Introduzione.
L’elusività del male
Leonidas Donskis Zygmunt Bauman è un sociologo atipico. Un filosofo della vita quotidiana. Intesse
il proprio pensiero e linguaggio di tanti fili diversi: alta teoria; sogni e visioni
politiche; le ansie e i tormenti di quell’unità statistica elementare che è l’uomo
o la donna comune; la critica lucida, spietata, affilata come la lama di un rasoio,
ai potenti del mondo; e l’analisi sociologica delle loro idee irritanti, della loro
vanità, del loro sfrenato bisogno di attenzione e di popolarità, della loro insensibilità,
dei loro autoinganni.
Tutto questo non sorprende: Bauman è soprattutto un sociologo dell’immaginazione,
dei sentimenti, dei rapporti umani – amore, amicizia, disperazione, indifferenza,
insensibilità – e dell’esperienza interiore. E uno dei segni distintivi del suo modo
di pensare è proprio la facilità con cui passa da un discorso all’altro.
Bauman è forse l’unico sociologo al mondo (ed egli è senza dubbio, accanto ad Anthony Giddens e Ulrich Beck, uno dei grandi sociologi
del nostro tempo), e (con Umberto Eco, Giorgio Agamben, Michel Serres, Jürgen Habermas)
uno dei pochi grandi pensatori che, oltre a padroneggiare il linguaggio dell’alta
teoria, sappiano anche passare con disinvoltura a quello della pubblicità, degli spot
televisivi, degli sms, degli esperti di motivazione e dei guru degli affari, degli
stereotipi, dei commenti Facebook, per poi fare ritorno ai codici (e ai temi) della
teoria sociale, della letteratura contemporanea, dei classici della filosofia.
Quella di Bauman è una sociologia che aspira a ricostruire tutti gli strati della
realtà parlando un linguaggio universale alla portata non solo dello specialista accademico,
ma di qualsiasi tipo di lettore. La sua forza discorsiva e la sua capacità di decodificare
la realtà assolvono a quella funzione della filosofia che André Glucksmann ha assimilato
alle didascalie nei film muti, che partecipano alla costruzione della realtà e, al
tempo stesso, la rivelano.
Bauman adotta dichiaratamente un eclettismo metodologico: l’empatia e la sensibilità
contano per lui molto più della purezza del metodo e della teoria. Egli non esita
a camminare sul ciglio del precipizio che separa l’alta teoria dai reality show, la
filosofia dai discorsi politici, le idee religiose dagli spot pubblicitari: sa bene
che se cercasse di spiegare il nostro mondo con il linguaggio dell’élite politica
e finanziaria o scrivendo testi accademici ermetici ed esoterici finirebbe per rinchiudersi
in un angusto e ridicolo isolamento.
Sul piano teorico, Bauman è stato particolarmente influenzato prima da Antonio Gramsci
e poi da Georg Simmel: il Simmel della concezione della “vita dello spirito” (Geistesleben) e della filosofia della vita, molto più che della teoria del conflitto. E proprio
dalla Lebensphilosophie – non quella di Friedrich Nietzsche, bensì soprattutto dalla filosofia (e in particolare
dalla concezione delle Lebensformen) di Ludwig Klages e Eduard Spranger– Bauman ha tratto molti dei suoi temi teorici e delle sue modalità di teorizzazione.
Basti ricordare il saggio di Simmel del 1903, Le metropoli e la vita dello spirito, che nel 1926 trovò eco nello scritto di Thomas Mann su Lubecca come forma di vita spirituale e molto più tardi, nel 1978, in Lituania, ispirò il dialogo epistolare tra Tomas Venclova
e Czesaw Miosz, «Vilnius come forma di vita spirituale» (Vilnius kaip dvasinio gyvenimo forma). La città assurge a forma di vita e di pensiero, in cui ogni cosa parla – la storia,
l’architettura, la musica, le arti plastiche, il potere, la memoria, gli scambi, gli
incontri tra persone e idee, le dissonanze, la finanza, la politica, i libri e le
fedi – creando uno spazio in cui il mondo moderno nasce e sviluppa le forme del proprio
futuro. Questo motivo permea molte delle opere più tarde di Bauman.
Nella mappa intellettuale di Bauman troviamo non solo le idee filosofiche e sociologiche
di Gramsci e di Simmel, ma anche le intuizioni etiche del suo filosofo prediletto,
Emmanuel Lévinas, nato e cresciuto a Kaunas, che Bauman considera il maggior pensatore
etico del Novecento. La riflessione di Lévinas è incentrata sul miracolo del riconoscimento
dell’individualità e della dignità dell’Altro che si spinge a salvargli la vita e
non è in grado di indicare la causa di tale riconoscimento, in quanto una spiegazione
distruggerebbe il miracolo di quel legame etico, della morale. I libri di Bauman non
si richiamano solo a questi e altri pensatori moderni: anche le opere teologiche e
religiose, e ancor più la narrativa, hanno un ruolo molto importante nella sua creatività.
Bauman, al pari del sociologo polacco Jerzy Szacki, è stato influenzato fortemente,
se non in modo determinante, da Stanisaw Ossowski, che fu suo maestro all’Università
di Varsavia. Nel discorso pronunciato davanti al re di Spagna quando ricevette il
premio Principe delle Asturie per meriti umanistici, Bauman ha ricordato il principale
insegnamento di Ossowski: l’idea che la sociologia sia una disciplina umanistica.
