Valerio Eletti - Manuale di editoria multimediale
Appendice 4: L’usabilità dei prodotti di editoria multimediale di Marco Sentinelli

1. Cos’è l’usabilità

Lo standard Iso/Iec 9126 definisce l’usabilità come «la capacità del software di essere compreso, appreso, usato e gradito dall’utente quando usato in determinate condizioni»2.

Lo standard Iso 9241-11, invece, definisce l’usabilità come «il grado in cui un prodotto può essere usato da classi di utenti per raggiungere specifici obiettivi con efficacia, efficienza e soddisfazione in un contesto d’uso determinato»3.

In sintesi possiamo dire che, per essere usabile, un prodotto deve:

– essere adeguato ai bisogni e alle aspettative degli specifici utenti finali che lo usano in diverse, determinate condizioni;

– risultare facile da capire, da imparare, da usare, ed essere gradevole;

– consentire di eseguire le specifiche attività lavorative in modo corretto, veloce e con soddisfazione;

– generare pochi errori non critici.

L’usabilità va ricercata seguendo due principi fondamentali4:

– compatibilità cognitiva uomo-computer: un’interfaccia deve essere non solo fisicamente compatibile con le caratteristiche della percezione e dell’azione umana, ma deve essere anche cognitivamente compatibile con le caratteristiche della comunicazione, della memoria e della soluzione di problemi umani;

– contestualità del compito: l’azione degli esseri umani non può essere presa in considerazione senza fare riferimento al contesto generale in cui essa si svolge, poiché l’agire nasce, appunto, dall’incontro dell’attore umano con l’ambiente.

Obiettivo finale dell’usabilità è quello di rendere la tecnologia sottostante invisibile, trasparente all’utilizzatore, il quale deve potersi concentrare esclusivamente sul compito, anziché sul mezzo.

L’evoluzione del concetto di usabilità

L’evoluzione del concetto di usabilità è parallela a quella dei prodotti software e del tipo di utenti dei sistemi5.

Prima del 1980, l’usabilità non è necessaria

Fino agli anni Ottanta, il software veniva prodotto ma anche utilizzato quasi esclusivamente dagli ingegneri informatici. Se l’utente di un sistema è la stessa persona che lo ha sviluppato, ovviamente l’usabilità è un problema che non esiste, dato che modello del progettista e modello dell’utente coincidono.

La maggiore diffusione di computer, anche se solo fra addetti ai lavori, dà comunque l’avvio alla riflessione sull’interazione uomo-macchina.

In quegli stessi anni nasceva infatti la Human Computer Interaction (Hci), una scienza che cercava di capire e aiutare le persone a interagire con e per mezzo della tecnologia. La serie di studi che costituiscono la pietra miliare dell’Hci venne allora definita «Psicologia del software». Obiettivo di questa disciplina era quello di provare l’utilità di un approccio comportamentale alla comprensione del design del software, della programmazione e dell’uso dei sistemi interattivi, producendo una descrizione generale dell’interazione uomo-macchina che fosse riassumibile in linee guida per gli sviluppatori.

Anni Ottanta, i laboratori di usabilità

Nel 1983 la Apple realizza il primo personal computer con interfaccia grafica e mouse destinato alla diffusione su larga scala; l’introduzione sempre crescente del computer fa sorgere contemporaneamente i primi problemi di usabilità: gli utenti non appartengono infatti più alla stessa classe degli informatici e non hanno competenze comuni con i progettisti.

Con l’insorgere delle prime difficoltà di utilizzo si verificano i primi episodi di rifiuto della nuova tecnologia: del resto, gli alti costi per la formazione, e i mancati successi di molte esperienze di automazione di uffici non accelerano il processo di familiarizzazione. Per ovviare a questi inconvenienti e a questi rifiuti, vengono allestiti i primi laboratori di usabilità: obiettivo principale era quello di testare i prodotti con utenti potenziali prima del lancio commerciale.

Lo studio dell’usabilità assunse subito un carattere prettamente empirico: il metodo utilizzato veniva definito «design iterativo» e consisteva nella realizzazione di prototipi sui quali venivano condotti test di usabilità, che a loro volta indicavano le modifiche da effettuare per migliorare il progetto. Questi studi diedero l’impulso alla creazione di linee guida sulla base delle quali la progettazione di un’interfaccia poteva garantire al prodotto finale i requisiti di usabilità.

Questo nuovo approccio venne ben presto largamente accettato e in molti si convinsero della necessità di progettare mediante l’utilizzo di prototipi. Ne consegue che la partecipazione degli utenti alla progettazione aumentò e il metodo della prototipazione rapida divenne, di fatto, uno standard. In considerazione di questo approccio pratico alla soluzione dei problemi, si cominciò a parlare di «ingegneria dell’usabilità».

Fine anni Ottanta-inizio anni Novanta, design iterativo

L’ingegneria dell’usabilità introdusse tre nozioni chiave:

– venne proposto che la progettazione iterativa venisse condotta inseguendo obiettivi pratici definiti e misurabili, detti «specifiche di usabilità»;

– si cercò di ampliare il campo d’azione degli studi empirici e delle tecniche di design cooperativo, per arrivare a definire un nuovo approccio, detto anche «design contestuale», che tenesse conto sempre più dei bisogni dell’utente e del contesto reale in cui il prodotto veniva utilizzato, data la sterilità dei risultati ottenuti in laboratorio in condizioni decontestualizzate;

– la terza nozione chiave dell’ingegneria dell’usabilità divenne il rapporto costo/ricavo; infatti, uno dei problemi maggiori dei metodi di progettazione iterativa consisteva appunto negli alti costi che i vari cicli di riprogettazione richiedevano.

Nel 1986 viene pubblicato il libro di Norman e Draper User Centered System Design: New Perspectives on Human-Computer Interaction6: vi si nota che l’utente non può essere preso come individuo isolato, ma come soggetto che appartiene a una cultura e a una organizzazione specifica: la fruizione della tecnologia è influenzata dal contesto all’interno del quale avviene il suo utilizzo. Per questi motivi l’introduzione di linee-guida sul fattore umano o la definizione di specifiche generiche non poteva portare a una effettiva usabilità dei prodotti.

Con il modello user centered7, che inizia ad affermarsi su larga scala tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, si riconosce l’importanza non solo delle capacità e dei vincoli fisici e cognitivi dei singoli utenti, ma anche delle relazioni culturali, sociali e organizzative, nonché degli artefatti cognitivi distribuiti nell’ambiente che influenzano il modo di lavorare dell’uomo.

