solo 300 sono di grandi dimensioni e trattano in maniera continuativa i Cd multimediali. Con queste caratteristiche21:

– lo spazio che dedicano al multimediale è in media di 8,1 mq (circa il 3% della superficie media complessiva della libreria italiana)22;

– l’incidenza delle vendite di tali prodotti rispetto ai ricavi complessivi della libreria è dell’1,2%, mentre rispetto ai ricavi delle vendite dei prodotti non-book è del 18-20% per i punti vendita minori, e del 43% per quelli maggiori;

– l’assortimento è composto in media da 165 titoli di CdRom per punto vendita, che diventano 405 per le librerie di più grande superficie.

La quota che la libreria detiene nel mercato dell’editoria elettronica è in calo, attestandosi nelle ultime indagini intorno all’8%. Gli operatori infatti non hanno mai spinto abbastanza in questa direzione, frenati soprattutto dal fatto che la libreria è sempre stata un canale di nicchia in Italia, frequentato da uno «zoccolo duro» di pochi milioni di lettori23. Anche il meccanismo delle rese ha contribuito comunque a bloccare il canale, in quanto costringe gli editori ad assumersi rischi più alti rispetto agli altri settori merceologici.

Al di là delle soluzioni studiate per risolvere il problema, la libreria non potrà mai decollare come canale distributivo per i titoli ipermediali, fino a quando non verranno investite risorse per la formazione e specializzazione di chi lavora nel canale e per la costituzione di corner o stazioni multimediali per permettere la visione e la consultazione dei titoli.

Non mancano tuttavia elementi positivi che hanno fatto e fanno sperare nello sviluppo del canale:

– una vendita sostenuta di titoli ipermediali in libreria potrebbe, ad esempio, aumentare i suoi fatturati, in quanto lo scontrino medio di un CdRom è più alto di quello dei libri;

– o ancora, un assortimento più ampio dei prodotti e servizi offerti qualificherebbe il punto vendita, attirando anche persone che non leggono o leggono poco e che, quindi, non sono frequentatori abituali della libreria;

– vantaggiosa potrebbe essere anche l’ubicazione del punto vendita – le librerie sono di solito in posizione centrale e strategica – nonché la familiarità che il pubblico più maturo ha con il suo ambiente;

– buone prospettive di sviluppo provengono poi dalla crescita delle librerie di più grandi dimensioni e delle catene di librerie, con un ricambio generazionale che non potrà non favorire una nuova cultura più vicina all’ipermedialità.

La libreria potrà subire trasformazioni, infine, a seguito dell’evoluzione tecnologica e delle trasmissioni on line su banda larga: in sintonia con quanto si prevede per l’edicola, anche la libreria si potrebbe configurare in futuro come centro multimediale e polifunzionale in grado di accogliere e offrire servizi, come luogo di discussione aperto a eventi di convivialità e scambio culturale24.

I computer/software shop. Mantenendo il ruolo di primo piano nella distribuzione al dettaglio dei titoli su CdRom, il canale dei computer shop ha generato nel 2000 un volume d’affari di circa 216 miliardi (più di cento milioni di euro), pari a quasi la metà (esattamente il 46%) del fatturato complessivo del mercato multimediale. Il suo tasso di crescita è stato meno rilevante rispetto al periodo 1998/1999 (+6% contro +11%) e di gran lunga inferiore rispetto ai tassi di crescita degli altri canali (in particolar modo rispetto all’edicola e alla Gdo)25.

Il ruolo del computer shop è stato centrale fin dalle origini del mercato, che si è formato relativamente lontano dal mondo editoriale vero e proprio e all’interno di dinamiche di produzione e distribuzione proprie del settore informatico. I suoi punti di forza risiedono:

– nell’offerta combinata di hardware e software, tanto che per molti utenti questi punti vendita rappresentano la prima porta d’ingresso nel mondo dell’editoria elettronica;

– nell’ampia gamma di prodotti in vendita;

– nell’offerta ricca e predominante di game (i cui costi molto più alti della media fanno lievitare sensibilmente il volume d’affari annuale).

All’interno del canale possiamo individuare tre sottosegmenti:

– i computer shop indipendenti, tipologia in progressiva diminuzione;

– i computer shop dealer, catene di negozi di informatica di proprietà e in franchising (come per esempio Vobis o Computer Discount);

– i software store, nuova tipologia di punti vendita che si ispira a modelli esteri, assimilabili a una sorta di libreria multimediale (come per esempio Mondadori Informatica o la Fnac).

La Grande distribuzione organizzata. L’introduzione del canale Gdo nel mercato editoriale (inizialmente solo cartaceo) è avvenuta poco prima della metà degli anni Settanta, ma il canale ha mostrato tassi di crescita molto sostenuti solo a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, in seguito alla liberalizzazione dei punti vendita del 1985 e alla connessa crescente rilevanza del canale Gdo in tutti i comparti26.

Le caratteristiche del canale sono:

– dimensioni elevate e moltiplicazione del numero dei punti vendita;

– assortimento ampio e qualificato, sia in termini di generi sia di numero di volumi;

– stimolo all’acquisto di impulso, in quanto il cliente sceglie liberamente e si sofferma con calma dove preferisce;

– capacità di attrazione di fasce di consumatori di età e caratteristiche differenti, anche non frequentatori abituali delle librerie;

– valorizzazione delle componenti del sistema di prodotto (il packaging, prima di tutto);

– alta rotazione dei titoli in vendita e pagamenti differiti al fornitore (normalmente sei mesi dopo l’emissione della fattura), con la possibilità di accumulare stock di capitale maggiori e trarre remunerazioni aggiuntive;

– prezzo al pubblico scontato, dal 20 al 35% del prezzo di copertina (la Gdo ha la forza per spuntare dagli editori o dai grossisti della distribuzione sconti più alti di quelli praticati alle librerie).

Attualmente la Gdo detiene circa il 7% del mercato dell’editoria ipermediale, con un alto trend di crescita27. L’ampliamento degli spazi e la comparsa dei corner multimediali, ossia di stazioni appositamente locate per la consultazione e la visione dei titoli, hanno costituito gli elementi più innovativi ed efficaci dell’offerta della grande distribuzione.

All’interno di una scelta di titoli piuttosto vasta, si nota qui una concentrazione sui titoli di maggiore successo, sulle ultime uscite e, in particolar modo, sui game, che sono i prodotti a più alta rotazione; marginali i titoli di art/culture/reference, mentre l’assortimento educational ed edutainment risulta essere più completo.

Gli altri canali di vendita. Per completare il panorama della distribuzione nel mercato consumer, segnaliamo che il 4% del volume d’affari è occupato dai negozi di elettronica di consumo, più o meno stabili in questa posizione dal 1998.

Gli altri canali di vendita complessivamente si assestano sul 7% del mercato, anch’essi senza grandi novità negli ultimi anni.

I negozi di giocattoli non hanno mai avuto un ruolo centrale, anche per l’esigua offerta di titoli multimediali dedicati ai giovanissimi che finora c’è stata in Italia. Il valore di questo canale di vendita è messo in discussione anche da una crisi interna all’industria del giocattolo, che molti attribuiscono alla crescita impetuosa del mercato dei videogame.

La vendita diretta coinvolge gli editori già attivi con una rete di vendita nel settore delle enciclopedie cartacee; sono perciò i titoli reference a trainare questo canale, in parte insieme ai corsi di lingua e ai titoli educativi e didattici, che si giovano di un rapporto diretto tra editore e docente.

La vendita a distanza, infine, include tutta la vendita per corrispondenza. Una parte è generata da cataloghi e buoni d’ordine cartacei e sembra mantenere stabile il suo ruolo, sia se associata a quella di hardware per Pc, sia tramite i club, come l’Infoclub di Mondadori, in cui i fattori di successo sono la scelta di titoli famosi e i prezzi scontati; l’altra è invece generata dalle vendite telematiche e sta subendo positive spinte dalla diffusione di Internet.

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I principali editori

Gli operatori del settore multimediale vengono ripartiti in due gruppi principali.

Il primo gruppo comprende i grandi editori della carta stampata che presidiano senza rivali l’editoria distribuita in edicola (il Gruppo L’Espresso-Repubblica, De Agostini, Rizzoli, Mondadori); i grandi editori (anch’essi storici) della carta stampata, che operano nel canale della libreria (Zanichelli, Utet, Giunti, Laterza, Garzanti); i distributori-localizzatori dedicati prevalentemente al settore game (Leader, Cto, Halifax); i grandi operatori esteri che distribuiscono sul mercato italiano solo propri titoli (Disney, Microsoft); gli operatori di piccole dimensioni provenienti sia dal settore editoriale (Le Scienze, Max, Tecniche Nuove) sia dal mondo della distribuzione (Kyber, Medium CdLine) o propriamente dall’ambito dell’editoria elettronica (Opera Multimedia, Acta Scala).

