1. Tempo e classe
«L’impresa appartiene alle persone che investono in essa, non ai dipendenti, ai fornitori,
e neanche al luogo in cui è situata»1. È Albert J. Dunlap, il famoso «razionalizzatore» dell’impresa moderna – un dépeceur, cioè un «tagliatore di teste», uno che fa a pezzi, che smembra le imprese, per dirla
con la succosa ma precisa definizione coniata dal sociologo del Cnrs, Denis Duclos2 –, a sintetizzare in questa frase le proprie idee. L’abbiamo tratta dalla compiaciuta
relazione sulle sue attività che la casa editrice Time Books ha pubblicato per orientare
e formare quanti mirano al progresso economico.
Dunlap, naturalmente, non pensava alla semplice «appartenenza» nella pura accezione
giuridica che diamo alla parola «proprietà» – una questione che ormai non si pone
più e non ha certo bisogno di nuove spiegazioni, tanto più se così enfatiche –. Dunlap
pensava, soprattutto, a quello che il resto della frase significa, e cioè che i dipendenti,
i fornitori e gli esponenti di una località non hanno voce alcuna nelle decisioni
che gli investitori possono prendere; che a questi spetta il vero potere di decidere,
così come il diritto di respingere, di non tenere in alcun conto e non accettare qualsiasi
commento o richiesta gli altri possano avanzare sul modo in cui essi gestiscono l’impresa.
Con questo messaggio – è bene notarlo – Dunlap non fa una dichiarazione d’intenti,
ma constata dei fatti. Egli enuncia un principio che, a suo parere, ha superato tutte
le prove cui possono averlo sottoposto le diverse realtà dei nostri giorni, economiche,
politiche, sociali e altre ancora. Quel principio sarebbe ormai entrato a far parte
delle verità di per sé evidenti: servono a spiegare il mondo, ma non hanno alcun bisogno
di essere spiegate; consentono di formulare pensieri basilari sul mondo, ma non vengono
più considerate proposizioni, enunciati che, in quanto tali, debbano essere discussi
o confutati.
Ci sono stati tempi («non lontani», aggiungeremmo, se non fosse che la gente è sempre
meno attenta, e anche una settimana appare un periodo lungo non solo nella politica,
ma persino nella memoria dell’uomo) in cui i proclami di Dunlap non sarebbero apparsi
scontati ai più; tempi in cui sarebbero risuonati piuttosto come grida di battaglia
o cronache di guerra. Nei primi anni della guerra di annientamento che Margaret Thatcher
sferrò contro le autonomie locali, gli uomini d’affari, l’uno dopo l’altro, sentirono
il bisogno di salire sul podio del congresso annuale del Partito conservatore per
lanciare più volte un messaggio che essi rimarcavano perché suonava inusitato e bizzarro
per orecchie che non si fossero ancora assuefatte ad esso: le imprese, dicevano, avrebbero
pagato volentieri le imposte locali per contribuire alla costruzione di strade, o
alla manutenzione di discariche, di cui avevano bisogno, ma non pensavano proprio
di dover contribuire al sussidio dei disoccupati locali, o al sostegno degli invalidi
e di altri rifiuti umani, del cui destino non ritenevano di doversi assumere né responsabilità
né oneri. Erano quelli gli esordi di una guerra che, solo un paio di dozzine di anni
dopo, è stata vinta, o quasi, sicché Dunlap può oggi dettare il suo credo, e aspettarsi
– a giusta ragione – che tutti gli ascoltatori lo condividano.
Non è molto importante chiederci: questa guerra è stata programmata, in forme malevoli
e pretestuose, nelle asettiche sale dei consigli d’amministrazione di imprese in cui
è vietato fumare? oppure l’hanno imposta, a industriali riluttanti e amanti della
pace, i mutamenti determinati dalla miscela di forze misteriose della nuova tecnologia
e della nuova competitività globale? Ancora, non è importante discutere: questa guerra
è stata pianificata in anticipo, debitamente dichiarata e ha obiettivi chiari e definiti?
oppure è consistita in una serie di semplici episodi sporadici e imprevedibili, ciascuno
imposto da motivazioni proprie? Quale che sia, delle due, l’ipotesi più attendibile,
possiamo darle entrambe per buone, e pensare anche che siano due fenomeni solo in
apparenza diversi. Ma quel che più importa, comunque, è che l’ultimo quarto del nostro
secolo passerà alla storia come la Grande guerra di indipendenza dallo spazio. Una
guerra durante la quale i centri decisionali, insieme alle motivazioni stesse che
determinano le decisioni, gli uni e le altre ormai liberi da legami territoriali,
hanno preso a distaccarsi, in forma continua e inesorabile, dai vincoli imposti dai
processi di localizzazione.
Esaminiamo con più attenzione il principio di Dunlap. I dipendenti sono reclutati
tra la popolazione locale e, per i probabili legami imposti dalla famiglia, dalla
proprietà di un’abitazione e da fattori simili, non possono facilmente seguire l’impresa
quando questa decida di trasferirsi. I fornitori devono fornire merci, e tra essi
quelli locali sono avvantaggiati dai bassi costi di trasporto, un vantaggio che però
svanisce se l’impresa si trasferisce. Quanto alla «località» stessa, è persino ovvio
che rimarrà dov’è e non si può certo spostare, quale che sia il nuovo indirizzo dell’impresa.
Tra tutti quelli che hanno qualcosa da dire sulla gestione della impresa, solo gli
«investitori» – gli azionisti – non sono allora in alcun modo legati allo spazio;
possono comprare qualsiasi azione, in qualsiasi Borsa e per il tramite di qualsiasi
agente e, nella decisione di comprare o vendere, la vicinanza o lontananza geografiche
saranno, con ogni probabilità, la considerazione meno importante.