Anni Novanta, design partecipativo

La consapevolezza dei costi e degli sforzi di formazione, nonché l’alto numero di errori generati dall’interazione, costringe sempre di più gli sviluppatori a mettere l’utente e le sue esigenze al centro della progettazione.

Dal diretto coinvolgimento degli specialisti si passa al diretto coinvolgimento degli utenti. L’utente partecipa a tutte le fasi definitorie del processo, assumendo in qualche modo il ruolo di corresponsabile, insieme con il progettista, del prodotto finito. La produzione del software non è più un processo lineare, ma tende sempre più a essere un processo iterativo, attraverso cui si perviene al risultato finale grazie agli aggiustamenti successivi guidati dalla continua verifica delle reazioni e delle esigenze dell’utente finale.

Il concetto di usabilità oggi

Attualmente il concetto di usabilità subisce delle ulteriori trasformazioni dovute all’ingresso nella discussione sull’Hci di figure nuove, provenienti dall’antropologia e dalle scienze sociologiche, che dirigono l’attenzione verso orizzonti più ampi.

Sono emersi problemi nuovi, legati non più all’aspetto tecnico ma alle implicazioni di carattere sociale, alle relazioni di potere tra utilizzatori di status diverso e al pericolo che l’esasperazione dell’usabilità possa portare a un impoverimento dei compiti e delle qualifiche richieste ai lavoratori.

Ciò implica un mutamento della definizione di utente da «fattore umano» (tradizionalmente inteso come agente passivo e spersonalizzato) ad «attore umano»: un individuo attivo, capace di controllo e scelta. L’esigenza diventa, perciò, quella di abbandonare la ricerca di tecniche e linee guida valide per tutti, in qualsiasi occasione, e di accettare di confrontarsi con la complessità che deriva dalla progettazione di strumenti dedicati a persone diverse tra loro, ognuna impegnata sui propri obiettivi e immersa nel proprio ambiente.

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2. I tre settori dell’usabilità

Tre sono i settori dell’usabilità: l’architettura informativa, la progettazione dell’interfaccia e l’analisi dei flussi interattivi.

L’architettura informativa8

L’architettura informativa (o «infodesing») di un prodotto multimediale interattivo disegna la mappa informativa che permette agli utenti di trovare il proprio percorso personale verso la conoscenza, rendendo chiara la complessità. L’infodesign:

– determina quali contenuti e funzioni deve avere il prodotto;

– specifica come gli utenti saranno in grado di raggiungere le informazioni all’interno del prodotto, definendone l’organizzazione, la navigazione, il naming e il sistema di ricerca;

– chiarisce la mission e la vision del prodotto, bilanciando le esigenze dei produttori con quelle degli utenti;

– prevede come il prodotto possa evolvere e crescere nel corso del tempo.

Gli utenti notano l’architettura informativa di un sistema solo quando funziona male; quando non la notano, significa che si sposa perfettamente con la loro mappa concettuale: l’informazione è quindi ben strutturata.

La progettazione dell’interfaccia grafica9

Il design di un prodotto informatico interattivo deve tenere conto non solo dell’estetica dell’interfaccia, ma anche e soprattutto delle norme grafiche di usabilità e leggibilità derivate dalle scienze percettive e cognitive.

L’aumentata capacità di calcolo dei sistemi informatici e la sempre più ampia larghezza di banda disponibile per i sistemi in rete lasciano molto più spazio alla creatività dei designer. Sempre più spesso però assistiamo a delle vere e proprie «indigestioni multimediali»: main menu di CdRom o home page di siti web colme di immagini, loghi, animazioni e testi, collocati insieme senza alcuna gerarchia informativa, con l’unico risultato di disorientare l’utente.

Dall’altro lato, una buona interfaccia grafica non sempre deve essere graficamente essenziale: importante è che sia un’interfaccia strutturata e ordinata, nella quale ogni elemento grafico abbia il suo posto in funzione della gerarchia percettiva riservata.

Nella progettazione dell’interfaccia grafica convergono dunque più competenze e discipline di studio: dal graphic design alla psicologia percettiva, allo studio dei linguaggi e dei software di sviluppo.

L’analisi dei flussi interattivi

Lo studio delle interazioni uomo-macchina collega l’usabilità con l’ergonomia e con la Hci (Human Computer Interaction).

L’ergonomia è lo studio dell’interazione uomo-strumenti-ambiente nel suo complesso. La Società italiana di ergonomia la definisce come «un corpus di conoscenze interdisciplinari in grado di analizzare, progettare e valutare sistemi semplici o complessi in cui l’uomo figura come operatore o utente. Persegue coerenza e compatibilità tra il mondo che ci circonda – oggetti, servizi, ambienti di vita e di lavoro – ed esigenze di natura psicofisica e sociale, anche con l’obiettivo di migliorare l’efficienza e l’affidabilità dei sistemi».

Molto simile a quella di ergonomia è la definizione di Hci che si ritrova nel capitolo 2 del Curricula for HCI dello Special Interest Group on Computer-Human Interaction (Sigchi): «l’interazione uomo-calcolatore è una disciplina che riguarda la progettazione, la valutazione e l’implementazione di sistemi interattivi per l’uso da parte degli esseri umani e lo studio dei più importanti fenomeni ad essi collegati».

La differenza tra l’ergonomia cognitiva e l’Hci riguarda l’ambito di intervento. Infatti, mentre l’ergonomia spazia su oggetti, servizi, ambienti di vita e di lavoro, l’Hci si focalizza principalmente sui sistemi ipermediali.

Per quanto riguarda l’usabilità, l’analisi dei flussi interattivi si svolge attraverso l’applicazione dell’user centered design all’interno del ciclo di sviluppo del prodotto ipermediale, con varie tecniche di indagine sperimentale e analisi esperta.

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3. Principi del buon design10

Fornire un buon modello concettuale del sistema

Un buon modello concettuale permette di prevedere gli effetti delle azioni. Senza un modello adeguato si può operare meccanicamente, alla cieca. Finché le cose funzionano come si deve, non si hanno problemi. Ma quando sorge un imprevisto o una situazione nuova, ecco che si ha bisogno di una migliore comprensione: un modello concettuale del sistema.

Il modello progettuale è il modello concettuale del progettista.

Il modello dell’utente è il modello mentale sviluppato attraverso l’interazione con il sistema.

L’immagine del sistema risulta dalla struttura fisica che è stata costruita, la parte visibile del dispositivo.

Il progettista si aspetta che il modello dell’utente sia identico al (proprio) modello progettuale. Ma il progettista, anche se dovrebbe, non parla direttamente con l’utente; tutta la comunicazione avviene attraverso l’immagine del sistema. E quindi, se l’immagine del sistema non rende chiaro e coerente il modello progettuale, l’utente potrebbe formarsi un modello mentale sbagliato.