Come il romanzo, la sociologia parla dell’esperienza umana; e a tale proposito Bauman
ha menzionato il più grande romanzo di tutti i tempi: il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes.
Vytautas Kavolis ha definito la sociologia, e in generale le scienze sociali, come
«un mondo scevro di melodia». Bauman è l’esempio che lo smentisce. La sua sociologia
non solo è suono, musica, ma ci guarda fisso negli occhi. Punta su di noi uno sguardo
etico: non ci permette di distogliere lo sguardo e di continuare a tacere. Nello sguardo
di Bauman – a differenza dello sguardo indagatore della psicologia o di quello che
assorbe (consuma) gli oggetti presenti nell’ambiente circostante – è insito il principio
di uno specchio etico. Questo specchio ci restituisce tutte le nostre azioni, il nostro
linguaggio, tutto ciò che abbiamo detto o fatto senza riflettere ma limitandoci a
imitare prudentemente gli altri: tutto il male che abbiamo implicitamente approvato
senza farne l’oggetto di riflessione.
La sensibilità teorica di Bauman, la sua empatia, è paragonabile a un modo di esprimersi,
a un atteggiamento che cancella l’asimmetria di fondo tra il guardante e il guardato.
È come la Ragazza con l’orecchino di perla di Jan Vermeer, che ci conquista restituendoci a sorpresa il nostro stesso sguardo,
costringendoci a chiederci in silenzio chi stia guardando chi: siamo noi a contemplarla
in mezzo a tanti altri immortali capolavori dell’arte olandese al Mauritshuis dell’Aia,
o è lei che sta guardando noi? Il guardato fissa il guardante, restituendo per intero
al mondo quel dialogo su cui era calato l’oblio. È uno sguardo tra eguali, carico
di dignità e di silenzio, e non quel consumare, usare, conoscere, indottrinare, aggredire
che non conosce limite e ci torna indietro sotto forma di presunto dialogo.
Bauman osserva l’osservatore, immagina colui che immagina, parla al parlante: la platea
dei suoi lettori e interlocutori non è composta solo di teorici del suo calibro né
di personaggi immaginari. Bauman offre le sue idee all’uomo e alla donna comuni, piccoli,
investiti dalla globalizzazione e dalla seconda modernità, la modernità liquida. Prosegue
l’opera iniziata da Stephen Greenblatt, Carlo Ginzburg e Catherine Gallaher, i portavoce
del nuovo storicismo e della controstoria (la microstoria, la piccola storia), del
deliberato rifiuto della storia come narrazione onnicomprensiva, come un grand récit, costruendo invece l’aneddoto storico, la narrazione dettagliata e significativa
su persone vere – une petite histoire.
Il tempo storico della teorizzazione di Bauman non è lineare ma puntinista. La sua
storia non è fatta dai grandi del mondo, ma dai piccoli. Non è la storia dei pensatori
sublimi, ma dell’emarginazione dell’uomo comune. Le simpatie di Bauman vanno chiaramente
non agli eroi ma ai vinti, agli sconfitti della modernità: non conosceremo mai il
loro nome, somigliano agli attori non professionisti dei film di Pier Paolo Pasolini
come Il Vangelo secondo Matteo e Il Decameron, il cui volto ci sorprende per unicità ed espressività, non essendo ancora stato
toccato dalla pubblicità, dall’autopromozione, dal consumo di massa, dall’autoadulazione
e dalla mercificazione.
Non siamo di fronte alle biografie di pionieri dell’economia (o, se preferite, del
capitalismo), di entrepreneurs o di geni artistici della prima modernità, ma di persone come l’eretico Menocchio,
condannato al rogo, restituitoci nel 1976 da Carlo Ginzburg in Il formaggio e i vermi: silenziose comparse sul palcoscenico della storia, che danno sostanza e forma alle
nostre ansie, ambiguità, incertezze e insicurezze.
Viviamo in un mondo in cui le contrapposizioni di ricchezza e di potere sono in costante
aumento, e altrettanto costantemente si riducono le differenze in termini di sicurezza
dell’ambiente: oggi l’Europa occidentale e quella dell’Est, gli Stati Uniti e l’Africa
sono accomunati dalla stessa (in)sicurezza. Attraverso i social network,le tragedie e i traumi personali di qualche milionario vengono resi noti istantaneamente
a persone che con lui non hanno assolutamente nulla in comune, se non la possibilità
di trovarsi a vivere a loro volta in qualsiasi momento le stesse sconvolgenti esperienze.
Grazie alla democrazia di massa e all’istruzione di massa, i politici hanno infinite
possibilità di manipolare l’opinione pubblica, pur dipendendo a loro volta da cambiamenti
di atteggiamento nella società di massa che sono in grado di distruggerli.
