La cultura dell’offerta
La cultura, nella sua fase liquido-moderna, è fatta per così dire a misura della libertà
di scelta individuale (volutamente ricercata o subita come obbligo). È destinata a
servire alle esigenze di questa libertà. A garantire che la scelta rimanga inevitabile:
una necessità di vita e un dovere. E che la responsabilità, compagna inseparabile
della libera scelta, rimanga là dove la condizione liquido-moderna le ha imposto di
stare: a carico dell’individuo, ormai nominato amministratore unico della «politica
della vita».
La cultura di oggi è fatta di offerte, non di norme. Come ha notato Pierre Bourdieu,
la cultura vive di seduzione, non di regolamentazione; di pubbliche relazioni, non
di controlli polizieschi; della creazione di nuovi bisogni/desideri/esigenze, non
di coercizione. Questa nostra società è una società di consumatori e anche la cultura,
come tutto il resto del mondo visto-e-vissuto dai consumatori, diventa un emporio
di prodotti destinati al consumo, ciascuno dei quali si trova in concorrenza con gli
altri per conquistare l’attenzione mutevole/vagante dei potenziali consumatori, nella
speranza di riuscire ad attrarla e a trattenerla per poco più di un attimo fuggente.
La strategia «giusta» (l’unica ragionevole?) è quella di abbandonare gli standard
troppo rigidi, compiacersi nel non fare distinzioni, accontentare tutti i gusti senza
privilegiarne uno, promuovere la saltuarietà e la «flessibilità» (nome politicamente
corretto per indicare l’assenza di spina dorsale) ed esaltare l’instabilità e l’incoerenza;
fare i pignoli, mostrarsi sorpresi e stringere i denti è vivamente sconsigliato. La
redattrice di un settimanale di «tendenza» ha raccomandato una trasmissione della
notte di San Silvestro del 2007 per la sua «vasta scelta di musica, in grado di soddisfare
l’appetito di ognuno». «Il suo pregio», ha spiegato, «è la sua attrattiva universale,
che consente di entrare e uscire a piacimento dal programma». Una qualità senza dubbio encomiabile e attraente in una società in cui le reti sostituiscono
le strutture, e all’attività di «fissare» e «definire» è subentrato il gioco dell’attaccarsi
e staccarsi, una serie di connessioni e disconnessioni senza fine.
La fase attuale della progressiva trasformazione dell’idea di «cultura» dalla sua
forma originaria, d’ispirazione illuministica, alla sua reincarnazione liquido-moderna
è stimolata e gestita dalle stesse forze che promuovono l’emancipazione dei mercati
dai residui vincoli di natura non-economica: sociale, politica ed etica e così via.
Per conquistarsi l’emancipazione l’economia liquido-moderna focalizzata sul consumatore
fa leva sull’eccesso delle offerte, sul loro invecchiamento sempre più rapido e sul
pronto dissolversi del loro potere di seduzione – il che, detto per inciso, fa di
essa un’economia della prodigalità e dello spreco. Poiché non c’è modo di sapere in
anticipo quale delle offerte risulterà abbastanza allettante da stimolare il desiderio
di consumo, l’unico modo per verificarlo richiede tentativi ed errori costosi. La
continua produzione di nuove offerte e il volume in ascesa costante di beni offerti
sono necessari anche per mantenere elevata la velocità di circolazione dei beni, per
rinfrescare costantemente il desiderio di sostituirli con beni «nuovi e migliorati»
e per evitare che l’insoddisfazione dei consumatori su singoli prodotti si rapprenda
in una disaffezione generale verso lo stile di vita consumistico in quanto tale.