Il secondo gruppo è costituito dai cosiddetti box mover, ossia i grossisti che non svolgono alcuna funzione produttiva e di republishing; assieme a questi vi sono anche gli operatori della distribuzione informatica ed elettronica all’ingrosso (Vobis, Computer Discount).

Possiamo ritenere ancor oggi valida a grandi linee la situazione fotografata nel 1999, quando in Italia vennero censiti circa 180 operatori28: un quarto erano box mover, tutti gli altri appartenevano al primo gruppo.

La maggior parte degli editori ha strutture interne di produzione ridotte al minimo (dalle due alle dieci persone) in quanto si appoggia essenzialmente su società di sviluppo esterne. Tra queste c’è stata, nel corso della seconda metà degli anni Novanta, una selezione darwiniana molto forte, che ha ridotto drasticamente il numero delle realtà imprenditoriali giovanili che si erano lanciate nel settore all’inizio del decennio, spinte da un entusiasmo e un impegno creativo che ha prodotto anche risultati di ottima qualità. Purtroppo la politica italiana non ha mai dedicato loro quelle minime strutture e quei minimi incentivi economici che in altri paesi, come la Francia, hanno creato in questi anni migliaia di posti di lavoro, strutture solide e capacità di esportazione di prodotti e servizi.

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I generi editoriali

Abbiamo visto che il segmento consumer è divisibile in due grandi aree: l’area game e l’area no-game. Analizziamole ora in dettaglio.

Il game, traino dello sviluppo dei CdRom, presenta un assortimento di titoli29 ricco e profondo, il cui tasso di turnover è elevato. La continua implementazione tecnica e l’aggiunta di sempre nuovi accessori costituiscono, di fatto, una continua spinta al mercato, sia nelle vendite che negli acquisti. Seppure con tassi leggermente decrescenti, i giochi multimediali registrano un fatturato annuo comparabile con quello di tutti gli altri generi messi insieme30. La forte presenza di operatori stranieri in questo settore continua a rappresentare una peculiarità del mercato italiano, anche se negli ultimi anni non sono mancati distributori e localizzatori nazionali attratti sostanzialmente da interessi economici.

Dall’alta concentrazione del mercato sui titoli guida, quelli di maggiore successo, deriva un’incidenza sempre maggiore del fenomeno della pirateria, che si manifesta in forme sempre più decise e organizzate. Si stima che la pirateria tolga al mercato legale un buon 40% del totale, con picchi dell’80% proprio per il genere game31.

Altra minaccia per i titoli game per computer è la concorrenza giocata dalle console per videogiochi, che continuano ad attirare sempre maggiori quote di mercato giovanili.

E passiamo all’area di nostro interesse, quella dei no-game: qui il volume d’affari nel 2000 è stato di un centinaio di milioni di euro32, e tutto fa supporre che tale più o meno sia rimasto fino a oggi, con scostamenti minimi.

L’area no-game racchiude un’ampia tipologia di prodotti, di cui è interessante analizzare le dinamiche di evoluzione. La classificazione utilizzata dall’Anee, che pur non essendo l’unica33 è la più diffusa, individua quattro generi:

art/culture/reference, che comprende tutti i titoli di informazione e cultura a carattere generale (come le enciclopedie universali) o tematico (come le monografie degli artisti, le guide turistiche, le ricostruzioni storiche, le guide ai musei e, più in generale, le produzioni volte all’incentivazione e allo sviluppo di hobby e di capacità artistiche personali come la fotografia, la pittura o l’arredo);

educational/scolastica, che comprende titoli che hanno una specifica finalità didattica ed educativa, come i corsi di lingua multimediali o i cosiddetti titoli curriculum-based, che vanno cioè a integrare i supporti didattici tradizionali;

edutainment/kids, ossia prodotti di apprendimento ludico o di gioco didattico;

altro, ultima categoria generica che comprende il porno, le compilation, le demo e lo shareware.

L’art/culture/reference ha sempre dominato il mercato consumer coprendo più o meno la metà del fatturato del segmento no-game (e quindi un quarto circa del mercato italiano di massa dell’editoria elettronica). Questo genere è caratterizzato dall’offerta di collane34, distribuite in edicola e soggette a una forte stagionalità. Hanno il vantaggio di giovarsi di pubblicità indiretta, quando sono pubblicate in concomitanza di grandi eventi nazionali o mondiali (come i CdRom realizzati per il Giubileo 2000), oppure quando vengono abbinate a testate giornalistiche a diffusione nazionale. La tendenza è verso la produzione di titoli di qualità più elevata, dalle prestazioni multimediali spettacolari e dai contenuti profondi e specifici, su cui la notorietà del marchio opera sempre più una funzione di garanzia di qualità.

Una leggera crescita è registrata dai titoli di educational ed edutainment (parola che deriva da educational ed entertainment). Lo sviluppo dell’installato di Pc nelle famiglie italiane e il crescente livello di informatizzazione dei ragazzi, che familiarizzano con il linguaggio del computer sempre prima, sono fattori che in questi ultimi anni hanno fatto sperare gli operatori in uno sviluppo di queste categorie35. Gli ostacoli che però si individuano sono indiscutibili: scarsa attenzione della scuola al mondo delle nuove tecnologie, scarsa preparazione del corpo docenti all’uso di nuovi strumenti didattici, e scarsa propensione a integrare i metodi e i supporti di insegnamento tradizionali con nuove soluzioni.

Tra i titoli didattici, i corsi di lingua multimediale continuano a raccogliere i maggiori successi, perché offrono contenuti diversificati per principianti o esperti, aggiornamenti, prove e test di verifica continui, con sistemi di riconoscimento vocale e servizi di consulenza e aiuto on line.

I titoli che contengono approfondimenti ed esercizi strettamente correlati con i programmi scolastici del ministero dell’Istruzione coprono, anche se in maniera non omogenea, tutte le materie di insegnamento, sia come prodotti abbinati ai libri di testo (in particalore per la matematica, 14%) sia come prodotti indipendenti (soprattutto per l’italiano, 17,5%)36.

Nella categoria edutainment/kids, distinguiamo due tipologie di prodotti: quelli che vengono in aiuto alla formazione scolastica di base e quelli che si propongono l’obiettivo di sviluppare conoscenze e creatività.

Da ultimo, l’area delle compilation/shareware è ormai stabilizzata da anni e i suoi tassi di sviluppo sono nettamente in calo. Questo genere di software viene distribuito tramite le riviste specializzate oppure viene scaricato direttamente dal web in maniera gratuita. Il genere erotico per adulti, invece, occupa una quota di mercato sempre consistente, ma di difficile misurazione. Anche in questo caso, tuttavia, la migrazione verso Internet, così come verso la nuova piattaforma Dvd, ha un peso sempre più rilevante.

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1. Software per la gestione del prodotto multimediale

Appartengono a questa categoria i cosiddetti multimedia authoring tool che hanno sostituito ormai da tempo i linguaggi di programmazione tradizionali (C, C++, Visual Basic, Java) nella realizzazione di prodotti multimediali.

I linguaggi di programmazione tradizionali, infatti, sebbene molto potenti, dimostrano una scarsa flessibilità nel trattamento dei vari media digitali e richiedono comunque un tempo di sviluppo più lungo, così come un debugging più complesso, rendendo nella maggior parte dei casi il processo produttivo più farraginoso, e più difficile l’adattamento del prodotto finale su piattaforme e sistemi operativi diversi.

I software per la realizzazione di un CdRom, invece, sono ambienti che comprendono molte funzionalità per la gestione di formati digitali diversi, per creare interazioni, riprodurre il flow chart del prodotto, ecc., attraverso la mediazione della propria interfaccia. Caratteristica generale è quella di prevedere anche la possibilità di programmazione di logiche più complesse di quelle offerte di default attraverso il supporto di linguaggi di programmazione proprietari che, solitamente, consentono ampie possibilità di espansione e di adattamento del prodotto a pressoché tutte le esigenze.

L’affermazione di un pacchetto rispetto a un altro si basa essenzialmente sulla intuitività dell’interfaccia, sul supporto che offre ai media specifici o ai formati digitali proprietari, sulle potenzialità del linguaggio, sulla documentazione di corredo. Conta, inoltre, la disponibilità di una comunità di sviluppatori capaci di uno scambio di know how, come la messa a disposizione – da parte della stessa casa produttrice – di risorse didattiche, tutorial, spazi di discussione, oltre che seminari di aggiornamento riguardo il software, feedback su dubbi e suggerimenti, e la certificazione dei saperi.

La straordinaria affermazione di Macromedia si deve anche a una lungimirante politica di marketing relazionale condotta verso l’universo degli sviluppatori2, che ha consentito un veloce ed efficace processo di condivisione di conoscenze.

Storicamente, i due maggiori software per la realizzazione di prodotti multimediali sono stati «Macromedia Director» e «Asimmetrix Toolbok» (attualmente distribuito dalla Click2Learn3). Vediamoli un po’ più in dettaglio.