Ogni cosa è intrisa di ambivalenza; non esiste più una situazione sociale che non
sia ambigua, così come non esistono più, sul palcoscenico della storia mondiale, attori
che non siano compromessi. Cercare d’interpretare un mondo simile in chiave di bene
e di male, attraverso un’ottica sociale e politica in cui esistano solo il bianco
e il nero o altre distinzioni quasi manichee, oggi è impossibile e grottesco. Viviamo
in un mondo che ha perso da tempo il controllo su sé stesso (pur cercando ossessivamente
di controllare le persone) – un mondo che non è più in grado di trovare risposta ai
propri dilemmi e di ridurre le tensioni che ha creato.
Felici le epoche in cui i drammi e i sogni erano chiari ed era facile capire chi agiva
bene e chi agiva male. Oggi la tecnologia ha superato la politica (che è ormai, almeno
in parte, solo una sua appendice) e minaccia di portare a compimento la creazione
di una società tecnologica. Questa società, con la sua coscienza deterministica, considera
il rifiuto di partecipare alle innovazioni tecnologiche e ai social network (indispensabile
per esercitare un controllo sociale e politico) come motivo sufficiente per emarginare
chiunque non tenga il passo del processo di globalizzazione (o ne ponga in dubbio
la sacralità).
Se un politico non va in tv, non esiste – ma questa ormai è storia vecchia. La novità
è che, se non sei sui social network,neanche tu esisti. Il mondo della tecnologia non ti perdonerà il tradimento. Se rifiuti
di entrare in Facebook perderai gli amici (e la cosa grottesca è che su Facebook puoi
avere migliaia di amici, sebbene i classici della letteratura ci avvertano che nella
vita trovare anche un solo amico è un miracolo, un dono del cielo). E rifiutando non
perderai solo delle relazioni: andrai incontro a una segregazione sociale par excellence. Se non dichiari (e paghi) le tasse in modalità elettronica ti ritroverai isolato
socialmente. La tecnologia non ti consente di rimanere in disparte. Il posso si tramuta in devo: posso, dunque sono obbligato a farlo. Non sono ammesse incertezze. Viviamo in una
realtà di opportunità, non di dilemmi.
Nel celebre racconto filosofico di Voltaire Candido, o l’ottimismo, il protagonista arriva al paese utopico di Eldorado. Candido chiede agli abitanti
se da loro ci siano i preti e le monache (non li ha visti da nessuna parte), e dopo
un attimo di leggero imbarazzo gli viene spiegato che lì ognuno è prete di sé stesso,
rende grazie a Dio e ne tesse costantemente le lodi; perciò non ha bisogno di intermediari.
E nel romanzo di Anatole France Gli dèi hanno sete un giovane rivoluzionario fanatico è convinto che prima o poi la Rivoluzione trasformerà
tutti i cittadini e i patrioti in giudici.
Analogamente, non è né artificioso né strano affermare che «nell’era di Facebook,
di Twitter e della blogosfera chiunque si trovi in rete e scriva è, in virtù di questo
stesso fatto, un giornalista». Se siamo in grado di crearci da soli la nostra rete
di relazioni sociali e di partecipare al dramma globale della coscienza e delle sensibilità
umane, che cosa resta del giornalismo come attività distinta e separata? Non finirà
per ritrovarsi nella stessa situazione di re Lear che, dopo aver diviso i propri beni
tra le due figlie maggiori (la comunicazione e il dibattito politico, che insieme
formano la sfera pubblica), finisce per rimanere in compagnia del Buffone?
Stiamo contribuendo a scrivere la nuova narrazione umana, che nel passato assumeva
le forme dell’epica, della saga o del romanzo, mentre oggi scorre sugli schermi tv
e sui monitor dei pc. Questa nuova narrativa nasce nello spazio virtuale. Riunire
pensiero e azione, apertura pragmatica ed etica, ragione e immaginazione è per il
giornalismo una sfida che richiede non solo una strategia capace di autorinnovarsi
costantemente per rappresentare e attualizzare la visione del mondo, di far presa
sui problemi e discuterne e di promuovere il dialogo, ma anche un tipo di scrittura
che non ricrei le barriere ormai scomparse da tempo. Occorre una ricerca della sensibilità,
di nuove forme di azione adeguate agli esseri umani: occorre creare, in stretta collaborazione
con le scienze umane e sociali, un nuovo spazio globale di comprensione reciproca,
di critica sociale e di interpretazione di sé. Senza la nascita di un tale spazio,
il destino che attende la filosofia, la letteratura e il giornalismo è del tutto incerto.
Se si avvicineranno, queste tre entità riusciranno a sopravvivere e saranno più importanti
che mai; ma se si allontaneranno ulteriormente, per tutti noi si prepara un futuro
di barbarie.
La tecnologia non ci consente di rimanere in disparte. Potere equivale a dovere: posso, dunque devo. Non c’è spazio per i dilemmi. Come per WikiLeaks, non esiste
più alcuna morale. Spiare e lasciar trapelare diventa un obbligo, anche quando le
motivazioni e le finalità non sono chiare. Va fatto, e l’unica ragione è che è tecnologicamente
fattibile. La tecnologia, nel superare la politica, crea un vuoto morale. Per questo
tipo di coscienza, il problema non è la forma o la legittimazione del potere, ma la
sua quantità. Il male (per inciso: segretamente venerato) si trova dove si concentra
il potere finanziario e politico. Perciò, per questa coscienza il male si annida in
Occidente. Ha ancora un nome e una collocazione geografica, anche se da molto tempo
ormai viviamo in un mondo in cui è debole e impotente, dunque disperso ed elusivo.