Se il mondo popolato di consumatori somiglia ormai a uno di quei grandi magazzini
in cui si vende «tutto ciò che ti occorre e che riesci a sognare», la cultura si sta
trasformando in uno dei suoi reparti. Anche qui, come in altri reparti, gli scaffali
sono stracolmi di merci e vengono riforniti quotidianamente, e le casse sono adornate
dalla pubblicità delle nuove offerte, destinata a sparire ben presto con le attrattive
che promuove. Sia le merci che i messaggi pubblicitari sono pensati per suscitare
voglie e innescare desideri (per avere «il massimo impatto e un’obsolescenza istantanea»,
per citare la nota espressione di George Steiner). I commercianti e i pubblicitari
che le promuovono confidano nel connubio tra il potere seduttivo delle offerte e i
radicati istinti dei loro potenziali clienti a «essere un gradino sopra agli altri»
e ad «avere una marcia in più».
Diversamente dall’era della costruzione delle nazioni, la cultura liquido-moderna
non ha «persone» da «coltivare», ma clienti da sedurre. E, a differenza della cultura
«solido-moderna» che l’ha preceduta, non punta più a finire il lavoro (quanto prima,
tanto meglio). Il suo lavoro consiste anzi nel rendere permanente la propria sopravvivenza,
temporizzando tutti gli aspetti dell’esistenza di coloro che erano affidati alla sua
tutela, che rinascono ora come clienti.
La politica solido-moderna che consisteva nel fare i conti con la differenza, nell’assimilare
alla cultura dominante, nel privare gli estranei della loro estraneità, sebbene auspicata
da alcuni non è più sostenibile. Ma nemmeno le vecchie strategie di resistenza all’interazione
e fusione tra culture hanno probabilità di funzionare, per quanto siano preferite
da chi è affezionato alla rigida separazione e all’isolamento delle «comunità di appartenenza»
(più precisamente, delle comunità-di-appartenenza-per-nascita).
«L’appartenenza», afferma Jean-Claude Kaufmann, è oggi «utilizzata principalmente come risorsa dell’ego». Kaufmann sconsiglia di
pensare alle «collettività di appartenenza» necessariamente come «comunità integranti»,
e raccomanda piuttosto di concepirle come fenomeni che accompagnano il processo di
individualizzazione, come una serie di stazioni di servizio o di motel lungo la strada
che contrassegnano la traiettoria dell’io che si forma e riforma continuamente.
François de Singly fa giustamente notare che le teorizzazioni sulle identità di oggi farebbero bene ad abbandonare le metafore
delle «radici» e dello «sradicamento» (e, potremmo aggiungere, il tropo ad esse correlato
dell’«estirpazione»), che implicano un atto una tantum, definitivo e irreversibile
di emancipazione individuale dalla tutela della comunità di nascita, e a sostituirle
con le immagini del gettare e issare le ancore.
In effetti issare un’àncora, contrariamente allo «sradicare» e all’«estirpare», non
ha niente di irrevocabile, tanto meno di definitivo. Le radici, quando vengono divelte
dalla terra in cui si sono sviluppate, generalmente si disseccano e appassiscono,
uccidendo la pianta che nutrivano, e se questa rifiorisse ciò avrebbe del miracoloso;
al contrario, le ancore vengono issate solo nella speranza di poterle felicemente
gettare altrove; e possono essere gettate con la stessa facilità in tanti porti, diversi
e distanti tra loro. Inoltre, le radici disegnano e predeterminano la forma della
pianta che si svilupperà da esse ed escludono la possibilità di ogni altra forma;
le ancore, invece, sono soltanto strumenti ausiliari della nave e non nedefiniscono
caratteristiche e qualità. Il lasso di tempo che separa l’atto di gettare un’àncora
da quello di issarla di nuovo non è che un episodio nella rotta della nave. La scelta
del prossimo porto in cui gettare l’àncora dipenderà molto probabilmente dal tipo
di carico che la nave trasporta in quel momento; un porto adatto a un tipo di carico
potrebbe essere totalmente inadatto a un altro.
