Il «welfare state» nell’epoca della globalizzazione economica: ciò che resta del «Panopticon»
di Bentham. Sorvegliare i poveri o aiutarli?
Citlali Rovirosa-MadrazoUna delle tesi avanzate più spesso per spiegare il crollo finanziario globale è che
la regolazione della nostra economia, soprattutto nel settore finanziario e bancario,
era inadeguata. Si è ampiamente ammesso che, con l’imtroduzione di politiche neoliberiste
in tutto il mondo, iniziata negli anni Ottanta (come lei ha ricordato poco fa) con
l’amministrazione Reagan e con il governo di Margaret Thatcher, lo Stato si è «ristretto»;
da quando è scoppiata la crisi, espressioni come «Stato snello», «Stato debole», «Stato
fantasma» e simili echeggiano su tutti i media. In realtà, già molto prima del 2008
lei è stato un pioniere dell’analisi politica dello «Stato assente» (e della «società
assente»), ed è continuamente ritornato sul tema, in particolare con Il disagio della postmodernità (1997) e Liquid Times (2007)1.
Ma ecco il paradosso, che sembra contraddire la tesi della regolazione insufficiente
e dello Stato assente: se guardiamo alle agenzie di quello che alcuni continuano a
chiamare welfare state, esse danno l’illusione di una presenza incontenibile e travolgente, sembrano contenere
organismi solidi e duri come l’acciaio, che producono una regolazione eccessiva. E
in effetti queste agenzie sono molto presenti nel ruolo di regolatori; coloro, ad
esempio, che, in Gran Bretagna o in altri paesi europei, si trovano a dover fare affidamento
sulle istituzioni della sicurezza sociale non sembrano avere molti dubbi sull’«intervento»
dello Stato. Il welfare state appare un meccanismo solido e altamente strutturato per la riproduzione della gerarchia
sociale e di classe. E questo complesso lavoro di ingegneria sociale implica una regolazione
sia macro sia micro che nel sistema della sicurezza sociale, a differenza di quella
che secondo alcuni servirebbe a dare più forza allo Stato nei confronti del settore
finanziario e bancario, è organizzata meticolosamente e fino all’ultimo dettaglio:
in questa struttura nessuno deve essere «pagato». Non si intravede alcuna generosa
e compassionevole «mano invisibile» che accorra in aiuto di chi riceve i «benefici»;
non si prospetta alcun «salvataggio» per chi dipende dai «sussidi di disoccupazione»
o da altri emolumenti della sicurezza sociale: provate a tenere una sola sterlina
più di «ciò che occorre per vivere secondo la legge» (sic) e sarete legalmente perseguiti. La domanda è: si tratta di semplici incongruenze,
giustapposizioni e paradossi? L’«impossibilità dello Stato» è una spia del fallimento
o del successo dello Stato? L’iperregolazione delle agenzie della sicurezza sociale
– che si contrappone alla scarsa regolazione in campo finanziario e bancario – attesta
la natura classista dello Stato e il suo ruolo nella riproduzione delle gerarchie
e delle ineguaglianze sociali, oppure, più semplicemente, ci troviamo di fronte a
uno Stato che «è» ma forse «non esiste» (che un momento si vede e un attimo dopo scompare)?
Zygmunt BaumanIl contesto cui lei si riferisce non è lo «Stato sociale», nome che ho proposto di
dare al welfare state nelle intenzioni e prassi delle origini. Nonostante la continuità organizzativo-burocratica
con lo Stato sociale e l’evidente somiglianza di clientela, quello che lei ha descritto
è, come si suol dire, «tutto un altro paio di maniche».
Lo Stato sociale, così come fu originariamente concepito da Bismarck in Germania o
da Lloyd George in Gran Bretagna, era stato progettato per promuovere gli interessi
vitali della società di produttori/soldati e assicurarne un funzionamento senza problemi.