Tra le manifestazioni di questo nuovo male vi sono l’insensibilità alla sofferenza
umana e il desiderio di colonizzare la privacy carpendo agli altri i loro segreti,
ciò che non dovrebbe mai essere detto o divulgato. L’utilizzo su scala globale della
biografia, dell’intimità, della vita e delle esperienze altrui è un sintomo d’insensibilità
e perdita di senso.
Noi crediamo che il male sia sempre da qualche altra parte. Anziché essere dentro
di noi, siamo convinti che se ne stia nascosto altrove, in luoghi ben definiti, territori
ostili dove si fanno cose che minacciano il genere umano. Questa ingenuità, questo
tipo di autoinganno, oggi non è meno diffusa che due o tre secoli fa. La rappresentazione
del male come entità oggettiva è stata a lungo incoraggiata dalle narrazioni religiose
e mitologiche. E noi oggi continuiamo a rifiutarci di cercare il male dentro di noi.
Perché? Perché questa ricerca è terribilmente difficile e ribalta completamente la
logica di vita quotidiana delle persone comuni.
Per la nostra sicurezza emotiva e psicologica, facciamo di tutto per superare il dubbio
e l’incertezza costante che avvertiamo dentro di noi – quel senso d’insicurezza che
si esaspera ulteriormente quando non riusciamo a trovare risposte chiare e immediate
alle domande che ci inquietano e ci assillano. È per questo che gli stereotipi e le
congetture hanno un ruolo tanto preponderante nella cultura di massa e nei mezzi di
comunicazione: servono a proteggere la nostra sicurezza emotiva. Come ha osservato
Leszek Koakowski, cliché e stereotipi dimostrano non tanto l’arretratezza o la stupidità
degli esseri umani, quanto la loro debolezza, il timore di non riuscire a sopportare
una vita costantemente assillata dai dubbi.
Prestar fede o meno alle teorie del complotto (che da un punto di vista filosofico
non sono altro che congetture, generalmente impossibili da confermare e suffragare,
ma al tempo stesso difficilmente confutabili) non ha nulla a che fare con la scienza
e con il sapere. Il fatto che quelle teorie trovino credito anche tra intellettuali,
scienziati e persino tra gli scettici ricorda quella storiella ebraica in cui un ateo
muore e si trova a colloquio con Dio: questi gli chiede come mai, se non crede in
lui e dubita di tutto, crede tanto fermamente che Dio non esista; al che l’ateo risponde
che bisogna pur credere in qualcosa...
In ogni caso, localizzare il male in uno specifico paese o luogo è un fenomeno molto
più complesso che vivere in un mondo fatto di stereotipi e congetture. L’immaginazione
morale moderna costruisce quella che potremmo chiamare una geografia simbolica del
male, l’idea cioè che le possibilità del male non siano dentro ciascuno di noi in
quanto individui, ma siano insite in certe società, comunità politiche o paesi: un’idea
cui forse contribuì anche Lutero, predicando che il male sia radicato nella società
e nei rapporti sociali e che perciò ognuno di noi, anziché lasciarsi coinvolgere nelle
questioni della società, debba pensare soprattutto alla salvezza della propria anima.
Naturalmente sarebbe sciocco negare che i sistemi totalitari e autoritari stravolgano
i modi di pensare, le sensibilità e i rapporti sociali di intere nazioni e società
e degli individui che ne fanno parte. Ma anche se tutto si risolvesse in una separazione
manichea tra democrazia e autoritarismo (come se il male non esistesse – beata ingenuità
– anche nei paesi democratici, in coloro che apprezzano libertà e uguaglianza e nelle
loro scelte morali...), il problema sarebbe comunque risolto solo in parte. La geografia
simbolica del male non si ferma alle frontiere che dividono i sistemi politici: penetra
nelle mentalità, nelle culture, nello spirito delle nazioni, negli schemi di pensiero
e nelle tendenze della coscienza.
Il mondo analizzato da Bauman non è più una caverna abitata da demoni e mostri che
minacciano la parte buona e luminosa dell’umanità. Con dolore, ma anche con la lieve
ironia che lo distingue, Bauman ci parla dell’inferno che un essere umano assolutamente
normale e apparentemente gentile, ottimo vicino ed esemplare padre di famiglia, crea
per l’Altro nel momento in cui rifiuta di riconoscergli un’individualità, un mistero,
una dignità, una sensibilità di linguaggio.
Da questo punto di vista, Bauman si avvicina al pensiero di Hannah Arendt: soprattutto
la Arendt che nel saggio su Eichmann a Gerusalemme e sulla banalità del male rivela
tutta la sua disillusione per il male nel mondo nuovo. Tutti si aspettavano di trovarsi
al cospetto di un mostro o di una creatura uscita dall’inferno, mentre in realtà Eichmann
era solo un burocrate della morte, e tutta la sua personalità e attività attestano
una sorprendente normalità, e persino un grande senso morale del dovere. Non sorprende
che Bauman abbia visto nell’Olocausto non già un’orgia di mostri e di demoni, ma un
insieme di condizioni terribili, in presenza delle quali i membri di qualsiasi nazione
avrebbero fatto le stesse cose che fecero i tedeschi e i membri di altre nazioni cui
fu data la possibilità di dare un’interpretazione semplice e sbrigativa delle loro
sofferenze e degli avvenimenti che si erano trovati a vivere. La fuga dagli intollerabili
dilemmi umani verso un magniloquente obiettivo di lotta e un programma di annientamento
del proprio nemico ideologico è la via che conduce alla ripetizione dell’Olocausto.