Tutto sommato, la metafora dell’àncora coglie ciò che sfugge alla metafora dello «sradicamento»:
l’intreccio di continuità e discontinuità nella storia di tutte le identità contemporanee,
o quanto meno di un loro numero crescente. Simili a navi che attraccano, frequentemente
o saltuariamente, in diversi porti, i vari io in cerca di riconoscimento e di conferma
della propria identità si sottopongono alla verifica e all’approvazione delle proprie
credenziali nelle «comunità di riferimento» cui chiedono di essere ammessi nel corso
del viaggio (che dura tutta la vita); e ogni «comunità di riferimento» definisce i
requisiti sul tipo di documentazione da presentare. Tra i documenti da cui dipende
l’approvazione vi sono di solito il registro della nave e/o il diario di bordo del
comandante, e a ogni fermata il passato (sempre più appesantito dagli atti dei precedenti
scali) viene nuovamente esaminato e valutato.
I.
La storia dell’istruzione ha conosciuto molti periodi critici durante i quali diveniva
evidente che premesse e strategie collaudate e apparentemente affidabili non facevano
più presa sulla realtà e richiedevano una revisione e riforma. L’attuale crisi, tuttavia,
appare diversa da quelle del passato. Le sfide odierne assestano duri colpi all’essenza
stessa dell’idea di istruzione così come si era formata agli inizi della lunga storia
della civiltà: esse chiamano in questione le invarianti di quell’idea, le caratteristiche
costitutive dell’istruzione che avevano resistito a tutte le sfide passate ed erano
emerse intatte da tutte le crisi precedenti, i presupposti che mai prima d’ora qualcuno
aveva messo in discussione né, tanto meno, pensato avessero fatto il loro tempo e
andassero sostituiti.
Nel mondo liquido-moderno la solidità delle cose, come la solidità dei legami umani,
è vista come una minaccia: qualsiasi giuramento di fedeltà, qualsiasi impegno a lungo
termine (tanto più se a tempo indeterminato) preannuncia un futuro gravido di obblighi
che limitano la libertà di movimento e riducono la capacità di cogliere nuove opportunità
(che ancora non si conoscono) non appena esse (inevitabilmente) si presenteranno.
La prospettiva che ci venga rifilata un’unica cosa per tutta la vita è assolutamente
ripugnante e spaventosa. E ciò non sorprende, poiché si sa che persino gli oggetti
del desiderio invecchiano presto, perdono lustro in un attimo e da segno d’onore si
trasformano in marchio d’infamia. I direttori delle riviste patinate hanno sempre
il polso della situazione: insieme alle informazioni sulle cose nuove «assolutamente
da fare» e «assolutamente da avere» propinano regolarmente ai loro lettori consigli
su «ciò che è superato» e va gettato via. Il nostro mondo ricorda sempre più Leonia,
la «città invisibile» di Italo Calvino dove «più che dalle cose che ogni giorno vengono
fabbricate vendute comprate, l’opulenza [...] si misura dalle cose che ogni giorno
vengono buttate via per far posto alle nuove». La gioia di «liberarsi» di qualcosa, l’atto di scartare e gettare tra i rifiuti,
è la vera passione del nostro mondo.
La capacità di durare non depone più a favore di qualcosa. Agli oggetti e ai legami
si chiede di servire a tempo determinato, e una volta che non servono più ci si aspetta
che siano distrutti o comunque eliminati – e devono esserlo. Così occorre rifuggire
dal possesso di beni, in particolare di quelli che durano a lungo e di cui non ci
si libera facilmente. Il consumismo di oggi non consiste nell’accumulare oggetti,
ma nel goderne una tantum. Perché dunque il «pacchetto di conoscenze» acquisito a
scuola o all’università dovrebbe essere esentato da tale regola universale? Nel vortice
del cambiamento è molto più attraente la conoscenza adatta all’utilizzo immediato
e una tantum, il sapere ad uso e smaltimento istantaneo, come quello promesso dai
programmi per computer che si susseguono sugli scaffali dei negozi a ritmo sempre
più serrato.