Quella società misurava la propria forza sul numero di maschi fisicamente abili in
grado di affrontare e reggere le sfide della fabbrica e del campo di battaglia. Anche
quando non erano in servizio attivo (disoccupati o riservisti) essi dovevano essere
pronti a rientrare nei ranghi nell’eventualità che la loro capacità di lavoro o di
combattimento si rendesse necessaria: dovevano essere adeguatamente nutriti, vestiti
e alloggiati, essere in buona salute e vivere in condizioni adatte a conservarla.
In una società di produttori/soldati dedicare risorse pubbliche a sostenere i costi
di tutto ciò era un buon investimento (o meglio un investimento necessario), era un
tema «oltre la destra e la sinistra», approvato quasi universalmente, anche se a malincuore.
Le battaglie dei sindacati per ottenere l’assicurazione statale contro i rigori della
povertà e della disoccupazione e la predicazione e pressione della parte più moralmente
sensibile dell’opinione pubblica non sarebbero servite a nulla se allo «Stato sociale»
non fosse stato riconosciuto, apertamente o tacitamente, un ruolo che consisteva in
quella che a posteriori Jürgen Habermas ha definito la «rimercificazione del capitale
e del lavoro», che assicurava la capacità e volontà del capitale di acquistare lavoro
e l’attrattività del lavoro per i suoi acquirenti, e che era l’attività cruciale dello
Stato, senza cui il capitalismo a lungo andare non sarebbe sopravvissuto.
Ora che ci allontaniamo dall’epoca delle conquiste territoriali e dell’industria di
massa («fordista»), i poveri non sono più considerati riservisti dell’industria e
delle forze armate da tenere in buone condizioni affinché possano essere richiamati
al servizio attivo in qualsiasi momento. Oggi investire nei poveri non è un «investimento
razionale». Essi sono una passività permanente, non un potenziale attivo. Le probabilità
che «rientrino nei ranghi» dell’industria sono scarse e i nuovi eserciti professionali,
piccoli e tirati a lucido, non hanno bisogno di carne da cannone. Il «problema dei
poveri», una volta visto come questione sociale, è stato in gran parte ridefinito
in termini di legge e ordine. È chiara la tendenza a «criminalizzare» la povertà,
come testimonia l’avvento del termine «sottoclasse» al posto di espressioni come classi
«inferiori», «lavoratrici» o «indigenti»: a differenza di queste, il concetto underclass suggerisce l’esistenza di una categoria non solo al di «sotto» delle altre classi,
ma al di fuori del sistema stesso delle classi, ossia della società. Lo Stato non
dedica più le sue attenzioni alla povertà con lo scopo primario e fondamentale di
tenere in buone condizioni i poveri, ma con quello di sorvegliarli e di evitare che
facciano danni o che creino problemi, controllandoli, osservandoli e disciplinandoli.
Le agenzie che si occupano dei poveri e degli oziosi non sono una prosecuzione dello
«Stato sociale»; sono, in tutto salvo il nome, le ultime vestigia del Panopticon di
Jeremy Bentham, o una versione aggiornata degli ospizi che precedettero l’avvento
del welfare state. Sono veicoli di esclusione assai più che di inclusione; strumenti per tenere non
dentro ma fuori chi è povero (e dunque difettoso come consumatore in una società di
consumatori).