Rendere visibili le cose

La visibilità funge da efficace richiamo mnemonico di ciò che si può fare e permette a ogni tipo di comando di rendere chiaro all’utente come deve essere eseguita l’azione. La relazione trasparente e motivata fra la posizione del comando e la funzione cui assolve permette all’utente di trovare facilmente il comando giusto per la manovra da eseguire.

Il che significa che in questi casi l’utente non ha bisogno di imparare e ricordare le funzioni dei singoli comandi.

I problemi causati dall’insufficiente attenzione alla visibilità si possono verificare anche su apparecchi a noi particolarmente familiari, come il telefono. Le corrispondenze spesso sono davvero arbitrarie, dato che non c’è senso alcuno nella relazione fra le azioni da eseguire e i risultati che si ottengono. Ad esempio, per accedere alla casella vocale può essere richiesto di «digitare cancelletto, quattro, cinque, sei, proprio codice segreto, cancelletto». Perché questa e non un’altra sequenza numerica?

I rapporti fra le intenzioni dell’utente, le azioni richieste e i risultati finali sono completamente arbitrari. I comandi hanno funzioni multiple.

Inoltre non c’è quasi mai un’adeguata informazione di ritorno, per cui l’utente non è mai certo di aver ottenuto il risultato sperato. Il sistema, in generale, non è comprensibile; le sue capacità non sono evidenti.

Ogni volta che il numero delle azioni possibili eccede il numero dei comandi, è facile che ci siano difficoltà.

Il «mapping»

Mapping è un termine tecnico usato per indicare la relazione fra due cose, in questo caso fra i comandi e il loro azionamento e i risultati che ne derivano nel mondo esterno. Un mapping naturale, che cioè sfrutta analogie fisiche o modelli culturali, porta alla comprensione immediata. Per esempio, il progettista può utilizzare l’analogia spaziale: per sollevare un oggetto, muovere il comando verso l’alto. Alcune di queste correlazioni naturali sono di natura culturale, convenzionale o biologica, come il modello universale secondo cui un livello che sale rappresenta un aumento e quindi un più. Altre correlazioni derivano dai principi della percezione: ad esempio il blu è percepito istintivamente come un colore di sfondo, il rosso come un colore di primo piano; o, ancora, l’occhio è attirato dal movimento e nota prima la luminosità di un oggetto che il suo colore.

Il feedback

Il feedback è l’informazione di ritorno che dice all’utente quale azione ha effettivamente eseguito e quale risultato si è realizzato. Si tratta di un concetto ben noto nella cibernetica e nella teoria dell’informazione. Immaginate di cercare di parlare a qualcuno senza poter udire la vostra voce o di disegnare con una matita che non lascia segni: non ci sarebbe nessun feedback e quindi non sareste in grado di regolare il vostro volume di voce o controllare la correttezza del tratto.

Un dispositivo è facile da usare quando c’è visibilità dell’insieme delle azioni possibili, quando i quadri di comando e controllo sfruttano correlazioni naturali, quando c’è un’informazione di ritorno che tiene al corrente l’utente dello stato del sistema.

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4. I cinque aspetti della «usability»11

L’usabilità è una caratteristica «pluridimensionale» di un’interfaccia, con una moltitudine di diverse componenti tradizionalmente associate con 5 aspetti fondamentali:

Learnability: il sistema deve essere semplice da imparare in modo che l’utente possa velocemente iniziare a lavorarci.

Efficiency: il sistema deve essere efficiente da utilizzare in modo che, una volta imparato, l’utente possa raggiungere un alto livello di produttività.

Memorability: il sistema deve essere facile da ricordare, in modo che l’utente casuale sia in grado di tornare a utilizzare il sistema anche dopo un lungo periodo di inutilizzo, senza la necessità di dover nuovamente imparare qualcosa.

Error: il sistema deve avere un basso livello di induzione all’errore, in modo che gli utenti compiano solo pochi errori durante l’utilizzo. E soprattutto deve essere sempre possibile tornare indietro velocemente da percorsi errati (non devono esistere errori di percorso irreversibili).

Satisfaction: il sistema deve essere soddisfacente per l’utente che l’utilizza.

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5. I principi di usabilità12

Realizzare un dialogo semplice e naturale

Il linguaggio utilizzato a livello di interfaccia deve essere semplice e familiare per l’utente e rispecchiare i concetti e la terminologia a lui noti; vanno evitati il più possibile un linguaggio tecnico e orientato al sistema che utenti non esperti di informatica possono non comprendere: non vanno utilizzate parole come, per esempio, default, directory, o frasi del tipo «documento.zip trasferibile via ftp».

Semplificare la struttura dei compiti

I compiti o le attività che l’utente deve svolgere in interazione con il sistema devono avere una struttura semplice o devono essere semplificati.

Donald Norman suggerisce quattro diversi approcci per semplificare i compiti:

– mantenere il compito invariato, ma offrire sussidi mentali;

– usare la tecnologia per rendere visibile quello che altrimenti sarebbe invisibile, offrendo sussidi esterni (che supportano le capacità cognitive dell’utente per non costringerlo a ricordare tutto a mente) e feedback (che consentono all’utente di controllare le componenti non visibili del sistema, al fine di verificarne l’adeguato funzionamento);

– automatizzare alcune sue parti (quelle più rischiose, ripetitive o complicate), mantenendo il compito sostanzialmente invariato;

– cambiare la natura del compito: l’obiettivo rimane lo stesso ma il modo in cui viene raggiunto è totalmente diverso.

Favorire il riconoscimento piuttosto che il ricordo

Osservando l’interfaccia, l’utente deve poter capire cosa deve fare, come può farlo e, una volta eseguita una azione, deve poter riconoscere cosa è successo e quali sono stati i risultati.

Dal momento che è più facile riconoscere e ricordare una cosa vedendola direttamente, piuttosto che recuperare l’informazione dalla memoria, il modo più semplice per agevolare l’utente è quello di rendergli visibili le opzioni e le operazioni sull’interfaccia, ovvero fornirgli dei sussidi esterni che gli agevolino il ricordo.

Il modo migliore per favorire il ricordo è dato dalla facilitazione nella comprensione effettiva, da parte dell’utente, del modello concettuale del prodotto e della sua interazione. Per facilitare la comprensione del modello è necessario sfruttare il mapping naturale, ovvero la correlazione naturale che esiste tra due cose, tra causa ed effetto, tra comandi, loro azionamento e risultati. Un esempio di mapping naturale è la manipolazione diretta degli oggetti: con queste tecniche, infatti, l’utente non è costretto a ricordare il modo di utilizzare degli oggetti o a descrivere le azioni da eseguire; più semplicemente, le esegue direttamente sullo schermo, per esempio spostando un documento dalla scrivania virtuale del suo Pc al cestino, così come farebbe nel mondo reale.