E dunque, l’idea che l’istruzione possa essere un «prodotto» fatto per appropriarsene
e per conservarlo è sgradevole e sicuramente non depone più a favore dell’istruzione
istituzionalizzata. Per convincere i propri figli dell’utilità dello studio, i padri
e le madri di un tempo erano soliti dir loro che «quello che hai imparato nessuno
te lo toglierà mai»; questa sarà forse stata una promessa incoraggiante per i loro
figli, ma ai giovani contemporanei apparirebbe una prospettiva orribile. Gli impegni
tendono a essere malvisti se non arrivano completi della clausola «fino a nuovo avviso».
In un numero sempre maggiore di città americane le concessioni edilizie vengono rilasciate
solo insieme a quelle di demolizione, e poco tempo fa i generali americani si sono
opposti all’impiego di truppe sul terreno finché non fosse stato elaborato un convincente
«scenario di uscita».
La seconda sfida ai presupposti fondamentali dell’istruzione proviene dal carattere
erratico e sostanzialmente imprevedibile del cambiamento oggi in atto, e rafforza
ulteriormente la prima sfida. In tutte le epoche il sapere è stato valutato in base
alla sua capacità di rappresentare fedelmente il mondo; ma come fare se il mondo cambia
in modo da sfidare in continuazione la verità del sapere esistente, cogliendo sempre
di sorpresa persino i «bene informati»? Werner Jaeger, nella sua classica indagine
sulle radici antiche del concetto di pedagogia e di apprendimento, riteneva che l’idea di istruzione (intesa come Bildung, formazione) nascesse dai
due presupposti gemelli dell’ordine immutabile del mondo, che si cela sotto la superficiale
varietà dell’esperienza umana, e della natura altrettanto eterna delle leggi che governano
la natura umana. Il primo presupposto giustificava la necessità e i benefici della
trasmissione del saperedagli insegnanti agli allievi. Il secondo infondeva negli insegnanti
la sicurezza in sestessi necessaria per scolpire nella personalitàdegli allievi, come
fanno gli scultori nel marmo, la forma che si presumeva sempre giusta, bella e buona
– e dunque retta e nobile. Se le conclusioni di Jaeger sono corrette (ed esse non
sono state confutate), per l’«istruzione così come la conosciamo» sono guai, poiché
oggi occorreun grande sforzo per sostenere uno qualsiasi di quei presupposti, e uno
sforzo ancoramaggiore per considerarlo evidente di per sé.
Come notò Ralph Waldo Emerson, pattinando sul ghiaccio sottile la salvezza sta nella
velocità. Chi vuole salvarsi farà bene a spostarsi tanto in fretta da non rischiare
di mettere troppo alla prova la resistenza di un qualsiasi punto. Nel volatile mondo
della modernità liquida, in cui è difficile che una forma qualsiasi mantenga la propria
struttura per un tempo sufficiente ad assicurare fiducia e a rapprendersi in un’affidabilità
a lungo termine (in cui non c’è modo di capire se e quando lo farà, e comunque è molto
scarsa la probabilità che accada), camminare è meglio che starsene seduti, correre
è meglio che camminare e cavalcare l’onda è meglio che correre. L’onda si cavalca
meglio se si procede con leggerezza e brio; è bene non farsi troppi problemi sulle
onde in arrivo, e tenersi pronti ad accantonare in qualsiasi momento le preferenze
di un tempo. Tutto ciò è contrario a quello che per gran parte della loro storia il
sapere e l’istruzione hanno rappresentato. In fin dei conti essi erano fatti a misura
di un mondo che era durevole, sperava di rimanere tale e intendeva diventarlo ancor
più di quanto non lo fosse stato fino allora. In un mondo simile la memoria era una
ricchezza, e il suo valore era tanto maggiore quanto più indietro essa andava e quanto
più a lungo durava. Oggi una memoria così saldamente ancorata appare spesso potenzialmente
invalidante, ancor più spesso fuorviante e quasi sempre inutile. Ci si può chiedere
fino a che punto la rapida e spettacolare carriera dei server e delle reti elettroniche
sia stata favorita dalla loro promessa di risolvere i problemi di immagazzinamento,
smaltimento e riciclaggio dei rifiuti; poiché il lavoro di memorizzazione ha avuto
come risultato più rifiuti che prodotti utilizzabili, e poiché non esiste un modo
affidabile per distinguere preventivamente un rifiuto da un prodotto (ossia quale
dei prodotti apparentemente utili finirà presto fuori moda e quale dei prodotti apparentemente
inutili beneficerà di un’impennata della domanda), la possibilità di immagazzinare
tutte le informazioni in contenitori tenuti a distanza di sicurezza dai cervelli (dove
le informazioni immagazzinate potrebbero assumere surrettiziamente il controllo del
comportamento) si è rivelata un’idea tempestiva e allettante.
