3. Tempo/spazio
George Hazeldon, un architetto di origine britannica residente in Sudafrica, coltiva
un sogno: costruire una città diversa da tutte le altre, brulicanti di estranei dall’aspetto
minaccioso che spuntano da angoli bui, emergono strisciando da strade malfamate e
saltano fuori da quartieri notoriamente off limits. La città dei sogni di Hazeldon
assomiglia a una versione aggiornata, tecnologica, della cittadella medievale protetta
da spesse mura, torrioni, fossati e ponti levatoi, una città accuratamente isolata
dai rischi e dai pericoli del mondo esterno. Una città tagliata su misura per individui
che desiderano gestire e controllare la propria congregazione. Qualcosa di simile,
come egli stesso ebbe a dire, a Mont Saint-Michel, al contempo monastero e fortezza
inaccessibile, rigorosamente controllata.
Chiunque dia un’occhiata al progetto di Hazeldon ne concluderebbe che la parte adibita
a «monastero» è stata progettata a immagine e somiglianza dell’Abbazia di Thélème
di Rabelais – quella città di gioia e divertimento obbligatorio in cui l’unico comandamento
è la felicità – più che del rifugio di altri asceti secolari votati al sacrificio
e all’immolazione di se stessi. La parte relativa alla «fortezza», invece, è quanto
mai reale. Heritage Park, la città che Hazeldon si accinge a costruire dal nulla su
circa duecento ettari di terra desolata non lontano da Città del Capo, sarà diversa
da tutte le altre città per la sua totale inaccessibilità: cancelli elettrici con
corrente ad alta tensione, sorveglianza elettronica delle vie d’accesso, palizzate
ovunque e guardie armate fino ai denti.
Se potete permettervi di comprare casa a Heritage Park, potrete trascorrere buona
parte della vostra vita lontano dai rischi e dai pericoli della terrificante e minacciosa
giungla che regna oltre i cancelli della cittadella. Heritage Park sarà dotata di
tutto ciò che occorre per condurre una vita tranquilla e soddisfacente: negozi, chiese,
ristoranti, teatri, spazi ricreativi, boschi, un grande parco, laghi pieni di salmoni,
piste da jogging, campi sportivi; e avrà ancora spazio in abbondanza per consentire
di aggiungervi qualunque cosa i fuggevoli imperativi di una vita dignitosa potrebbero
richiedere in futuro. Hazeldon è estremamente franco nello spiegare i vantaggi di
Heritage Park rispetto ai luoghi in cui oggi vive la maggior parte della gente:
Oggi il primo problema è quello della sicurezza. Ci piaccia o meno, è ciò che fa la
differenza [...]. All’epoca della mia infanzia a Londra, avevi una comunità. Non potevi
permetterti di sgarrare perché tutti ti conoscevano e lo avrebbero detto a papà e
mamma [...]. Il nostro intento è ricreare qui una comunità che non debba stare costantemente
sul chi vive1.
Il tutto si riduce dunque a questo: per il prezzo di una casa a Heritage Park comprerete
l’ingresso in una comunità. «Comunità» è oggigiorno l’ultimo residuo delle antiche utopie della buona società;
rappresenta ciò che resta dei sogni di una vita migliore condivisa con persone migliori
tutte pronte a ubbidire a regole di coabitazione migliori. L’utopia dell’armonia si
è così più realisticamente ridotta all’ambito del proprio vicinato. Non sorprende
che la «comunità» sia un prodotto estremamente appetibile. Non sorprende neanche che
nel prospetto informativo distribuito da Hazeldon la comunità sia descritta come un
indispensabile, ma altrove assente, supplemento ai buoni ristoranti e alle pittoresche
piste da jogging presenti anche in altre città.
Osserviamo tuttavia qual è il senso di tale aggregazione comunitaria. La comunità
londinese dell’infanzia di Hazeldon che egli desidera ricreare nella terra vergine
del Sudafrica è principalmente, se non esclusivamente, un territorio strettamente
sorvegliato, dove chiunque faccia qualcosa di inviso agli altri viene immediatamente
redarguito e prontamente punito e messo in riga, mentre fannulloni, vagabondi e altri
intrusi «estranei» vengono tenuti alla larga o immediatamente sbattuti fuori qualora
siano riusciti a entrare. L’unica differenza tra il nostalgico passato e la sua replica
odierna è che tutto quanto la comunità dell’infanzia di Hazeldon otteneva utilizzando
i propri occhi, lingue e mani, in modo semplice e pragmatico, a Heritage Park è affidato
a telecamere a circuito chiuso e a dozzine di guardie armate che controllano le vie
di ingresso e i cancelli di sicurezza e monitorano discretamente (o se occorre anche
ostentatamente) le strade.
Un gruppo di psichiatri del Victorian Institute of Forensic Mental Health, in Australia,
ha di recente ammonito che «un numero sempre maggiore di persone denuncia falsamente
di essere stato vittima di malintenzionati, abusando della credulità e del denaro
pubblici», denaro che, sostengono gli autori del rapporto, «dovrebbe andare a chi
ne ha davvero diritto»2. Alcune di tali «false vittime» interrogate risultarono affette da «gravi disturbi
mentali», persone che «avevano sporto denuncia in quanto malate di mania di persecuzione».
Potremmo commentare le osservazioni degli psichiatri sostenendo che la convinzione
che tutti cospirino contro di noi non è assolutamente una novità; che tale disturbo
ha tormentato svariate persone in tutte le epoche e in tutti gli angoli del globo.
In nessun tempo e in nessun luogo c’è mai stata penuria di persone ansiose di trovare
una logica alla propria infelicità, alle loro umilianti sconfitte e alle frustrazioni
della propria vita addossando la colpa alla malvagità e a infernali complotti orditi
da qualcuno. L’elemento realmente nuovo è che oggi tutta la colpa viene data ai malintenzionati (insieme a ladri e ad altri nullafacenti, persone estranee all’ambiente in cui operano),
odierne versioni degli antichi demoni, incubi, spiriti maligni, spauracchi, gnomi
malefici e streghe. Se le «false vittime» possono «abusare della credulità dell’opinione
pubblica», è perché quella del «malintenzionato» è già diventata un’etichetta comune
e oltremodo popolare che incarna le paure che ossessionano i nostri contemporanei;
e così la presunta onnipresenza dei malintenzionati è diventata qualcosa di credibile
e la paura di esserne vittime un fenomeno generalizzato. E se persone falsamente ossessionate dalla minaccia dei malintenzionati possono «abusare del denaro pubblico»,
è perché tale denaro è già stato messo da parte in quantità di anno in anno sempre
maggiori, al fine di pedinare e inseguire malintenzionati, rapinatori e altre versioni
aggiornate di quella spaventevole massa moderna, il volgo mobile: ogni sorta di esseri inferiori che spuntano ovunque, che penetrano di soppiatto
in luoghi che solo la gente perbene dovrebbe avere il diritto di abitare; e perché
la difesa delle strade malfamate, così come in passato avveniva per l’esorcizzazione
delle case infestate dal demonio, è stato riconosciuto un nobile obiettivo nonché
il modo adeguato di proteggere le persone dalle paure e i pericoli che le rendono
diffidenti e impaurite.
Citando La città di quarzo di Mike Davis (1990), Sharon Zukin descrive il nuovo aspetto acquisito dagli spazi
pubblici di Los Angeles, rimodellati dalle preoccupazioni di sicurezza dei residenti
e dei loro custodi eletti o assoldati: «Gli elicotteri ronzano sui cieli sovrastanti
i quartieri ghetto; la polizia tormenta gli adolescenti ritenendoli potenziali membri
di bande, i proprietari di case acquistano il tipo di armi da difesa che possono permettersi
[...] o che hanno il coraggio di usare». Gli anni Sessanta e Settanta del Novecento,
continua la Zukin, sono stati «uno spartiacque nell’istituzionalizzazione della paura
urbana».
Elettori ed élite – una classe media in senso lato negli Stati Uniti – avrebbero potuto
scegliere di approvare politiche statali tese a eliminare la povertà, gestire la conflittualità
interetnica e integrare tutti in istituzioni pubbliche comuni. Invece hanno scelto
di comprarsi la protezione, di alimentare il boom dell’industria della sicurezza privata.
La Zukin rileva uno dei pericoli più tangibili di quella che chiama «cultura pubblica»
nella «politica della paura quotidiana». Il raggelante e terrorizzante spettro delle
«strade insicure» tiene la gente lontana dagli spazi pubblici e le impedisce di coltivare
le doti e le qualità necessarie per partecipare alla vita pubblica.
Usare il «pugno di ferro» contro il fenomeno della criminalità costruendo più istituti
penitenziari e comminando la pena di morte sono le fin troppo comuni risposte alla
politica della paura. «Mettete sotto chiave la popolazione», ho sentito dire a un
uomo sull’autobus, portando così in un sol colpo la soluzione del problema al suo
ridicolo estremo. Un’altra risposta è privatizzare e militarizzare lo spazio pubblico:
rendere strade, parchi e finanche negozi più sicuri ma meno liberi3.
La comunità definita da confini rigidamente controllati anziché dal proprio contenuto;
la «difesa della comunità» tradotta nell’assoldare guardiani armati che controllano
l’ingresso; predatori e cacciatori all’agguato promossi entrambi al rango di nuovi
nemici pubblici numero uno; riduzione degli spazi pubblici a enclave «difendibili»
con accesso selezionato; separazione anziché contrattazione della vita in comune;
criminalizzazione di qualsiasi differenza: sono questi i principali elementi dell’attuale
processo di evoluzione della vita urbana.
L’incontro tra estranei
Secondo la definizione classica di Richard Sennett, una città è «un insediamento umano
in cui è probabile che individui estranei si incontrino»4. Ciò significa, mi permetto di aggiungere, che tali individui estranei si incontreranno
probabilmente nella loro qualità di estranei e che tali resteranno al termine dei
loro incontri casuali. Gli estranei si incontrano nel modo che è loro consono; un
incontro tra estranei è del tutto diverso da quello fra parenti, amici o conoscenti.
Nell’incontro tra estranei, non si riprende il filo lì dove lo si era lasciato al
termine del precedente, non c’è alcun aggiornamento sulle pene, le tribolazioni o
le gioie vissute nel frattempo, niente da ricordare o raccontare. L’incontro tra estranei
è un evento privo di un passato. E spesso è anche senza un futuro (ci si attende che sia, si spera che sia, senza un futuro), una storia quasi certamente
«senza seguito», un’occasione unica, da consumare all’istante e sul posto, senza procrastinazioni
e senza rinviare le cose a un’altra occasione. Come il ragno il cui intero mondo è
racchiuso nella rete che tesse dal proprio addome, l’unico sostegno su cui gli estranei
che si incontrano possono contare è quello intessuto con il tenue e sottile filo degli
sguardi, delle parole e dei gesti. Durante l’incontro, non c’è tempo per i tentativi
e gli errori, nessuna possibilità di imparare dagli sbagli commessi e nessuna speranza
di avere un’altra chance.
La conseguenza è che la vita urbana richiede un tipo di capacità tutta speciale e
molto sofisticata, un intero arsenale di qualità che Sennett elenca sotto la rubrica
«buona creanza», vale a dire
l’attività che protegge le persone le une dalle altre ma consente loro di godere della
reciproca compagnia. Indossare una maschera è l’essenza della buona creanza. Le maschere
permettono una socievolezza pura, isolata da circostanze quali il potere, i malanni
e i sentimenti privati di quanti le indossano. Scopo della buona creanza è proteggere
tutti dall’essere tediati dagli altri5.
Tale obiettivo, ovviamente, viene perseguito nella speranza di una sua reciprocità.
Proteggere gli altri dall’essere indebitamente infastiditi evitando di interferire
nelle loro abitudini ha un senso fintantoché ci si aspetta un’uguale generosità e
discrezione da parte altrui. La buona creanza, come la lingua, non può essere «privata».
Prima di diventare un’arte acquisita individualmente e praticata privatamente, dev’essere
innanzitutto una parte integrante del quadro sociale. È l’ambiente umano che deve
essere «costumato» perché i suoi abitanti possano imparare la difficile arte della
buona creanza.
Cosa significa, tuttavia, per un ambiente urbano essere «costumato» e dunque essere
un luogo accessibile all’esercizio individuale della buona creanza? Significa in primo
luogo essere dotato di spazi che la gente possa condividere in qualità di persone pubbliche: senza essere spinti, pressati o indotti a togliere la maschera e «lasciarsi andare»,
«esprimersi», mostrare i propri veri sentimenti e confessare i loro intimi pensieri,
sogni e timori. Ma significa anche una città che si mostra ai suoi residenti come
un bene comune non riducibile all’aggregato di singoli propositi e come un compito
comune che non può essere assolto da una massa di propositi individuali, come una
forma di vita con un vocabolario e una logica propri e una propria agenda, che è (ed
è destinata a restare) più lunga e ricca del più lungo degli elenchi di preoccupazioni
e desideri individuali, cosicché «mettere una maschera pubblica» è un atto di coinvolgimento
e partecipazione anziché di disimpegno, di occultamento del «vero io», di rifiuto
di qualsiasi rapporto e coinvolgimento reciproco, l’espressione del desiderio di essere
lasciati soli e liberi di andarsene per la propria strada.