Rendere visibile lo stato del sistema attraverso feedback

Il feedback rappresenta l’informazione di ritorno, la reazione del sistema in risposta all’azione che l’utente ha eseguito sulla interfaccia; il feedback serve a segnalare all’utente lo stato corrente del sistema e l’esito della propria azione: comprende quindi anche i messaggi di errore. Ma bisogna tenere presente che il feedback non si riferisce solo alle azioni scorrette dell’utente e alla relativa messaggistica di errore, ma include tutti i modi per trasmettere informazione all’utente sullo stato del sistema:

– quale azione ha eseguito o sta eseguendo l’utente;

– qual è la reazione del sistema all’azione sull’interfaccia da parte dell’utente;

– qual è il nuovo stato del sistema a seguito dell’azione effettuata.

Ma entro quanto tempo deve essere fornito il feedback? Si è valutato che, come ordini di grandezza:

– 0,1 secondo è il tempo utile per dare la sensazione che il sistema ha reagito istantaneamente;

– 1 secondo è il tempo utile per mostrare i risultati dell’azione dell’utente senza interrompere il suo flusso di ragionamento, anche se questi noterà il ritardo nella riposta del sistema;

– 10 secondi è il tempo massimo per mantenere l’attenzione dell’utente focalizzata sullo schermo;

– oltre i 10 secondi, generalmente, l’utente inizia un’altra attività mentre il computer sta lavorando.

Da cui deriva che, se si vuole mantenere l’attenzione dell’utente sull’applicazione o sul sito, la risposta alla sua azione deve essere mostrata non oltre i 10 secondi.

Prevenire e limitare gli errori di interazione

Commettere errori nell’interazione con un prodotto è naturale. Ogni azione dell’utente va concepita come un tentativo verso una giusta direzione: si tratta di una componente naturale del dialogo utente-sistema che va assolutamente tollerata e anzi prevista, garantendo la giusta flessibilità di utilizzo che consenta agli utenti di navigare liberamente senza entrare in vicoli ciechi e in situazioni critiche.

E dunque è importante che il sistema sia progettato in modo da diagnosticare gli errori quando occorrono e facilitarne la correzione, fornendo:

– funzioni bloccanti, che impediscano la continuazione di azioni che possono portare a risultati distruttivi;

undo che permettano di tornare immediatamente e facilmente allo stato precedente;

– indicazioni e sussidi orientati alla risoluzione dei problemi emersi.

Essere coerenti

La coerenza permette all’utente di trasferire agevolmente la conoscenza da un’applicazione all’altra favorendone la comprensione e aumenta la predicibilità delle azioni-reazioni del sistema.

La coerenza deve essere garantita a diversi livelli:

– nell’architettura informativa: disposizione e naming delle informazioni;

– nel linguaggio e nella grafica: la stessa parola, la stessa icona, lo stesso colore devono identificare «sempre» lo stesso tipo di informazione o lo stesso tipo di azione;

– negli effetti: gli stessi comandi, le stesse azioni, gli stessi oggetti devono avere lo stesso comportamento e produrre gli stessi effetti in situazioni equivalenti; agli stessi comandi non devono essere associati oggetti e azioni diversi;

– nella presentazione: gli stessi oggetti o lo stesso tipo di informazioni devono essere collocati tendenzialmente nella stessa posizione, avere la stessa forma e lo stesso ordine in tutte le schermate.

Facilitare la flessibilità d’utilizzo e l’efficienza

Nella definizione degli strumenti in grado di agevolare la flessibilità e l’efficienza, è fondamentale considerare il fatto che le esigenze degli utenti variano in relazione al loro livello di esperienza rispetto al compito e alle tecnologie informatiche.

Gli utenti alle loro prime esperienze, ad esempio, amano essere guidati passo per passo, mentre gli utenti più esperti preferiscono utilizzare scorciatoie, delle quali anche gli utenti non esperti, man mano che aumenta il loro livello di esperienza, possono usufruire.

Tenendo conto di queste opposte esigenze di fronte a uno stesso prodotto di editoria ipermediale, si può agevolare la flessibilità e l’efficienza del suo uso fornendo:

– assistenza intelligente (l’anticipazione da parte del sistema nell’inserimento di un termine) e shortcut (una combinazione di tasti che sostituiscano una serie di clic);

– strumenti di navigazione (pulsantiere) che permettono di fruire il prodotto in maniera libera, ad esempio «riavvolgendo» una animazione o passando direttamente alla schermata successiva (skip);

– funzioni di personalizzazione dell’interfaccia in base alle esigenze del compito, alle caratteristiche dell’utente e alle sue preferenze personali.

Fornire «help on line» e manuali

L’argomento della documentazione (help in linea o manuali utente) è piuttosto controverso:

– un buon prodotto, teoricamente, non dovrebbe richiedere la consultazione di tale documentazione;

– la documentazione viene spesso usata per compensare eventuali problemi di usabilità del prodotto;

– nella maggior parte dei casi, comunque, gli utenti rifuggono da questi strumenti di supporto.

Gli utenti generalmente ricorrono all’help in linea o alla documentazione solo come ultimo tentativo, cercando la soluzione al proprio caso specifico (non è così, in fondo, anche per i manuali del videoregistratore o della fotocamera digitale?); tendono a non approfondire gli argomenti, leggendo rapidamente solo poche righe. Come per le altre caratteristiche del prodotto, la comprensibilità di help e manuali, se non accuratamente verificata con gli utenti finali, non sempre è garantita.

Considerati questi aspetti, quando la documentazione può essere necessaria, essa va realizzata con l’obiettivo di garantire:

– facilità di consultazione;

– comprensibilità e brevità dei testi;

– orientamento all’attività dell’utente;

– efficacia nella risoluzione del problema (ad accesso diretto).

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6. Il processo «user centered»

Alla base dell’usabilità, come abbiamo già anticipato, c’è il processo user centered. L’essenza di questo processo, che prevede il coinvolgimento dell’utente finale del prodotto in tutto il ciclo di ideazione, progettazione e sviluppo, può essere definita come «la pratica di disegnare i prodotti in modo da permettere all’utente di assolvere i propri compiti con il minimo stress e la massima efficienza».