Su un punto vorrei essere chiaro: ciò non denota alcuna «schizofrenia dello Stato»,
e nemmeno, come lei ipotizza, una «impossibilità dello Stato». Le politiche dello
Stato moderno, ispirate, oggi come ieri, all’«interesse dell’economia», quale che
sia, sono oggi, come erano ieri, «risposte razionali» adattate alla mutata condizione
della società. Lo «Stato sociale», che nella società dei produttori era di casa, nella
società dei consumatori è diventato un corpo estraneo e un ospite importuno. Non esistono
o quasi forze sociali disposte a sostenere questa idea, e tanto meno a mobilitarsi
per imporla e difenderla. Nella società dei consumatori la cura della sopravvivenza
e del benessere della maggior parte di noi è stata «sussidiarizzata» dallo Stato alle
preoccupazioni, risorse e capacità individuali. Ciò che oggi si definisce erroneamente
welfare state è un meccanismo che si occupa di quella parte residuale di individui incapaci di
assicurarsi la sopravvivenza perché privi di risorse adeguate. È un’agenzia che serve
a censire, separare ed escludere queste persone e a tenerle escluse e isolate ermeticamente
dalla parte «normale» della società. Ciò che questa agenzia gestisce è molto simile
a un ghetto senza mura, a un campo senza filo spinato (ma fitto di torrette d’osservazione!).
CRMIn Il disagio dellapostmodernità e in Vite di scarto2 lei ha preso in esame il fenomeno che ha definito «criminalizzazione della povertà».
Ha acutamente spiegato come il discorso sul welfare sia stato derubricato da cultura dei diritti dei cittadini a cultura della carità,
dell’umiliazione e del disonore3. Ha descritto efficacemente l’effetto che hanno avuto per la nostra vita la deregolazione
dell’economia e la globalizzazione economica; ha inesorabilmente e dolorosamente illustrato
come la «privatizzazione radicale del destino umano si accompagni da vicino alla deregolazione
radicale dell’industria e della finanza»4, e ha analizzato l’aumento del numero di esseri umani che vivono nella privazione.
La domanda è: la deregulation è l’unico problema, oppure l’incendio è aggravato da regole del gioco che cambiano
in continuazione, oscillando in modo pendolare tra regolazione e deregolazione? Le
agenzie che lei ha menzionato, che gestiscono qualcosa di «molto simile a un ghetto
senza mura, a un campo senza filo spinato (ma fitto di torrette d’osservazione!)»,
credo svolgano anche un ruolo nella ri-produzione e nel riciclaggio della povertà
e della gerarchia di classe. A questo punto ho l’impressione che lei, pur avendo idee
provocatorie su queste istituzioni, abbia mantenuto un certo grado di speranza idealistica
nel welfare state delle origini e ci esorti a vedere in quest’ultimo uno «Stato sociale», una «polizza
assicurativa collettiva». Mi sembra di cogliere una certa ambiguità nel modo in cui
lei guarda al welfare state nella sua versione originaria, ricevuta in eredità dalla Gran Bretagna del dopoguerra.
Non so se ciò dipenda da come lei lo vede (dando a intendere, in particolare in The Absence of Society,che non «possiamo lasciarlo andare») o se non voglia segnalare che il welfare state non ha ancora completato la propria transizione alla liquidità. Forse ciò accade
perché, come ho affermato sopra, abbiamo agenzie di sicurezza sociale solide e ferree
che iperregolano, e al tempo stesso «si ritirano» e «rischiano di estinguersi» via
via che subiscono tagli sempre più drastici? Che cosa abbiamo di fronte? Semplici
paradossi, incongruenze o mutazioni incomplete?
ZBL’ha detto in modo eccellente: paradossi, incongruenze o mutazioni incomplete? In
ogni cosa che facciamo (nell’esistenza individuale come nella storia) non partiamo
mai da zero. Il sito su cui costruiamo è sempre ingombro: il passato indugia in quello
stesso «presente» in cui il futuro cerca (a volte intenzionalmente, ma molto spesso
furtivamente e surrettiziamente) di mettere radici. Ogni continuità è zeppa di discontinuità;
nessuna discontinuità («rottura», inversione a U, «nuovo inizio») è priva di residui
e vestigia dello status quo ante. Adorno giustamente avvertiva che quando cerchiamo di rendere i nostri modelli coerenti,
armoniosi, eindeutig, «puri» ed eleganti sul piano logico (come tendiamo a fare, e non possiamo farne
a meno, ogni volta che teorizziamo) attribuiamo alla realtà, senza avvedercene, più
razionalità di quanta effettivamente abbia e possa avere. Per questo qualsiasi modello
teorico è un’utopia (intesa non necessariamente come «società buona», ma certamente
come «non luogo»). I nostri modelli teorici riescono a respirare e a muoversi liberamente
solo nell’habitat degli uffici accademici, delle aule dei seminari e dei convegni
scientifici, e si fermano solo quando si cristallizzano nella stampa o si registrano
in un video. D’altra parte il disordine dei nostri schemi, per quanto appaia sgradevole
e offensivo a una mente logica, a volte è frutto di disordine e sciatteria di pensiero,
ma spesso riproduce in modo equilibrato e fedele il disordine degli oggetti che descriviamo.