Le città odierne presentano svariati luoghi definiti come «spazi pubblici». Sono di
genere e dimensioni diversi, ma rientrano quasi tutti in due ampie categorie. Ciascuna
categoria si differenzia dal modello ideale di spazio civile per due caratteristiche opposte ma complementari.
Il luogo chiamato La Défense, un enorme piazzale che si estende sulla riva destra
della Senna, concepito e fatto realizzare da François Mitterrand (quale ultimo, imperituro
monumento alla sua presidenza, in cui lo splendore e la grandeur della sua carica vennero accuratamente disgiunti dalle debolezze e dagli errori personali
del suo mandato), incarna tutti i tratti della prima delle due categorie dello spazio
urbano pubblico, e tuttavia enfaticamente non «civile». Ciò che colpisce l’occhio
di chi visiti La Défense è innanzitutto l’inospitalità del luogo: tutto quanto la
vista può abbracciare appare sorprendente, ma scoraggia dal rimanerci. I fantasmagorici
edifici che circondano la piazza sconfinata e deserta sembrano fatti apposta per essere
guardati, ma non visitati: ricoperti da cima a fondo da specchi luccicanti, appaiono
completamente privi di finestre e portoni di ingresso e sembrano tutti ingegnosamente
volgere le spalle alla piazza. Sono imperiosi e impervi; imperiosi perché impervi, due qualità complementari e che si rafforzano a vicenda. Queste fortezze/hermitage
ermeticamente sigillate sono fisicamente presenti nel sito ma non ne fanno parte,
e inducono chiunque si perda nella piatta vastità del piazzale a sentirsi come loro.
Niente mitiga, né tanto meno spezza, l’uniforme e monotona vuotezza della piazza.
Niente panchine su cui poter riposare; niente alberi alla cui ombra rinfrescarsi.
(C’è, in verità, un gruppo di panchine disposte in ordine geometrico sull’estremo
margine della piazza; si trovano su una piattaforma sopraelevata, una sorta di palcoscenico,
che trasforma di fatto l’atto del sedervisi e riposare in uno spettacolo per tutti
gli altri che, a differenza di chi si siede, si trovano lì perché hanno qualche affare da sbrigare.) Ritmicamente, con una cadenza regolare scandita dall’orario della metropolitana,
questi «altri» – code umane che sfilano via in tutta fretta come tante formiche –
spuntano da sottoterra, percorrono il lastricato che separa l’uscita della metropolitana
da uno degli scintillanti mostri che circondano (assediano) la piazza e ne vengono
velocemente inghiottiti. E subito torna il deserto, fino all’arrivo del treno successivo.
La seconda categoria di spazio pubblico ma non civile mira a servire i consumatori,
o piuttosto a trasformare il residente urbano in un consumatore. Nelle parole di Liisa
Uusitalo: «I consumatori condividono spesso gli spazi fisici di consumo, quali sale
da concerto o da esibizione, stazioni turistiche, luoghi di attività sportive, centri
commerciali e caffetterie, senza intrattenere in realtà alcun rapporto sociale»6. Tali spazi stimolano l’azione, non l’inter-azione. Condividere lo spazio fisico con altri attori impegnati in attività simili
accresce la rilevanza di tale attività, gli conferisce «l’approvazione in forza del
numero» e così ne corrobora il senso, lo giustifica senza bisogno di parlare. Qualsiasi
interazione tra gli attori distoglierebbe tuttavia la loro attenzione dalle azioni
in cui sono singolarmente impegnati e sarebbe per tutti un handicap, non un vantaggio.
Non aggiungerebbe nulla al piacere dello shopping e distrarrebbe, al contrario, il
corpo e la mente dal proprio obiettivo.
Tale obiettivo è il consumo, e il consumo è un passatempo letteralmente e irreversibilmente
individuale, una sequela di sensazioni che può essere vissuta solo in modo soggettivo. Le folle
che riempiono le viscere dei «templi del consumo» di George Ritzer sono masse, non
congregazioni, mucchi, non squadre, aggregati, non totalità. Per quanto affollati
possano essere, non c’è alcunché di «collettivo» nei luoghi di consumo collettivo.
Per citare la famosa frase di Louis Althusser, chiunque entri in tali spazi viene
«interpellato» in quanto individuo, invitato a congelare o spezzare i legami e a disfarsi
delle proprie fedeltà.
Gli incontri, inevitabili in uno spazio affollato, interferiscono con quanto ci si
è proposto di fare. Devono essere brevi e superficiali; non più lunghi e non più profondi
di quanto si desidera che siano. Il luogo è ben protetto da quanti vorrebbero infrangere
tale regola: ogni sorta di intrusi, ficcanaso, guastafeste e altri impiccioni che
potrebbero interferire con lo splendido isolamento del consumatore o dell’acquirente.
L’attentamente sorvegliato tempio del consumo è un’isola di ordine, libero da mendicanti,
sfaccendati e malintenzionati – o almeno questo è quanto ci si aspetta. Le persone
non si riversano in questi templi per parlare e socializzare. Qualsiasi compagnia
possano desiderare (o siano disposte a tollerare), se la portano dietro così come
le lumache si portano appresso la propria casa.
Luoghi emici, luoghi fagici, nonluoghi, spazi vuoti
Qualunque cosa possa accadere all’interno del tempio del consumo, ha poca o nessuna
influenza sul ritmo e sul tenore della vita quotidiano che scorre «oltre il cancello».
All’interno di un centro commerciale si ha la sensazione di «essere altrove»7. I viaggi nei luoghi di consumo differiscono dai Carnevali di Michail Bachtin, anch’essi
implicanti l’esperienza dell’«essere trasportati»: lo shopping è principalmente un
viaggio nello spazio e solo in secondo luogo un viaggio nel tempo.
Il Carnevale era la stessa città trasformata, più esattamente un interludio temporale
durante il quale la città veniva trasformata prima di ripiombare nella sua quotidianità.
Per un periodo di tempo strettamente definito, ma ciclico, il Carnevale scopriva l’«altra
faccia» della realtà quotidiana, una faccia sempre a portata di mano, ma normalmente
nascosta alla vista e che era vietato toccare. Il ricordo della scoperta e l’aspettativa
di altri avvistamenti futuri non consentivano di sopprimere appieno la coscienza di
quell’«altra faccia».
Tutt’altra faccenda è un viaggio nel tempio del consumo. Intraprendere tale viaggio
è come essere trasportati in un altro mondo più che assistere alla meravigliosa trasformazione
di quello noto e familiare. Il tempio del consumo (nettamente distinto dalla «merceria
dietro l’angolo» del passato) può trovarsi fisicamente in città (quando non eretto,
simbolicamente, oltre i limiti urbani, lungo un’autostrada), ma non ne fa parte; non
si tratta del solito mondo temporaneamente trasformato, ma di un mondo completamente
diverso. Ciò che lo rende «diverso» non è il ribaltamento, la negazione o la sospensione
delle regole che governano la quotidianità, come avviene nel caso del Carnevale, ma
l’esibizione di un modo d’essere che la quotidianità preclude o si sforza invano di
raggiungere, e che poche persone possono sperare di vivere nei luoghi in cui abitano
quotidianamente.
La metafora del «tempio» di Ritzer è quanto mai appropriata; gli spazi dedicati all’acquisto/consumo
sono in realtà templi per i pellegrini; di certo non intesi a ospitare le messe nere
inscenate a ogni Carnevale dai festaioli nelle loro parrocchie locali. Il Carnevale
dimostrava che la realtà non è così dura come potrebbe apparire e che la città potrebbe
trasformarsi; i templi del consumo non rivelano nulla della natura della realtà quotidiana
se non la propria ottusa solidità e inespugnabilità. Il tempio del consumo, al pari
della «nave» di Michel Foucault, è un pezzo di spazio galleggiante, un luogo senza
luogo, che esiste di per sé, che è racchiuso in se stesso e al contempo consegnato
all’infinità del mare8; esso può realizzare quel «concedersi all’infinità» grazie alla sua strategia di
navigare al largo del proprio porto e tenersene sempre a debita distanza.
L’isolato «luogo senza luogo», diversamente da tutti i luoghi occupati o attraversati
quotidianamente, è anche uno spazio purificato. Non che sia stato ripulito da ogni sorta di varietà e diversità, elementi che minacciano
incessantemente altri luoghi con il loro inquinamento e che eliminano in chi li frequenta
ogni speranza di pulizia e trasparenza; al contrario, i luoghi di shopping/consumo
devono buona parte del loro potere di attrazione alla caleidoscopica varietà di percezioni
sensoriali offerte. Ma le differenze interne, diversamente da quelle esterne, sono
addomesticate, igienizzate, garantite come prive di ingredienti pericolosi, e dunque
non minacciose. Possono essere godute senza timore: una volta purgata l’avventura
di ogni possibile rischio, ciò che resta è puro e incontaminato divertimento. I luoghi
di shopping/consumo offrono ciò che nessuna «realtà reale» esterna può dare: un equilibrio
pressoché perfetto tra libertà e sicurezza.
All’interno dei loro templi gli acquirenti/consumatori possono inoltre trovare ciò
che cercavano, strenuamente quanto vanamente, all’esterno: il confortevole sentimento
di appartenenza, la rassicurante impressione di fare parte di una comunità. Come afferma
Sennett, l’assenza di differenza, il sentimento «siamo tutti uguali», l’assunto «non
c’è bisogno di negoziare dal momento che la pensiamo tutti allo stesso modo», sono
i significati più profondi dell’idea di «comunità» e la causa ultima della sua forza
di attrazione, notoriamente destinati a crescere in rapporto alla pluralità e multitonalità
del contesto di vita. Potremmo dire che la «comunità» è una scorciatoia per l’aggregazione,
e per un tipo di aggregazione che non si verifica quasi mai nella «vita reale»; un’aggregazione
fatta di pura e semplice uguaglianza, del tipo, «noi che siamo tutti uguali»; un’aggregazione
che in forza di tale motivo non è problematica, non richiede alcuno sforzo o vigilanza,
genuinamente preordinata; un tipo di aggregazione che non è un obiettivo da raggiungere,
ma qualcosa che «è dato», e dato ben prima che si inizi un qualsiasi tentativo di
crearlo. Come afferma Sennett:
Le immagini di solidarietà comunitaria sono forgiate in modo tale che gli uomini possano
evitare di avere a che fare gli uni con gli altri [...]. Attraverso un atto di volontà,
una bugia se volete, il mito della solidarietà comunitaria ha dato a queste persone
moderne la possibilità di essere dei codardi e di nascondersi gli uni agli occhi degli
altri [...]. L’immagine della comunità è purificata da tutto quanto potrebbe far nascere
un sentimento di differenza, e tanto meno di conflittualità [...]. In tal modo il
mito della solidarietà comunitaria è un rituale di purificazione9.
Il trucco, tuttavia, sta nel fatto che «il sentimento di un’identità comune [...]
è una mistificazione dell’esperienza». Se ciò è vero, allora chiunque abbia progettato
e chiunque controlli e gestisca i templi del consumo è in realtà un abilissimo falsificatore
o qualcuno bravissimo nel carpire la fiducia altrui. Nelle sue mani, l’impressione
è tutto: non c’è bisogno di porre altre domande, e qualora fossero poste resterebbero
comunque senza risposta.
Dentro il tempio l’immagine diventa realtà. Le folle che riempiono i corridoi dei
centri commerciali si avvicinano come nessun altro all’ideale immaginato di «comunità»
che non conosce alcuna differenza (più esattamente, nessuna differenza che conta,
una differenza che richieda il confronto con la diversità altrui, il negoziato, chiarificazioni
e accordi su un modus vivendi). Per questo motivo tale comunità non richiede nessuna contrattazione, nessun tentativo
di enfatizzare, comprendere e scendere a compromessi. Chi si trova entro la cinta
muraria può tranquillamente presumere che chiunque gli capiti di incontrare è giunto
lì per lo stesso motivo, attirato dagli stessi richiami (che dunque riconosce come
tali), è mosso e guidato dagli stessi obiettivi. «Essere dentro» costituisce una vera
comunità di fedeli, uniti sia dai mezzi che dai fini, dai valori in cui si crede e
dalla conseguente logica comportamentale. Nel complesso, un viaggio negli «spazi del
consumo» è un viaggio in quella comunità tanto agognata che, come la stessa esperienza
dello shopping, è oggi perpetuamente «altrove». Per i pochi minuti o le poche ore
della sua durata, si può stare spalla a spalla con «altri come me», con correligionari,
altri la cui diversità possa essere, almeno in questo luogo, di quando in quando,
tranquillamente ignorata e dimenticata. A tutti i fini pratici, quel luogo è puro,
puro come solo i luoghi di culto religioso e la comunità immaginata (o postulata)
possono essere.