1.1. Toolbook

Toolbook è un software particolarmente indicativo dello sviluppo della struttura di navigazione dei CdRom: esso infatti utilizza la metafora del libro (book), la stessa che ha informato l’interfaccia dei primi prodotti ipermediali all’inizio degli anni Novanta.

Un libro Toolbook è diviso in pagine sulle quali sono collocati vari oggetti (bottoni, immagini, campi di testo) che possiedono alcune proprietà che definiscono il loro aspetto e il loro comportamento. Il funzionamento di un’applicazione Toolbook è determinato dalle azioni dell’utente (eventi): quando si verifica un evento (quale il clic del mouse o la pressione di un tasto) viene inviato un messaggio all’oggetto destinatario; qualora questo abbia informazioni specifiche in risposta allo specifico evento, le esegue, altrimenti segue una specifica gerarchia di eventi impostati.

Le istruzioni interne vengono fornite attraverso un linguaggio di programmazione denominato «OpenScript», flessibile e molto facile da apprendere, anche se il programma offre una serie di strumenti che generano il codice necessario all’evento in modo autonomo.

Nell’attuale versione, Toolbook ha accentuato la connotazione di software dedicato all’e-learning, in particolare alla realizzazione di corsi on line, poiché consente di convertire l’applicazione creata in tecnologia Dhtml (Html, Javascript, Applett Java).

1.2. Director

Il tool che però ha sicuramente segnato lo sviluppo off line è Macromedia Director. Giunto ormai alla sua nona release, questo prodotto è lo standard di riferimento professionale per lo sviluppo di CdRom multimediali.

Alla sua affermazione hanno contribuito in modo determinante la metafora principale dell’interfaccia, basata sui concetti di timeline e di stage.

Il primo, in particolare, attribuisce a Director la connotazione di software time driven, ovvero gestisce le interazioni e le sezioni presenti all’interno del flow chart del prodotto multimediale come eventi disposti lungo una linea temporale. Tutti gli oggetti sono contenuti all’interno di fotogrammi (frame): il file prodotto (non a caso denominato movie) è un filmato la cui testina si avvolge e riavvolge in entrambi i sensi di questa linea temporale.

Lo stage è l’area visibile del filmato, ove sono rappresentati gli sprite, elementi di libreria riutilizzabili per tutto il movie.

La libreria è l’espressione dei concetti portanti del quadro d’insieme (il framework) di Macromedia: riusabilità e modularità. Essa raccoglie, infatti, tutti gli elementi che compongono il filmato, siano essi immagini, video, suoni, ma anche comportamenti e azioni. Gli elementi vengono trascinati dalla libreria allo stage ogni volta che ce ne sia bisogno, con la possibilità di modificarne in vario modo le proprietà.

Director è ovviamente dotato di un linguaggio proprietario di scripting: Lingo. Si tratta di un linguaggio dotato di una serie impressionante di funzioni specifiche per il trattamento di tutti gli aspetti del prodotto multimediale: riprodurre modelli fisici complessi, realizzare in modo semplice interazioni avanzate per il programmatore, impostare le proprietà di riproduzione dei contenuti audio/video, gestire la memoria della piattaforma.

1.3. Flash

È indubbio però che il software che ha portato Macromedia, la società di San Francisco nata nel 1992, a diventare in pochi anni leader indiscusso nella fornitura di software per lo sviluppo web/multimediale è il notissimo «Macromedia Flash». Nato inizialmente (nel 1997) come prodotto per la creazione di animazioni vettoriali destinate al web, è divenuto ormai uno standard imprescindibile non solo per l’on line, ma in larga parte anche per l’off line. L’enorme diffusione di Flash è certo dovuta ad alcune caratteristiche che condivide appieno con Director (tra cui l’impostazione time driven), ma il suo vero valore aggiunto si può individuare nell’enorme compressione dei filmati4. Ciò consente, con pochi KiloByte, di raggiungere un livello di dinamicità e possibilità di modulazione grafica ignote ai tradizionali strumenti Html/Dhtml. Oramai Flash viene utilizzato per un ventaglio di applicazioni molto ampie che vanno dalla costituzione dei banner, sino ai giochi on line, passando ovviamente per la progettazione e realizzazione di interi siti o CdRom.

Anche nella realizzazione di prodotti off line, molte delle animazioni e sezioni interattive vengono realizzate in Flash, attraverso il supporto del proprio linguaggio di scripting, Actionscript, strutturalmente molto simile al linguaggio proprio del web, il Javascript5.

Il successo di Flash come sistema autore per l’on line è dovuto poi anche alla larga dotazione del plug in necessario alla riproduzione dei filmati Flash: il «Flash player». Il player è infatti pre-installato nella maggior parte dei computer, in quanto è incluso, tra gli altri, in tutte le copie di Windows 98, Windows ME, Netscape Navigator, sistemi operativi Apple Macintosh, America Online, WebTV e Real Player; viene inoltre distribuito attraverso un gran numero di partner chiave, come Microsoft, Netscape e Aol.

La caratteristica principale di Flash è la sua flessibilità: dotato di una serie di strumenti specifici sia per il disegno che per la programmazione, coinvolge un largo spettro di professionalità, dal disegnatore all’animatore, passando per il programmatore tradizionale; è anzi il caso di ricordare che lo stesso Flash ha contribuito addirittura a creare alcune figure specifiche che vengono raccolte sotto la categoria comune di Flash designer (nel gergo degli sviluppatori italiani: i flashisti).

La sesta release (quella più attuale al momento della stesura di questo testo) del programma e del relativo player rappresenta un punto di svolta nella storia del software poiché introduce delle sostanziali modifiche e delle innovazioni che prefigurano nuove ambizioni e direttive di sviluppo. Due quelle di particolare rilievo: la programmazione «lato server» e l’integrazione per il supporto dei filmati audio/video.

Macromedia ha rilasciato, infatti, sia «Flash Communication Server», che viene utilizzato per la creazione di sessioni di streaming audio-video o interazioni complesse come giochi multiutente, sia «Flash remoting» per l’accesso diretto alle sorgenti dati. Quest’operazione lascia intravedere la volontà di espandere l’utilizzo del file Flash, considerato fino ad ora un’applicazione prevalentemente client (scaricata ed eseguita in locale dal browser), verso la comunicazione client/server. In altre parole, l’intento è quello di consentire a siti realizzati in interfaccia Flash di accedere in tempo reale a dati, inglobare chat, e così via, rendendo agevole e veloce ciò che adesso richiede la combinazione di tecnologie diverse (da una parte quelle d’accesso ai dati, dall’altra quelle di streaming video), con un appeal grafico molto maggiore.

Questa implementazione è dovuta anche all’integrazione di funzioni avanzate di gestione del video, che consentono di produrre filmati con altissimo grado di compressione. Il potenziamento delle caratteristiche di programmazione di Flash rende conto dell’enorme strada fatta da questo software rispetto agli esordi.

Vale la pena segnalare come ormai Flash sia distribuito anche sui dispositivi mobili (computer palmari, cellulari d’ultima generazione), puntando a supportare in futuro molte delle nuove periferiche minori. Infine, a testimoniare l’universalità raggiunta, notiamo come siano state introdotte in questo software funzioni per supporto di utenti disabili con handicap visivi, anche se la completa accessibilità del contenuto rimane in questi casi ancora un obiettivo da raggiungere.

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2. Software per il trattamento di media specifici

Oltre che di tool per l’assemblaggio dell’intero prodotto, la produzione di un titolo multimediale si avvale comunque anche del rilevante apporto di software per il trattamento di media specifici (grafica, video, audio). Il «trattamento dei formati» è una fase propedeutica alla loro organizzazione all’interno di un software come Director, e richiede una cura e un’attenzione specifiche.

Ognuno dei settori di seguito elencati coinvolge almeno una figura professionale; nel caso del trattamento dell’audio e del video digitali, poi, tali e tanti sono gli scenari e le varianti possibili, che possono essere considerati a pieno diritto degli universi a sé stanti.

Cercheremo di dare un panoramica dei maggiori software in commercio e delle tecniche principali, tenendo conto comunque del fatto che la lavorazione del CdRom di solito utilizza solo una parte di tutto il know how circa il trattamento dei formati digitali, in genere quella relativa all’ottimizzazione e alla compatibilità.

2.1. Grafica bitmap e grafica vettoriale

I contributi grafici sono fondamentali per ogni prodotto multimediale: ne determinano l’aspetto e la connotazione, gli conferiscono dinamismo, in ultima istanza lo identificano. La forma grafica più ricorrente è l’immagine grafica, sia statica che in movimento. Per rappresentare un’immagine si ricorre a diverse tecniche, che danno origine a due tipologie di grafica: quella vettoriale e quella «bitmap»6.