Quando siamo convinti di combattere il nostro nemico e non abbiamo la forza di guardare
negli occhi un bambino innocente, accade qualcosa di simile all’atto di distogliere
lo sguardo da un essere umano per dirigerlo verso la sfera della ragione strumentale
e del linguaggio che stravolge il mondo.
Sono circostanze e situazioni in cui nessuno di coloro che hanno idee chiare, molto
chiare al riguardo si è mai venuto personalmente a trovare. Come ha osservato Bauman
in una conferenza all’Università Vytautas Magnus di Kaunas, in Lituania, non c’è nulla di più difficile che parlare di una situazione in cui non ci siamo
trovati né vorremmo trovarci. Come giudicare, ad esempio, un uomo che durante la Seconda
guerra mondiale una notte sente bussare alla porta di casa e si trova davanti un bambino
ebreo che gli chiede di entrare? Deve decidere su due piedi, ben sapendo che se lo
accoglierà metterà a rischio la propria vita e quella dei familiari. Nessuno vorrebbe
mai trovarsi in una situazione del genere.
Il male non è solo guerra o ideologie totalitarie, e oggi si rivela soprattutto nella
mancata reazione alle sofferenze altrui, nel rifiuto di capire gli altri, nell’insensibilità
e nel gesto di distogliere gli occhi da uno sguardo etico che ci fissa in silenzio.
Si rivela, per esempio, nel modo in cui dei servizi segreti animati da patriottismo
e senso del dovere, la cui profondità e autenticità mai verrebbero messe in dubbio
da un esperto di etica kantiana, e nemmeno da Kant in persona, non esitano a distruggere
la vita di un uomo o di una donna comuni solo perché forse non si può fare diversamente;
o perché si sono trovati al momento sbagliato nel posto sbagliato; o perché il modello
prevalente delle relazioni internazionali è cambiato; o perché dovevano un favore
ai servizi segreti di un paese amico; o magari solo perché qualcuno voleva dar prova
di fedeltà e dedizione al sistema, ossia allo Stato e alle strutture che lo controllano.
Distruggere la vita di un estraneo senza minimamente dubitare di aver fatto il proprio
dovere e di aver agito moralmente: è questa la nuova forma del male, la malvagità
invisibile della modernità liquida, che va a braccetto con uno Stato che si presta
e si arrende totalmente a questi mali, che ha come unico timore l’incompetenza, il
rischio di rimanere indietro rispetto ai concorrenti, e non è sfiorato nemmeno per
un attimo dal dubbio che le persone siano qualcosa di più che mere unità statistiche.
Le statistiche contano più della vita reale delle persone, e la dimensione di un paese
e la sua potenza economica e politica contano molto più del valore di uno dei suoi
abitanti, anche quando quest’ultimo parla a nome dell’umanità. Nulla di personale,
gli affari sono affari: ecco il nuovo Satana della modernità liquida. Ma mentre in
Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov il protagonista, Woland, rivela la segreta convinzione degli europei
dell’Est che il cristianesimo non sia in grado di spiegare il male e che il ventesimo
secolo abbia dimostrato al di là di qualsiasi dubbio che il male esiste in quanto
realtà autonoma e parallela al bene, e non (come insegnò sant’Agostino e come per
secoli si credette) in quanto mera carenza di bene, questa modernità liquida riesce
a banalizzare non soltanto il bene inefficace, ma lo stesso male.
La verità più sgradevole e scioccante è che il male oggi è debole e invisibile; dunque
molto più pericoloso di quei demoni e spiriti malvagi che trovavamo nei testi filosofici
e letterari. Il male è senza mordente e diffuso. La triste verità è che si annida
in ogni uomo sano e normale. E la cosa peggiore di tutte non è il male potenziale
insito in ciascuno di noi, ma sono le situazioni e circostanze che la nostra fede,
la nostra cultura e i nostri rapporti umani non sono in grado d’impedire. Il male
assume la maschera della debolezza, ed è al tempo stesso debolezza.