Ma torniamo all’oggetto della nostra attenzione: il welfare state (o «Stato sociale») e la sua difficile situazione. Vorrei puntualizzare subito che
l’idea di «Stato sociale» racchiudeva fin dall’inizio una contraddizione che lo rendeva
simile a una quadratura del cerchio. Tale idea mirava a coniugare libertà e sicurezza,
i due valori che sono in pari misura indispensabili a una vita soddisfacente o anche
solo accettabile, ma tra cui esiste notoriamente un reciproco rapporto di «amore-odio»:
ciascuno dei due non può vivere senza l’altro, ma non può neanche vivere pacificamente
e serenamente con l’altro. Come sappiamo, lo «scambio» tra libertà e sicurezza è stato
descritto da Freud. A suo avviso la sicurezza può essere accresciuta solo riducendo
la libertà, e a sua volta diminuisce quando la libertà aumenta. L’idea di Stato sociale
intendeva superare questa regola: ma è possibile?
La nostra era moderna è iniziata con la scoperta della «assenza di Dio». Il carattere
apparentemente casuale del destino (la mancanza cioè di un nesso visibile tra fortuna
e virtù, e tra disgrazia e vizio) fu assunto a prova del fatto che Dio non interviene
attivamente nel mondo che ha creato, ma lascia le faccende umane alle preoccupazioni
degli uomini e ai loro sforzi (erculei e sovrumani). Il vuoto apertosi così ai posti
di controllo del mondo doveva essere riempito dalla società degli uomini che tentava
di sostituire il cieco fato con la «regolazione normativa» e l’insicurezza dell’esistenza
con il governo della legge, e che intendeva assicurare chiunque ne facesse parte contro
i rischi dell’esistenza e le disgrazie individuali. Tale intenzione ha trovato la
sua manifestazione più completa in quell’ordinamento sociale comunemente detto welfare state.
Più di ogni altra cosa, il welfare state (che, ripeto, preferisco chiamare «Stato sociale», spostando l’accento dalla distribuzione
di benefici materiali alle sue motivazioni e finalità condivise) era un’organizzazione
per la convivenza umana che sembra inventata appositamente per evitare la tendenza
attuale a spezzare le reti di legami tra gli uomini e a minare le basi sociali della
solidarietà – tendenza innescata, rafforzata ed esasperata dall’impulso alla «privatizzazione»,
nome in codice della promozione di schemi sostanzialmente anticomunitari e individualizzanti
tipici dello stile consumistico, che pongono gli individui in concorrenza l’uno con
l’altro. Mentre lo «Stato sociale» tendeva a unire i suoi membri nel tentativo di
proteggere tutti e ciascuno dagli effetti moralmente devastanti della «guerra di tutti
contro tutti» e dell’«arrivismo», la «privatizzazione» trasferisce sulle spalle di
ogni individuo (di solito troppo debole per riuscirci, a causa soprattutto di capacità
inadeguate e risorse insufficienti) il compito di affrontare e (magari) risolvere
i problemi prodotti dalla società.