Claude Lévi-Strauss, il più grande antropologo culturale dei nostri tempi, ha affermato,
in Tristi tropici, che in tutta la storia umana, solo due sono state le strategie impiegate allorché
si è dovuto risolvere il problema della diversità altrui: una è stata la strategia
antropoemica, l’altra la strategia antropofagica.
La prima consisteva nel «vomitare», nello sputare fuori gli altri, considerati come
esseri incurabilmente estranei e alieni, nel vietare il contatto fisico, il dialogo,
i rapporti sociali e qualsiasi tipo di commercium, commensalità o connubium. Varianti estreme di questa strategia «emica» sono oggi, come sempre, l’incarcerazione,
la deportazione e la soppressione fisica. Sue forme aggiornate, «raffinate» (modernizzate)
sono la separazione spaziale, i ghetti urbani, l’accesso selettivo agli spazi.
La seconda strategia consiste in una cosiddetta «disalienazione» delle sostanze estranee:
nell’«ingerire», «divorare» i corpi e gli spiriti estranei in modo da renderli, attraverso
il metabolismo, identici e non più distinguibili dal corpo che li ingerisce. Tale
strategia assunse una parimenti varia gamma di forme, dal cannibalismo all’assimilazione
forzata: crociate culturali, guerre dichiarate ai costumi, calendari, culti, dialetti
e altri «pregiudizi» e «superstizioni» locali. Se la prima categoria mirava all’esilio
o alla distruzione degli altri, la seconda puntava all’annullamento o distruzione della loro diversità.
La similitudine tra la dicotomia delle strategie di Lévi-Strauss e quella delle due
odierne categorie di «spazi pubblici ma non civili» è strabiliante, sebbene niente
affatto sorprendente. La Défense a Parigi (insieme a svariati tipi di «spazi di interdizione»
che, secondo Steven Flusty, rivestono maggior prestigio tra le odierne innovazioni
urbanistiche)10 è un’interpretazione architettonica della strategia «emica», mentre gli «spazi di
consumo» incarnano la strategia «fagica». Entrambe – ciascuna a suo modo – rispondono
alla medesima necessità: come far fronte alla probabilità di incontrare estranei,
tratto costitutivo della vita urbana. Far fronte a tale probabilità è un problema
che richiede misure «assistite dal potere» qualora le consuetudini del vivere civile
siano assenti o insufficientemente sviluppate e radicate. I due tipi di spazi urbani
«pubblici ma non civili» sono conseguenze della palese assenza di buona creanza; entrambi
hanno a che fare con le conseguenze potenzialmente pericolose di tale assenza non
attraverso la promozione dello studio e l’acquisizione di tale dote, bensì rendendone
il possesso irrilevante, di fatto superfluo, nell’esercizio dell’arte del vivere in
una città.
Alle due risposte finora illustrate occorre aggiungerne una terza sempre più comune.
È rappresentata da quella che Georges Benko, rifacendosi a Marc Augé, definisce «nonluoghi»
(o in alternativa, seguendo Garreau, «città-inesistenti»)11. I «nonluoghi» condividono alcune caratteristiche della nostra prima categoria di
luoghi pubblici ma assolutamente non civili: scoraggiano l’idea di «insediarvisi»,
rendendo la colonizzazione o l’addomesticamento dello spazio praticamente impossibile.
Tuttavia, a differenza della Défense – quello spazio il cui unico destino è di essere
attraversato e abbandonato il prima possibile, o quegli «spazi di interdizione» la
cui funzione principale è quella di vietare l’accesso e che sono intesi a essere aggirati
anziché attraversati –, i nonluoghi accettano l’inevitabilità di una loro frequentazione
(e a volte anche di un prolungato soggiorno) da parte di elementi estranei e dunque
fanno tutto il possibile per rendere la propria presenza «meramente fisica», vale
a dire del tutto irrilevante da un punto di vista sociale; cancellare, azzerare, rendere
nulle le soggettività idiosincratiche dei loro «passeggeri». È probabile che i residenti
temporanei dei nonluoghi varino, e che ciascuno di essi abbia le proprie abitudini
e aspettative; il trucco consiste nel rendere tutto ciò irrilevante per l’intera durata
del loro soggiorno. Quali che siano le loro differenze, tutti devono seguire gli stessi
modelli comportamentali; e le indicazioni per tale modello di condotta uniforme devono
essere ben chiare e leggibili a tutti, indipendentemente dalla lingua che essi preferiscono
o sono soliti usare nelle loro azioni quotidiane. Qualunque attività debba essere
e venga espletata nei nonluoghi, chiunque si trovi lì deve sentirsi a casa propria, ma nessuno deve comportarsi come a casa propria. Il nonluogo «è uno spazio privo delle espressioni simboliche
di identità, relazioni e storia: esempi di tali ‘nonluoghi’ sono gli aeroporti, le
autostrade, le anonime stanze d’albergo, i mezzi pubblici di trasporto [...]. Mai
prima d’oggi nella storia del mondo i nonluoghi hanno occupato tanto spazio».
I nonluoghi non richiedono la perfetta padronanza della difficile e sofisticata arte
della buona creanza, dal momento che riducono il comportamento in pubblico a pochi
concetti semplici e facili da assimilare. A causa di tale semplificazione, essi non
sono neanche scuole di buona creanza. E poiché oggigiorno «occupano tanto spazio»,
dal momento che colonizzano aree sempre più vaste di spazio pubblico e le rimodellano
a proprio piacimento, le occasioni di imparare l’arte della buona creanza si riducono
sempre più.
Le differenze possono essere spazzate via in vari modi, ed esistono luoghi che si
specializzano in ciascuna specifica modalità. Ma le differenze possono anche essere
rese invisibili, o, piuttosto, si può impedire che si vedano. Ciò è, ad esempio, quanto
è avvenuto negli «spazi vuoti». Come Jerzy Kociatkiewicz e Monika Kostera, gli inventori
del termine, propongono, gli spazi vuoti sono
luoghi ai quali non viene attribuito nessun significato. Non hanno bisogno di essere
divisi fisicamente da staccionate o barriere. Non sono luoghi proibiti, ma spazi vuoti,
inaccessibili a causa della loro invisibilità.
Se il dare un senso alle cose è un’opera di modellamento, di comprensione, di reindirizzamento
della sorpresa e di creazione di significato, la nostra esperienza degli spazi vuoti
non la contempla12.
Gli spazi vuoti sono innanzitutto e soprattutto vuoti di significato. Non sono insignificanti perché vuoti: sono piuttosto visti come vuoti (o più precisamente
non vengono visti affatto) perché non presentano alcun significato e non sono ritenuti
in grado di presentarne uno. In tali luoghi refrattari al significato la questione
del negoziare le differenze non sorge neanche, dal momento che non c’è nessuno con
cui negoziare. Il modo in cui gli spazi vuoti affrontano le differenze è radicale
in una misura che altri tipi di luoghi designati a respingere gli estranei o ad attutirne
l’impatto non possono uguagliare.
Gli spazi vuoti elencati da Kociatkiewicz e Kostera sono luoghi non colonizzati e
luoghi che nessuno desidera o sente la necessità di destinare alla colonizzazione.
Sono, potremmo dire, i posti «restanti» una volta completata l’opera di strutturazione
degli spazi più appetibili; devono la loro spettrale presenza alla mancata sovrapposizione
tra l’eleganza della struttura e il caos del mondo (qualsiasi mondo, anche quello
progettato con la massima cura) famoso per la sua capacità di sfuggire a precise classificazioni.
Ma la famiglia degli spazi vuoti non si limita ai prodotti di scarto dei progetti
architettonici e alle frange neglette delle visioni degli urbanisti. Molti spazi vuoti
sono, in realtà, non semplicemente uno spreco inevitabile, ma ingredienti necessari
di un altro processo: quello di rilevazione topografica dello spazio condiviso da
molti utenti diversi.
In uno dei miei viaggi in occasione di una conferenza (in una popolosa ed effervescente
città dell’Europa meridionale) venne a prendermi all’aeroporto una giovane docente,
figlia di una coppia di professionisti locali colti e benestanti. La giovane mi avvisò,
scusandosene, che il tragitto per giungere all’albergo non sarebbe stato proprio una
passeggiata e che avrebbe richiesto un bel po’ di tempo, dovendo necessariamente attraversare
le principali strade del centro cittadino, perennemente trafficate. E infatti ci mettemmo
quasi due ore per giungere a destinazione. Il giorno della partenza la giovane docente
si offrì di accompagnarmi all’aeroporto; memore, tuttavia, di come guidare in quella
città fosse un’esperienza traumatizzante, la ringraziai per la gentilezza e la buona
volontà, ma le risposi che avrei preso un taxi. E così feci. Questa volta, tuttavia,
per arrivare all’aeroporto impiegai solo dieci minuti. Il tassista infilò infatti
una serie tortuosa di quartieri fatiscenti e dimenticati da Dio, brulicanti di gente
alquanto rozza e sfaccendata e di ragazzini sporchi e vestiti di stracci. L’assicurazione,
fattami a suo tempo dalla mia guida, che non vi fosse modo di evitare il traffico
del centro era assolutamente in buona fede. Rispondeva esattamente alla sua mappa
mentale della città in cui era nata e vissuta sino ad allora. Quella mappa non registrava
le stradine nascoste dei «quartieri malfamati» che avevo attraversato in taxi. Secondo
la mappa mentale della mia guida, nel luogo in cui sarebbero dovute esserci quelle
strade c’era semplicemente uno spazio vuoto.
Quella città, così come altre, ha molti abitanti, ciascuno dei quali ha impressa nella
mente una propria mappa stradale cittadina. Ognuna di queste cartine geografiche presenta
i suoi spazi vuoti, sebbene la loro dislocazione vari da una all’altra. Le mappe che
guidano gli spostamenti di diverse categorie di abitanti non si sovrappongono, ma
perché una qualsiasi mappa «abbia senso», alcune aree della città devono essere escluse
come prive di senso e – dal punto di vista della funzionalità – poco promettenti.
L’esclusione di tali luoghi permette a tutti gli altri di brillare e acquisire significato.
La vacuità del luogo è negli occhi di chi guarda e nelle gambe o nelle ruote di chi
procede. Vuoti sono i luoghi in cui non ci si addentra e in cui la vista di un altro
essere umano ci farebbe sentire vulnerabili, a disagio e un po’ spaventati.
Non parlare con gli estranei
La principale caratteristica della buona creanza è – mi permetto di ripetere – la
capacità di interagire con gli estranei senza imputar loro la condizione di estranei
e senza cercare di convincerli ad abbandonare in parte o in toto i tratti che ne fanno
degli estranei. L’elemento distintivo dei «luoghi pubblici ma non civili» – tutte
e quattro le categorie di luoghi elencate in precedenza – è l’irrilevanza dell’interazione. Se la contiguità fisica – la condivisione di uno spazio – non può essere evitata
del tutto, può forse essere spogliata della minaccia di «aggregazione» che essa contiene,
con il suo pressante invito a incontri significativi, al dialogo e all’interazione.
Se evitare gli estranei non è possibile, si può quanto meno tentare di evitare di
intrattenervi rapporti. E allora, così come avveniva con i bambini dell’epoca vittoriana,
che si facciano pure vedere, ma venga almeno risparmiato di udirne la voce; e se neanche
questo fosse possibile, che almeno non si debba stare ad ascoltare ciò che dicono.
Il punto è rendere qualsiasi cosa possano dire irrilevante e assolutamente ininfluente
su quanto si debba, si possa o si voglia fare.
Tutti questi espedienti sono certamente mere mezze misure: soluzioni di ripiego o
il minore dei mali. I «luoghi pubblici ma non civili» permettono di non avere niente
a che fare con gli estranei che circolano e di evitare ogni sorta di rapporti rischiosi,
comunicazioni estenuanti, contrattazioni snervanti o irritanti compromessi. Ciò che
invece tali luoghi non possono impedire è l’incontro con l’estraneo; al contrario,
essi presumono che tali incontri siano inevitabili, e sono stati progettati e costruiti
in base a tale presupposto. Sono, per così dire, cure per una malattia già contratta,
non un farmaco preventivo che renderebbe inutile la terapia. E tutte le terapie, come
ben sappiamo, possono risultare o meno efficaci. Ben pochi, se mai esistono, sono
i regimi terapeutici a prova di errore. Quanto sarebbe bello, perciò, rendere inutile
la terapia immunizzando l’organismo contro la malattia. Ecco perché il liberarsi della
compagnia degli estranei appare una prospettiva migliore, più sicura, rispetto ai
più sofisticati espedienti volti a neutralizzare la loro presenza.