In teoria, nei processi di dispersione dell’azionariato non c’è nulla che possa essere
definito e delimitato nello spazio. Gli investitori rappresentano il solo fattore
veramente libero dai vincoli relativi allo spazio. Ad essi, e solo ad essi, «appartiene»
l’impresa. Sta a loro quindi dislocarla nei luoghi in cui possono vedere o anticipare
la possibilità di dividendi più elevati, lasciando agli altri – a quelli che restano
legati al territorio – il compito di leccarsi le ferite, di minimizzare i danni e
fare pulizia. L’impresa è libera di muoversi; ma le conseguenze del suo trasferimento
sono destinate a permanere nel tempo. Chi può abbandonare i luoghi è anche libero
di non preoccuparsi delle conseguenze. Sono queste le spoglie più importanti della
vittoria conseguita nella guerra per lo spazio.
I proprietari assenti: la versione dei nostri giorni
All’indomani di questa guerra, la mobilità è diventata il più poderoso e apprezzato
fattore di stratificazione sociale; il materiale con il quale ogni giorno si costruiscono
e si ricostruiscono, sempre di più su scala mondiale, le nuove gerarchie sociali,
politiche, economiche e culturali. Per chi si trova al vertice del nuovo ordine, i
vantaggi derivanti dalla libertà di movimento vanno ben oltre le formulazioni di Dunlap.
Il quale prende in considerazione, promuove o degrada solo quelli che, nella competizione,
sono capaci di farsi sentire, di dar voce alle proprie lamentele e avanzare pretese
– e che probabilmente, quindi, così faranno –. Ma di quelli che, anch’essi legati
al territorio, vengono isolati e «seminati», senza collegamenti, Dunlap tace addirittura,
perché è improbabile che possano farsi sentire.
La mobilità acquisita dagli investitori – coloro che cioè dispongono di capitali,
del denaro per investire – è emblematica della nuova divaricazione tra potere e obblighi
sociali, una cesura senza precedenti nella storia perché i potenti si sottraggono
radicalmente a ogni vincolo: sono svaniti i doveri nei confronti non solo dei dipendenti,
ma dei giovani e dei più deboli, delle generazioni che verranno e delle condizioni
stesse che assicurano la vita di tutti noi; per dirla in breve, tutto ciò significa
libertà dal dovere di contribuire alla vita quotidiana e al perpetuarsi della comunità
civile. Sta così emergendo una nuova asimmetria tra la natura extraterritoriale del
potere e la permanenza dei vincoli territoriali in quella che è «la totalità della
vita», una asimmetria che il nuovo potere, libero com’è da legami e in grado di muoversi
in tempi brevissimi e senza preavviso, può sfruttare senza preoccuparsi delle conseguenze.
Liberarsi proprio di quest’ultima responsabilità è il vantaggio più evidente e apprezzato
che il nuovo fattore della mobilità attribuisce al capitale fluttuante, non legato
a un luogo. I costi derivanti dalla necessità di fronteggiare le conseguenze, quindi,
non vanno più presi in considerazione nel valutare quanto sia efficace l’investimento.
La nuova libertà del capitale ricorda quella del proprietario terriero di un tempo,
che era odiato – si sa – per il suo disprezzo dei bisogni delle popolazioni che lo
nutrivano. «Scremare» le eccedenze di prodotto era l’unico interesse che i proprietari
assenteisti nutrivano per le terre in loro possesso. Nelle due situazioni storiche
possiamo rilevare delle analogie, ma il raffronto non mette nel giusto rilievo le
diversità: quella libertà dalle preoccupazioni e dalle responsabilità che il capitale
mobile del XX secolo ha acquisito ma che i proprietari assenteisti non ebbero mai.
Una proprietà agricola non poteva essere oggetto di scambio, perciò i proprietari
restavano legati – anche se con fili sottili – alla località dalla quale traevano
la propria linfa vitale; le circostanze stesse imponevano loro un limite pratico alle
possibilità di sfruttare le terre, che in teoria e per via giuridica erano illimitate,
perché non volevano rischiare di affievolire nel futuro i flussi di reddito, o inaridirli
del tutto. È vero, anche, che i limiti reali tendevano a essere, nel complesso, più
rigidi di quanto essi stessi riuscivano a percepire, e che le loro stesse percezioni,
a loro volta, erano assai spesso più severe di quanto suggeriva la pratica: accadeva
così che i proprietari terrieri assenteisti finivano col compromettere in modo irreparabile
la fertilità del suolo e la produzione agricola in generale, rendendo estremamente
precarie anche le loro fortune, che declinavano di generazione in generazione. E tuttavia
quei limiti, che pure erano effettivi, si riproponevano con tanta maggiore crudezza
quanto più non li si percepiva e non li si affrontava in modo corretto. Limite, secondo
Alberto Melucci, «vuol dire confine, frontiera, separazione; e perciò vuol dire anche
riconoscimento dell’altro, del diverso, dell’irriducibile. L’incontro con ‘l’alterità’
è un’esperienza che ci mette alla prova: da essa nasce la tentazione di eliminare
le differenze usando la forza, mentre da essa può anche generarsi la sfida della comunicazione,
come sforzo che si rinnova costantemente»3.
Diversamente da quanto accadeva ai proprietari terrieri assenteisti agli albori dei
tempi moderni, i capitalisti e gli intermediari tardo-moderni, grazie alla nuova mobilità
delle loro risorse, ormai liquide, non devono fronteggiare limiti sufficientemente
reali – solidi, duri, resistenti – che dall’esterno impongano loro linee di condotta.
Potrebbero farsi sentire e rispettare solo quei limiti che vengono imposti, per via
amministrativa, alla libertà di movimento dei capitali e del denaro. Tali limiti,
però, sono pochi e rari, e ci sono enormi pressioni per attenuare sempre più o, addirittura,
spazzare via quelli residui. Dopo di che, ci sarebbero poche occasioni per quegli
«incontri con l’alterità», con ciò che «è altro», di cui parla Melucci. E se anche
fosse l’altra parte a imporli, se pure fosse «l’alterità» a mostrare i muscoli e a
far sentire la propria forza, il capitale avrebbe poche difficoltà a fare i bagagli
e a cercare un ambiente più ospitale, o che non opponga resistenze, che sia malleabile,
soffice. E ci sarebbero, quindi, meno occasioni per scatenare ulteriori tentativi
di «eliminare le differenze con la forza» o per indurre ad accettare la «sfida della
comunicazione».