Uno Stato è «sociale» quando promuove il principio dell’assicurazione collettiva avallata
dalla comunità contro le disgrazie individuali e le loro conseguenze. È quel principio
(dichiarato, realizzato e reputato efficace e affidabile) ciò che innalza la «società
immaginata» a comunità «reale» – ossia concretamente sentita e vissuta –, sostituendo
così (per riprendere le parole di John Dunn) all’«ordine dell’egoismo», che genera
sfiducia e sospetto, l’«ordine dell’uguaglianza», che ispira fiducia e solidarietà.
È lo stesso principio a innalzare i membri della società allo status di cittadini, rendendoli stakeholder oltre che stockholder, compartecipi oltre che azionisti: beneficiari sì, ma anche responsabili della creazione
dei benefici e della loro corretta allocazione; cittadini definiti e animati da un
forte interesse come comproprietari e corresponsabili della rete di istituzioni pubbliche
su cui possono fare affidamento a garanzia della solidità e affidabilità della «polizza
d’assicurazione collettiva» emessa dallo Stato.
L’applicazione di tale principio può proteggere (come spesso accade) gli uomini e
le donne dalle tre piaghe della povertà, dell’impotenza e del degrado; ma la cosa
più importante è che può diventare (come in linea di massima accade) fonte abbondante
di solidarietà sociale, capace di convertire la «società» in bene comune, comunitario.
La società può elevarsi a comunità solo finché protegge efficacemente i suoi membri
contro gli orrori gemelli della miseria e dell’umiliazione, del terrore di essere
esclusi, di cadere, o essere spinti, fuori dal treno del progresso, che accelera sempre
più, di essere condannati alla «ridondanza sociale» o comunque marchiati come «rifiuti
umani».
Nelle intenzioni originarie lo «Stato sociale» doveva essere un assetto finalizzato
proprio a questo. Lord Beveridge, cui dobbiamo il modello del welfare state britannico del dopoguerra, non era socialista ma liberale. Egli riteneva che la sua
visione di un’assicurazione ad ampia copertura e avallata dalla collettività per chiunque
fosse conseguenza inevitabile e complemento indispensabile dell’idea liberale della
libertà individuale, oltre che condizione necessaria della democrazia liberale. La
dichiarazione di guerra alla paura fatta da Franklin Delano Roosevelt si basava sullo
stesso presupposto, che doveva valere anche per la pionieristica indagine di Joseph
Seebohm Rowntree sulla dimensione e sulle cause della povertà e del degrado dell’uomo.
La libertà di scelta implica, in fin dei conti, rischi d’insuccesso innumerevoli e
incalcolabili, che molti troveranno insopportabili, temendo di non farcela ad affrontarli.
Per la maggior parte delle persone l’idea liberale della libertà di scelta resterà
un fantasma inafferrabile e un sogno vano, a meno che la paura della sconfitta non
sia attenuata da una polizza assicurativa emessa a nome della comunità: una polizza
degna di fiducia e affidabile in caso di insuccesso personale o di disgrazia.
Se la libertà di scelta è concessa in teoria ma irraggiungibile in pratica, al dolore
della disperazione si aggiunge l’onta della sfortuna. Mettere quotidianamente alla
prova la propria capacità di far fronte alle sfide dell’esistenza è in fin dei conti
il laboratorio in cui si consolida o si dissolve la fiducia degli individui in se
stessi, e con essa la loro autostima. Da uno Stato politico che non sia o non voglia
essere anche Stato sociale non ci si può attendere aiuto contro l’indolenza o l’impotenza
individuale. Senza diritti sociali per tutti un numero elevato e probabilmente crescente
di persone vedrà nei propri diritti politici qualcosa di inutile che non merita attenzione.
I diritti politici sono necessari per porre in essere i diritti sociali, e questi
ultimi sono indispensabili per rendere «reali» i diritti politici e garantirne il
funzionamento. Gli uni hanno bisogno degli altri per sopravvivere, e possono farlo
solo insieme.