Questa soluzione può apparire preferibile, ma di certo non è immune da pericoli. Giocare
col sistema immunitario è un affare rischioso e potrebbe dimostrarsi esso stesso patogeno.
Inoltre, immunizzare gli organismi a certe minacce significa renderli vulnerabili
ad altre. Nessuna interferenza è priva di terribili effetti collaterali: si conoscono
tantissimi interventi clinici che provocano disturbi iatrogenici, malattie causate
dallo stesso intervento clinico e che sono non meno pericolose (e a volte anche di
più) di quella che essi hanno curato.
Come afferma Richard Sennett:
gli appelli alla legge e all’ordine si levano più forti quando le comunità sono totalmente
isolate dal resto della popolazione urbana [...].
Negli ultimi vent’anni le città americane sono cresciute in modo tale che le aree
etniche sono diventate relativamente omogenee; non è un caso che la paura dell’estraneo
sia cresciuta anch’essa nella misura in cui queste comunità etniche sono state totalmente
isolate13.
La capacità di vivere con le differenze, e ancor meno quella di apprezzare tale modo
di vita e di trarne benefici, non è una dote che si acquista facilmente e tanto meno
viene da sé. Tale capacità è un’arte, e come tutte le arti richiede studio e applicazione.
Per contro, l’incapacità di far fronte all’irritante pluralità degli esseri umani
e all’ambiguità di tutte le decisioni classificatrici/cataloganti si perpetua e si
rinforza da sé: quanto più possenti sono la spinta all’omogeneità e i tentativi di
eliminare la differenza, tanto più difficile è sentirsi a casa in presenza di estranei;
quanto più minacciosa appare tale differenza, tanto più profonda e intensa è l’ansia
che produce. Il progetto di sfuggire all’impatto della multitonalità urbana e trovare
rifugio nell’uniformità, monotonia e ripetitività comunitaria è autolesionistico quanto
autoperpetuantesi. Questa potrebbe forse apparire una verità banale, se non fosse
per il fatto che il risentimento nei confronti della differenza è anche autocorroborante:
via via che la spinta all’uniformità si fa più intensa, cresce di pari passo la percezione
di terrore per i pericoli presentati dagli «estranei alle porte». Tale pericolo è
una classica profezia che si autorealizza. Diventa sempre più facile associare la
vista degli estranei alle diffuse paure dell’insicurezza; ciò che all’inizio era una
mera supposizione si trasforma in una verità ripetutamente comprovata e alla fine
assiomatica.
Il problema diventa così un circolo vizioso. Con l’arte della negoziazione degli interessi
comuni e di un destino condiviso ormai in disuso, raramente o mai praticata, pressoché
dimenticata o mai adeguatamente padroneggiata; con l’idea del «bene comune» (per non
parlare di quella della «buona società) guardata con sospetto, ritenuta minacciosa,
nebulosa o bizzarra, la ricerca della sicurezza in un’identità comune anziché in un
accordo su comuni interessi diventa il modo più sensato, per non dire più efficace
e redditizio, di procedere; ma i timori legati all’identità e alla sua difesa dalla
contaminazione rendono l’idea di interessi comuni, e in particolare di interessi comuni
negoziati, ancor più inverosimile e fantasiosa, e la capacità e volontà di perseguirli sempre
meno probabile. Come Sharon Zukin riepiloga la condizione che ne consegue, «Nessuno
sa come comunicare con gli altri».
La Zukin afferma che «Il venir meno dell’ideale di un destino comune ha rafforzato
il fascino della cultura»; ma «nel comune significato americano del termine, cultura
è, prima di tutto, ‘etnicità’», e l’etnicità è a sua volta un «modo legittimo di scavarsi
una nicchia all’interno della società»14. Scavarsi una nicchia, chiariamolo bene, significa soprattutto operare una separazione
territoriale, il diritto a uno «spazio difendibile» separato che va difeso e vale la pena di difendere
proprio in virtù della sua separatezza: ecco perché viene circondato da guardie armate
che fanno entrare solo persone della «stessa» identità e vietano l’accesso a tutti
gli altri. Dal momento che scopo della separazione territoriale è l’omogeneità di
chi occupa quel territorio, l’«etnicità» è la migliore di tutte le «identità» immaginabili.
Diversamente da altri tipi di presunte identità, l’idea di etnicità ha una forte valenza
semantica. Presume assiomaticamente un matrimonio sacro che nessun uomo può annullare,
una sorta di vincolo preordinato che precede qualsiasi contrattazione ed eventuale
accordo su diritti e doveri. In altre parole, l’omogeneità che si presume caratterizzi
le entità etniche è eteronoma: non un artefatto dell’uomo e certo non il prodotto dell’attuale generazione di uomini.
Non sorprende dunque che, più di ogni altro tipo di identità postulata, l’etnicità
rappresenti la scelta più ambita allorché si tratta di ritrarsi dal terrorizzante,
polifonico spazio in cui «nessuno sa come comunicare con gli altri» in una «nicchia
sicura» entro la quale «ciascuno è uguale a tutti gli altri» e dunque si comunica
pochissimo e sempre a livello superficiale. Non sorprende neanche che, in modo alquanto
illogico, altre presunte comunità da un lato reclamino proprie «nicchie nella società»,
e dall’altro siano sempre pronte a denigrare la nozione di etnicità e a inventarsi
proprie radici, tradizioni, storia comune e futuro comune, ma soprattutto una propria
cultura distinta e irripetibile alla quale – in virtù della sua reale o presunta unicità
– viene attribuito «un valore di per sé».
Sarebbe errato liquidare il rinato comunitarismo dei nostri tempi come un singulto
di istinti o propensioni non ancora completamente estinti che l’ulteriore progresso
della modernizzazione è destinato prima o poi a neutralizzare o offuscare; altrettanto
errato sarebbe considerarlo un momentaneo blackout della ragione, un disdicevole ma
inevitabile caso di irrazionalità, palesemente in contrasto con ciò che la «scelta
pubblica» razionalmente perseguita implicherebbe. Ciascun ordinamento sociale promuove
il proprio genere di razionalità, investe il proprio significato nell’idea di razionale
strategia di vita – e molto si potrebbe dire a sostegno dell’ipotesi secondo cui l’attuale
avatar del comunitarismo sia una risposta razionale alla reale crisi di «spazio pubblico» – e dunque di politica, quella attività umana
di cui lo spazio pubblico è il semenzaio.
Con il regno della politica sempre più ridotto a confessioni pubbliche, a manifestazioni
pubbliche di intimità e al pubblico esame e censura di virtù e vizi privati; con la
questione della credibilità delle persone pubbliche che va sempre più sostituendosi
alla riflessione su cosa sia e cosa dovrebbe essere l’arte della politica; con la
visione di una società buona e giusta praticamente assente dal discorso politico,
non sorprende che (come Sennett osservò già vent’anni fa)15 «la gente sia diventata spettatrice passiva di un personaggio politico che offre
loro in pasto le proprie intenzioni e sentimenti, anziché le proprie azioni». Il punto
è, tuttavia, che gli spettatori non si aspettano molto di più dai politici, così come
da altri personaggi oggigiorno sotto i riflettori non si attendono altro che un buono
spettacolo. E così lo spettacolo della politica, al pari di tutti gli altri spettacoli
pubblicamente messi in scena, si trasforma in un martellante messaggio della priorità
dell’identità sugli interessi, o in un continuo e pubblico rammentare che ciò che
conta davvero è l’identità, non gli interessi, chi sei, non cosa fai. Da cima a fondo,
è la rivelazione del vero io che diventa sempre più la sostanza dei rapporti pubblici
e della vita pubblica in quanto tale; ed è l’autoidentità che diventa il fuscello
di paglia al quale i naufraghi in cerca di salvezza si aggrapperanno più probabilmente
una volta che le navi guidate dall’interesse saranno state affondate. E allora, come
afferma Sennett, «preservare la comunità diventa un fine in sé; l’espulsione di quanti
non vi appartengono diventa competenza della comunità». Non occorre più alcuna «giustificazione
logica al rifiuto di negoziare, alla continua espulsione degli estranei».
Il tentativo di tenere a distanza l’«altro», il diverso, l’estraneo, lo straniero;
la decisione di escludere il bisogno di comunicazione, del negoziato, del reciproco
coinvolgimento, non è la sola risposta concepibile ma quella più prevedibile all’incertezza
esistenziale radicata nella nuova fragilità o fluidità dei legami sociali. Certo,
tale decisione ben risponde all’odierna ossessione per il problema della contaminazione
e purificazione, alla nostra tendenza a identificare la minaccia all’incolumità personale
con l’invasione di «corpi estranei» e l’incolumità perfetta con la purezza. L’apprensiva
attenzione per le sostanze che ingeriamo o inaliamo e che dunque penetrano nel nostro
corpo, e quella per gli estranei che si acquattano surrettiziamente nei pressi del
nostro corpo fanno parte del medesimo quadro cognitivo. Entrambe stimolano un medesimo
desiderio di «espellerli dal sistema».
Tali desideri convergono, si fondono e si condensano nella politica della separazione
etnica, e in particolare della difesa contro l’afflusso di «estranei». Come ha affermato
George Benko,
Ci sono Altri che sono ancora più Altri degli Altri, gli estranei. Escludere persone
in quanto estranei perché non siamo più capaci di concepire l’esistenza di un Altro
è il sintomo di una patologia sociale16.
Può anche trattarsi di una patologia, ma non si tratta di una patologia psichica che
tenta invano di dare forzatamente un senso a un mondo privo di un significato stabile
e fidato, bensì di una patologia dello spazio pubblico risultante in una patologia
della politica: l’avvizzire e svanire dell’arte del dialogo e del negoziato, la sostituzione
delle tecniche della fuga e dell’evasione ai princìpi del coinvolgimento e dell’impegno
reciproco.
«Non parlare con gli estranei» – un tempo un monito dato da genitori preoccupati ai
loro figli – è oggi diventato il comune precetto strategico degli adulti. Tale precetto
riformula come regola prudenziale la realtà di una vita in cui gli estranei sono persone
con cui ci si rifiuta di parlare. Governi incapaci di colpire le radici dell’insicurezza
esistenziale e dell’ansia dei loro cittadini sono fin troppo felici di adeguarsi a
tale regola. Un fronte unito contro gli «immigrati», la più piena e tangibile incarnazione
della «diversità», promette di fare il possibile per accorpare il variegato assortimento
di individui impauriti e disorientati in qualcosa di vagamente simile a una «comunità
nazionale»; e questo è uno dei pochi compiti che i governi dei nostri tempi possono
espletare ed essere chiamati a espletare.
L’Heritage Park di George Hazeldon sarebbe un luogo in cui, nel lunghissimo periodo,
tutti i passanti potrebbero liberamente conversare gli uni con gli altri. Sarebbero
liberi di farlo dal momento che avrebbero ben poco di cui parlare, se non scambiarsi
le solite e familiari frasi che non implicano alcuna controversia, ma neanche alcun
coinvolgimento. La tanto sognata purezza della comunità di Heritage Park può essere
conquistata solo al prezzo del disimpegno e dello scioglimento di qualsiasi legame.
La modernità come storia del tempo
Quando ero bambino (e questo accadde in un altro tempo e in un altro spazio), non
era insolito udire la domanda: «Quanto ci vuole per raggiungere il tale posto?» e
la risposta: «Circa un’ora, anche meno se cammina a passo spedito». In un tempo ancora
più antico di quello della mia infanzia, suppongo che la risposta più comune sarebbe
stata: «Se parte ora, ci arriverà per mezzogiorno», o: «È meglio che parta ora se
vuole arrivare prima che faccia buio». Oggi, capita ancora, occasionalmente, di udire
risposte simili. Ma di solito vengono precedute da un’altra domanda: «A piedi o in
automobile?».
«Lontano» e «molto tempo», al pari di «vicino» e «subito», significavano in passato
pressoché la stessa cosa: se occorreva poca o molta fatica per coprire una certa distanza,
si trattasse di camminare, di arare o di seminare. Se qualcuno fosse stato costretto
a spiegare cosa intendesse per «spazio» e «tempo», avrebbe detto che lo «spazio» è
qualcosa che puoi attraversare in un dato tempo, mentre il «tempo» è ciò che serve
per attraversare lo spazio. Se non costretto, tuttavia, non si sarebbe mai preso la
briga di addentrarsi in tali definizioni. E perché mai avrebbe dovuto farlo? La gran
parte delle cose di vita quotidiana le si capisce senza alcun bisogno di definirle;
e, a meno che non ce lo chiedano, non sentiremmo il benché minimo bisogno di farlo.