La grafica vettoriale crea le immagini manipolando linee e curve: più precisamente, i dati dell’immagine vengono tradotti in formule matematiche che contengono tutte le istruzioni necessarie per tracciarla; ad esempio, per un segmento vengono memorizzate solo le coordinate del punto iniziale e di quello finale, per un cerchio solo le coordinate del centro e la lunghezza del raggio, mentre la colorazione avviene attraverso la saturazione cromatica delle linee e delle aree chiuse. Ciò comporta un’alta precisione per i disegni dettagliati e una dimensione compatta dei file prodotti.

La grafica bitmap (a matrice di bit) crea invece le immagini usando punti colorati chiamati pixel, per cui la composizione avviene come in un mosaico, e la memorizzazione attraverso una sorta di database basato su pixel e colori.

Gli ambiti di utilizzo delle due tecniche di rappresentazione sono facilmente immaginabili. Qualora si tratti di rappresentare una fotografia, sarebbe troppo oneroso e antieconomico rappresentarla attraverso la riproduzione di un modello matematico: si ricorre quindi necessariamente al formato bitmap. Per la rappresentazione di forme geometriche o in movimento l’alternativa vettoriale è invece quasi sempre preferibile. La grafica vettoriale è utilizzata poi in particolare per la modellazione tridimensionale degli oggetti (3D), dato che permette di creare con relativa facilità le strutture tridimensionali di base (i cosiddetti wireframe, o strutture a filo di ferro), su cui applicare le coperture (texture) in formato bitmap.

Il software maggiormente utilizzato per la grafica bitmap è sicuramente «Adobe Photoshop», giunto alla sua settima release al momento della redazione di questo testo. Photoshop viene considerato il maggior software di fotoritocco, dato che dispone di un’ampia libreria di funzioni per il trattamento dell’immagine, oltre che di innumerevoli filtri ed effetti. Maggiormente orientato al web (in particolare per la sua forte interoperabilità con un diffuso pacchetto per la creazione di siti web, «Macromedia Dreaweaver») è «Macromedia Fireworks» che, oltre a fornire le funzioni di trattamento dell’immagine, consente di esportare porzioni di codice Html per la realizzazione di immagini mappate, bottoni, effetti destinati alle pagine web.

Sul fronte della grafica vettoriale bidimensionale ricordiamo due software molto simili: «Adobe Illustrator» e «Macromedia Freehand», oltre al già citato Macromedia Flash.

Maggiormente complesso e variegato è il mondo della grafica tridimensionale. Un software «storico» per la modellazione 3D è «3D Studio Max», capace non solo di riprodurre modelli tridimensionali complessi, ma anche di creare animazioni. Di più recente introduzione è «Maya», utilizzato per riprodurre anche oggetti fisici complessi come i capelli.

2.2. Editing video

In commercio esistono decine di programmi dedicati all’editing video, da quelli shareware e freeware fino ai prodotti più sofisticati, sviluppati da case di fama internazionale, come Avid, Destreet e Adobe. Semplificando, si può affermare però che sono due i prodotti che di fatto dominano il mercato: «Adobe Premiere» in primis, e quindi «Ulead MediaStudio Pro», meno diffuso ma altrettanto valido.

Il primo è di fatto lo standard mondiale per l’editing video semi-professionale, grazie anche alla forza commerciale di Adobe, che è riuscita a distribuire la versione LE (priva di alcune funzioni) in bundle con numerosissime schede di acquisizione video. Premiere è caratterizzato da un’interfaccia molto ben fatta, da una grande varietà di effetti e filtri e da discrete funzioni di animazione. La versione LE è più che sufficiente per un’utenza domestica, mentre i professionisti e i montatori più esigenti possono optare per la versione completa, per via di alcune caratteristiche molto importanti, come il controllo seriale dei videoregistratori, o la possibilità di gestire e memorizzare le funzioni di editing.

Ulead MediaStudio Pro prospetta un utilizzo apparentemente meno professionale, specialmente per quanto concerne la strutturazione dell’interfaccia, ma, unendo cinque pacchetti differenti, mette a disposizione degli utenti evoluti un vero e proprio studio di post-produzione video caratterizzato da potenti funzioni di cattura, editing (sia audio che video), titolazione e output nei formati più diffusi.

Ovviamente i prodotti in commercio per esigenze specifiche sono moltissimi. Ne elenchiamo di seguito solo qualcuno, come semplice esempio: «After Effects», «Xing Mpeg Encoder», «Commotion».

2.3. Editing audio

Come l’editing video, anche l’editing audio è un universo in continua evoluzione e aggiornamento tecnologico. Generalmente, caratteristica comune per i programmi di audio editing è quella di fornire un buona libreria di suoni di partenza e molte funzioni per la manipolazione e il mixing dei vari suoni; e, giacché sono quasi tutti rivolti a professionisti del suono o a musicisti, semplicità di utilizzo e intuitività ne rappresentano una indispensabile premessa per l’affermazione.

Uno dei software audio più diffusi al mondo è «Logic Audio», rivolto a un’utenza di stampo professionale. È in grado di integrare registrazione audio digitale, editing, sequencing e notazione professionale in un unico programma con ampia libreria e possibilità di personalizzazione; una sua particolarità molto significativa è il cosiddetto «Environment», un ambiente a oggetti che comprende le raffigurazioni degli I/O (input/output) fisici del software e una gran quantità di tool per modificare i dati in tempo reale.

Programma analogo e particolarmente orientato alla piattaforma Windows è «Cakewalk»7, particolarmente interessante per la presenza di molte risorse aggiuntive al programma disponibili su Internet, basate su tecnologia Microsoft (DirectX).

Altro software di larga diffusione è «Cubase», distribuito dalla Steinberg, largamente utilizzato anche nella produzione di musica digitale, capace di simulare un intero studio di registrazione, con funzioni avanzate di simulazione degli strumenti elettronici prescelti.

Ancora un software utilizzato generalmente per l’acquisizione di audio da sorgente fisica, ma con grandi capacità di manipolazione e ottimizzazione della traccia sonora, è «Sound Forge», che supporta, tra l’altro, qualsiasi tipo di audio.

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1. Le fasi della produzione industriale

Le fasi di produzione industriale del supporto si possono schematizzare come in Tabella, che prendiamo a riferimento per i commenti che seguono, tenendo conto del fatto che sono indicate in maiuscolo le fasi principali della produzione.

Vediamo fase per fase.

Rappresentazione schematica delle fasi di produzione del supporto

INPUT

Supporto del Cliente

FASE 1

PRE-MASTERIZZAZIONE

Prodotto della Fase 1

Gold disc inciso

FASE 2

MASTERIZZAZIONE

Prodotto della Fase 2

Master di nichel

FASE 3

REPLICAZIONE

Prodotto della Fase 3

Compact disc metallizzato

FASE 4

STAMPA ETICHETTA

Prodotto della Fase 4

Compact disc stampato

FASE 5

CONFEZIONE

OUTPUT

Prodotto finito da immettere sul mercato

La fase di pre-masterizzazione3

Si tratta della fase iniziale della lavorazione del Cd. La base di partenza è il supporto fornito dal cliente, detto gold disc, un Cd-R (Cd Registrabile). Nella sala di pre-master viene fatto un controllo preliminare di:

– audio: si controlla il tempo totale di durata dell’audio, il numero dei brani e il loro ordinamento, la qualità;

– rom: vengono effettuati le prove di installazione e navigazione e il controllo antivirus. Qui di regola non si svolge alcuna funzione di editing su ciò che è stato fornito dal cliente ma, quando è richiesto, si può procedere a una fase di authoring in collaborazione con il cliente stesso. Questa fase è utile a definire il sistema di navigazione del prodotto, i collegamenti ipertestuali, gli eventuali materiali aggiuntivi, con l’obiettivo di offrire all’utente finale un prodotto ricco ma fruibile in modo agevole.

Successivamente, dopo la realizzazione della replica, nella sala di pre-master avviene il confronto «bit to bit» tra campioni dei dischi replicati e il gold disc originale: un controllo molto approfondito per rilevare eventuali errori e permetterne la tempestiva correzione. Questo è il controllo più completo ma, nel corso della lavorazione, ne vengono effettuati anche altri: uno nella clean room, dove avviene il processo galvanico, e un altro nel reparto di replica (che vedremo nelle pagine che seguono), dove c’è un macchinario detto Koch che controlla, nei Cd replicati, il rispetto dei parametri Sony-Philips contenuti nei vari Red book, Yellow book, ecc.4.

Il processo di masterizzazione

Il processo è diviso in due fasi principali.

La prima fase è la realizzazione del cosiddetto glass master. Vediamo molto sinteticamente la sequenza che caratterizza questa prima parte del processo. Il glass master prende forma dal cosiddetto cristallo pulito: il processo si appoggia infatti su di un disco di cristallo di estrema purezza; sul cristallo perfettamente pulito viene quindi depositato un sottile strato (170 micron5) di lacca fotosensibile. Quindi un raggio laser va a colpire la lacca fotosensibile seguendo una traccia a spirale che parte dal centro del disco e si dirige verso il bordo esterno (fotoesposizione della lacca al laser, ovvero registrazione). La parte esposta viene asportata con una soluzione sviluppatrice (lo sviluppo) creando dei microfori (pit) di dimensione dell’ordine del micron (la superficie non forata viene detta invece land). Si passa infine alla metallizzazione: la deposizione di uno strato di argento dello spessore di circa 1200 Å6.