Lo Stato sociale è stato la massima incarnazione moderna dell’idea di comunità, ossia
la concretizzazione istituzionale di quest’idea nella sua forma moderna di «totalità
immaginata» intessuta della consapevolezza e dell’accettazione di reciproca dipendenza,
impegno, fedeltà, solidarietà e fiducia. Di quella totalità immaginata i diritti sociali
si possono considerare le manifestazioni concrete ed «empiricamente date», che ne
collegano la nozione astratta alle realtà quotidiane e trapiantano l’immaginazione
nel terreno solido dell’esperienza quotidiana. Questi diritti certificano la veridicità
e il realismo della fiducia reciproca tra le persone e della fiducia dell’individuo
nella rete istituzionale condivisa che avalla e convalida la solidarietà collettiva.
L’«appartenenza» si traduce in fiducia nei benefici della solidarietà umana e delle
istituzioni che derivano da tale solidarietà e dalla promessa di porsi al suo servizio
e renderla affidabile. Come si affermava chiaramente nel programma socialdemocratico
svedese del 2004, «Ognuno di noi, in un qualche momento, è fragile. Abbiamo bisogno
gli uni degli altri. Viviamo la nostra vita qui e ora, insieme agli altri, e ci troviamo
nel mezzo del cambiamento. Saremo tutti più ricchi se a ciascuno di noi sarà consentito
partecipare e se nessuno verrà escluso. Saremo tutti più forti se ci sarà sicurezza
per tutti e non solo per alcuni».
Come la capacità di carico di un ponte è misurata dalla forza del pilone più debole
e cresce con essa, la fiducia e l’inventiva di una società sono misurate dalla sicurezza
e dall’inventiva della sua parte più debole e crescono di pari passo con queste. La
giustizia sociale e l’efficienza economica, la fedeltà alla tradizione dello Stato
sociale e la capacità di modernizzarsi rapidamente e senza danneggiare seriamente
la coesione sociale e la solidarietà non sono, e non devono essere, in conflitto.
Al contrario, come ha dimostrato la prassi dei paesi nordici, «la ricerca di una società
più coesa è la precondizione necessaria di una modernizzazione consensuale». Questo
modello scandinavo ormai non è altro che un cimelio di passate speranze, un tempo
robuste ma ormai in gran parte frustrate.
Attualmente, tuttavia, sembriamo («noi» che viviamo nei paesi sviluppati, ma anche
nella maggior parte dei paesi «in via di sviluppo», sottoposti alla pressione concertata
dei mercati, del Fondo monetario e della Banca mondiale) andare in direzione opposta:
le «totalità» – società e «comunità» reali, o anche solo immaginate – sono sempre
più «assenti». La sfera dell’autonomia individuale si espande, ma viene sempre più
gravata da funzioni di cui un tempo era responsabile lo Stato, ma che ormai sono state
cedute («sussidiarizzate») agli individui. Gli Stati non avallano più la polizza collettiva,
lasciando agli individui il compito di conquistarsi il benessere e un futuro sicuro.
All’individuo, sempre più costretto a fare affidamento solo sulle risorse e sulla
propria perspicacia, si chiede di trovare soluzioni individuali a problemi generati
dalla società, e di farlo individualmente, utilizzando capacità e doti personali.
Questa esigenza pone gli individui in competizione tra loro e fa sì che la solidarietà
collettiva (se non assume la forma di alleanze e convenienze temporanee, di legami
umani che si stringono e si sciolgono a richiesta e «senza implicazioni») appaia sostanzialmente
irrilevante o addirittura controproducente. Mettere le persone in questa situazione,
se essa non viene corretta da un deciso intervento istituzionale, rende ineluttabile
una differenziazione delle opportunità individuali, e fa sì che questo processo di
polarizzazione delle prospettive e possibilità si autoalimenti e acceleri sempre più.