Entrambi questi atteggiamenti vorrebbero riconoscere che la diversità è qualcosa di
irriducibile ma, perché sia considerata tale, l’alterità deve prima trasformarsi in
una sostanza che abbia alcune qualità: sia cioè resistente, inflessibile, letteralmente
«avvincente». Una possibilità, questa, che si va rapidamente restringendo. Per poter
acquisire una capacità naturale e genuina di farsi entità capace di resistenza c’è
bisogno che l’aggressore sia persistente ed efficace. Invece, accade che, per gli
effetti complessivi della nuova mobilità, al capitale e alla finanza non si pone quasi
mai l’esigenza di piegare l’inflessibile, di superare gli ostacoli e di vincerne o
attenuarne la resistenza; ovvero, anche quando questa si manifesta, la si può tranquillamente
spazzar via in favore di opzioni più morbide. Insomma, il capitale può sempre imboccare
la strada di trasferirsi in siti più tranquilli se lo scontro con l’«alterità» richiede
un costoso impiego di risorse o negoziati defatiganti. Perché scontrarsi, se basta
disimpegnarsi?
Libertà di movimento e «costituzione» delle società civili
Se rivolgiamo lo sguardo al passato, possiamo chiederci fino a che punto i fattori
geofisici, i confini naturali e artificiali delle unità territoriali, le diverse identità
dei vari popoli e le Kulturkreise, come anche le distinzioni tra «dentro» e «fuori» – tutti gli specifici oggetti della
scienza della geografia – non fossero essenzialmente che delle semplici costruzioni
mentali, o dei sedimenti/artifizi materiali discendenti dai «limiti di velocità»,
o, più in generale, dai vincoli di tempo e di costo cui la libertà di movimento era
soggetta.
Paul Virilio ha di recente suggerito che si può con sempre maggiore sicurezza parlare
della «fine della geografia», laddove appare decisamente prematura la tesi di Francis
Fukuyama sulla «fine della storia»4. Le distanze non hanno più importanza, mentre l’idea di confine geografico è sempre
più difficile da sostenere nel «mondo reale». Tutt’a un tratto appare chiaro che i
continenti ed il mondo, visto nella sua globalità, erano divisi in funzione di distanze
un tempo estremamente reali, in virtù e della natura primitiva dei trasporti e della
difficoltà di viaggiare.
In effetti, lungi dall’essere un «dato» obiettivo, impersonale, fisico, la «distanza»
è un prodotto della società; la lunghezza stessa di una distanza varia a seconda della
velocità con cui la si può superare (e, in un’economia monetaria, dei costi connessi
a ottenere quella data velocità). Tutti gli altri fattori che la società inventa nel
costituire, separare e conservare identità collettive – come i confini tra stati o
le barriere culturali – appaiono, a posteriori, semplici effetti secondari di quella
velocità.
Sembra questa la ragione – è il caso di notarlo – per cui un tempo la «realtà dei
confini» era, nella maggior parte dei casi, un fenomeno che riguardava la stratificazione
delle classi: in passato, come oggi, le élites dei ricchi e dei potenti erano, dal punto di vista politico, sempre più aperte su
scala planetaria che non il resto della popolazione delle terre dove abitavano, e
tendevano a crearsi una cultura propria, poco attenta ai confini, che rimanevano invece
un fattore di rigidità per la gente da meno; e avevano molte più cose in comune con
le élites d’oltre confine che non con il resto della popolazione interna. Sembra questa anche
la ragione per cui Bill Clinton, il rappresentante della élite più potente del mondo attuale, ha potuto dichiarare di recente che, per la prima
volta, non c’è differenza alcuna tra politica interna e politica estera. In effetti,
nella vita dell’élite la differenza tra «qui» e «là», «dentro» e «fuori», «vicino» e «lontano» implica
ormai assai poco. Con l’implosione del tempo necessario a comunicare, un tempo che
si va restringendo alla «misura zero» dell’istante, lo spazio e i fattori spaziali
non contano più, almeno per coloro che possono agire con la velocità dei messaggi
elettronici.
Le opposizioni concettuali «dentro/fuori», «qui/là», «vicino/lontano» hanno scandito
la gradualità e la misura con cui i vari frammenti del mondo che ci circonda, umani
e non umani, sono stati addomesticati, hanno visto scomparire le differenze, sono
divenuti familiari.
Vicino, a tiro, è in primo luogo quanto è usuale, familiare e noto, quasi ovvio; qualcuno
o qualcosa che si vede, con cui ci si incontra, si tratta, s’interagisce nel quotidiano,
qualcosa o qualcuno cui ci legano la routine e le attività di ogni giorno. «Vicino»
è lo spazio all’interno del quale ci si può sentire a casa propria, uno spazio nel
quale di rado, se non quasi mai, ci si trova sperduti, a corto di parole o incerti
sul da farsi. «Molto lontano», invece, è lo spazio nel quale si entra assai di rado,
se non mai, nel quale accadono cose imprevedibili o incomprensibili, alle quali non
si sa come reagire; uno spazio che racchiude cose sconosciute, dalle quali non sappiamo
cosa aspettarci e per le quali non sentiamo il dovere di preoccuparci. Trovarsi in
uno spazio «molto lontano» è un’esperienza difficile; avventurarsi in esso vuol dire
travalicare il proprio habitat, il proprio elemento, stare fuori posto, dove si temono
difficoltà, problemi, danni.
Dati tutti questi elementi, l’opposizione «vicino/lontano» è caratterizzata da un’ulteriore
dimensione, cruciale: quella tra certezza e incertezza, consapevolezza e titubanza.
Essere «molto lontano» vuol dire trovarsi nei guai, e quindi richiede capacità, intelligenza,
astuzia o coraggio, significa dover apprendere regole che ci sono estranee e delle
quali altrove si potrebbe fare a meno, e che si fanno proprie solo affrontando prove
pericolose e spesso commettendo errori gravi. L’idea di «vicino», d’altro canto, si
riferisce a quanto non comporta problemi; abitudini acquisite senza difficoltà permetteranno
di farcela, perché le abitudini non hanno un peso e non richiedono sforzi, e quindi
non ci danno esitazioni né ansietà. Quanto racchiudiamo nel termine «comunità locale»
viene a definirsi proprio dalla opposizione tra «qui» e «là», «vicino» e «molto lontano».