Nel nostro mondo volatile di cambiamenti istantanei ed erratici, le abitudini consolidate,
gli schemi cognitivi solidi e le preferenze di valore stabili – obiettivi ultimi dell’istruzione
ortodossa – diventano handicap. O, quanto meno, questa è la parte assegnata loro dal
mercato della conoscenza, che (come ogni mercato in relazione a qualsiasi merce) odia
la fedeltà, i legami indistruttibili e gli impegni a lungo termine, considerati altrettanti
ostacoli che ingombrano la strada e vanno rimossi. Siamo passati dall’immutabile labirinto
ideato dai comportamentisti e dalla routine monotona del modello di Pavlov al mercato
aperto in cui qualsiasi cosa può accadere in qualsiasi momento, ma nulla può essere
fatto una volta per tutte, in cui le mosse di successo sono questione di fortuna,
e ripeterle non garantisce in alcun modo nuovi successi. E il punto da ricordare,
e da apprezzare in tutte le sue conseguenze, è che nel tempo in cui viviamo il mercato
e la mappa mundi et vitae si sovrappongono. Come ha osservato recentemente Dany-Robert
Dufour,
il capitalismo sogna non soltanto di estendere [...] fino ai limiti del pianeta il
territorio in cui ogni oggetto è una merce (diritti sull’acqua, sul genoma, sulle
specie viventi, sui neonati, sugli organi umani...), ma anche di renderlo più profondo,
in modo da farvi rientrare questioni in precedenza private che un tempo erano lasciate
alla responsabilità individuale (soggettività, sessualità...) ma che ormai rientrano
fra le merci.
E dunque tutti noi, per gran parte del nostro tempo e quali che siano le nostre momentanee
preoccupazioni, somigliamo agli spinarelli, i pesci esposti a segnali conflittuali
e disorientanti in un famoso esperimento di Konrad Lorenz. Lo strano comportamento
dello spinarello maschio, incerto su dove si collochino i confini che separano schemi
di comportamento contraddittori, sta diventando rapidamente il modo di agire prevalente
di ogni essere umano, maschio o femmina che sia. Le risposte a segnali confusi tendono
a essere altrettanto confuse. In assenza di precedenti affidabili e di schemi di comportamento
collaudati, si reagisce di regola per tentativi ed errori. Usciamo da una confusione
(quasi sempre tirandoci su per gli stivali, come il barone di Münchhausen) solo per
approdare a un’altra confusione. E in questo processo non impariamo molto, a parte
la necessità di prepararci ad altre situazioni ambigue e precarie e di sopportare
le conseguenze di nuovi passi falsi. «Vali quanto il tuo ultimo successo»: questa
è la regola di buon senso per vivere in un mondo in cui le regole cambiano durante
la partita e una regola non rimane quasi mai valida più del tempo necessario a impararla
e memorizzarla. I tassi di successo ottenuti con le risposte apprese ed esercitate
in condizioni di routine si riducono rapidamente; lo slogan di oggi è «flessibilità».