Le caratteristiche dello user centered design sono:

– una reale focalizzazione sugli utenti e i loro compiti: è necessario un approccio sistematico e strutturato agli utenti, che permetta di registrare tutte le informazioni relative ai loro compiti e che li coinvolga in tutte le fasi del ciclo di vita del prodotto;

– un processo iterativo: si attua un processo di valutazione «prototipo > modifica > nuovo prototipo»; questo percorso permette di raggiungere elevati standard di usabilità già nelle prime fasi di produzione e permette interventi più incisivi e meno costosi (il percorso attraverso piccoli aggiustamenti progressivi permette inoltre anche la scoperta di un più alto numero di incongruenze nel prodotto);

– un approccio multidisciplinare del team di usability, che sia in grado di avere una conoscenza trasversale di campi anche molto diversi tra loro come marketing, formazione, fattori umani, progettazione multimediale.

Le attività del processo «user centered»13

Conoscenza degli utenti

Se l’utente deve essere al centro del processo, si deve essere in grado di conoscere le sue caratteristiche.

Spesso l’utente-target è identificato dagli obiettivi di marketing, che definiscono a chi è indirizzato il prodotto, costituendo il profilo del target principale e del target secondario: età, sesso, esperienza rispetto al dominio, livello di competenza tecnologica, ecc.

Ma non deve essere considerato solo il profilo dell’utente: devono anche e soprattutto essere definiti l’insieme di compiti e di attività che l’utente svolgerà o vorrà svolgere, il contesto d’utilizzo del prodotto nei suoi vari aspetti sociali e tecnologici, e i diversi possibili sviluppi futuri d’utilizzo.

Analisi comparativa

Se si è nelle condizioni di sviluppare un prodotto per il quale esistono già competitor, diventa fondamentale definire dei benchmark che potranno essere utilizzati come indici di riferimento: il nuovo prodotto dovrà fornire agli utenti un livello di prestazioni superiore a quello del prodotto concorrente che compensi lo sforzo per il passaggio dall’uno all’altro.

Definizione dei requisiti di usabilità

Si devono definire le priorità dei vari aspetti dell’usabilità del prodotto. Questa gerarchia dovrà guidare nella scelta fra soluzioni diverse: ad esempio, se il prodotto prevede un utilizzo saltuario, l’accento dovrà essere posto più sulla facilità di apprendimento e utilizzo, piuttosto che sulla personalizzazione.

Per ciascuna caratteristica vanno individuate delle misure di riferimento (se possibile sfruttando l’analisi comparativa) e i limiti di accettabilità.

Progettazione parallela

L’utilizzo di diversi progettisti che lavorano in maniera autonoma e indipendente a diverse soluzioni permette all’inizio di esplorare vie diverse senza allungare i tempi di produzione. Una volta completate le diverse prototipazioni – dal costo molto basso poiché in forma schematica, spesso semplicemente su carta – si passa all’unione delle caratteristiche migliori di ogni soluzione in un nuovo prototipo coerente.

Una possibilità ulteriore è offerta dallo sviluppo di diversi prototipi specializzati: ogni soluzione pone l’accento su una caratteristica, permettendo di approfondirne gli aspetti specifici.

Prototipazione

La realizzazione e la valutazione dei prototipi sono fondamentali in due fasi:

– nella progettazione parallela, dato che permettono di esplorare varie strade a costi limitati;

– nelle prime fasi di produzione, dato che permettono di correggere fin da subito le prime incongruenze, avendo la possibilità di arrivare in fase di sviluppo con delle indicazioni molto precise.

Le valutazioni dei prototipi si conducono con vari metodi di indagine in funzione delle risorse e dei tempi a disposizione, e del tipo di risultati che si vogliono ottenere. Una prassi molto efficace è quella di modificare il prototipo on the fly, in modo da applicare immediatamente le modifiche e valutarle nuovamente, dato che c’è sempre la possibilità che le nuove modifiche introducano ulteriori problemi.

Valutazione sperimentale di usabilità

L’insieme di attività di indagine e analisi sperimentale svolte durante tutto il ciclo di produzione permette di arrivare al test finale – precedente il rilascio del prodotto – già con un buon livello di usabilità validato durante il ciclo produttivo.

Indagine follow-up

Una volta avviata la commercializzazione del prodotto, si dovranno condurre delle indagini che permettano di monitorare le reazioni dei clienti, il loro effettivo grado di soddisfazione ed eventuali nuovi errori di usabilità. Le nuove osservazioni verranno utilizzate per le successive edizioni del prodotto.

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7. Valutazione di usabilità: metodi sperimentali e metriche14

Il design iterativo che contraddistingue il processo user centered porta ad applicare varie volte i test di usabilità all’interno del ciclo di produzione.

I metodi di indagine di usabilità di un prodotto sono numerosi: ognuno è caratterizzato da obiettivi diversi e dallo stato del prodotto (non è necessario avere un prodotto funzionante per applicare test di usabilità, bastano anche i prototipi cartacei) e quindi viene utilizzato nelle varie fasi del ciclo di vita.

Heuristic evaluation

Con la heuristic evaluation (valutazione euristica) si rileva la fedeltà e l’aderenza del prodotto ai principi di usabilità. In questo caso vengono coinvolti solamente gli esperti di usabilità, senza chiamare in causa gli utenti finali: per questo motivo il test è facilmente eseguibile, economico e rapido.

Dal punto di vista pratico, la heuristic evaluation consiste in una serie di navigazioni del prodotto effettuate separatamente da ciascun esperto. Durante l’utilizzo, il prodotto viene valutato sia per gli aspetti statici dell’interfaccia (layout delle finestre, etichette, pulsanti, ecc.) sia per gli aspetti di interazione (logica e processi, flussi) rispetto alle linee guida di riferimento. Una volta terminate le indagini da parte di ogni esperto, i risultati vengono confrontati e si arriva a delle conclusioni comuni.

Gli studi statistici effettuati indicano che un solo esperto individua circa il 35% dei problemi di usabilità, mentre cinque esperti circa il 75%: dunque è necessario effettuare una heuristic evaluation con almeno cinque esperti di usabilità.

Cognitive walkthrough

Questo metodo si basa sulla teoria che le varie caratteristiche di un prodotto sono correlate con la facilità di apprendimento: se il modello del prodotto è difficile da comprendere, allora sarà anche difficile da imparare e ricordare.

Il cognitive walkthrough si concentra quindi sugli errori di progettazione dell’interfaccia che potrebbero rendere difficile o impossibile l’apprendimento delle modalità di utilizzo da parte dell’utente finale.

Una sessione di cognitive walkthrough coinvolge il progettista, chiamato a illustrare il prodotto a un gruppo di valutazione composto da altri progettisti, esperti di usabilità, utenti esperti. In particolare saranno indicate:

– la descrizione degli utenti di prodotto;

– la descrizione delle attività e dei compiti;

– la descrizione della corretta sequenza di azioni da compiere per assolvere il compito.