Gli effetti di questa tendenza erano facilmente prevedibili, e sono ormai persino
misurabili. In Gran Bretagna dal 1982 la quota di prodotto nazionale lordo percepito
dall’un per cento più ricco della popolazione è raddoppiata, passando dal 6,2 al 13
per cento, mentre i redditi dei capi delle aziende facenti parte dell’indice Ftse100
sono non più, come nel 1980, 20 volte, ma 133 volte superiori alla media dei dipendenti
di quelle stesse aziende (e la recente «crisi del credito» non ha certo modificato
la situazione).
Ma non finisce qui. Grazie alla nuova rete di «autostrade dell’informazione» ogni
individuo – uomo o donna, adulto o bambino, ricco o povero – è invitato (o meglio
costretto, date la ben nota sovrabbondanza, ubiquità e invadenza dei media) a porre
a confronto la propria sorte individuale con quella di ogni altro individuo, e in
particolare con quella di idoli pubblici e celebrità che vengono consumati senza risparmio
e sono costantemente sotto le luci della ribalta, sugli schermi televisivi e sulle
prime pagine dei tabloid e delle riviste patinate; egli finisce così per commisurare
a questa opulenza ostentata i valori che rendono la vita degna di essere vissuta.
Allo stesso tempo, ecco un’altra «incongruenza»: le prospettive realistiche di vivere
una vita soddisfacente rimangono fortemente divaricate, ma gli standard sognati e
i segni cui tutti aspirano tendono ad allinearsi; la forza propulsiva del comportamento
non è più il desiderio più o meno realistico di «stare al passo con i Jones», ma l’idea,
terribilmente vaga, di «stare al passo con le celebrità», di mettersi alla pari con
top model, calciatori professionisti e cantanti da hit parade. Come ha sostenuto di
recente Oliver James, fomentando «aspirazioni irrealistiche e l’aspettativa di poterle
realizzare» si forma una miscela molto tossica; eppure, vaste aree della popolazione
britannica credono che chiunque «possa diventare ricco e famoso» o possa diventare
«come Alan Sugar o Bill Gates, anche se dagli anni Settanta a oggi la possibilità
che ciò accada realmente è diminuita»5.
Dove ci porta tutto questo? Una lezione appare ogni giorno più chiara. Vivere nelle
società «regolamentate» e in quelle «deregolamentate» differisce per molti aspetti,
ma non dal punto di vista della quantità di felicità e dell’esenzione dall’infelicità
(passata o prevedibile). Entrambi i tipi di società hanno i loro generi di sofferenze,
di angosce e di paure.
Sappiamo ormai che la deregulation, promossa all’insegna dell’aumento della libertà e dell’emancipazione dell’ardimento
e dell’iniziativa dell’uomo dai lacci e lacciuoli che limitano i suoi movimenti e
la sua libertà di scelta, ha finito per produrre, da parte di chi fino a ieri la promuoveva,
un coro di elogi per l’intervento dello Stato e per il salvataggio forzato e «servoassistito»
dal disastro innescato da libertà non regolate. La deregulation sta diventando quasi una parolaccia, mentre le parolacce di ieri – come spesa pubblica,
iniziativa statale, regolazione forzata e persino nazionalizzazione – vengono ripulite
in tutta fretta dalla sporcizia che vi si era depositata nel trentennio dell’«emancipazione».
Al momento nessuno è in grado di dire quanto durerà questa svolta sorprendente, ma
per ora il pendolo si muove in direzione opposta rispetto alla logica della «deregolamentazione».
Tuttavia, come abbiamo imparato studiando fisica a scuola, con ogni oscillazione l’energia
«cinetica» (che fa muovere il pendolo) tende a diminuire, mentre aumenta l’energia
«potenziale» (che si trasformerà in «cinetica» allorché il pendolo cambierà direzione).
Tale regola sembra applicarsi a qualsiasi pendolo, ivi compresi quelli che oscillano
tra regole e assenza di regole o tra sicurezza e libertà...