Il modo in cui si comprendevano le cose che oggi tendiamo a chiamare «spazio» e «tempo»
era non solo soddisfacente, ma preciso quanto bastava nella misura in cui a produrre
lo sforzo e a stabilirne i limiti era il cosiddetto wetware, il capitale umano (si trattasse di uomini, buoi o cavalli). Un paio di gambe umane
possono differire da un altro, ma sostituirne uno con un altro non farebbe una differenza
tale da richiedere un’unità di misura diversa dalla capacità muscolare.
Ai tempi delle Olimpiadi greche nessuno pensava di registrare i record olimpici, e
tanto meno di infrangerli. Fu necessaria l’invenzione e l’applicazione di qualcosa
di diverso dalla potenza muscolare di uomini o animali perché venissero concepite
simili idee e si decidesse di dare importanza alle diverse capacità motorie dei singoli
individui; e perché venisse in tal modo a finire la preistoria del tempo, quel lungo arco di tempo di pratica legata al wetware, e iniziasse la storia del tempo. La storia del tempo ebbe inizio con la modernità. Di fatto, la modernità
è, più di ogni altra cosa, la storia del tempo: la modernità è il tempo nell’epoca in cui il tempo ha una storia.
Se si cerca nei libri di storia il motivo per cui spazio e tempo, in passato fusi
nella vita lavorativa dell’uomo, si sono disgiunti e allontanati nel pensiero e nella
prassi umana, si scopriranno spesso edificanti storie di scoperte fatte dai valorosi
cavalieri della ragione: intrepidi filosofi e coraggiosi scienziati. Si viene così
a sapere di Newton che calcola le precise relazioni esistenti tra l’accelerazione
e la distanza coperta dal «corpo fisico»; di astronomi che misurano le distanze e
la velocità dei corpi celesti, e dei loro scrupolosi tentativi di esprimere tutto
ciò in numeri, le più astratte e oggettive delle unità di misura immaginabili; o di
Kant, che rimase talmente colpito dalle loro scoperte da definire tempo e spazio come
due categorie di cognizione umana trascendentalmente separate e reciprocamente indipendenti.
E tuttavia, per quanto giustificata possa essere la rivendicazione dei filosofi a
pensare sub specie aeternitatis, è sempre una frazione dell’infinito e dell’eternità, la sua parte finita raggiungibile
dalla prassi umana, che fornisce il «terreno epistemologico» per la riflessione filosofica
e scientifica e il materiale empirico plasmabile in verità eterne; tale limitazione,
di fatto, differenzia i grandi pensatori da quanti vengono ricordati dai posteri come
degli eccentrici, creatori di miti, poeti e sognatori d’altro tipo. E dunque dev’essere
successo qualcosa al raggio d’azione e alla portata della prassi umana perché la sovranità
dello spazio e del tempo balzasse improvvisamente agli occhi dei filosofi.
Quel «qualcosa», si può a buon diritto immaginare, fu la costruzione di veicoli capaci
di muoversi più velocemente di quanto avrebbero mai potuto fare le gambe degli uomini
o dei cavalli; nonché di veicoli che, diversamente dagli uomini e dai cavalli, potevano
essere resi sempre più veloci, cosicché l’attraversare distanze sempre più lunghe
potesse richiedere sempre meno tempo. Allorché entrarono in scena tali mezzi di trasporto
non umani e non animali, il tempo necessario per viaggiare cessò di essere il tratto
distintivo della distanza e dell’inflessibile wetware e divenne invece un attributo della tecnica del viaggiare. Il tempo è diventato una
funzione di potenzialità meccaniche, di qualcosa, cioè, che gli uomini poterono inventare,
costruire, possedere, usare e controllare, e non più di capacità umane inevitabilmente
limitate, né di forze naturali – notoriamente capricciose e volubili – come il vento
o l’acqua, immuni alla manipolazione umana. Allo stesso modo, il tempo è diventato
un fattore indipendente dalle inerti e immutabili dimensioni delle masse terrestri
o acquatiche. Il tempo venne a differenziarsi dallo spazio perché, diversamente da
questo, poté essere cambiato e manipolato; è diventato un fattore di disgregazione:
il partner dinamico nel vincolo matrimoniale tempo/spazio.
Benjamin Franklin coniò il famosissimo detto che il tempo è denaro; poté fare quella
dichiarazione in piena sicurezza, dal momento che aveva già definito l’uomo come «l’animale
creatore di utensili». Forte dell’esperienza di altri due secoli, nel 1961 John Fitzgerald
Kennedy poté consigliare ai suoi compatrioti americani di «usare il tempo come un
utensile, non come un sofà». Il tempo divenne denaro allorché si trasformò in un utensile
(o un’arma?) utilizzato principalmente nel perpetuo tentativo di superare la resistenza
dello spazio: accorciare le distanze, abbattere ogni forma di «irraggiungibilità»
all’ambizione umana. Forte di tale arma, l’uomo poté alfine porsi l’obiettivo – e
quindi adoprarsi a realizzarlo – di conquistare lo spazio.
I monarchi viaggiavano forse più comodamente dei propri rappresentanti, e i baroni
in modo più consono dei propri servi; ma, in linea di massima, non molto più velocemente
di loro. Il potenziale umano rendeva gli uomini simili; il potenziale meccanico li
rese diversi. Tali differenze (contrariamente a quelle derivanti dalla diversità dei
muscoli umani) furono il risultato di azioni umane prima di diventare condizioni della loro efficacia e dunque prima
che potessero essere impiegate al fine di creare ulteriori differenze e renderle più
profonde e meno contestabili di prima. Con l’arrivo del vapore e dei motori a combustione
interna, l’uguaglianza basata sul potenziale umano ebbe fine. Ora per alcuni fu possibile
arrivare dove volevano molto prima di tutti gli altri; poterono anche sfuggire alla
caccia e impedire di essere presi, rallentati o fermati. Chiunque viaggiava più velocemente
poté reclamare una fetta più ampia di territorio – e in seguito, controllarlo, delimitarlo
e monitorarlo – tenendo i rivali a debita distanza e gli intrusi fuori dai propri
confini.
È possibile associare l’inizio dell’era moderna a vari aspetti delle mutevoli prassi
umane, ma l’emancipazione del tempo dallo spazio, la sua subordinazione all’ingegno
e alle capacità tecniche dell’uomo e dunque la sua contrapposizione allo spazio come
strumento di conquista e appropriazione di terra non è un punto di partenza peggiore
di altri. La modernità nacque sotto le stelle dell’accelerazione e della conquista
di terra, e tali stelle formano una costellazione che contiene tutte le informazioni
sul suo carattere, condotta e destino. Per leggerla c’è bisogno di un buon sociologo,
non di un fantasioso astrologo.
Il rapporto tra tempo e spazio sarebbe stato d’ora in poi mutevole e dinamico, non
fisso e preordinato. La «conquista dello spazio» finì col significare macchine più
veloci; l’accelerazione del movimento significò spazi più ampi e accelerarlo ulteriormente
divenne l’unico mezzo possibile per ampliare lo spazio. In questo caso, la sfida prese
il nome di espansione spaziale, e la sua posta in palio fu lo spazio; lo spazio rappresentava
il valore, il tempo lo strumento. Per massimizzare il valore, fu necessario affilare
gli strumenti: buona parte della «razionalità strumentale» che, come affermava Max
Weber, era il principio operativo della civiltà moderna, fu incentrata sull’elaborare
modi di eseguire i compiti più velocemente, eliminando di pari passo il tempo «improduttivo»,
morto, e dunque sprecato; o, per dirla in termini di risultati anziché di strumenti
di azione, si incentrò sul riempire più densamente lo spazio di oggetti e sull’ampliare
lo spazio in tal modo riempibile in un determinato lasso di tempo. Alla vigilia della
conquista dello spazio d’epoca moderna, con grande lungimiranza Descartes identificò
l’esistenza con la spazialità, definendo tutto ciò che esiste materialmente res extensa. (Come Rob Shields osserva acutamente, si potrebbe riformulare il famoso cogito di Descartes, senza distorcerne il significato, con «Occupo spazio, dunque esisto»17.) All’epoca in cui tale conquista perse la propria spinta propulsiva e giunse al
termine, Michel de Certeau – guardando al passato – dichiarò che il potere era una
questione di territorio e confini. (Come Tim Crosswell ha di recente affermato, riassumendo
l’opinione di Certeau, «le armi del forte sono [...] classificazione, delineazione,
divisione. Il forte dipende dalla certezza della cartografia»18; si noti che tutte le armi elencate sono operazioni eseguite sullo spazio.) Si potrebbe
dire che la differenza tra il forte e il debole equivale alla differenza tra un territorio
ben delineato sulla carta geografica – attentamente e rigidamente controllato – e
un territorio soggetto a intrusioni, mutamenti di confini e riformulazioni topografiche.
Quanto meno, tale è diventata e tale è rimasta per buona parte della storia moderna.
Dalla modernità pesante alla modernità leggera
Quella parte di storia, ora in procinto di concludersi, potrebbe essere definita,
in mancanza di un aggettivo migliore, l’era «hardware» o della modernità pesante:
una modernità ossessionata da tutto ciò che è enorme, del tipo «quanto più grande,
tanto meglio», o «la dimensione è potere, il volume è successo». Fu quella l’epoca
delle macchine pesanti e sempre più ingombranti, delle mura di fabbriche sempre più
ampie che fagocitavano sempre più operai, di ponderose locomotrici e di giganteschi
transatlantici. Conquistare spazio era l’obiettivo supremo: arraffarne il più possibile
e mantenerne il possesso, contrassegnandolo da cima a fondo con tangibili segni di
possesso e di cartelli del tipo «Vietato oltrepassare». Il territorio fu una delle
maggiori ossessioni dell’epoca moderna, la sua conquista una delle più irrefrenabili
compulsioni, il controllo dei suoi confini una delle più onnipresenti e coriacee assuefazioni.
La modernità pesante fu l’epoca della conquista territoriale. Ricchezza e potere erano
saldamente radicati nella terra: massiccia, ponderosa e inamovibile come miniere di
ferro e depositi di carbone. Gli imperi si espansero ai quattro angoli del globo,
fermati soltanto da altri imperi di pari o superiore forza. Qualsiasi cosa si estendesse
tra i loro rispettivi avamposti era considerata terra di nessuno e dunque uno spazio vuoto, e lo spazio vuoto era un invito all’azione e un monito agli oziosi. (La scienza
popolare dell’epoca afferrò alla perfezione lo spirito contemporaneo allorché informò
i profani che «la Natura non ammette il vuoto».) Ancor più ripugnante e insopportabile
era il pensiero dei «punti vuoti» del globo; isole e arcipelaghi mai uditi e immaginati,
masse terrestri in attesa di essere scoperte e colonizzate, le aree interne dei continenti,
vergini e dimenticate da tutti, gli innumerevoli «buchi neri» che reclamavano luce.
Intrepidi esploratori vestirono i panni degli eroi delle nuove, moderne versioni delle
«storie di mare» di Walter Benjamin, delle fantasie degli adolescenti e delle nostalgie
degli adulti; salutati con entusiasmo alla loro partenza e ricoperti di onori al loro
ritorno, attraversarono, spedizione dopo spedizione, giungle, foreste o terre ghiacciate
alla ricerca di una catena montuosa, di un lago o un altopiano ancora non segnati
sulle mappe. Anche il paradiso moderno, come la Shangri-La di James Hilton, era «lì»,
in un posto ancora «non scoperto», nascosto e inaccessibile, in qualche punto al di
là di catene montuose invalicate e invalicabili o di deserti micidiali, al termine
di un sentiero non ancora tracciato. Avventura e felicità, ricchezza e potere erano
concetti geografici o «possedimenti», inamovibili e non trasferibili. Tutto ciò richiedeva
mura impenetrabili, severissimi punti di controllo, guardie confinarie perennemente
all’erta e la massima segretezza sulla loro ubicazione (uno dei segreti più gelosamente
custoditi della seconda guerra mondiale, la base aerea americana da cui partì l’attacco
su Tokyo nel 1942, aveva per soprannome «Shangri-La»).