La seconda fase del processo è la cosiddetta galvanica7: si tratta della formazione del master in nichel, quello che costituirà la «matrice» su cui verranno fisicamente replicate le copie finali, che andranno poi distribuite sul mercato. Vediamone la sequenza. Per prima cosa, sul disco precedentemente metallizzato viene fatto accrescere uno strato di nichel di circa 300 micron (la formazione del master detto «padre»); quindi si procede alla separazione del master padre, ovvero del master di nichel, da tutto il resto (disco in vetro, lacca incisa, argento). Si passa poi alla formazione della «madre»: sopra il master in nichel precedentemente formato («padre») si fa accrescere un altro strato di nichel, creando la sua immagine complementare, appunto la cosiddetta «madre». L’ultima azione di questo processo è la separazione tra madre e padre; il «padre», separato meccanicamente dalla «madre», viene passato al reparto replicazione per la successiva produzione vera e propria dei Cd, mentre la «madre» viene archiviata per eventuali rifacimenti o ristampe.

Il processo di replicazione

La replicazione viene fatta attraverso un’apposita pressa che presenta da una parte (in un apposito alloggiamento) il master, ovvero il «padre», e dall’altra un pre-essiccatore contenente policarbonato8 in granuli, il materiale plastico che ricoprirà il Cd una volta replicato. Questo materiale viene scaldato in un apposito cilindro fino ad arrivare a una temperatura superiore al punto di fusione (320°C). Nella fase della replica vera e propria, la pressa si chiude e i dati del master vengono stampigliati (registrati) sul disco in policarbonato: all’uscita dalla pressa si ha così il disco trasparente, dove è già stata creata l’incisione. Sopra il disco di policarbonato trasparente viene quindi depositato uno strato sottile di alluminio (metallizzazione) al fine di permettere la futura riflessione del raggio laser del lettore di Cd. E, per proteggere l’incisione, sopra lo strato di alluminio viene distribuito un velo di lacca cosiddetta U.V.9: è la fase finale di questo processo, appunto la laccatura.

La stampa dell’etichetta

L’ultimo passo che porta al Cd finito è il printing dell’etichetta tramite processi di stampa che possono essere serigrafici, offset o tampografici. I Cd possono essere stampati in linea (tampografia e serigrafia) o fuori linea (offset, serigrafia e flexo)10.

La confezione del prodotto

Per ogni prodotto il packaging è il primo elemento con il quale l’acquirente viene a contatto: esso ha dunque un’importanza fondamentale nell’attrarre, affascinare, comunicare valori, stimolare all’acquisto. Per far questo, il packaging, oltre che bello, deve essere anche adatto al prodotto, alle sue caratteristiche e al canale distributivo.

Nel caso del Cd, un packaging funzionale deve essere leggero, solido, economico da produrre, facilmente immagazzinabile, non ingombrante. La forma più diffusa di packaging per Cd (il cosiddetto jewel box, di cui avremo modo di parlare nelle pagine che seguono) è una scatolina piatta e trasparente con un’apertura a cerniera in grado di ospitare sul davanti il booklet (il libricino d’accompagnamento, con testo e foto o disegni, che fa anche da copertina), e sul retro la inlay card (il foglio che raccoglie di solito le informazioni di legge) posta sotto il tray, il vassoietto in plastica (di norma nera) che ospita il Cd con il suo caratteristico aggancio circolare al centro.

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2. Il «packaging»

Per comprendere il ruolo del packaging nella commercializzazione dei Cd dobbiamo fare un passo indietro per capire innanzitutto come nasce e si sviluppa il rapporto tra editori (clienti) e stampatori (fornitori).

Tutto inizia dal rapporto tra cliente e agente: quest’ultimo conosce i prodotti cartotecnici e deve saper armonizzare la capacità di offerta dell’azienda con le specifiche esigenze di ogni cliente, aiutandolo a trovare le soluzioni che più lo soddisfano. Raccolte le richieste, l’agente le trasmette all’ufficio tecnico, che prepara vari campioni di prodotti da presentare come proposte al cliente: proposte che sono sempre più di una, per dare al cliente la possibilità di scelta e non farlo sentire vincolato (è anche possibile che il cliente chieda all’azienda di approntare una soluzione libera, di pura creazione, oltre a quelle da catalogo). Per ogni campione viene realizzato un preventivo in cui vengono specificate le caratteristiche del progetto, i materiali da utilizzare, le caratteristiche della lavorazione, con i relativi prezzi. I campioni vengono approntati nel reparto detto «Cad»11, dove c’è un plotter12 collegato a un computer con software per il disegno tecnico, che permette di realizzare i prototipi delle confezioni.

A questo punto il cliente effettua la sua scelta, con la possibilità di chiedere opportune modifiche alle proposte.

Gli impianti

L’ufficio tecnico prepara quindi le dime del prototipo scelto: la dima è il tracciato perimetrale, con relative misure e ingombri, di un prodotto grafico non lineare (un prodotto sagomato, detto in gergo «cartotecnico») e costituisce la base che permetterà al fotolitista di realizzare le pellicole (gli impianti) da utilizzare per la stampa13.

Per quanto riguarda la realizzazione degli impianti vi sono due possibilità: quella tradizionale, in cui il cliente, con un proprio reparto di fotolitografia o appoggiandosi a laboratori esterni, crea le pellicole in base alle dime e le spedisce allo stampatore; e quella di avanguardia, in cui il cliente non spedisce atomi (le pellicole) ma bit (i file), che poi l’azienda provvede a plottare (trasformare in supporti fisici) con il vantaggio di correggere velocemente gli eventuali errori di impostazione (cosa che non può essere fatta con le pellicole già sviluppate) ed evitare i danni da trasporto che talvolta rendono le pellicole inservibili.

La realizzazione industriale del «packaging»

La realizzazione del packaging passa attraverso due fasi ben distinte: la formatura lastre e la stampa propriamente detta. Vediamole in sintesi.

La formatura lastre è la fase intermedia che permette di passare dal progetto alla realizzazione del prodotto: le pellicole (impianti) del cliente vengono trasferite su lastre in un apposito reparto. Se per esempio la stampa da effettuare è di tipo offset in quadricromia, per ogni prodotto vengono create 4 lastre, una per ognuno dei tre colori primari (rosso magenta, blu ciano e giallo) più una per il nero. Anche qui, come per gli impianti, è possibile seguire un sistema tradizionale e uno tecnologicamente più avanzato. Nel sistema tradizionale lo stampatore riceve dal cliente pellicole in pagina singola, che vengono montate in una sequenza che rappresenti lo svolgimento reale, in superficie piana, del prodotto finito (montato) che si ottiene dopo la stampa; nel sistema d’avanguardia l’intero processo viene automatizzato attraverso computer sulla base dei file spediti dal cliente al posto delle pellicole.

Tutto ciò per quanto riguarda sia i booklet per jewel box sia le confezioni speciali di tipo cartotecnico14.

Alla stampa vera e propria si procede dopo la preparazione e il montaggio delle lastre. Ci sono macchine che «leggono» direttamente la lastra e predispongono i macchinari per la stampa con la giusta quantità di inchiostro. Tutto ciò permette di ridurre i tempi di avviamento delle macchine e di diminuire drasticamente il numero di copie fuori registro della testa della tiratura (che vanno buttate al macero).

Conclude il processo l’allestimento (ovvero l’impacchettamento del Cd e delle parti a stampa del jewel box), che viene fatto attraverso apposite macchine allestitrici.

I diversi tipi di «packaging»

Negli ultimi anni si è avuta una consistente evoluzione nel packaging per Cd: questi cambiamenti sono avvenuti in corrispondenza di alcune importanti trasformazioni nelle regole del mercato come, ad esempio, l’evoluzione dei canali di vendita, dovuta alla diffusione dei Cd in ipermercati, aeroporti, librerie, edicole, in cui il prodotto viene visivamente accostato ad altri innumerevoli oggetti vistosi e colorati. Tutto ciò, dal punto di vista del packaging, ha generato l’esigenza di una maggiore differenziazione dei prodotti, che è avvenuta in due diversi modi.

Primo. Nella fase di sviluppo, quando è iniziata la diffusione di massa del Cd, si è voluto differenziare il prodotto dagli altri oggetti, puntando sulla sua immediata riconoscibilità: nel packaging ciò ha portato alla creazione di uno standard industriale con massima omogeneità e razionalità nelle forme, diffuso a livello internazionale. La risposta è stata il cosiddetto jewel case (o jewel box).