La storia moderna è stata segnata dal progresso costante dei mezzi di trasporto. Trasporti
e viaggi sono stati caratterizzati da innovazioni particolarmente radicali e rapide;
in questo campo il progresso, come Schumpeter ha notato molto tempo fa, non è stato
il risultato della crescita del numero delle carrozze, ma dell’invenzione e della
produzione di massa di mezzi di trasporto completamente nuovi, quali treni, automobili
e aeroplani. Proprio la disponibilità nuova di mezzi di trasporto rapidi ha avviato
il processo, tipico della modernità, che avrebbe eroso e messo in crisi tutte quelle
«totalità» sociali e culturali che si erano arroccate e radicate in un luogo, un processo
che Tönnies ha per la prima volta racchiuso nella nota definizione della modernità
come passaggio dalla Gemeinschaft alla Gesellschaft, dalla comunità alla società.
Tra i fattori tecnici che hanno determinato la mobilità, un ruolo particolarmente
rilevante ha giocato il trasporto dell’informazione; genere di comunicazione che non
comporta affatto, o comporta solo in maniera secondaria e marginale, un movimento
di corpi e cose. Costante e rilevante è stato anche lo sviluppo di mezzi tecnici che
hanno consentito all’informazione di viaggiare separata e indipendente da vettori
corporei, e anche dagli oggetti sui quali essa informava: mezzi che liberavano i «significanti»
dal vincolo delle cose e degli eventi «significati». La separazione tra i flussi dell’informazione
e i movimenti dei suoi vettori e dei suoi oggetti ha consentito a sua volta di differenziare
le loro velocità; le informazioni hanno viaggiato a una velocità più rapida di quella
che i corpi, o le variazioni di situazioni su cui si informava, sono state in grado
di raggiungere. Alla fine, l’avvento della World Wide Web, la nuova rete mondiale
di computer, ha messo fine – per quanto riguarda l’informazione – alla nozione stessa
di «viaggio» (e di «distanza» da coprire) e fa sì che l’informazione, in teoria ma
anche in pratica, sia oggi disponibile all’istante in tutto il globo.
Sono enormi i risultati complessivi di questi recenti sviluppi. I loro effetti sull’interazione
di fenomeni come l’aggregazione e la divisione sociale sono stati ampiamente notati
e descritti nei minimi dettagli. Un po’ come notiamo «a che serve il martello» solo
quando l’attrezzo si è rotto, ora noi ci accorgiamo, con più chiarezza, del ruolo
che il tempo, lo spazio – e i mezzi per affrontarli – hanno giocato nel formare prima,
poi nel rendere stabili e flessibili, infine nel far crollare le totalità socio-culturali
e politiche. Le cosiddette «comunità ristrette» di un tempo sono state determinate
e tenute in vita, come possiamo ormai vedere, dalla discrasia tra i modi del comunicare
immediato all’interno delle piccole comunità – la loro misura era data dalle qualità innate e dai limiti
stessi delle facoltà naturali dell’uomo, vista, udito e capacità di mandare a memoria
– e gli enormi tempi e costi necessari a veicolare le informazioni tra più località. D’altro canto, la fragilità attuale e la breve vita delle comunità appaiono
essere in primo luogo il risultato proprio del restringersi o, addirittura, del venir
meno di tali diversità: se l’una e l’altra sono istantanee, le comunicazioni all’interno della comunità non godono più di alcun vantaggio rispetto a quelle tra comunità.
Michael Benedikt riassume il senso di questa nostra scoperta attinente al passato
e la nuova consapevolezza della profonda connessione che intercorre tra velocità del
viaggio e coesione della società:
Il tipo di unità che viene reso possibile, nella comunità di piccole dimensioni, dalla
natura quasi simultanea e dal costo vicino a zero delle comunicazioni basate sulla
parola detta, sui manifesti e sui ciclostilati, non tiene quando ci muoviamo su larga
scala. La coesione di una società, su qualsiasi scala, si realizza in funzione di
un consenso, di conoscenze condivise e, dove non esiste un costante aggiornamento
e una continua interazione, tale coesione dipende essenzialmente da una precoce, e
rigida, educazione all’interno di una data cultura e dalla capacità di tramandare
la memoria di tale cultura. La flessibilità sociale, invece, dipende dalla capacità
di dimenticare e da comunicazioni a basso costo5.
Aggiungiamo che la congiunzione e, nell’ultima frase citata, è superflua; la facilità di dimenticare e il basso costo
(e la rapidità estrema) delle comunicazioni sono semplicemente due aspetti della stessa
situazione, ed è difficile pensarli separatamente. Saper comunicare a basso costo
vuol dire che ci si deve sterilizzare e liberare in fretta di un eccesso di informazioni
ricevute, così come significa che non fanno che arrivare, velocemente, notizie e notizie
ancora, immediate. Poiché le capacità dei nostri sensi e del nostro cervello sono
rimaste in larga parte le stesse fin dal Paleolitico, le comunicazioni a basso costo
soffocano e intasano la memoria, piuttosto che nutrirla e rafforzarla. Si potrebbe
sostenere che lo sviluppo più fecondo, tra quelli recenti, consiste nel fatto che
sono venute meno le differenze di costo tra la trasmissione delle informazioni su
scala locale e quella su scala globale (dovunque si invii un messaggio via Internet,
il costo è quello di una «chiamata locale», fattore di enorme importanza sul piano
culturale oltre che su quello economico); ciò però vuol dire che l’informazione che
alla fine arriva e reclama l’attenzione dell’uditorio – e pretende di entrare e permanere
(sia pur brevemente) nella memoria – per lo più ha origine nei siti più diversi e
indipendenti l’uno dell’altro e quindi, probabilmente, fornisce messaggi incompatibili
l’uno con l’altro o che tendono a cancellarsi reciprocamente – in netto contrasto
con i messaggi che circolano all’interno di comunità prive di hardware e di software e che si basano solo su «programmi» sensoriali; ossia con i messaggi che tendono a
reiterarsi e a rafforzarsi a vicenda, alimentando un processo di memorizzazione selettiva.