Si eseguono quindi i vari compiti e il gruppo di valutatori giudica i tratti critici dell’interfaccia: quelli che forniscono legami tra la descrizione del compito dell’utente e l’azione corretta, e quelli che forniscono feedback, indicando che la prima azione fatta dall’utente è in esecuzione.

Thinking aloud

Questo metodo, che mutua i propri strumenti dalla ricerca psicologica, consiste nel far verbalizzare a degli utenti-cavie quello che pensano durante l’esecuzione di una attività o di un compito ben preciso.

Obiettivo del thinking aloud è quello di far emergere le logiche di interazione e il modello cognitivo dell’utente.

Il ricercatore può rivestire un ruolo passivo di osservatore o può affiancare l’utente, intervenendo in caso di difficoltà, per approfondire l’indagine nelle fasi critiche di errore.

Task analysis

Questa metodologia permette più delle altre una rilevazione quantitativa e comparativa delle caratteristiche di usabilità; prevede il coinvolgimento diretto degli utenti finali, che sono chiamati a usare il prodotto all’interno dei laboratori di usabilità o nei loro contesti di utilizzo naturali.

Prima dell’inizio dei test vengono definiti gli obiettivi tipici di utilizzo del prodotto e, in funzione di questi, vengono progettati dei task da far eseguire nella sperimentazione. Per ciascuno di essi sono fissati degli indici di riferimento e dei limiti di accettabilità.

Durante l’effettuazione dei compiti, i ricercatori registrano le azioni degli utenti e analizzano le criticità di utilizzo; in sede di analisi si confronteranno poi i risultati sia dal punto di vista qualitativo che statistico-quantitativo.

Metriche

La misurazione dell’usabilità si basa sull’analisi dei dati relativi all’interazione utente-prodotto: per questo si presta più facilmente per quelle tecniche di indagine che coinvolgono direttamente l’utente finale, come la task analysis o i questionari.

Le metriche utilizzate per la misura quantitativa dell’usabilità sono:

Efficacia: la misura in cui un utente è in grado di raggiungere l’obiettivo di un compito in modo corretto e completo;

Efficienza: la quantità di risorse spese in relazione all’efficacia;

Soddisfazione d’uso: la piacevolezza e il gradimento dell’utilizzo del prodotto;

Facilità di apprendimento: in relazione alla curva di apprendimento dell’utente che indica il tempo necessario per eseguire correttamente i compiti;

Facilità di ricordo: la facilità con cui le procedure di interazione del prodotto vengono memorizzate dall’utente.

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In appendice e a complemento del corpo del manuale, presentiamo una raccolta di saggi e contributi specialistici dedicati ad alcuni aspetti sia tecnici che teorici dell’editoria multimediale, aspetti che non potevano trovare spazio – per la loro specificità – tra gli argomenti di base della prima e della seconda parte del libro.

I temi proposti in questa «terza parte» del manuale vengono dati in forma digitale per poter essere facilmente e velocemente aggiornati, visti gli argomenti trattati, che sono gli stessi dei seminari – scelti fra quelli più preziosi e interessanti – tenuti negli ultimi anni a completamento delle lezioni di Editoria multimediale all’università, sia nei corsi di laurea che nei master e nei corsi speciali. Gli autori dei saggi sono o sono stati collaboratori dell’autore, o esperti che hanno portato ai corsi il proprio contributo sugli argomenti che affrontano per iscritto nelle pagine che seguono.

Come si può facilmente capire dai titoli, i saggi di approfondimento sono suddivisi in diverse aree di interesse.

Agli aspetti tecnici della produzione multimediale sono dedicati gli approfondimenti sul software di sviluppo (App. 7), la produzione industriale dei CdRom (App. 8), la usability (App. 4) e il diritto d’autore per le opere digitali (App. 5).

Sul fronte opposto, puramente teorico, si colloca invece l’interessante riflessione sulle conseguenze dell’introduzione della dimensione tempo nella pagina scritta (App. 1).

L’analisi degli sviluppi in corso o a breve-medio termine è affidata ai saggi su print on demand (App. 2), e-book (App. 3) e sul mercato dell’editoria ipermediale (App. 6).

Naturalmente, per loro stessa natura, questi saggi non richiedono una lettura sequenziale, ma possono essere utilizzati come luoghi di approfondimento degli argomenti trattati nel corpo del manuale (nel corso del quale vengono esplicitamente richiamati) oppure possono essere selezionati secondo i propri specifici interessi. Esattamente come avviene per i seminari in un qualunque corso universitario.

La superficie degli ipertesti è da qualche anno percorsa da immagini, parole, forme in movimento. La quarta dimensione della rappresentazione, il tempo, entra a far parte della pagina web. L’affermazione di nuovi software di editing quali Macromedia Flash e Director2 ha reso, oltretutto, più semplice e frequente l’introduzione di elementi animati.

Il layout dell’ipertesto cessa d’ispirarsi solo alla metafora della «messa in pagina», ereditata dalla stampa cartacea, per assomigliare sempre più a una «messa in scena» audiovisiva, «teatrale», il prodotto di una programmazione «registica» degli eventi multimediali.

Il testo scritto e l’immagine continuano, comunque, a essere i principali strumenti espressivi presenti nell’ipertesto e sono, quindi, proprio queste due tecniche discorsive ad andare incontro alle più considerevoli rivoluzioni estetiche e funzionali.

La fruizione su schermo subisce di conseguenza importanti alterazioni, poiché si modifica lo stesso modo di concepire la lettura.

È necessario dunque fare il punto della situazione tentando una descrizione della nuova configurazione assunta dall’espressione su schermo, e osservare più in generale che ripercussioni abbia l’introduzione del tempo nella comunicazione digitale.

Una riflessione del genere è necessaria per capire se l’introduzione del movimento rappresenti effettivamente una svolta fruttuosa nelle tecnologie espressive e comprendere, quindi, se stiamo assistendo alla nascita di un nuovo linguaggio.

L’esigenza di descrivere la nuova realtà della grafica ipertestuale giustifica di per sé questo tentativo di porre un ordine nella babele di opinioni riguardanti l’uso dei programmi per l’animazione multimediale, attraverso un punto di vista alternativo, nato dalla miscela di molteplici approcci3 e focalizzato essenzialmente sul rapporto tra l’estetica e la funzione del testo, tra sensibile e intelligibile.

Le linee guida di questo cambiamento si snodano, a nostro avviso, su due versanti principali:

– lo statuto della scrittura e dell’immagine si modifica, così come varia il rapporto instauratosi tra le due forme testuali nei mezzi di comunicazione precedenti;

– l’espressione ipertestuale stessa subisce delle importanti modifiche sul piano espressivo e concettuale.