La capacità di abbandonare rapidamente le abitudini correnti diventa più importante
del saperne apprendere di nuove. Siamo tutti costretti a porre in atto come norma
lo stile di vita che Søren Kierkegaard, un paio di secoli fa, trovava patologico in
Don Giovanni: che, cioè, egli «costantemente finisca e costantemente possa ricominciare».
Il guaio è che a ben poco può servire una riforma delle sole strategie educative,
per quanto brillante e vasta possa essere. Né la comunanza della sorte dello spinarello,
né l’improvvisa attrazione per la strategia di vita di Don Giovanni si possono addebitare
agli educatori e a loro colpe o trascuratezze. È il mondo fuori della scuola a essere
molto cambiato rispetto a quel tipo di mondo al quale di solito preparavano le scuole
descritte da Myers o da Jaeger. In questo mondo nuovo si chiede agli uomini di cercare
soluzioni private a problemi di origine sociale, anziché soluzioni di origine sociale
a problemi privati. Durante la fase «solida» della storia moderna il contesto delle
azioni umane era tale da emulare, per quanto possibile, il modello del labirinto comportamentista,
in cui tra percorsi giusti e sbagliati la distinzione era netta, inamovibile e consentiva
di punire senza fallo coloro che per errore o per scelta imboccavano la strada sbagliata,
e di premiare chi seguiva docilmente e prontamente la retta via. Le fabbriche fordiste
di massa e gli eserciti basati sul servizio militare di massa – i due principali bracci
del potere panoptico – impersonavano in pieno quella tendenza a trasformare stimoli
e risposte in routine. Il «dominio» consisteva nel diritto di fissare regole inviolabili,
di sovrintendere alla loro attuazione, di assicurare una costante vigilanza su coloro
che erano tenuti a seguire le regole e di rimettere in riga i devianti o di espellerli
se fallivano i tentativi di correggerli. Quello schema di dominio richiedeva un continuo
impegno reciproco da parte dei gestori e dei gestiti. In ogni struttura panoptica
c’era un Pavlov che definiva la sequenza dei movimenti e faceva sì che si ripetesse
in modo uniforme, contrastando qualsiasi spinta divergente, presente o futura. Poiché
i progettisti e i supervisori dei Panopticon garantivano la stabilità delle impostazioni
e la ripetitività delle situazioni e delle scelte, valeva la pena di imparare a memoria
le regole e incorporarle in abitudini profondamente radicate e automatizzate. L’era
della modernità «solida», in effetti, è andata molto vicina a realizzare questi ambienti
durevoli, gestiti e controllati in modo rigido.
Nella fase «liquida» della modernità l’esigenza di avere funzioni manageriali ortodosse
si esaurisce rapidamente. Minacciare il disimpegno, o rifiutare l’impegno, permette
di conquistare e difendere il dominio con un dispendio di fatica, tempo e denaro molto
inferiore a quello necessario per controllare e vigilare in modo invadente. La minaccia
del disimpegno sposta l’«onere della prova» a carico della controparte, dei dominati.
Tocca ormai ai subordinati comportarsi in un modo che abbia buone probabilità di ottenere
il favore dei capi e di allettarli ad «acquistare» i loro servizi e «prodotti» progettati
a titolo individuale, proprio come gli altri produttori e rivenditori allettano i
clienti potenziali a desiderare di acquistare le merci in vendita. «Seguire la routine»
non basta per raggiungere lo scopo. Come hanno riscontrato Luc Boltanski ed Eve Chiapello, chiunque voglia riuscire nella condizione che è subentrata all’ambiente del tipo
«labirinto per topi» deve dimostrare convivialità e abilità comunicative, apertura
mentale e curiosità, e mettere in vendita la propria persona, tutta, come valore unico
e insostituibile capace di arricchire la qualità del gruppo di lavoro. Spetta ormai
all’effettivo o aspirante dipendente «controllare se stesso» per verificare che la
prestazione sia convincente e abbia buone probabilità di essere approvata e di continuare
a esserlo nel caso in cui cambino le preferenze degli osservatori; non spetta più
ai capi reprimere le idiosincrasie dei dipendenti, omogeneizzarne la condotta e rinchiuderne
le azioni nella rigida cornice della routine.