Secondo. Nella fase matura del mercato è sorta l’esigenza di creare valore aggiunto, per aumentare l’interesse e l’accettabilità dei prodotti. Ciò, dal punto di vista del packaging, ha significato andare oltre l’oggetto standardizzato, forzando forma e strutture in direzioni molteplici. Il contenitore viene così progettato ad hoc per conferire identità; la visibilità prevale sulla razionalità, gli accostamenti tra forme e materiali diversi si fanno sempre più audaci e personalizzati, con attenzione anche a valori apparentemente estranei come l’ecologia e il riciclaggio.

Riassumendo, oggi si producono confezioni di due tipologie distinte: quelle standard (jewel case, multipack, multibox in plastica e buste in cartone); e quelle speciali (invenzioni cartotecniche, brevetti ecologici, con processi produttivi comunque compatibili con le linee di produzione già esistenti, oppure prodotti «artigianali», con processi produttivi non industrializzabili).

Il «jewel box»

Il jewel case, più noto come jewel box, nel 1990 arriva a sostituire completamente il long box, il primo packaging che servì per commercializzare i Cd in Usa. Il long box, in plastica e carta, privo di grafica, con una finestra trasparente da cui si vedeva il Cd, era l’ideale per i dettaglianti perché era, dimensionalmente, la metà esatta della custodia di un LP (l’allora ancora diffuso disco in vinile a 33 giri), per cui accostando due long box si otteneva lo stesso ingombro di un LP, senza dover cambiare le strutture espositive.

Il jewel box, rispetto al long box, offre diversi vantaggi: l’inserimento di due o tre Cd nella stessa scatola; la ricchezza delle soluzioni grafiche; il grande potenziale di standardizzazione; la facile reperibilità del materiale di base (plastica); l’economicità del materiale e della produzione; la facilità di immagazzinamento (la cosiddetta impilabilità).

Accanto a questi pregi vi sono però innegabili difetti che spingono alla ricerca di soluzioni alternative: un’apertura e un’estrazione del contenuto poco agevoli, che richiedono l’impiego di entrambe le mani; una frequente rottura in varie zone ricorrenti, fra le quali la più soggetta è proprio la cerniera; il grande scarto di prodotto che questi difetti comportano, che è antitetico al concetto di custodia come protezione e, trattandosi di plastica, dannoso per l’ambiente. Senza dimenticare che, per forma e dimensione, il jewel box si presta a essere facilmente rubato nei negozi.

Tutto ciò, oltre alla necessità di colpire la fantasia dell’utente, ha portato alla ricerca e allo sviluppo di confezioni speciali, inizialmente legate a eventi particolari ma poi sempre più concepite come superamento del jewel box.

Le confezioni speciali

La domanda per packaging speciale è in costante crescita sia per il suo valore di impatto, a livello di immagine, sia per la capacità di costituire un’alternativa vincente allo standard mondiale, sul piano della funzionalità. Questo nonostante le numerose resistenze dei dettaglianti, principalmente per problemi espositivi.

Le confezioni speciali possono essere concepite nelle più disparate forme, materiali e dimensioni, sia sfruttando le linee produttive già esistenti, dunque creando prodotti con lavorazione industrializzabile, sia creando dei prodotti artigianali, con particolari lavorazioni non industrializzabili (in quest’ultimo caso il costo della lavorazione, e quindi del prodotto finito, necessariamente aumenta, e non di poco, per cui tale lavorazione non è adatta per produzioni molto ampie, e/o con budget e timing15 limitati).

In ogni caso diverse ricerche di mercato segnalano che il costo da sostenere per il packaging speciale è spesso più contenuto rispetto al valore aggiunto di cui si carica l’oggetto e quindi al relativo aumento di prezzo all’utente o di numero di copie vendute. Se prima, dunque, il mercato delle confezioni speciali era concentrato su riedizioni o edizioni a tiratura limitata, ora la richiesta è sempre più ampia e rinnovata. Vediamo in sintesi i principali tipi di packaging speciale.

Prodotti cartotecnici-grafici per vestire il cd. Possono avere varie declinazioni: multi-panelled, con una superficie molto ampia per la grafica; con tasca per il booklet; con booklet rilegato al centro della costola della confezione (che, in tal modo, diviene simile a un libro); ha la caratteristica costante del tray di plastica che alloggia il Cd16.

Eco-packaging. Mette in risalto le capacità creative dell’azienda stampatrice, coniugate con il valore ecologico molto sentito negli ultimi tempi e, per questo, fonte di ulteriore valore aggiunto. Si tratta di confezioni costruite completamente in cartone, senza impiegare neanche un grammo di plastica: ciò è possibile perché il tray è sostituito da una o più tasche in cui alloggiare i Cd e il booklet, che può essere anche montato sulla costola.

Scatole. Possono essere: fondo più coperchio; o automontanti, come quelle ecologiche, unite in coste e completamente in cartone. Le scatole, infatti, possono essere in diversi materiali: plastica, cartone, legno, ecc.

Custodie. Sono composte da un box, che fa da sede a un’altra confezione o parte grafica (es: libro). Possono essere in cartone o in materiali flessibili come il polipropilene.

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3. Il Dvd

Il Dvd è lo standard di memorizzazione ottica dei dati successivo al CdRom; l’acronimo Dvd può essere sciolto in digital video disc, perché inizialmente pensato esclusivamente per la riproduzione video, o digital versatile disc, poiché utilizzato come supporto dei più diversi tipi di dati, con la possibilità di integrare i diversi formati (video, audio e software).

Il nuovo standard è nato nel 1995 dall’accordo tra Time Warner e Toshiba, da un lato, e Sony e Philips dall’altro, in seguito al quale è sorto un consorzio di licensing a cui hanno aderito le maggiori aziende in ambito tecnologico. È possibile distinguere17: Dvd Audio, che rappresenta l’evoluzione del Cd Audio; Dvd Video, che contiene video in digitale, con audio in multilingua e altre informazioni (ad esempio, backstage della lavorazione di un film, interviste ai protagonisti, possibilità di cambio camera nelle inquadrature, ecc.); e Dvd Rom, il formato fisico di base per la memorizzazione dei dati, considerato il «fratello maggiore» del CdRom. Se ne possono individuare diversi tipi, tra cui: il Dvd R (Dvd Recordable, ovvero scrivibile, per indicare il supporto vergine su cui si può registrare una sola volta); il Dvd Rw (Dvd Rewritable) e il Dvd Ram, supporti cancellabili e riscrivibili (in teoria infinite volte).

Dal punto di vista tecnico, il sistema di lettura del Dvd (come per il Cd Audio e Rom) è basato sulla riflessione di un raggio laser. Il disco ha la stessa dimensione (Ø 12 cm) di un normale Cd ma, sulla superficie incisa, i pit18 sono molto più piccoli e danno vita a un layer (superficie) di dati molto più denso rispetto al Cd.

I diversi standard del Dvd

A parità di superficie, dunque, la quantità di dati registrabili passa da 650 MB del Cd a 4,7 GB del Dvd, nel caso in cui quest’ultimo sia scritto solo da un lato come i normali Cd (questo formato è detto «Dvd 5»). In realtà, nel Dvd, a un primo strato (riflettente) di pit, è possibile sovrapporne un altro (Dvd «doppio layer» o «Dvd 9») più vicino alla superficie, meno opaco (semiriflettente), per far leggere lo strato di dati sottostante: in tal modo in fase di lettura il laser legge entrambi gli strati e la capacità di memorizzazione passa a 8,5 GB. Esistono inoltre Dvd «a doppia faccia» (detti anche «Dvd 10»), che possono cioè essere incisi su entrambi i lati (capacità 9,4 GB), e Dvd «doppio layer, doppia faccia» con capacità di 17 GB: la capienza massima del nuovo standard, pari a circa 25 volte quella di un CdRom.

La maggiore capienza del Dvd, oltre che a un migliore utilizzo dello spazio fisico e alla dimensione dei pit, è dovuta anche al miglioramento dei sistemi di controllo degli errori sul supporto. Viene così guadagnato spazio attraverso l’eliminazione della ridondanza dei dati, necessaria nel CdRom a garantire la qualità della riproduzione.

La produzione industriale del Dvd

Il processo di produzione industriale del Dvd è fondamentalmente simile a quello utilizzato per il Cd, con alcune peculiarità relative in particolare al Dvd Video, che vediamo qui di seguito.

La fase di pre-masterizzazione del Dvd Video, soprattutto nel processo di authoring, è resa più complessa dalla necessità di definire una struttura di navigazione abbastanza articolata, a causa dell’inserimento di diversi materiali aggiuntivi, compresi i sottotitoli e i dialoghi in multilingua. La fase di pre-masterizzazione porta così alla scrittura di un nastro che viene testato e consegnato al reparto per la realizzazione del glass master per la scrittura definitiva del supporto.