Per affrontare con cognizione di causa un argomento così nuovo, vediamo prima una breve storia della scrittura e dell’immagine, mettendo in luce le peculiarità di ciascun formato, le trasformazioni che hanno subito nei mezzi del passato, per mostrare infine come le innovazioni che le contrassegnano siano frutto di un curioso equilibrio tra tradizioni e novità, tra passato e futuro.

Allargando lo sguardo dalle componenti minime della schermata all’ipertesto nella sua interezza, studieremo le funzioni del movimento rispetto alle strategie di comunicazione dei suoi artefici, osservando come questo contribuisca alla manifestazione della struttura concettuale del testo e come agevoli l’orientamento del suo fruitore.

Dal tempo allo spazio. La scrittura e l’immagine

Estetica della scrittura e dell’immagine in movimento

La funzionalità del movimento nelle pagine web

Il nuovo tempo dell’ipertesto

Il print on demand, o stampa digitale a richiesta (spesso riportato con lo pseudoacronimo PonD), è una tecnica di produzione e distribuzione libraria che consente la digitalizzazione e la stampa di un testo dove necessario, nell’esatta quantità, e nella qualità richiesta: ciò rappresenta una vera e propria rivoluzione rispetto alle tecniche tradizionali.

La razionalizzazione produttiva

Le applicazioni potenziali del print on demand

L’utilizzo del PonD nell’editoria accademica

L’espressione «libro elettronico» (o il più diffuso anglismo «e-book») ad oggi non ha ancora assunto un significato univoco. In alcuni casi l’accento è posto sul contenuto in forma digitale2, in altri sulla possibile sperimentazione di nuove forme di testualità, grazie alle peculiari caratteristiche di multimedialità3 e di interattività4 associabili ai testi in formato elettronico; talvolta si sottolinea l’importanza del web come canale privilegiato di distribuzione, talvolta invece l’idea di e-book sembra presupporre la disponibilità del testo anche in forma cartacea5. Nel documento A framework for the Epublishing Ecology, redatto dall’Open eBook Forum, si afferma che il libro elettronico è «un’opera letteraria sotto forma di oggetto digitale, costituito da uno o più identificatori dello standard utilizzato, i relativi metadati e un corpo monografico di contenuti, da pubblicare e da fruire con dispositivi elettronici»6. Tale definizione sottolinea così l’importanza di un’organizzazione monografica del testo e della presenza di metadati descrittivi7.

L’evidente difficoltà che emerge quando si cerca di esplicitare il significato dell’espressione «libro elettronico» è segno della novità del fenomeno, fenomeno che sfugge a griglie logiche e strumenti concettuali tradizionali. Fino a tutto il 1998, in Italia l’espressione «e-book» non era di uso frequente, in quanto l’editoria elettronica veniva identificata tout court con l’editoria off line e i CdRom. Le cose iniziano a cambiare solo a partire dal 2000, quando gli operatori del settore si trovano a riabilitare formule di produzione e di distribuzione dei contenuti precedentemente scartate per la mancanza di alcuni presupposti tecnologici necessari alla loro implementazione e di un potenziale di utenti Internet sufficientemente ampio8.

La novità dell’e-book è testimoniata anche dalle oscillazioni ortografiche nell’articolazione del suffisso «e» con il sostantivo «book»: a volte si legge e-book, altre ebook, oppure eBook, o ancora Ebook; in questo contesto scegliamo di adottare la variante «e-book» e lo intendiamo come «un’opera letteraria monografica pubblicata in forma digitale e consultabile mediante appositi dispositivi informatici»9. Le espressioni e-publication (pubblicazione elettronica) ed e-text (testo elettronico) si usano invece rispettivamente con riferimento a opere di qualsiasi genere pubblicate in versione digitale e alle prime forme di testi di pubblico dominio, in formato Ascii10 o Html11, memorizzate e contenute all’interno di biblioteche e archivi on-line12, consultabili da qualsiasi utente attraverso un normale programma di browsing.

In realtà, come abbiamo sottolineato in apertura, l’utilizzo della parola e-book, nella vasta pubblicistica a esso dedicata, si allarga spesso fino a identificare il libro elettronico con il supporto hardware che veicola il testo (l’e-book reader device), o con il dispositivo di lettura software che consente l’accesso e la visualizzazione dell’opera in formato elettronico (l’e-book reader). Altre volte ancora invece il termine è stato utilizzato con riferimento al contenuto che viene conservato nella memoria del lettore hardware e visualizzato sul suo schermo grazie a un apposito software, oppure per indicare una pubblicazione su supporto digitale di qualsiasi genere e in qualunque formato, inclusi i normali file Word, Html, Ascii, Pdf.

D’altra parte questa polivalenza semantica caratterizza anche il termine «libro», che nel linguaggio comune può essere impiegato sia per indicare il contenuto, sia per indicare l’oggetto fisico che lo veicola. La medesima ambiguità si riscontra d’altra parte anche nell’uso del termine «testo». Ma, quale che sia la causa di questa indeterminazione del linguaggio (dovuta forse al fatto che da svariati secoli, nella cultura occidentale, il contatto con un testo avviene sempre tramite il supporto materiale mediante cui vi accediamo e sul quale viene visualizzato), riteniamo opportuno far notare che forse il contenuto e il dispositivo che lo veicola, pur avendo due significati distinti, non sono così indipendenti come potrebbe sembrare a una prima considerazione. Spesso il testo è strettamente legato alle caratteristiche fisiche del supporto su cui verrà rappresentato visivamente e alle sue procedure di produzione materiale.

Perché si possa parlare propriamente di e-book, bisogna associare il contenuto digitale alla dimensione pragmatica dell’interfaccia e della modalità di lettura13. I dispositivi hardware per la visualizzazione dei testi dovrebbero essere il più possibile simili al libro a stampa per peso, dimensioni, portabilità, maneggevolezza, praticità, facilità d’uso e qualità visiva dello schermo.

Tenendo conto di questa premessa, possiamo complessivamente definire l’e-book come «un testo elettronico unitario, ragionevolmente esteso e compiuto (monografia), opportunamente codificato e accompagnato da meta-informazioni descrittive, accessibile mediante appositi dispositivi hardware e software che consentano un’esperienza di lettura comoda e agevole e diano accesso a tutte le capacità di organizzazione testuale proprie della cultura del libro». Al tempo stesso, l’e-book andrebbe a integrare tali proprietà con quelle offerte dalla versione digitale di un testo, in termini di eventuale14 arricchimento del contenuto con elementi multimediali e ipertestuali, di possibilità di reperimento nonché di aggiornamento on line qualora sia necessario, di ricerca rapida, e così via. Per questo motivo sono da escludere dalla categoria degli e-book sia i testi elettronici che possono essere letti solo sul computer da scrivania, interfaccia di lettura scomoda e poco ergonomica, sia quelli destinati alla stampa su carta, come nel print on demand. In quest’ultimo caso, infatti, i testi elettronici fungono da supporto di trasferimento dell’informazione, ma l’interfaccia di lettura dell’utente finale è pur sempre il libro a stampa15.