Beati i tempi in cui le forme del male erano chiare. Oggi non sappiamo più né riconoscerle
né trovarle. Lo si vede chiaramente quando qualcuno perde la memoria e la capacità
di vedere e sentire. Ecco una lista dei nostri nuovi blocchi mentali. Ne fanno parte
l’oblio intenzionale verso l’Altro, il deliberato rifiuto di vedere e riconoscere
un essere umano diverso da noi, l’emarginazione di una persona viva, reale, che agisce
e parla proprio vicino a noi, per fabbricarci invece un «amico» Facebook lontano,
magari addirittura in un’altra realtà semiotica. Troviamo poi l’alienazione accompagnata
da amicizia simulata: l’atto, cioè, con cui ignoriamo chi ci è vicino ma alla fine
di una lettera usiamo la formula Faithfully yours, promettendo in tal modo «fedeltà» a una persona che non conosciamo e non abbiamo
mai incontrato: un gesto in cui l’indifferenza per il contenuto e la cortesia del
tono vanno a braccetto. Nella lista rientra anche il desiderio di comunicare anziché
con chi soffre in silenzio ma realmente vicino a noi, con persone immaginarie che
rappresentano per noi delle proiezioni ideologiche o comunicative: il desiderio di
comunicazione si accompagna qui all’uso inflazionato di concetti e termini fin troppo
manovrabili. Le nuove forme di censura coesistono – molto stranamente – con un linguaggio
sadico e cannibalesco che scatena orge verbali di odio senza volto su Internet, vere
e proprie cloache virtuali che rovesciano liquami sugli altri e incredibili ostentazioni
d’insensibilità (specialmente quando i commenti sono anonimi).
È questa la cecità morale – scelta, autoimposta o fatalisticamente accettata – di
un’epoca che ha soprattutto bisogno di prontezza e lucidità di comprensione e di sentimenti.
Per riconquistare la nostra sensibilità in questi tempi oscuri occorre riscoprire
la dignità, e la sostanziale inconoscibilità dell’essere umano, non solo dei grandi
del mondo, ma anche della folla delle comparse, dell’individuo in senso statistico,
delle unità statistiche elementari, delle masse, dell’elettorato, dell’uomo della
strada, delle brave persone, di tutte quelle costruzioni autoillusorie dei tecnocrati
che si dicono amici della democrazia e contrabbandano l’idea che delle persone e dei
loro bisogni sappiamo già tutto ciò che c’è da sapere, e che per definirlo con precisione,
e spiegarlo in modo esauriente, bastano il mercato, lo Stato, le indagini sociologiche,
gli indici d’ascolto e tutto ciò che trasforma le persone in carne e ossa nell’Anonimo
Globale.
Privare gli uomini del loro volto e della loro individualità è una forma di male non
meno grave che togliere loro la dignità o lanciare allarmi sui pericoli che arrivano
con gli immigrati o i seguaci di un’altra fede. Per sconfiggere questo male non bastano
né il politicamente corretto, né una «tolleranza» ridotta a obbligo burocratico (che
spesso si riduce a caricatura della vera tolleranza), e nemmeno il multiculturalismo,
che non è altro che la decisione di lasciare l’umanità così com’è, con tutte le sue
ingiustizie e umiliazioni che assumono la forma di nuovi sistemi di caste, divari
di ricchezza e prestigio, moderne schiavitù, apartheid sociali e gerarchie: tutti
fenomeni che si cerca di giustificare richiamandosi a una presunta diversità e «unicità»
culturale. È un cinico inganno; oppure un’ingenua illusione – per ben che vada, un
palliativo.
Ci sono testi che ci aiutano a trovare la luce. Testi che ci guardano dritti negli
occhi e ci interpellano. Che ci pongono domande impossibili da eludere. Che non abbiamo
il diritto di ignorare, se non vogliamo uscire dalla sfera della sensibilità teorica,
politica ed etica moderna. Sono testi come quelli di Zygmunt Bauman.
È evidente che la possibilità di scrivere questo libro a due mani con uno dei massimi
pensatori del nostro tempo è uno dei punti più alti della mia esistenza. Un’occasione
così capita una volta nella vita, e per questo sono infinitamente grato a Zygmunt
Bauman: una delle menti che mi hanno maggiormente influenzato, che è per me fonte
di grande ispirazione, ed è anche un carissimo amico.
Questo libro è un dialogo sulla possibilità di riscoprire il senso di appartenenza
come alternativa praticabile alla frammentazione, all’atomizzazione e alla perdita
di sensibilità che ne consegue. È un dialogo su una nuova prospettiva etica come unica
possibile via d’uscita dalla trappola e dai pericoli dell’attuale adiaforizzazione
dell’umanità e della sua immaginazione morale. Vuole essere un monito, e un promemoria,
sull’arte della vita e sulla vita dell’arte, e assume la forma di un dialogo epistolare
tra amici su una serie di temi teorici. Nell’approfondire le mie idee, nel rappresentare
e condensare in una forma discorsiva coerente i miei spunti e le mie domande, Zygmunt
Bauman assume il tono intimo e cordiale di un umanista del Rinascimento che si rivolga
a un altro umanista – come Tommaso Moro quando si rivolge a Erasmo, a Peter Giles
o a Raffaele Itlodeo.
Questa forma ci consente di sviluppare un dialogo sociologico e filosofico sulla cattiva
notizia che nega l’Utopia di Moro: il fatto che la globalizzazione – volendo parafrasare in un aforisma un’idea
di Milan Kundera – è il tramonto dell’ultima speranza che esista ancora, da qualche
parte, un luogo dove sia possibile fuggire e trovare la felicità. Dell’ultima speranza
che esista una terra diversa dalla nostra, dove sia possibile opporsi alla sensazione
di perdita del senso e dei criteri morali e, in ultima analisi, alla cecità morale
e alla perdita della sensibilità.