Come dice Timothy W. Luke, «la spazialità delle società tradizionali è organizzata
attorno alle più immediate capacità del normale corpo umano»:
Nella tradizione le attività venivano viste facendo ricorso a metafore tratte dalla
vita organica: i conflitti si svolgevano faccia a faccia; le battaglie si combattevano
a viso aperto. La giustizia voleva l’occhio per occhio, dente per dente. La discussione
era accorata. La solidarietà si faceva spalla a spalla. Il senso della collettività
si manifestava mettendosi a braccetto, l’amicizia mano nella mano. E le innovazioni
venivano introdotte un passo alla volta.
Questa situazione è mutata radicalmente quando sono stati introdotti e sviluppati
mezzi grazie ai quali i conflitti, la solidarietà, il dibattito o l’amministrazione
della giustizia sono andati ben al di là di quanto non potessero fare l’occhio e il
braccio. Lo spazio è stato lavorato, accentrato, organizzato, normalizzato e, soprattutto,
emancipato dai formali limiti del corpo umano. Sono state quindi le capacità della
tecnica, la rapidità dei suoi sviluppi e il costo del suo utilizzo che, da quel momento,
hanno «organizzato lo spazio». «Lo spazio che la tecnica progetta è radicalmente diverso:
artificiale, non naturale; mediato da una strumentazione, non immediato; razionalizzato,
non reso comunitario; nazionale, non locale»6.
Lo spazio moderno, trasformato dalle opere d’ingegneria, doveva essere un organismo
duro, solido, permanente e impenetrabile. Cemento e acciaio dovevano essere la sua
carne, la rete di rotaie e autostrade le sue vene. Gli scrittori che hanno inventato
le utopie moderne non distinguevano tra ordine sociale e architettonico, tra unità
e divisioni sociali e territoriali; per essi – e per i responsabili dell’ordine sociale
a loro contemporanei – nell’organizzazione dello spazio bisognava cercare la chiave
dell’ordine di una società. La totalità sociale doveva essere intesa come una gerarchia
di località sempre più ampie e pervasive, con l’autorità sovra-locale dello stato
arrampicata in cima a sorvegliare il tutto, mentre esso stesso era esente da una vigilanza
quotidiana.
Al di sopra di questo spazio territoriale-urbanistico-architettonico trasformato dall’ingegneria,
con l’avvento della rete globale dell’informazione è stata imposta una terza dimensione
del mondo umano, lo spazio cibernetico, o ciberspazio. Gli elementi di questo spazio, secondo Paul Virilio, sono «privi di dimensioni spaziali,
ma iscritti nella singolare temporalità di una diffusione istantanea. Da ora in poi,
ostacoli fisici o distanze temporali non potranno più separare la gente. Con l’interazione
fra i terminali dei computer e i video, la distinzione tra ‘qui’ e ‘là’ non significa
più nulla»7.
Come per lo più non siamo corretti quando, parlando della condizione «umana», ci esprimiamo
in termini di unicità (la nostra vicenda è una e una sola per tutti), così non è del
tutto corretta quest’ultima recisa affermazione di Virilio. «L’interagire di terminali»
ha avuto effetti diversificati sulla sorte di tipi diversi di persone. Alcune – in
realtà davvero molte – possono ancora, come prima, essere tenute «separate da ostacoli
fisici e da distanze temporali»; anzi, questa separazione è oggi ancor più spietata,
e ha effetti psicologici più profondi, di quanto non si sia mai verificato in passato.
Nuova velocità, nuova polarizzazione
In poche parole: piuttosto che rendere omogenea la condizione umana, l’annullamento tecnologico delle
distanze spazio-temporali tende a polarizzarla. Emancipa alcuni dai vincoli territoriali e fa sì che certi fattori generino comunità
extraterritoriali, mentre priva il territorio, in cui altri continuano a essere relegati,
del suo significato e della sua capacità di attribuire un’identità. Per alcuni, ancora,
quell’azzeramento delle distanze di spazio e tempo promette una libertà senza precedenti
dagli ostacoli di carattere fisico e una capacità inaudita di muoversi e di agire
a distanza. Per altri, invece, presagisce l’impossibilità di appropriarsi della località
– dalla quale pure hanno scarse possibilità di liberarsi per muoversi altrove – e
di renderla accogliente e vivibile. Quando le «distanze non significano più niente»,
le località, separate da distanze, perdono anch’esse il loro significato. Questo fenomeno,
tuttavia, attribuisce ad alcuni una libertà di creare significati, dove per altri
è la condanna a essere relegati nella insignificanza. Oggi accade così che alcuni
possano liberamente uscire dalla località – da qualsiasi località –. Mentre altri
guardano invece disperati al fatto che l’unica località che gli appartiene e abitano
gli sta sparendo da sotto i piedi.
Le informazioni viaggiano ormai indipendentemente dai propri vettori; muovere e raggiustare
corpi nello spazio fisico è sempre meno necessario al fine di riordinare significati
e rapporti. Per alcuni – per l’élite mobile, l’élite della mobilità – ciò significa, letteralmente, che il potere perde la sua consistenza
fisica, non ha più peso. Le élites viaggiano nello spazio, e viaggiano più rapidamente di quanto non abbiano mai fatto
prima, ma la diffusione e la densità della rete di potere che tessono non dipende
da quel viaggio. Grazie alla nuova «incorporeità» del potere espressa nella forma
principale del potere finanziario, coloro che lo detengono diventano davvero extraterritoriali
anche se, con il corpo, continuano a restare «al loro posto». Il loro potere è, interamente
e veramente, non «fuori del mondo», ma estraneo al mondo fisico nel quale costruiscono
le loro case e i loro uffici in regime di stretta sorveglianza, in una condizione
di extraterritorialità, che li libera dalle intrusioni di vicini indesiderati e li
taglia fuori da qualsiasi comunità locale, inaccessibili quindi per chiunque sia, diversamente da loro, confinato ad essa.