La nascita dell’«e-book» e lo sviluppo dei dispositivi di lettura

I formati di codifica: alla ricerca di uno standard

L’Open eBook Forum: il formato Oeb

Pdf: il Portable Document Format di Adobe

«E-paper» ed «e-ink»: il futuro?

Cosa vuol dire creare un prodotto usabile? Vuol dire creare un prodotto il cui utilizzo risulti efficace, soddisfacente e piacevole per l’utente.

Per creare un prodotto con queste caratteristiche si dovrà tenere conto delle specificità degli utenti che andranno a utilizzarlo, dei loro bisogni, capacità, desideri e del contesto d’uso. Si dovranno cioè prevedere e svolgere una serie di attività durante il ciclo di progettazione e implementazione di un titolo di editoria multimediale che coinvolgano in ogni fase l’utente: dal concept del prodotto fino alla validazione dell’interfaccia e dell’architettura informativa.

Ciò permetterà di costruire un’esperienza di fruizione positiva e soddisfacente; fattore chiave per il successo di un titolo ipermediale.

Un prodotto che permette all’utente di soddisfare i propri bisogni e i propri desideri senza stress aumenta la soddisfazione, la qualità percepita dall’utilizzatore e la fiducia nel brand, dato che diminuisce il tempo di apprendimento, di esecuzione delle attività e di richiesta di assistenza; un prodotto percepito come affidabile e di qualità aumenterà la propria credibilità e le proprie vendite, diminuendo conseguentemente i costi di assistenza post-vendita. L’attenzione all’usabilità non è dunque un costo per un editore ma un investimento.

1. Cos’è l’usabilità

2. I tre settori dell’usabilità

3. Principi del buon design10

4. I cinque aspetti della «usability»11

5. I principi di usabilità12

6. Il processo «user centered»

7. Valutazione di usabilità: metodi sperimentali e metriche14

 

Introduzione: un po’ di storia

Diritto d’autore e copyright: dall’editoria su carta a quella multimediale

Il diritto morale

I diritti connessi

Le libere utilizzazioni

Termini di protezione del diritto d’autore

La legge di riconoscimento del software e delle banche dati

La cosiddetta «opera multimediale» e i suoi diritti di sfruttamento

Opera multimediale in quanto tale

Opera multimediale quale opera collettiva

Opera multimediale quale «composizione»

Opera multimediale quale «opera derivata»

Il contratto: rimedio a una lacuna normativa

La sempre maggiore concentrazione delle ricerche, e degli istituti internazionali che le promuovono2, sul mercato dell’e-learning e dell’on line rende difficile reperire dati aggiornati sul mercato dell’editoria elettronica off line.

Tale mercato è ormai assestato e stabile e a partire dal 2000 non ha presentato grandi variazioni, sia in Italia che all’estero. Per un’analisi del mercato italiano dell’editoria multimediale ci siamo quindi riferiti ai dati ufficiali del 2002 (che facevano riferimento agli anni precedenti), tenendo conto dei piccoli aggiustamenti che si possono dedurre da ricerche di mercato private o comunque parziali e non ufficiali, in un ambiente che è entrato in una fase di decisa stabilizzazione.

L’Anee e il suo Osservatorio

Il mercato dell’editoria digitale professionale

Il mercato «consumer»

I canali distributivi

I principali editori

I generi editoriali

Gli strumenti di sviluppo per l’editoria elettronica rappresentano un settore molto ampio e in rapida evoluzione, che vede affermarsi in modo continuo paradigmi dominanti capaci spesso di resistere a una concorrenza nuova e agguerrita, salvo poi essere sostituiti.

Dovendo fare una disamina degli strumenti che hanno consentito di realizzare nel tempo i primi CdRom, i primi Wbt, e ora moderni corsi multimediali sia off che on line, è doveroso fare una prima macro divisione tra gli strumenti atti alla realizzazione dell’intero prodotto e quelli per la gestione di media specifici.

1. Software per la gestione del prodotto multimediale

2. Software per il trattamento di media specifici

Parlando di CdRom ci si scontra, innanzitutto, con un’anomalia linguistica. Nell’uso quotidiano, infatti, con lo stesso termine si è soliti indicare tre diversi oggetti: il lettore CdRom, ovvero il dispositivo hardware che permette di leggere il supporto; il supporto stesso, un disco del diametro di circa 12 cm, fatto di alluminio e materiale plastico, con una superficie decorata nei modi più diversi; infine il contenuto di quel supporto, ovvero l’insieme di dati e informazioni in esso memorizzati.

In questo manuale si è centrata l’attenzione sul CdRom inteso come contenuto: combinazione di materiali ipertestuali (dati in formato audio, video e testo) che vanno a creare le applicazioni multimediali, i cosiddetti «prodotti» dell’editoria elettronica. Anche in questa sede ci occuperemo quindi dell’hardware (il lettore) e del supporto (il disco fisico) solo in maniera incidentale, per il rapporto funzionale che necessariamente ha con il contenuto.

Ciò non significa che il «CdRom-supporto» non sia importante: esso ha avuto un ruolo decisivo nello sviluppo delle applicazioni informatiche, sia sul fronte della memorizzazione e scambio dei dati (affermandosi come efficace standard contro la molteplicità dei supporti esistenti), sia come fattore determinante nella diffusione del multimedia presso il grande pubblico. In particolare, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del 2000, il CdRom si è rivelato un contenitore ottimale per i prodotti multimediali, che avevano bisogno di molto spazio per proporre dati in diversi formati: la sua disponibilità è stata determinante nella creazione e nello sviluppo di un mercato del multimedia off line.

Proprio per questo, se è vero che non è il supporto che qualifica il contenuto2, nello stesso tempo è importante capire – almeno per grandi linee – come nasce e si sviluppa tutto ciò che ruota intorno al supporto, dalla produzione industriale del Cd al packaging.

Senza tralasciare di dare uno sguardo anche al Dvd, nuovo standard di memorizzazione, sempre più diffuso per il playback video e non solo.

1. Le fasi della produzione industriale

2. Il «packaging»

3. Il Dvd