Zygmunt Bauman La politica non è – di tutto lo sfaccettato agire-nel-mondo degli uomini – l’unico
ambito colpito dall’insensibilità morale; e si può anzi considerare – più che fonte
e motore – vittima collaterale di una pestilenza che coinvolge e divora ogni cosa.
Poiché la politica è un’arte del possibile, ogni genere di contesto socioculturale
crea il proprio genere di politica, impedendo e vanificando ogni altro tipo di prassi:
il nostro contesto liquido-moderno non fa eccezione.
Quando parliamo di «insensibilità morale» per indicare un tipo di comportamento duro,
spietato e senza cuore, o anche solo un atteggiamento equanime e indifferente alle
traversie e ai patimenti altrui (ben compendiato nel gesto con cui Ponzio Pilato «si
lava le mani»), usiamo in senso metaforico un termine – «insensibilità» – che ha come
sede primaria l’ambito dei fenomeni anatomici e fisiologici (di cui è una derivazione),
come significato primario il funzionamento difettoso di un organo di senso (ottico,
auditivo, olfattivo o tattile), e come effetto l’incapacità di percepire stimoli che
in condizioni «normali» evocherebbero immagini, suoni o altre sensazioni.
A volte questa insensibilità organica, fisica, è voluta, indotta artificialmente o
autoprodotta attraverso l’assunzione di antidolorifici, ed è ben accetta come provvedimento
momentaneo dovuto a un intervento chirurgico o al sopraggiungere, temporaneo o terminale,
di una malattia organica particolarmente dolorosa; ma non è mai finalizzata a rendere
l’organismo per sempre immune al dolore – una condizione che i professionisti della medicina considererebbero
sicura fonte di guai: in fin dei conti, il dolore è un’arma fondamentale per difendere
l’organismo da potenziali minacce di malattie, e segnala la necessità d’intervenire
urgentemente per risolvere un problema prima che sia troppo tardi. Se quel dolore
non avvertisse in tempo utile il paziente che qualcosa non va e bisogna intervenire,
il diretto interessato rinvierebbe la ricerca di un rimedio fino al momento in cui
la sua condizione potrebbe non essere più curabile e guaribile (del resto le malattie
organiche più temute, perché difficilmente curabili, sono proprio quelle che in una
fase iniziale, quando sono ancora curabili, e forse guaribili, non provocano alcun
dolore). Eppure, una prospettiva di perenne assenza di dolore (l’idea di venire anestetizzati
e resi insensibili al dolore nel lungo termine) non ci appare palesemente sgradita,
né tanto meno minacciosa. Ammettiamolo, la promessa di essere anestetizzati per sempre,
al riparo da qualsiasi futura ricomparsa del dolore, è una tentazione cui pochi saprebbero
resistere. Ma l’immunità al dolore è una fortuna alquanto discutibile... Evita disagi,
nel breve periodo elimina sofferenze potenzialmente molto grandi, ma può trasformarsi
in una trappola, e rende i suoi «clienti soddisfatti» ancor più propensi a cadere
in trappola.
La funzione di campanello d’allarme, di avvertimento e strumento di prevenzione, tipica
del dolore, tende però a essere quasi del tutto ignorata quando la nozione di «insensibilità»
viene trasferita dai fenomeni organici e fisici all’universo delle relazioni tra gli
uomini, attribuendole così una qualificazione «morale». La mancata percezione dei
primi segnali che qualcosa non va – o potrebbe non andare – nella convivenza tra gli
uomini e nella sostenibilità della comunità umana, e che se non si fa qualcosa andrà
anche peggio, fa perdere di vista il pericolo, o induce a minimizzarlo abbastanza
a lungo da inibire l’azione delle interazioni umane come potenziale fattore di autodifesa
collettiva, rendendole invece superficiali, vuote, precarie e frammentarie. A questo
si riduce in ultima analisi il processo di «individualizzazione», efficacemente compendiato
nell’espressione, oggi tanto usata, «ho bisogno dei miei spazi» (interpretata come
rivendicazione di libertà dalla vicinanza e dalle interferenze di altre persone).
Questo processo, anche se non necessariamente animato da intenzioni «immorali», conduce
gli individui in una condizione che non richiede e, soprattutto, non ammette giudizi
e regole morali.