Ricchezza e potere che dipendono dalla dimensione e dalla qualità del potenziale hardware
tendono a essere inerti e poco dinamici. Entrambi sono fissi e cristallizzati, scavati
nell’acciaio e nel cemento e calcolati in base al peso e al volume. Crescono grazie
all’espandersi del luogo che occupano e sono protetti tramite la protezione di tale
luogo, che è al contempo il loro covo, la loro fortezza e la loro prigione. Daniel
Bell ha descritto uno dei più possenti, nonché invidiati ed emulati, di tali covi/fortezze/prigioni:
la fabbrica «Willow Run» della General Motors, nel Michigan, Stati Uniti19. L’impianto occupava un’area di circa mille metri per quattrocento. Tutto quanto
occorreva per costruire automobili era riunito sotto un unico gigantesco tetto, in
un’unica mostruosa gabbia. La logica del potere e la logica del controllo erano entrambe
radicate nella rigida separazione tra «dentro» e «fuori» e da una vigile difesa del
loro confine. Entrambe le logiche si fondevano e si incarnavano nella logica della
dimensione, organizzata intorno a un precetto: più grande uguale più efficiente. Nella
versione pesante della modernità, progresso significava dimensione sempre crescente
ed espansione spaziale.
A garantire l’integrità, la compattezza del luogo e il suo asservimento alla logica
dell’omogeneità era la standardizzazione del tempo (Bell si rifece al principale strumento
di standardizzazione allorché denominò tale tempo «metrico»).
Nella conquista dello spazio il tempo doveva essere docile e malleabile, e soprattutto
riducibile attraverso l’accresciuta capacità di «divorare spazio» di ciascuna sua
unità: fare il giro del mondo in ottanta giorni era un sogno affascinante, ma compierlo
in otto giorni era infinitamente più attraente. L’attraversamento della Manica e quindi
dell’Atlantico furono le pietre miliari con cui venne misurato il progresso. Allorché,
tuttavia, si passò dalla fortificazione dello spazio conquistato al suo addomesticamento
e colonizzazione, ci fu bisogno di un tempo rigido, uniforme e inflessibile: un tipo
di tempo che si potesse tagliare a fette di uguale spessore, adatto a essere organizzato
in intervalli regolari e inalterabili. Lo spazio venne effettivamente «posseduto»
allorché fu controllato, e controllo significò più di ogni altra cosa «addomesticare
il tempo», neutralizzarne la dinamica interiore: in breve, l’uniformità e il coordinamento
del tempo. Raggiungere la foce del Nilo prima di altri esploratori era un’impresa
meravigliosa ed eccitante, ma un treno che arrivava in anticipo o dei ricambi di auto
che giungevano alla catena di montaggio prima di altri erano il peggiore incubo della
modernità pesante.
Il tempo standardizzato si alleò ad alte mura di pietra incoronate con filo spinato
o cocci di vetri e cancelli supersorvegliati per proteggere il luogo dagli intrusi;
impedì anche ai suoi abitanti di poterne uscire a proprio piacimento. La «fabbrica
fordista», quell’agognato e imitatissimo modello di razionalità ingegnerizzata in
tempi di modernità pesante, fu il sito dell’incontro diretto – ma anche di un tipo
di matrimonio del genere «finché morte non ci separi» – tra capitale e lavoro. Si
trattò di un matrimonio di convenienza o d’interesse, quasi mai di amore, ma inteso
a durare «per sempre» (qualsiasi cosa ciò potesse aver significato in termini di vita
individuale) e che tale fu quasi sempre. Fu anche un matrimonio essenzialmente monogamico,
per entrambi i partner. Il divorzio era fuori discussione: nel bene e nel male, i
coniugi erano destinati a restare uniti; nessuno dei due sarebbe sopravvissuto senza
l’altro.
Il tempo standardizzato incatenò il lavoro al suolo, mentre il gigantismo delle fabbriche,
la pesantezza dei macchinari e, non meno importante, lo stesso lavoro perpetuamente
in ceppi «vincolarono» il capitale. Né il capitale né il lavoro potevano o desideravano
muoversi. Al pari di qualunque altro matrimonio privo della valvola di sicurezza del
divorzio, la storia della coabitazione fu costellata di problemi, disseminata di violenti
scoppi d’ira e contrassegnata da una meno drammatica, ma più incessante e persistente,
pressoché quotidiana guerra di trincea. Mai, tuttavia, i plebei pensarono di lasciare
la città; né i patrizi erano maggiormente liberi di farlo. Non ci fu bisogno dell’abilità
oratoria di un Menenio Agrippa per tenere gli uni e gli altri al loro posto. La stessa
intensità e perennità del conflitto era una prova eloquente della comunanza del loro
destino. Il tempo cristallizzato della routine di fabbrica, insieme ai mattoni e al
cemento delle mura della fabbrica, immobilizzava tanto il capitale quanto il lavoro
che esso impiegava. Tutto ciò venne tuttavia a cambiare con l’avvento del capitalismo
«software» e della modernità leggera. Così riassume il tutto l’economista della Sorbona
Daniel Cohen: «Chiunque inizia la propria carriera alla Microsoft non ha la benché
minima idea di dove la concluderà. Chiunque iniziava la propria carriera alla Ford
o alla Renault, poteva essere praticamente certo che l’avrebbe conclusa lì»20.
Non sono sicuro che in entrambi i casi citati da Cohen l’uso del termine «carriera»
sia legittimo. «Carriera» fa pensare a una traiettoria predefinita, non diversa dal
«percorso accademico» delle università, con una sequenza di stadi prestabiliti e accompagnati
da condizioni di ingresso e regole di ammissione relativamente chiare. Il «percorso
carrieristico» tende a essere modellato da pressioni coordinate di spazio e tempo.
Qualsiasi cosa accada ai dipendenti della Microsoft o ai suoi innumerevoli osservatori
o imitatori, in cui l’unica preoccupazione dei manager è trovare «forme organizzative
più elastiche e in grado di seguire la corrente» e in cui l’organizzazione aziendale
è vista sempre più come un costante e mai conclusivo tentativo «di formare un’isola
di adattabilità superiore» in un mondo percepito come «complesso, proteiforme e in
rapido movimento, e dunque ‘ambiguo’, ‘incoerente’ o ‘plastico’»21, va contro strutture durature e in particolare contro strutture con un’aspettativa
di vita commensurabile a un normale arco di vita lavorativa. In tali condizioni, l’idea
di una «carriera» appare nebulosa e decisamente fuori luogo.
Questo, tuttavia, è soltanto un arzigogolo terminologico. Che i termini siano usati
correttamente o meno, la questione di fondo è che il raffronto di Cohen individua
perfettamente il mutamento-spartiacque nella storia moderna del tempo e rivela l’impatto
che sta iniziando ad avere sulla condizione dell’esistenza umana. Il mutamento in
questione è l’odierna irrilevanza dello spazio, mascherata sotto forma di annullamento
del tempo. Nell’universo software del viaggio alla velocità della luce, lo spazio
è attraversabile letteralmente «all’istante»: la differenza tra «lontano» e «vicino»
è cancellata. Lo spazio non pone più limiti all’azione e alle sue conseguenze, e conta
poco o nulla; ha perso il proprio «valore strategico», come direbbero gli esperti
militari.
Tutti i valori, come ha osservato Georg Simmel, sono «preziosi» nella misura in cui
vengono acquisiti «rinunciando ad altri valori»; è «la strada da fare per conseguire
certe cose» che porta a «considerarle di valore». Con altre parole, Simmel racconta
la storia di un «feticismo dei valori»: le cose, scrisse, «valgono esattamente quello
che costano»; e tale circostanza appare, perversamente, «significare che costano esattamente
quanto valgono». Sono gli ostacoli che occorre negoziare lungo la strada della loro
acquisizione, «la tensione della lotta per conquistarli», che rende i valori preziosi22. Se non occorre perdere, «sacrificare», neanche un secondo per raggiungere anche
il più remoto dei luoghi, questi perdono ogni valore nel senso in cui lo intende Simmel.
Una volta che è possibile coprire le distanze (e dunque le parti di spazio materialmente
distanti su cui si agisce) con la velocità dei segnali elettronici, qualsiasi riferimento
al tempo appare, come direbbe Jacques Derrida, «sous rature». Il concetto di «istantaneità»
si riferisce apparentemente a un movimento velocissimo e a un tempo brevissimo, ma
in realtà denota l’assenza del tempo in quanto fattore dell’evento e dunque in quanto
elemento nel calcolo del valore. Il tempo non è più «la strada da fare per conseguire
certe cose» e dunque non conferisce più valore allo spazio. La quasi istantaneità
dell’epoca software inaugura la svalutazione dello spazio.
Nell’era hardware, o della modernità pesante, che in termini weberiani era anche l’epoca
della razionalità strumentale, il tempo era il mezzo che occorreva gestire prudentemente
in modo da massimizzare i proventi del valore, che era lo spazio; nell’era software,
della modernità liquida, l’efficacia del tempo quale mezzo di ottenimento di valore
tende a raggiungere l’infinito, con l’effetto paradossale di livellare (direi verso
il basso) il valore di tutte le unità nel campo degli obiettivi potenziali. Il punto
interrogativo si è spostato dalla parte dei mezzi a quella dei fini. Applicato al
rapporto spazio/tempo, ciò significa che poiché tutte le parti di spazio possono essere
raggiunte nello stesso arco di tempo (vale a dire «all’istante»), nessuna parte di
spazio è privilegiata, nessuna ha un «valore speciale». Se tutte le parti di spazio
possono essere raggiunte in qualsiasi momento, non c’è motivo di raggiungere nessuna
di esse in un particolare momento e nessun motivo di preoccuparsi di assicurarsi il
diritto di accesso a una qualunque di esse. Se sai che puoi visitare un posto in qualsiasi
momento lo desideri, non avverti alcuna urgenza di visitarlo spesso o di spendere
soldi con un biglietto a tempo indeterminato. E c’è ancor meno motivo di sopportare
i costi di una perpetua supervisione e amministrazione, di una laboriosa e rischiosa
coltivazione di terre che possono essere facilmente raggiunte e altrettanto facilmente
abbandonate in base ai propri mutevoli interessi topici.
La seducente leggerezza dell’essere
Il tempo incorporeo, istantaneo del mondo software è anche un tempo insignificante.
«Istantaneità» significa acquisizione immediata, «sul posto», ma anche immediata perdita
di interesse. La distanza temporale che separa la fine dall’inizio va assottigliandosi
o svanendo del tutto; le due nozioni, una volta usate per registrare lo scorrere del
tempo e dunque per calcolarne il «valore forfetario», hanno perso gran parte del loro
significato, il quale – come tutti i significati – nasce dalla loro netta contrapposizione.
Ci sono solo «momenti»: punti senza dimensioni. Ma un siffatto tempo, il tempo con
la morfologia di un aggregato di momenti, è ancora il tempo «come noi lo conosciamo»?
L’espressione «momento del tempo», appare, almeno per certi fondamentali aspetti,
un ossimoro. Forse che, una volta ucciso lo spazio in quanto valore, il tempo si è
suicidato? Forse lo spazio è stato semplicemente la prima vittima nella frenetica
corsa del tempo all’autodistruzione?
Quella qui descritta è, ovviamente, una condizione limitata nella storia del tempo, quella che appare, nella sua fase attuale, la tendenza ultima di quella storia. Per quanto vicino allo zero sia il tempo necessario per
raggiungere una destinazione nello spazio, quel tempo non è ancora giunto. Anche la
tecnologia più avanzata, armata di processori sempre più potenti, ha ancora della
strada da fare per raggiungere l’«istantaneità» assoluta. Né si è ancora realizzata
del tutto l’irrilevanza dello spazio, sua conseguenza logica, così come non è stata
ancora pienamente raggiunta l’assenza di gravità, l’assoluta volatilità e flessibilità
dell’azione umana. Ma la condizione descritta è realmente l’orizzonte di sviluppo
della modernità leggera. Cosa ancor più importante, è l’ideale perennemente perseguito
ma (o forse perché?) mai pienamente raggiungibile dei suoi principali operatori, un
ideale che nell’avatar di una nuova norma pervade e satura ogni organo, tessuto e
cellula del corpo sociale. Milan Kundera vide nell’«insostenibile leggerezza dell’essere»
l’essenza della tragedia della vita moderna. Leggerezza e velocità (insieme!) sono
state offerte da Italo Calvino, l’inventore di quei personaggi totalmente liberi (liberi
in modo completo, in virtù del loro essere inafferrabili, elusivi, impossibili da
intrappolare e controllare), il Barone rampante e il Cavaliere inesistente, come la
più piena, quintessenziale incarnazione dell’interna funzione emancipatrice dell’arte
letteraria.
Oltre trent’anni fa (nel suo classico Il fenomeno burocratico) Michel Crozier identificò il dominio – in tutte le sue forme – con la prossimità
alle fonti di incertezza. Il suo verdetto è ancora valido: le persone che riescono
a mantenere le proprie azioni indipendenti, libere da norme e dunque imprevedibili,
e al contempo a regolamentare (standardizzare e dunque rendere monotone, ripetitive
e prevedibili) le azioni altrui, dominano. Chi ha le mani libere domina chi ha le
mani legate; la libertà dei primi è la principale causa di asservimento dei secondi,
mentre l’asservimento dei secondi è il significato ultimo della libertà dei primi.