Questa esperienza di non-territorialità del potere che la nuova élite sta vivendo – in una combinazione agghiacciante e poderosa di impalpabilità e onnipotenza,
non-fisicità e potere di determinare la realtà – è proprio quanto viene decantato
nella corale apologia della «nuova libertà» che si annida nel «ciberspazio»; nel caso
più notevole, quello di Margaret Wertheim, con «l’analogia tra il ciberspazio e la
concezione cristiana del Paradiso»:
Come i primi cristiani consideravano il cielo un regno ideale che stava al di là del
caos e della corruzione del mondo materiale – la cui disintegrazione appariva fin
troppo palpabile mentre l’impero crollava intorno a loro – così, in quest’epoca di
disintegrazione sociale e ambientale, gli odierni missionari del ciberspazio rappresentano
il loro regno come una ideale sfera «al di sopra» e «al di là» dei problemi del mondo
materiale. Mentre i primi cristiani dichiaravano il cielo un regno nel quale l’anima
degli uomini sarebbe stata liberata dalle fragilità e dalle tentazioni della carne,
oggi i campioni del ciberspazio lo salutano come un luogo nel quale l’io sarà liberato
dai limiti della propria fisica incarnazione8.
Nel ciberspazio il corpo non conta, anche se, nella vita dei corpi, conta il ciberspazio,
in maniera decisa e irrevocabile. Non c’è possibilità di appello contro i verdetti
emessi nell’universo ciberspaziale, e quanto accade in terra non può in alcun caso
mettere in questione la loro autorità. Una volta che si assegna irrevocabilmente al
ciberspazio il potere di emettere sentenze, il corpo dei potenti non ha bisogno di
farsi caratterizzare dalla forza fisica, ed essi non devono essere armati con poderose
armi materiali; inoltre, a differenza di Anteo, non hanno bisogno di legami con il
proprio ambiente, la terra, per affermare, dare fondamento o manifestare il proprio
potere. Hanno semmai bisogno di essere isolati dalle località, ormai private del loro
significato sociale (trasferito nel ciberspazio), e quindi ridotte a terreno meramente
«fisico». E ora hanno inoltre bisogno della sicurezza dell’isolamento, di una condizione di «non-vicinato», di essere immuni da interferenze locali, devono
godere di un isolamento a tutta prova, invulnerabile, che viene tradotto in «sicurezza»
delle persone, delle loro case, dei loro campi da gioco. Il processo che «deterritorializza»
il potere, che cioè lo scioglie dai vincoli del territorio, avanza così mano nella
mano con la sempre più rigida strutturazione del territorio.
In uno studio dal titolo estremamente esplicito di Building Paranoia, Steven Flusty ha notato l’esplosione, davvero soffocante, di capacità tecniche e
un frenetico boom in un campo nuovo delle aree metropolitane: quello degli «spazi
di interdizione», «progettati per intercettare e respingere, o lasciar filtrare, i
possibili utenti». Flusty dispiega la sua abilità unica nel coniare termini precisi
ed estremamente suggestivi per distinguere diverse tipologie di spazi del genere,
che si integrano e si combinano in nuovi elementi urbani che equivalgono ai fossati
e alle torrette dei castelli medievali, un tempo sorvegliati da armati. Tra le tipologie
elencate ci sono lo spazio «impraticabile», «spazio irraggiungibile, a causa della
lunghezza, della difficoltà, o della mancanza, di sentieri di accesso»; lo spazio
«spinoso» che «non può essere confortevolmente occupato, difeso com’è da meccanismi
quali pompe che si possono attivare per respingere chi vi indugi attorno, o sporgenze
e puntali o filo spinato disposti per impedire che ci si possa sedere»; o, ancora,
gli «spazi che respingono», «spazi che non possono cioè essere utilizzati senza cadere
sotto osservazione, in quanto attivamente controllati da pattuglie in movimento e/o
da tecnologie di controllo a distanza che trasmettono le immagini a stazioni di sicurezza».
Questi e altri «spazi di interdizione» non hanno altro scopo se non quello di plasmare
la extraterritorialità sociale della nuova élite sovralocale, isolandola materialmente, corporalmente, dalla località in cui si trova.
Essi danno anche un tocco finale alla disintegrazione delle forme, tipicamente radicate
nei luoghi, dello stare insieme e del condividere la vita. La extraterritorialità
delle élites viene assicurata nel modo più materiale, rendendole fisicamente inaccessibili a chiunque
non sia dotato di un permesso di ingresso.
Un fenomeno parallelo ai precedenti è il rapido restringersi, per dimensioni e numero,
degli spazi urbani in cui coloro che pur risiedevano in zone diverse potevano incontrarsi
faccia a faccia, avere approcci informali, avvicinarsi e sfidarsi, parlare, litigare,
discordare o trovarsi d’accordo, sollevando i problemi privati alla dignità di questioni
pubbliche o, viceversa, facendo dei problemi di carattere generale una questione di
carattere personale. Di queste agorà «pubbliche e private», come le chiama Cornelius
Castoriadis, le poche ancora rimaste sono sempre più selettive, e rafforzano, piuttosto
che rimediare, i danni messi in atto dalle forze della disgregazione. Secondo Steven
Flusty,
i tradizionali spazi pubblici vengono sempre più soppiantati da spazi di aggregazione
del pubblico prodotti da privati (anche se spesso sussidiati con contributi pubblici),
di proprietà e gestiti da privati, ossia da spazi destinati ai consumi [...]. L’accesso
ad essi è basato sulla capacità di spesa [...]. Domina l’esclusività, che assicura
gli elevati livelli di controllo necessari a impedire che irregolarità, eventi imprevedibili
e inefficienze interferiscano con l’ordinato fluire dei commerci9.