A seguito delle consuete fasi di lavorazione, caratterizzate da controlli approfonditi, vengono prodotti i master, uno per il Dvd 5, due per gli altri formati (Dvd 9 e 10), a loro volta analizzati prima di procedere alla replica.

Quest’ultima è la fase che porta alla vera e propria produzione e assemblaggio del Dvd: anche qui vengono impiegati sistemi avanzati di controllo qualità e tecnologie all’avanguardia, per garantire un prodotto di alta affidabilità.

La stampa dell’etichetta si differenzia da quella del Cd solo nel caso del Dvd 10, in cui l’informazione è presente su entrambi i lati del supporto e quindi risulta stampabile solo sulla corona interna.

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In appendice e a complemento del corpo del manuale, presentiamo una raccolta di saggi e contributi specialistici dedicati ad alcuni aspetti sia tecnici che teorici dell’editoria multimediale, aspetti che non potevano trovare spazio – per la loro specificità – tra gli argomenti di base della prima e della seconda parte del libro.

I temi proposti in questa «terza parte» del manuale vengono dati in forma digitale per poter essere facilmente e velocemente aggiornati, visti gli argomenti trattati, che sono gli stessi dei seminari – scelti fra quelli più preziosi e interessanti – tenuti negli ultimi anni a completamento delle lezioni di Editoria multimediale all’università, sia nei corsi di laurea che nei master e nei corsi speciali. Gli autori dei saggi sono o sono stati collaboratori dell’autore, o esperti che hanno portato ai corsi il proprio contributo sugli argomenti che affrontano per iscritto nelle pagine che seguono.

Come si può facilmente capire dai titoli, i saggi di approfondimento sono suddivisi in diverse aree di interesse.

Agli aspetti tecnici della produzione multimediale sono dedicati gli approfondimenti sul software di sviluppo (App. 7), la produzione industriale dei CdRom (App. 8), la usability (App. 4) e il diritto d’autore per le opere digitali (App. 5).

Sul fronte opposto, puramente teorico, si colloca invece l’interessante riflessione sulle conseguenze dell’introduzione della dimensione tempo nella pagina scritta (App. 1).

L’analisi degli sviluppi in corso o a breve-medio termine è affidata ai saggi su print on demand (App. 2), e-book (App. 3) e sul mercato dell’editoria ipermediale (App. 6).

Naturalmente, per loro stessa natura, questi saggi non richiedono una lettura sequenziale, ma possono essere utilizzati come luoghi di approfondimento degli argomenti trattati nel corpo del manuale (nel corso del quale vengono esplicitamente richiamati) oppure possono essere selezionati secondo i propri specifici interessi. Esattamente come avviene per i seminari in un qualunque corso universitario.

La superficie degli ipertesti è da qualche anno percorsa da immagini, parole, forme in movimento. La quarta dimensione della rappresentazione, il tempo, entra a far parte della pagina web. L’affermazione di nuovi software di editing quali Macromedia Flash e Director2 ha reso, oltretutto, più semplice e frequente l’introduzione di elementi animati.

Il layout dell’ipertesto cessa d’ispirarsi solo alla metafora della «messa in pagina», ereditata dalla stampa cartacea, per assomigliare sempre più a una «messa in scena» audiovisiva, «teatrale», il prodotto di una programmazione «registica» degli eventi multimediali.

Il testo scritto e l’immagine continuano, comunque, a essere i principali strumenti espressivi presenti nell’ipertesto e sono, quindi, proprio queste due tecniche discorsive ad andare incontro alle più considerevoli rivoluzioni estetiche e funzionali.

La fruizione su schermo subisce di conseguenza importanti alterazioni, poiché si modifica lo stesso modo di concepire la lettura.

È necessario dunque fare il punto della situazione tentando una descrizione della nuova configurazione assunta dall’espressione su schermo, e osservare più in generale che ripercussioni abbia l’introduzione del tempo nella comunicazione digitale.

Una riflessione del genere è necessaria per capire se l’introduzione del movimento rappresenti effettivamente una svolta fruttuosa nelle tecnologie espressive e comprendere, quindi, se stiamo assistendo alla nascita di un nuovo linguaggio.

L’esigenza di descrivere la nuova realtà della grafica ipertestuale giustifica di per sé questo tentativo di porre un ordine nella babele di opinioni riguardanti l’uso dei programmi per l’animazione multimediale, attraverso un punto di vista alternativo, nato dalla miscela di molteplici approcci3 e focalizzato essenzialmente sul rapporto tra l’estetica e la funzione del testo, tra sensibile e intelligibile.

Le linee guida di questo cambiamento si snodano, a nostro avviso, su due versanti principali:

– lo statuto della scrittura e dell’immagine si modifica, così come varia il rapporto instauratosi tra le due forme testuali nei mezzi di comunicazione precedenti;

– l’espressione ipertestuale stessa subisce delle importanti modifiche sul piano espressivo e concettuale.

Per affrontare con cognizione di causa un argomento così nuovo, vediamo prima una breve storia della scrittura e dell’immagine, mettendo in luce le peculiarità di ciascun formato, le trasformazioni che hanno subito nei mezzi del passato, per mostrare infine come le innovazioni che le contrassegnano siano frutto di un curioso equilibrio tra tradizioni e novità, tra passato e futuro.

Allargando lo sguardo dalle componenti minime della schermata all’ipertesto nella sua interezza, studieremo le funzioni del movimento rispetto alle strategie di comunicazione dei suoi artefici, osservando come questo contribuisca alla manifestazione della struttura concettuale del testo e come agevoli l’orientamento del suo fruitore.

Dal tempo allo spazio. La scrittura e l’immagine

Estetica della scrittura e dell’immagine in movimento

La funzionalità del movimento nelle pagine web

Il nuovo tempo dell’ipertesto

Il print on demand, o stampa digitale a richiesta (spesso riportato con lo pseudoacronimo PonD), è una tecnica di produzione e distribuzione libraria che consente la digitalizzazione e la stampa di un testo dove necessario, nell’esatta quantità, e nella qualità richiesta: ciò rappresenta una vera e propria rivoluzione rispetto alle tecniche tradizionali.

La razionalizzazione produttiva

Le applicazioni potenziali del print on demand

L’utilizzo del PonD nell’editoria accademica

L’espressione «libro elettronico» (o il più diffuso anglismo «e-book») ad oggi non ha ancora assunto un significato univoco. In alcuni casi l’accento è posto sul contenuto in forma digitale2, in altri sulla possibile sperimentazione di nuove forme di testualità, grazie alle peculiari caratteristiche di multimedialità3 e di interattività4 associabili ai testi in formato elettronico; talvolta si sottolinea l’importanza del web come canale privilegiato di distribuzione, talvolta invece l’idea di e-book sembra presupporre la disponibilità del testo anche in forma cartacea5. Nel documento A framework for the Epublishing Ecology, redatto dall’Open eBook Forum, si afferma che il libro elettronico è «un’opera letteraria sotto forma di oggetto digitale, costituito da uno o più identificatori dello standard utilizzato, i relativi metadati e un corpo monografico di contenuti, da pubblicare e da fruire con dispositivi elettronici»6. Tale definizione sottolinea così l’importanza di un’organizzazione monografica del testo e della presenza di metadati descrittivi7.

L’evidente difficoltà che emerge quando si cerca di esplicitare il significato dell’espressione «libro elettronico» è segno della novità del fenomeno, fenomeno che sfugge a griglie logiche e strumenti concettuali tradizionali. Fino a tutto il 1998, in Italia l’espressione «e-book» non era di uso frequente, in quanto l’editoria elettronica veniva identificata tout court con l’editoria off line e i CdRom. Le cose iniziano a cambiare solo a partire dal 2000, quando gli operatori del settore si trovano a riabilitare formule di produzione e di distribuzione dei contenuti precedentemente scartate per la mancanza di alcuni presupposti tecnologici necessari alla loro implementazione e di un potenziale di utenti Internet sufficientemente ampio8.

La novità dell’e-book è testimoniata anche dalle oscillazioni ortografiche nell’articolazione del suffisso «e» con il sostantivo «book»: a volte si legge e-book, altre ebook, oppure eBook, o ancora Ebook; in questo contesto scegliamo di adottare la variante «e-book» e lo intendiamo come «un’opera letteraria monografica pubblicata in forma digitale e consultabile mediante appositi dispositivi informatici»9. Le espressioni e-publication (pubblicazione elettronica) ed e-text (testo elettronico) si usano invece rispettivamente con riferimento a opere di qualsiasi genere pubblicate in versione digitale e alle prime forme di testi di pubblico dominio, in formato Ascii10 o Html11, memorizzate e contenute all’interno di biblioteche e archivi on-line12, consultabili da qualsiasi utente attraverso un normale programma di browsing.