Sotto questo aspetto nulla è cambiato con il passaggio dalla modernità pesante a quella
leggera. Ma il quadro ha ora un diverso contenuto; più precisamente, il perseguimento
della «prossimità alla fonte di incertezza» si è ristretto e si è incentrato su un
unico obiettivo: l’istantaneità. Coloro che si muovono e agiscono più velocemente,
che giungono più vicini alla fulmineità del movimento sono quelli che dominano. Mentre
chi non è in grado di muoversi altrettanto rapidamente, e in particolare la categoria
di persone incapaci di lasciare a proprio piacimento il posto in cui si trovano, è
dominato. Il dominio consiste nella capacità di sfuggire, di svincolarsi, di «essere
altrove», e nel diritto di decidere la velocità con cui fare tutto ciò, e al contempo
nel non dare possibilità alle persone dominate di ostacolare, rallentare o fermare
le mosse di chi domina. L’odierna battaglia per il dominio è combattuta tra forze
dotate, rispettivamente, delle armi dell’accelerazione e della procrastinazione.
L’accesso differenziato all’istantaneità è d’importanza cruciale tra le versioni odierne
dell’imperituro e indistruttibile fondamento della divisione sociale in tutte le sue
forme storicamente mutevoli: l’accesso differenziato all’imprevedibilità, e quindi
alla libertà. In un mondo popolato da schiavi incatenati al suolo, il saltare tra
gli alberi era per i baroni un’infallibile ricetta per la libertà. È la facilità degli
odierni baroni a comportarsi in modo simile al saltare tra gli alberi che tiene i
discendenti degli schiavi inchiodati al loro posto, ed è l’immobilità imposta, l’inchiodamento
al suolo di questi discendenti che permette ai baroni di continuare a saltare. Per
quanto profonda e deprimente sia la miseria degli schiavi, non se ne vede uno intenzionato
a ribellarsi, e qualora lo avessero fatto non avrebbero mai raggiunto i mobilissimi
bersagli della loro ribellione. La modernità pesante teneva capitale e lavoro in una
gabbia di ferro dalla quale nessuno dei due poteva fuggire.
La modernità moderna liberò uno dei partner dalla gabbia. Laddove la modernità solida
fu un’epoca di reciproco coinvolgimento, la modernità fluida è l’epoca del disimpegno,
dell’elusività, dell’evasione facile e dell’inseguimento senza speranza. Nella modernità
liquida, a dominare sono i più elusivi, quelli liberi di muoversi senza dare nell’occhio.
Karl Polanyi (nel suo La grande trasformazione. Le origini politiche ed economiche della nostra epoca, pubblicato nel 1944) proclamò che trattare il lavoro come una «merce» era una finzione
e svelò le conseguenze dell’accordo sociale basato su quella finzione. Il lavoro,
sostenne, non può essere una merce (o quanto meno non è una merce uguale a tutte le
altre), dal momento che non può essere venduto o comprato separatamente da chi lo
espleta. Il lavoro esaminato da Polanyi era in pratica un lavoro impersonificato: un lavoro che non poteva essere mosso o trasferito se non spostando fisicamente
i lavoratori in carne e ossa. Era possibile assumere e impiegare lavoro umano solo
insieme a tutto il resto del corpo dei lavoratori, e l’inerzia dei corpi assunti pone
dei limiti alla libertà dei datori di lavoro. Per monitorare il lavoro e incanalarlo
nella direzione desiderata occorreva gestire e dirigere i lavoratori; per controllare
il processo lavorativo era necessario controllare la manodopera. Tale necessità metteva
faccia a faccia capitale e lavoro e li teneva, nel bene e nel male, in reciproca compagnia.
Il risultato era una forte conflittualità, ma anche tante reciproche concessioni;
accuse al vetriolo, lotta senza quartiere e nel complesso poco amore, ma anche un’incredibile
ingegnosità nello stabilire norme di coabitazione moderatamente soddisfacenti o quanto
meno sopportabili. Rivoluzioni e stato assistenziale furono l’esito al contempo imprevisto
e inevitabile della condizione che escludeva il disimpegno in quanto opzione fattibile.
Oggi stiamo vivendo un’altra «grande trasformazione», uno dei cui aspetti salienti
è un fenomeno esattamente opposto alla condizione che Polanyi dette per scontata:
l’«incorporeità» di quel genere di lavoro umano che è la principale fonte di nutrimento,
o terreno da pascolo, del capitale odierno. Le massicce, severe e antiestetiche torrette
di sorveglianza di tipo panottico non servono più. Si è permesso al lavoro di uscire
dal Panopticon, ma, cosa più importante di tutte, il capitale si è scrollato di dosso
il pesante fardello e gli esorbitanti costi della sua amministrazione; si è liberato
del compito che lo inchiodava al suolo e lo costringeva a un coinvolgimento diretto
con gli elementi sfruttati ai fini della propria riproduzione e moltiplicazione.
Il lavoro incorporeo dell’era software ha cessato di ingabbiare il capitale: gli consente
di essere extraterritoriale, volatile e volubile. L’incorporeità del lavoro preconizza
l’assenza di peso del capitale. Il loro legame di reciproca dipendenza è stato spezzato
unilateralmente: laddove la capacità di lavorare resta come prima incompleta e irrealizzabile
se lasciata sola e dipendente dalla presenza del capitale per la sua concretizzazione,
il contrario non è più vero. Il capitale viaggia baldanzosamente, affidandosi a brevi
e redditizie avventure e fiducioso che non vi sarà mai scarsità né di simili avventure
né di partner con cui condividerle. Può viaggiare con grande rapidità e facilità,
e tale rapidità e facilità di movimento si sono rivelate la principale fonte di incertezza
per tutto il resto. Sono diventate l’odierna base di dominio e il principale fattore
di divisione sociale.
Essere «grande» e «imponente» si sta trasformando da un vantaggio in un handicap.
Per i capitalisti che scambierebbero volentieri i ponderosi palazzi adibiti a ufficio
con delle mongolfiere, la spinta aerostatica è il più redditizio e agognato dei vantaggi;
e tale spinta può essere favorita eliminando ogni peso superfluo e lasciando a terra
tutti i membri dell’equipaggio non indispensabili. Una delle zavorre più pesanti di
cui occorre sbarazzarsi è l’onerosa attività di gestione e supervisione di un’ampia
forza lavoro: attività che ha l’irritante tendenza a espandersi incessantemente e
a essere oberata da sempre nuovi obblighi e coinvolgimenti. Se la «scienza manageriale»
del capitalismo pesante verteva sull’attirare la «forza lavoro» e allettarla, o costringerla,
a restare immobile e lavorare secondo i piani, l’arte della gestione nell’epoca del
capitalismo leggero consiste nel disfarsi della «forza umana» e meglio ancora nel
costringerla a sbaraccare. Brevi incontri sostituiscono rapporti duraturi. Non si
pianta un agrumeto per spremere un limone.
L’equivalente gestionale della liposuzione è diventato il principale stratagemma dell’arte
manageriale. Snellire, ridimensionare, ridurre gradualmente, chiudere o vendere alcune
unità perché non abbastanza efficienti e altre perché è più economico abbandonarle
al proprio destino che assumersi il pesante (in termini di tempo e di denaro) compito
della loro supervisione manageriale, sono i principali criteri applicativi di questa
nuova arte.
Alcuni osservatori si sono affrettati a concludere che «più grande» non è più considerato
sinonimo di «più efficiente». In tale generalizzata interpretazione, tuttavia, questa
conclusione non è corretta. L’ossessione del ridimensionamento è in realtà un ineludibile
complemento della mania delle fusioni. Si sa che i giocatori più forti in campo negoziano
o impongono fusioni al fine di acquisire un maggior raggio d’azione per operazioni
di ridimensionamento, mentre una radicale opera di «spoliazione dei beni» è ampiamente
considerata quale precondizione essenziale per il successo dei piani di fusione. Fusione
e ridimensionamento non sono in contrasto tra loro; al contrario, si supportano e
si rafforzano a vicenda. Ciò è un paradosso solo in apparenza; la contraddizione si
dissolve una volta che si consideri la «nuova e migliore» interpretazione del principio
di Michel Crozier. È il mix di strategie di fusioni e ridimensionamenti che offre
al capitale e al potere finanziario lo spazio per muoversi e muoversi in fretta, rendendo
l’orizzonte del proprio viaggio ancora più globale, e al contempo priva il lavoro
della sua forza e del suo potere contrattuale, immobilizzandolo e legandogli sempre
più le mani.
La fusione offre una corda più lunga allo sgusciante, esuberante capitale che ha adottato
quali principali armi del proprio dominio l’evasione e la fuga, la sostituzione di
affari-lampo e incontri fugaci agli impegni duraturi e il mantenere sempre aperta
l’opzione dell’«atto di sparizione». Il capitale acquisisce maggiore spazio di manovra:
più rifugi in cui nascondersi, una più ampia gamma di possibili permutazioni, un più
vasto assortimento di avatar disponibili, e dunque maggiore capacità per tenere sotto
controllo il lavoro che gestisce insieme alla capacità – garante di corposi risparmi
– di lavarsi le mani delle devastanti conseguenze delle future ondate di ridimensionamento;
questa è la faccia odierna del dominio: su quanti sono stati già colpiti e quelli
che temono di essere i prossimi bersagli. Come l’American Management Association imparò
da uno studio da essa commissionato, «Il morale e la motivazione dei lavoratori si
sono abbassati moltissimo nel corso delle varie ondate di ridimensionamenti. Anziché
esultare per essere scampati alla falcidia di licenziamenti, i lavoratori superstiti
attendevano mestamente di essere spazzati via dal successivo colpo di mannaia»23.
Certo, la lotta per la sopravvivenza non è un destino esclusivo dei lavoratori, o,
più specificamente, dei soggetti passivi del mutato rapporto spazio/tempo. Essa penetra
da cima a fondo l’azienda – sempre più magra e ossessionata dalla dieta – tipica della
modernità leggera. Per restare vivi i dirigenti devono ridurre il numero di addetti
al personale; gli alti funzionari devono ridurre il numero di cariche direttive per
guadagnarsi il riconoscimento della borsa valori, conquistare voti degli azionisti
e assicurarsi il diritto alla buonuscita. Una volta avviata, la tendenza al «dimagrimento»
sviluppa un proprio moto indipendente. Essa tende ad autoalimentarsi e accelerare,
e (come gli imprenditori perfezionisti di Max Weber che non ebbero più bisogno delle
esortazioni di Calvino a pentirsi al fine di andare avanti) il motivo originario –
l’aumento di efficienza – diventa sempre più irrilevante; la paura di perdere nella
partita della competizione, di essere sopraffatti, sopravanzati, o messi fuori mercato
è più che sufficiente a far andare avanti il gioco della fusione/ridimensionamento.
Un gioco che va sempre più diventando un fine in sé e un premio di per sé; o piuttosto,
il gioco non necessita più di alcun fine allorché suo unico premio è il restare in
gioco.
Vivere all’istante
Richard Sennett è stato per un certo numero di anni un attento osservatore della Conferenza
mondiale dei ricchi e potenti svoltasi annualmente a Devos. Il tempo e il denaro spesi
per recarvisi erano ottimamente ripagati. Sennett tornava dalle sue trasferte con
parecchie e straordinarie illuminazioni sui moventi e i tratti caratteriali che tenevano
in gioco gli odierni protagonisti della partita globale. A giudicare dal suo resoconto24, egli restò particolarmente impressionato dalla personalità, dal successo e dalla
pubblicamente espressa filosofia di vita di Bill Gates, il quale, osserva Sennett,
«sembra scevro dall’ossessione di mantenere il controllo delle cose. Laddove un Rockefeller
desiderava possedere impianti petroliferi, edifici, macchinari o strade ferrate in
un’ottica di lungo periodo, i prodotti di Gates irrompono freneticamente sul mercato
e altrettanto velocemente scompaiono». Gates sostenne ripetutamente che preferiva
«spaziare in una rete di possibilità anziché paralizzarsi in un solo lavoro specifico».
Ciò che sembra aver maggiormente colpito Sennett fu l’impunita, esplicita e finanche
fiera determinazione di Gates a «distruggere ciò che ha fatto, a seconda delle domande
del momento immediato». Egli appariva un giocatore che «prospera nella dislocazione».
Era attento a non sviluppare alcuna forma di coinvolgimento (particolarmente di tipo
sentimentale) o impegno duraturo a niente, comprese le sue creature. Non aveva alcuna
paura di imboccare una strada sbagliata dal momento che nessuna direzione presa sarebbe
durata a lungo e che fare marcia indietro o cambiare rotta restava per lui un’opzione
costantemente aperta. Potremmo dire che, eccezion fatta per la sempre più ampia gamma
di opportunità possibili, niente altro andava accumulandosi o maturando lungo il suo
percorso di vita; i binari venivano continuamente smantellati non appena la locomotiva
si allontanava di qualche chilometro, le orme cancellate, ogni cosa smembrata con
la stessa rapidità con cui era stata assemblata, e subito dimenticata.