Le élites hanno prescelto l’isolamento e, per ottenerlo, pagano generosamente e volentieri. Il resto della popolazione si trova tagliata fuori e costretta a pagare l’alto prezzo culturale, psicologico e politico del nuovo isolamento in
cui è caduta. Quanti non hanno i mezzi per scegliere di stare separati e di pagare
i costi di servizi di sicurezza, si trovano a vivere gli aspetti passivi di questo
fenomeno attuale. Un fenomeno che equivale alle recinzioni e ai confini delle proprietà
introdotti agli inizi dell’era moderna. Queste persone sono puramente e semplicemente
«tagliate fuori»; senza che ne sia stato chiesto il consenso, viene impedito loro
di accedere ai «commons», alle aree comuni di un tempo, sono arrestati, respinti e
costretti a subire duri colpi se si avventurano nelle aree proibite, «off-limits»
– e non stiamo qui a notare i cartelli di «proprietà privata», o «vietato l’ingresso»,
o a riflettere sul significato di analoghi simboli non espressi a parole, ma non per
questo meno netti.
Il territorio urbano si trasforma così nel campo di battaglia di una continua guerra
per lo spazio, che a volte degenera nello spettacolo degli scontri urbani, delle schermaglie
rituali con la polizia, delle risse e dei vandalismi delle folle del pallone, ma che
è comunque combattuta ogni giorno appena dietro la cornice della versione ufficiale,
quella pubblica (e pubblicizzata), del normale «ordine» delle città. I residenti delle
aree «tagliate fuori», rese estranee e continuamente e spietatamente assediate, quando
sono privati di poteri e trascurati, rispondono a loro volta con azioni aggressive;
cercando di elevare, ai confini del loro territorio ghettizzato, i propri segnali
di «divieto d’accesso». Secondo le antiche abitudini di bricoleurs, usano a questo scopo qualsiasi materiale su cui riescano a mettere le mani, oppure
«adottano rituali, si vestono in maniera stravagante, assumono atteggiamenti bizzarri,
violano le regole, rompono bottiglie, finestre, teste, lanciano retoriche sfide alla
legge»10. Quale che sia la loro efficacia, il guaio è che questi tentativi non sono autorizzati
e, nei documenti ufficiali, si conviene classificarli come violazioni della legge
o attentati all’ordine pubblico e non, invece, per quello che sono: tentativi di rendere
visibili e leggibili le proprie pretese sul territorio seguendo anch’essi, semplicemente,
le nuove regole di questo gioco dello spazio che tutti gli altri stanno giocando con
entusiasmo.
L’arroccamento in una sorta di fortificazioni, da parte delle élites, e gli atti d’aggressione, compiuti in segno di difesa da parte di quanti restano
fuori delle mura, sortiscono il risultato di cumulare e rafforzare reciprocamente
i loro effetti, come ha chiaramente previsto Gregory Bateson nella sua teoria delle
«sequenze schismogenetiche». Secondo quel modello teorico, è probabile che si determinino
e che si aggravino, in maniera irrimediabile, fratture e divisioni ogniqualvolta si
crea una situazione in cui
il comportamento X, Y, Z è la risposta consueta a X, Y, Z. Questa situazione contiene
elementi che possono condurre a una differenziazione progressiva o schismogenesi lungo le stesse linee. Qualora ad esempio tra le strutture X, Y e Z ci sia la vanteria,
se alle vanterie si replica con vanterie, è verosimile che ciascuno dei due gruppi
induca l’altro a una dilatazione eccessiva della struttura, processo che, se non viene
frenato, può solo condurre a una rivalità sempre più spinta e infine all’ostilità
e al collasso dell’intero sistema.
Questo è lo schema che possiamo chiamare della «differenziazione simmetrica». Qual
è l’alternativa? Cosa accade se il gruppo B non reagisce alle sfide di tipo X, Y,
Z del gruppo A con comportamenti dello stesso tipo? In tal caso la «sequenza schismogenetica»
non viene interrotta, assume solo una forma di differenziazione «complementare» piuttosto
che «simmetrica». Se, ad esempio, a un atteggiamento assertivo non si risponde con
la stessa moneta, ma si reagisce con un atteggiamento remissivo, è probabile che la
remissività promuoverà ulteriori sfide, che a loro volta determineranno ulteriore
remissività. Il «crollo del sistema» ci sarà comunque11.
Che si imbocchi l’una o l’altra strada, gli effetti complessivi variano minimamente,
ma per le parti in competizione, legate tra loro dalla schismogenesi, la differenza
tra i due comportamenti significa l’alternativa tra la dignità e l’umiliazione, restare
uomini o cessare di esserlo. Si può tranquillamente anticipare che la strategia della
«diversificazione simmetrica» sarà sempre preferita a quella della «differenziazione
complementare». La seconda è la strategia degli sconfitti o di quanti hanno accettato
l’inevitabilità della sconfitta. Eppure, quale che sia la strategia prescelta, alcuni
elementi sono destinati a emergere: la nuova frammentazione dello spazio urbano, il
restringersi e la scomparsa degli spazi comuni, il degrado delle comunità urbane,
la separazione e la segregazione, e soprattutto l’extraterritorialità della nuova
élite e la territorialità forzata delle masse.
Se la nuova extraterritorialità della élite viene vissuta come una inebriante libertà, la territorialità degli altri non fa tanto
pensare a una casa, a una base sicura, ma sempre più a una prigione, tanto più umiliante
quanto più viene ostentata la libertà di movimento degli altri. Il dover «stare fermi»,
il non essere in grado di muoversi come si desidera e l’essere esclusi da più verdi
pascoli non solo ha l’aspro odore della sconfitta, e non solo rivela come sia truffaldina
e frustrante la distribuzione delle meraviglie che la vita offre. Il danno va ancora
più a fondo. La «località», nel nuovo mondo dell’alta velocità, non è più quella dei
tempi in cui l’informazione si muoveva solo ai ritmi e al passo di chi la forniva;
né si può dire più che le località, e le popolazioni ad esse vincolate, abbiano molto
in comune con le cosiddette «comunità locali». Gli spazi pubblici – le agorà, i fori,
nelle varie manifestazioni che vi si svolgono, i luoghi cioè nei quali si discute
il da farsi, dove gli affari privati divengono pubblici, si formano le opinioni, le
si valuta e le si rafforza, si confrontano i giudizi e si emettono i verdetti – hanno
seguìto le élites nel tagliare i loro legami locali; sono stati i primi a «deterritorializzarsi», a
sganciarsi cioè dal territorio, e a spostarsi ben al di là delle capacità comunicative
– basate esclusivamente sui sensi e sulle intelligenze e forze – di qualsiasi località
e dei suoi residenti. Lungi dall’essere terreno di coltura dello spirito comunitario,
le popolazioni locali sono piuttosto accozzaglie di entità prive di legami reciproci.