I rapporti che oggigiorno gli individui stabiliscono con altri individui sono stati
definiti «puri» – ossia «senza legami», privi di qualsiasi obbligo incondizionato,
esito predefinito, ipoteca sul futuro. L’unico fondamento e ragione perché il rapporto
prosegua – è stato detto – è la reciproca soddisfazione che se ne ricava. L’ascesa
e l’affermazione delle «relazioni pure» è stata interpretata come un enorme passo
avanti verso la «liberazione» individuale (riletta, volenti o nolenti, come libertà
dagli inevitabili vincoli alle scelte insiti in qualsiasi obbligo verso altri). Ciò
che rende però tale interpretazione opinabile è l’idea di «reciprocità», che in questo
caso appare grossolanamente esagerata e infondata. Se anche, per coincidenza, entrambi
i partner di una relazione sono soddisfatti simultaneamente, ciò non crea necessariamente
reciprocità, ma in ultima analisi significa solo che i due individui accomunati da
quella relazione sono soddisfatti nello stesso momento. Ciò che priva di autentica reciprocità il rapporto è la consapevolezza – a volte
consolatoria ma altre volte opprimente e straziante – che esso può concludersi solo
per effetto di una decisione unilaterale: consapevolezza che rappresenta a sua volta,
per la libertà individuale, un vincolo da non sottovalutare. Ciò che contraddistingue
essenzialmente le «reti» – termine subentrato oggi a quelli, ritenuti antiquati e
superati, di «comunità» o di «comunione» – è proprio il diritto alla rescissione unilaterale. A differenza delle comunità, le reti si formano individualmente, e altrettanto individualmente
vengono ristrutturate o smantellate; il loro unico, volatile fondamento è la volontà
individuale. Ma in una relazione sono due gli individui che s’incontrano... Un individuo moralmente «desensibilizzato» (ossia
capace e desideroso di escludere dalla propria considerazione il bene di un-Altro)
si trova, in virtù di questo stesso fatto – che lo voglia o no –, a subire l’insensibilità
morale dell’oggetto della propria insensibilità morale. Le «relazioni pure» non prefigurano
una reciprocità all’insegna della liberazione, ma dell’insensibilità morale. Il «collettivo
morale a due» di Lévinas cessa di essere un vivaio della morale e si trasforma in
fattore di adiaforizzazione (ossia di esenzione dalla sfera del giudizio morale) in una versione specificamente
liquido-moderna che integra, o spesso soppianta, la variante solida, burocratica.
La forma liquido-moderna dell’adiaforizzazione è ricalcata sul modello della relazione
consumatore-merce, e la sua efficacia si basa sul trasferimento di quel modello nell’ambito
dei rapporti umani. Nel ruolo di consumatori noi non giuriamo eterna fedeltà alla
merce che cerchiamo e acquistiamo per soddisfare i nostri bisogni o desideri, e continuiamo
a servircene finché (e solo finché) essa risponde alle nostre aspettative o finché
non ci imbattiamo in un’altra merce che promette di gratificare quegli stessi desideri
in modo più esauriente rispetto alla merce precedentemente acquistata. Tutti i beni
di consumo, compresi quelli definiti «durevoli», sono assolutamente intercambiabili
e sacrificabili; nella cultura consumistica – ossia ispirata ai consumi e posta al
servizio dei consumi –, il tempo che intercorre tra l’acquisto e lo scarto tende a
ridursi man mano che la delizia che ci procurano gli oggetti di consumo si sposta
dall’uso al semplice possesso. La loro longevità d’uso tende ad abbreviarsi, e i casi
di rigetto e scarto a farsi sempre più frequenti, quanto più in fretta si esaurisce
la capacità degli oggetti di soddisfarci (e dunque di farsi desiderare da noi). Il
consumismo inteso come atteggiamento sarà anche utile a far girare l’economia, ma finisce per inceppare gli ingranaggi della morale.
Ma non è l’unica calamità che in un contesto liquido-moderno investa le azioni cariche
di significato morale. Poiché il calcolo utilitaristico non potrà mai sottomettere
e soffocare del tutto le pressioni silenziose – ma assolutamente incontrollabili e
pervicacemente ribelli – dell’impulso morale, ignorare i comandi morali e rimanere
indifferenti di fronte alle responsabilità evocate dal Volto di un-Altro (per usare
la terminologia di Lévinas) lascia dietro di sé il gusto amaro di quelli che chiamiamo
«rimorsi di coscienza» o «scrupoli morali». Ma ecco, ancora una volta, le offerte
consumistiche correre in nostro aiuto: per pentirsi ed essere assolti dal peccato
di negligenza morale ci basta acquistare doni nei negozi, visto che lo shopping viene
rappresentato come gesto morale (anche se in realtà nasce da motivazioni e tentazioni
egoistiche e autoreferenziali). La cultura consumistica, facendo leva sugli impulsi
morali alla redenzione stimolati dai malcomportamenti che essa stessa ha generato,
favorito e rafforzato, trasforma qualsiasi negozio o agenzia di servizi in una sorta
di farmacia dove è possibile fare rifornimento di tranquillanti e analgesici per attenuare
o placare dolori che in questo caso non sono fisici ma morali. Man mano che la negligenza morale si estende e si intensifica, la domanda di antidolorifici
aumenta a dismisura e l’uso dei sedativi morali si trasforma in assuefazione. Il risultato
è che l’insensibilità morale artificialmente indotta tende a diventare compulsiva,
una sorta di «seconda natura», una condizione permanente e pressoché universale in
cui il dolore morale perde la sua salutare funzione di avvertimento, allarme e spinta
a intervenire. Quel dolore viene soffocato prima che diventi davvero fastidioso e
preoccupante, e la trama dei legami umani, che è intessuta del filo della morale,
si fa sempre più fragile e delicata, fino a strapparsi. I cittadini vengono addestrati
a cercare sui mercati, nel consumo, la salvezza dai propri guai, la soluzione ai propri
problemi, e la politica si trova (anzi è pungolata, spinta, in ultima analisi costretta)
a interpellare i propri governati innanzi tutto come consumatori, e solo a grande
distanza come cittadini; e a ridefinirne la solerzia nel consumare come virtù civile,
e il consumo come il primo dovere di un cittadino...