In realtà, come abbiamo sottolineato in apertura, l’utilizzo della parola e-book, nella vasta pubblicistica a esso dedicata, si allarga spesso fino a identificare il libro elettronico con il supporto hardware che veicola il testo (l’e-book reader device), o con il dispositivo di lettura software che consente l’accesso e la visualizzazione dell’opera in formato elettronico (l’e-book reader). Altre volte ancora invece il termine è stato utilizzato con riferimento al contenuto che viene conservato nella memoria del lettore hardware e visualizzato sul suo schermo grazie a un apposito software, oppure per indicare una pubblicazione su supporto digitale di qualsiasi genere e in qualunque formato, inclusi i normali file Word, Html, Ascii, Pdf.

D’altra parte questa polivalenza semantica caratterizza anche il termine «libro», che nel linguaggio comune può essere impiegato sia per indicare il contenuto, sia per indicare l’oggetto fisico che lo veicola. La medesima ambiguità si riscontra d’altra parte anche nell’uso del termine «testo». Ma, quale che sia la causa di questa indeterminazione del linguaggio (dovuta forse al fatto che da svariati secoli, nella cultura occidentale, il contatto con un testo avviene sempre tramite il supporto materiale mediante cui vi accediamo e sul quale viene visualizzato), riteniamo opportuno far notare che forse il contenuto e il dispositivo che lo veicola, pur avendo due significati distinti, non sono così indipendenti come potrebbe sembrare a una prima considerazione. Spesso il testo è strettamente legato alle caratteristiche fisiche del supporto su cui verrà rappresentato visivamente e alle sue procedure di produzione materiale.

Perché si possa parlare propriamente di e-book, bisogna associare il contenuto digitale alla dimensione pragmatica dell’interfaccia e della modalità di lettura13. I dispositivi hardware per la visualizzazione dei testi dovrebbero essere il più possibile simili al libro a stampa per peso, dimensioni, portabilità, maneggevolezza, praticità, facilità d’uso e qualità visiva dello schermo.

Tenendo conto di questa premessa, possiamo complessivamente definire l’e-book come «un testo elettronico unitario, ragionevolmente esteso e compiuto (monografia), opportunamente codificato e accompagnato da meta-informazioni descrittive, accessibile mediante appositi dispositivi hardware e software che consentano un’esperienza di lettura comoda e agevole e diano accesso a tutte le capacità di organizzazione testuale proprie della cultura del libro». Al tempo stesso, l’e-book andrebbe a integrare tali proprietà con quelle offerte dalla versione digitale di un testo, in termini di eventuale14 arricchimento del contenuto con elementi multimediali e ipertestuali, di possibilità di reperimento nonché di aggiornamento on line qualora sia necessario, di ricerca rapida, e così via. Per questo motivo sono da escludere dalla categoria degli e-book sia i testi elettronici che possono essere letti solo sul computer da scrivania, interfaccia di lettura scomoda e poco ergonomica, sia quelli destinati alla stampa su carta, come nel print on demand. In quest’ultimo caso, infatti, i testi elettronici fungono da supporto di trasferimento dell’informazione, ma l’interfaccia di lettura dell’utente finale è pur sempre il libro a stampa15.

La nascita dell’«e-book» e lo sviluppo dei dispositivi di lettura

I formati di codifica: alla ricerca di uno standard

L’Open eBook Forum: il formato Oeb

Pdf: il Portable Document Format di Adobe

«E-paper» ed «e-ink»: il futuro?

Cosa vuol dire creare un prodotto usabile? Vuol dire creare un prodotto il cui utilizzo risulti efficace, soddisfacente e piacevole per l’utente.

Per creare un prodotto con queste caratteristiche si dovrà tenere conto delle specificità degli utenti che andranno a utilizzarlo, dei loro bisogni, capacità, desideri e del contesto d’uso. Si dovranno cioè prevedere e svolgere una serie di attività durante il ciclo di progettazione e implementazione di un titolo di editoria multimediale che coinvolgano in ogni fase l’utente: dal concept del prodotto fino alla validazione dell’interfaccia e dell’architettura informativa.

Ciò permetterà di costruire un’esperienza di fruizione positiva e soddisfacente; fattore chiave per il successo di un titolo ipermediale.

Un prodotto che permette all’utente di soddisfare i propri bisogni e i propri desideri senza stress aumenta la soddisfazione, la qualità percepita dall’utilizzatore e la fiducia nel brand, dato che diminuisce il tempo di apprendimento, di esecuzione delle attività e di richiesta di assistenza; un prodotto percepito come affidabile e di qualità aumenterà la propria credibilità e le proprie vendite, diminuendo conseguentemente i costi di assistenza post-vendita. L’attenzione all’usabilità non è dunque un costo per un editore ma un investimento.

1. Cos’è l’usabilità

2. I tre settori dell’usabilità

3. Principi del buon design10

4. I cinque aspetti della «usability»11

5. I principi di usabilità12

6. Il processo «user centered»

7. Valutazione di usabilità: metodi sperimentali e metriche14

 

Introduzione: un po’ di storia

Diritto d’autore e copyright: dall’editoria su carta a quella multimediale

Il diritto morale

I diritti connessi

Le libere utilizzazioni

Termini di protezione del diritto d’autore

La legge di riconoscimento del software e delle banche dati

La cosiddetta «opera multimediale» e i suoi diritti di sfruttamento

Opera multimediale in quanto tale

Opera multimediale quale opera collettiva

Opera multimediale quale «composizione»

Opera multimediale quale «opera derivata»

Il contratto: rimedio a una lacuna normativa

La sempre maggiore concentrazione delle ricerche, e degli istituti internazionali che le promuovono2, sul mercato dell’e-learning e dell’on line rende difficile reperire dati aggiornati sul mercato dell’editoria elettronica off line.

Tale mercato è ormai assestato e stabile e a partire dal 2000 non ha presentato grandi variazioni, sia in Italia che all’estero. Per un’analisi del mercato italiano dell’editoria multimediale ci siamo quindi riferiti ai dati ufficiali del 2002 (che facevano riferimento agli anni precedenti), tenendo conto dei piccoli aggiustamenti che si possono dedurre da ricerche di mercato private o comunque parziali e non ufficiali, in un ambiente che è entrato in una fase di decisa stabilizzazione.

L’Anee e il suo Osservatorio

Il mercato dell’editoria digitale professionale

Il mercato «consumer»

I canali distributivi

I principali editori

I generi editoriali

Gli strumenti di sviluppo per l’editoria elettronica rappresentano un settore molto ampio e in rapida evoluzione, che vede affermarsi in modo continuo paradigmi dominanti capaci spesso di resistere a una concorrenza nuova e agguerrita, salvo poi essere sostituiti.

Dovendo fare una disamina degli strumenti che hanno consentito di realizzare nel tempo i primi CdRom, i primi Wbt, e ora moderni corsi multimediali sia off che on line, è doveroso fare una prima macro divisione tra gli strumenti atti alla realizzazione dell’intero prodotto e quelli per la gestione di media specifici.

1. Software per la gestione del prodotto multimediale

2. Software per il trattamento di media specifici

Parlando di CdRom ci si scontra, innanzitutto, con un’anomalia linguistica. Nell’uso quotidiano, infatti, con lo stesso termine si è soliti indicare tre diversi oggetti: il lettore CdRom, ovvero il dispositivo hardware che permette di leggere il supporto; il supporto stesso, un disco del diametro di circa 12 cm, fatto di alluminio e materiale plastico, con una superficie decorata nei modi più diversi; infine il contenuto di quel supporto, ovvero l’insieme di dati e informazioni in esso memorizzati.

In questo manuale si è centrata l’attenzione sul CdRom inteso come contenuto: combinazione di materiali ipertestuali (dati in formato audio, video e testo) che vanno a creare le applicazioni multimediali, i cosiddetti «prodotti» dell’editoria elettronica. Anche in questa sede ci occuperemo quindi dell’hardware (il lettore) e del supporto (il disco fisico) solo in maniera incidentale, per il rapporto funzionale che necessariamente ha con il contenuto.

Ciò non significa che il «CdRom-supporto» non sia importante: esso ha avuto un ruolo decisivo nello sviluppo delle applicazioni informatiche, sia sul fronte della memorizzazione e scambio dei dati (affermandosi come efficace standard contro la molteplicità dei supporti esistenti), sia come fattore determinante nella diffusione del multimedia presso il grande pubblico. In particolare, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del 2000, il CdRom si è rivelato un contenitore ottimale per i prodotti multimediali, che avevano bisogno di molto spazio per proporre dati in diversi formati: la sua disponibilità è stata determinante nella creazione e nello sviluppo di un mercato del multimedia off line.

Proprio per questo, se è vero che non è il supporto che qualifica il contenuto2, nello stesso tempo è importante capire – almeno per grandi linee – come nasce e si sviluppa tutto ciò che ruota intorno al supporto, dalla produzione industriale del Cd al packaging.

Senza tralasciare di dare uno sguardo anche al Dvd, nuovo standard di memorizzazione, sempre più diffuso per il playback video e non solo.

1. Le fasi della produzione industriale

2. Il «packaging»

3. Il Dvd