Paul Lazarsfeld ha scritto su quelli che si definiscono gli opinionisti locali, su
quanti cioè «determinano le opinioni a livello locale», coloro che selezionano, valutano
ed elaborano i messaggi che arrivano «dall’esterno», attraverso i mezzi di informazione,
perché possano essere utilizzati dagli altri «locali»; ma per raggiungere questo obiettivo,
i leader locali devono prima riuscire ad aver voce, a farsi sentire dalla località,
hanno bisogno di un’agorà nella quale gli abitanti possano riunirsi a parlare e ad
ascoltare. Era proprio l’agorà locale che permetteva agli esponenti locali più autorevoli
di esercitare la loro forza di convinzione, tanto da contare di più delle autorità
pur dotate di risorse maggiori, e da competere con le voci venute da lontano, che
la distanza affievoliva. Dubito che Lazarsfeld avrebbe raggiunto le stesse conclusioni
se avesse affrontato i suoi studi oggi, appena cinquant’anni dopo.
Nils Christie ha di recente cercato di descrivere, con un’allegoria, la logica di
questo processo e le sue conseguenze12. Non è ancora facile reperire il suo testo, per cui ne citerò ampi stralci:
Mosè discese dalle montagne. Sotto il braccio portava le regole, incise nel granito,
dettategli da uno che era ancora più in alto delle montagne. Mosè era solo un messaggero,
la gente – il popolo – erano i destinatari [...]. Molto tempo dopo, Gesù e Maometto
operarono secondo gli stessi princìpi. Si tratta di casi classici di «giustizia verticale».
E c’è un altro quadro: le donne che si riuniscono alla fontana, al pozzo, nei luoghi
naturali di incontro lungo il fiume [...]. Portare l’acqua, lavare le vesti, scambiarsi
informazioni e valutazioni. Il punto di partenza delle conversazioni saranno spesso
atti e situazioni concrete. Questi vengono descritti, paragonati a casi analoghi del passato o di altri luoghi, e valutati: giusto o sbagliato, bello o brutto, forte o debole. Lentamente, certo non sempre,
poteva emergere un apprezzamento comune dei vari casi. In questo processo si creano norme. È un caso classico di «giustizia egualitaria».
[...] il pozzo dell’acqua è stato eliminato. Abbiamo avuto per un certo periodo nei
paesi avanzati qualche botteguccia con delle lavatrici a monete, dove si poteva andare
con la propria biancheria sporca e uscirne con la biancheria pulita. Nel frattempo,
si poteva chiacchierare un po’. Ma le lavanderie a gettoni sono sparite [...]. I grandi
centri commerciali potrebbero offrire qualche occasione di incontro, ma nella maggior
parte dei casi sono troppo dispersivi perché vi si crei una giustizia orizzontale.
E sono troppo grandi perché vi si incontrino le vecchie conoscenze e troppo attivi
e affollati perché ci si dilunghi in quelle chiacchiere distese che servono a enunciare
standard di comportamento.
Lasciatemi aggiungere che i centri commerciali sono costruiti in modo da far circolare
la gente, da costringerla a guardarsi attorno, da tenerla occupata e divertita continuamente
– ma in nessun caso troppo a lungo – da ciascuna delle innumerevoli attrazioni; non
sono fatti certo per incoraggiarla a fermarsi, a guardarsi a vicenda, a parlarsi,
a pensare, ponderare o discutere qualcosa che sia diverso dagli oggetti in mostra:
insomma, non a passare il tempo in una maniera scevra da implicazioni commerciali...
Il racconto allegorico di Christie ha il merito ulteriore di mettere in luce quali
effetti esercita sull’etica l’abolizione degli spazi pubblici. Nei luoghi di riunione
si creavano anchenorme, in modo da poter fare giustizia e da imporla orizzontalmente, sì da trasformare coloro che parlavano in una comunità, separata dagli altri e integrata al suo interno da criteri comuni e condivisi di
valutazione. Ora, un territorio che venga privato di spazi pubblici offre scarse possibilità
perché le norme vengano discusse, i valori messi a confronto, perché ci siano scontri
e negoziati. I giudizi su ciò che è giusto/sbagliato, bello/brutto, corretto/scorretto,
utile/inutile possono solo discendere dall’alto, da regioni impenetrabili, se non
per l’occhio più acuto; i verdetti sono indiscutibili, perché non si può porre alcuna
domanda significativa ai giudici, che non hanno lasciato l’indirizzo – neppure un
indirizzo e-mail – e nessuno sa con precisione dove risiedano. Non c’è spazio alcuno per gli «opinionisti»
locali, né per una «opinione locale» in quanto tale.
Quei verdetti possono non avere più alcun legame reale con le forme in cui la vita
scorre a livello locale, ma non si vuole che siano messi in discussione sulla base
delle esperienze della gente sui cui comportamenti essi vengono emessi. Scaturiti
da un tipo di esperienze note a chi è costretto a recepire localmente il messaggio,
nella migliore delle ipotesi, solo per sentito dire, possono infliggere ulteriori
sofferenze anche quando si vorrebbe che dessero gioia. Gli extraterritoriali, quelli
veri, entrano nella vita di coloro che sono vincolati al territorio solo come caricature;
forse come mutanti o mostri. Nel processo, espropriano del loro potere etico i locali,
privandoli di qualsiasi mezzo atto a limitare i danni.