Anthony Flew cita uno dei personaggi interpretati da Woody Allen: «Non voglio acquisire
l’immortalità grazie alle mie opere, voglio acquisire l’immortalità non morendo mai»25. Ma il significato dell’immortalità è subordinato al senso che si dà alla vita mortale;
il voler «non morire mai» è non tanto la scelta di un’altra forma di immortalità (un’alternativa
all’«immortalità attraverso le proprie opere»), quanto una dichiarazione di disinteresse
per la durata eterna a favore del carpe diem. L’indifferenza alla durata trasforma l’immortalità da un’idea in un’esperienza e
la rende un oggetto di consumo immediato: è il modo in cui vivi il momento che trasforma
quel momento in una «esperienza immortale». Se l’«infinito» sopravvive alla trasmutazione,
è solo come un’unità di misura della profondità o intensità dell’Erlebnis. La sconfinatezza di sensazioni possibili prende il posto lasciato vuoto nei sogni
dalla durata infinita. L’istantaneità (annullando la resistenza dello spazio e liquefacendo
la materialità degli oggetti) fa apparire ciascun momento infinitamente capace, e
la capacità infinita significa che non esistono limiti a quanto è possibile ottenere
da ciascun momento, per quanto «fugace» possa essere.
Il «lungo periodo», sebbene ancora menzionato per abitudine, è un guscio vuoto privo
di significato; se l’infinito, come il tempo, è istantaneo, inteso a essere usato
sul posto e buttato via immediatamente, allora «più tempo» può aggiungere ben poco
a ciò che il singolo momento ha già offerto. Le considerazioni «di lungo periodo»
non hanno granché senso. Se la modernità solida elevava la durata eterna a principale
stimolo e principio operativo, la modernità fluida non le assegna alcuna funzione.
Il «breve periodo» ha sostituito il «lungo periodo» ed eletto l’istantaneità a proprio
ideale supremo. Se da un lato la modernità fluida promuove il tempo al rango di contenitore
infinitamente capace, dall’altro ne dissolve – denigra e svaluta – la durata.
Più di vent’anni fa Michael Thompson pubblicò un pionieristico studio sul tortuoso
destino storico della distinzione durevole/effimero26. Gli oggetti «durevoli» sono progettati per essere preservati nel tempo; sono ciò
che più si avvicina all’incarnazione dell’altrimenti astratta ed eterea nozione di
eternità; di fatto, è dalla supposta o immaginata perpetuità dei «beni durevoli» che
viene estrapolata l’immagine dell’eternità. Gli oggetti durevoli vengono investiti
di un valore speciale e sono amati e ricercati per la loro associazione con l’immortalità,
quel valore ultimo, «naturalmente» desiderato e che non necessita di alcuna tesi o
opera di persuasione per essere abbracciato. Il contrario di questi sono gli oggetti
«effimeri», di pronto consumo e che svaniscono una volta consumati. Thompson sostiene
che «coloro che stanno in alto [...] possono far sì che i propri oggetti siano sempre
durevoli e quelli altrui sempre effimeri [...]. Non possono mai perdere». Egli dà
per scontato che il desiderio di «rendere i propri oggetti durevoli» sia comune a
tutti «coloro che stanno in alto»; e forse anche che tale capacità di rendere gli
oggetti durevoli, di ammassarli, tenerli, proteggerli dal furto e dalla spoliazione,
e soprattutto di monopolizzarli, sia ciò che porta tali persone «in alto».
Queste considerazioni erano vere (o almeno credibili) nell’ambito delle realtà della
modernità solida. Ritengo tuttavia che l’avvento della modernità fluida abbia radicalmente
scardinato tale credibilità. È la capacità alla Bill Gates di accorciare l’arco di
tempo della durabilità, di gettare nel dimenticatoio il «lungo periodo», di incentrarsi
sulla manipolazione dell’effimero anziché del duraturo, di disfarsi delle cose senza
pensarci troppo su per fare spazio ad altre cose parimenti transitorie e parimenti
intese a un consumo immediato, che rappresenta oggi il privilegio dei potenti e che
li rende tali. Restare abbarbicati alle cose per lungo tempo, oltre la loro ravvicinata
«data di scadenza» e oltre il momento in cui è possibile «aggiornarle» con versioni
«nuove e migliori», è, viceversa, sintomo di privazione. Una volta che l’infinità
delle possibilità spoglia l’infinità del tempo di tutto il suo potere di seduzione,
la durabilità perde la propria attrattiva e si trasforma da vantaggio in handicap.
Si potrebbe dire più precisamente che il confine stesso che divide il «durevole» dall’«effimero»,
un tempo oggetto di aspre contese e di fervore ingegneristico, è oggi stato pressoché
abbandonato dalle guardie confinarie e dagli eserciti di produttori.
La svalutazione dell’immortalità non può che preconizzare uno sconvolgimento culturale,
probabilmente il punto di svolta più cruciale nella storia culturale dell’umanità.
Il passaggio dal capitalismo pesante a quello leggero, dalla modernità solida a quella
liquida, potrebbe rivelarsi una frattura più radicale e gravida di conseguenze dello
stesso avvento del capitalismo e della modernità, in passato considerati gli spartiacque
di gran lunga più significativi della storia umana quanto meno a partire dalla rivoluzione
neolitica. Di fatto, in tutta la storia dell’umanità l’opera svolta dalla cultura
è consistita nel setacciare e far sedimentare granelli di perpetuità dalla fugacità
delle vite umane e dalla transitorietà delle azioni umane, nell’evocare durata dalla
fugacità, continuità dalla discontinuità, e nel trascendere di conseguenza i limiti
imposti dalla mortalità umana ponendo uomini e donne mortali al servizio delle specie
umane immortali. La richiesta di questo genere di lavoro va oggigiorno riducendosi.
Le conseguenze di tale calo di domanda restano ancora da vedere e sono difficili da
visualizzare in anticipo, non essendoci precedenti cui fare riferimento.
La neoacquisita istantaneità del tempo cambia radicalmente le modalità di coabitazione
umana, e in particolare il modo in cui gli esseri umani regolano (o non regolano)
i loro affari collettivi, o piuttosto il modo in cui rendono (o non rendono) collettivi
determinati affari.
La «teoria della scelta pubblica» che attualmente sta compiendo progressi da gigante
nel campo delle scienze politiche ha afferrato appieno tale nuovo mutamento (sebbene
– come spesso accade quando nuove consuetudini aprono nuovi orizzonti all’immaginazione
umana – si sia affrettata a generalizzare sviluppi relativamente recenti in una verità
eterna della condizione umana, suppostamente dimenticata, ignorata o mascherata da
«tutta la cultura passata»). Secondo Gordon Tullock, uno dei più eminenti fautori
della nuova tendenza teorica, «Il nuovo approccio parte dal postulato che gli elettori
siano simili ai clienti e che i politici siano uguali ai commercianti». Scettico sul
valore dell’approccio della «scelta pubblica», Leif Lewin ha causticamente replicato
che gli esponenti della teoria della «scelta pubblica» «dipingono il politico come
[...] un miope cavernicolo». Lewin ritiene che ciò sia completamente errato. Potrebbe
anche essere stato vero nell’era dei trogloditi, «prima che l’uomo ‘scoprisse il domani’
e imparasse a fare calcoli di lungo periodo», ma non oggi, nella nostra epoca moderna,
in cui tutti sanno, o la maggior parte di noi, elettori e politici, sa, che «domani
ci rincontreremo» e che dunque la credibilità è «il bene più prezioso di un politico»27 (mentre, potremmo aggiungere, il dare o meno fiducia è l’arma più frequentemente
impiegata dall’elettore). A sostegno della sua critica alla teoria della «scelta pubblica»,
Lewin fa riferimento a numerosi studi empirici, i quali dimostrano che ben pochi elettori
ammettono di votare pensando al portafoglio, mentre la maggioranza di essi dichiara
che a guidare il loro comportamento in cabina elettorale è lo stato del paese in generale.
Questo è quanto c’era da attendersi, sostiene Lewin. Questo, affermerei piuttosto,
è ciò che gli elettori intervistati pensavano che ci si attendesse di sentire da loro
e ciò che sarebbe stato ovvio per essi dire. Tenendo in debito conto la nota disparità tra le nostre azioni e il
modo in cui le raccontiamo, non è possibile rifiutare in toto le affermazioni dei teorici della «scelta pubblica» (a prescindere dalla validità
universale ed estemporanea di tali affermazioni). In questo caso, la loro teoria avrebbe
potuto effettivamente guadagnarne in acume prendendo le distanze da quelli che sono
stati presi, acriticamente, per «dati empirici».
È vero che a un certo momento i cavernicoli «scoprirono il domani». Ma la storia è
tanto un processo di dimenticanza quanto di apprendimento, e si sa che la memoria
è selettiva. Forse «domani ci rincontreremo». Ma forse no, o forse il «noi» di domani
non sarà lo stesso di quello di ieri. Se ciò è vero, l’essere credibili e il dare
fiducia sono vantaggi o handicap?
Lewin ricorda la parabola dei cacciatori di cervi di Jean-Jacques Rousseau. Prima
che l’uomo «scoprisse il domani» – narra la storia – poteva capitare che un cacciatore,
anziché attendere pazientemente che il cervo spuntasse fuori dal folto della foresta,
si facesse distrarre dai morsi della fame e catturasse il primo coniglio che gli capitava
a tiro, nonostante la razione di carne che gli sarebbe toccata dalla caccia collettiva
del cervo sarebbe stata ben maggiore. Ed è proprio così. Oggi, tuttavia, succede che
ben pochi gruppi di cacciatori restano insieme per tutto il tempo che l’attesa e la
cattura del cervo richiedono, cosicché chiunque riponga la propria fiducia nei benefici
di un’impresa comune potrebbe restare fortemente deluso. E accade anche che, a differenza
dei cervi i quali, per essere intrappolati e presi, richiedono cacciatori che serrano
i ranghi, stanno a stretto contatto di gomito e agiscono in spirito di solidarietà,
i conigli adatti al consumo individuale sono molti e diversi e richiedono meno tempo
per essere uccisi, scuoiati e arrostiti. Anche queste sono scoperte, nuove scoperte, forse altrettanto pregne di conseguenze di quanto lo sia stato un tempo
la «scoperta del domani».
La «scelta razionale» nell’era dell’istantaneità significa perseguire la gratificazione e al contempo evitare le conseguenze, e in particolare le responsabilità che tali conseguenze implicano. Tracce durevoli
dell’odierna gratificazione compromettono le possibilità di gratificazioni future.
La durata si trasforma da un vantaggio in un handicap; lo stesso può dirsi a proposito
di tutto quanto è massiccio, solido e pesante: tutto ciò che ostacola e limita il
movimento. Il tempo delle fabbriche gigantesche e dei corpi obesi è finito; una volta
erano testimonianza del potere dei loro proprietari; oggi sono presagio di sconfitta
nella prossima tornata di accelerazione e dunque indicano impotenza. Corpi magri e
facilità di movimento, vestiti leggeri e scarpe da ginnastica, telefonini cellulari
(inventati a uso e consumo del nomade che deve essere «costantemente a tiro»), beni
portatili o usa-e-getta, sono i principali simboli culturali dell’era dell’istantaneità.
Peso e dimensione, e soprattutto il grasso (letterale o metaforico) associato all’espansione
di entrambi, subiscono la stessa sorte della durabilità. Sono i pericoli da tenere
a mente e combattere, e soprattutto da scansare.
È difficile concepire la cultura come qualcosa di indifferente all’eternità e che
rifugge la durabilità. Altrettanto difficile è concepire una moralità indifferente
alle conseguenze delle azioni umane e che rifiuta la responsabilità per le conseguenze
che tali azioni potrebbero avere sugli altri. L’avvento dell’istantaneità introduce
la cultura e l’etica umana in un territorio inesplorato e assente dalle cartine geografiche,
dove la gran parte delle consuetudini acquisite su come affrontare la vita hanno perso
senso e utilità. Come Guy Debord ha memorabilmente affermato: «L’uomo assomiglia ai
suoi tempi più di quanto assomigli a suo padre». E l’uomo odierno differisce da suo
padre in quanto vive in un presente «che vuole dimenticare il passato e non sembra
più credere nel futuro»28. Ma la memoria del passato e la fiducia nel futuro sono stati fino a oggi i due pilastri
su cui hanno poggiato i ponti culturali e morali tra fugacità e durabilità, mortalità
umana e immortalità delle azioni umane, nonché tra assunzione di responsabilità e
filosofia del carpe diem.