La chiave del successo è «essere se stessi» anziché «come tutti gli altri». Ciò che
si vende bene è la differenza, non l’uniformità. Non basta più avere conoscenze e
abilità «attinenti al compito» e possedute da chi ha già svolto o si candida a svolgere
lo stesso compito; anzi, probabilmente sarebbe considerato un handicap. Occorre invece
avere idee inconsuete, presentare progetti fuori del comune e mai proposti prima,
e soprattutto essere inclini, come i gatti, ad andare avanti per la propria strada
in solitudine. Simili doti difficilmente si acquisiscono e si apprendono dai libri
di testo (a parte i manuali sempre più numerosi che sfidano il sapere e la saggezza
tramandati e infondono il coraggio di vivere da soli). Per definizione, quelle doti
vanno sviluppate «dall’interno», liberando e sviluppando le «forze interiori» che
si celerebbero nella propria personalità e attenderebbero solo di essere risvegliate
e messe all’opera.
Questo è il genere di sapere (o, meglio, di ispirazione) ardentemente desiderato da
uomini e donne dei tempi liquido-moderni. Ciò che essi cercano sono consulenti che
insegnino loro a camminare, e non insegnanti che li portino a incamminarsi su un’unica
strada, già molto affollata. I consulenti che essi cercano, e per i cui servizi sono
disposti a pagare quanto occorre, devono (e vogliono) aiutarli a scavare in profondità
nel carattere e nella personalità, dove si presume si trovino i ricchi giacimenti
di metalli preziosi che chiedono a gran voce di essere portati alla luce. Quei consulenti
rimprovereranno ai propri clienti la pigrizia o la negligenza più che l’ignoranza,
e offriranno loro una conoscenza operativa, un savoir être o savoir vivre, anziché
una conoscenza fattuale, il savoir che gli educatori ortodossi volevano e sapevano
trasmettere. L’attuale culto dell’«istruzione permanente» è sì focalizzato in parte
sulla necessità di aggiornare allo «stato dell’arte» l’informazione professionale,
ma deve la sua popolarità, in pari o maggior misura, alla convinzione che la miniera
della personalità sia inesauribile, e che vadano individuati maestri spirituali in
grado di attingere ai giacimenti ancora vergini, non raggiunti o trascurati da altre
guide – e lo saranno, con il debito sforzo e con sufficiente denaro per remunerarne
i servizi.
La marcia trionfale della conoscenza nel mondo abitato dagli uomini e dalle donne
moderni è avvenuta su due fronti. Sul primo fronte si è assistito all’invasione, conquista,
civilizzazione di territori nuovi e inesplorati e alla stesura delle relative mappe.
L’impero costruito grazie a tali progressi era quello dell’informazione destinata
a rappresentare il mondo: nel momento stesso della rappresentazione, la parte del
mondo rappresentata si presumeva conquistata all’umanità. Il secondo fronte era quello
dell’istruzione: esso avanzava ampliando il canone dell’istruzione ed estendendo le
capacità di percezione e di memorizzazione dei suoi destinatari. Su entrambi i fronti
il «traguardo» – la fine della guerra – era chiaramente individuato in partenza: alla
fine tutti i vuoti sarebbero stati colmati, si sarebbe tracciata una completa mappa
mundi e un numero sufficiente di canali di trasmissione dell’istruzione avrebbe reso
disponibili ai membri della specie umana tutte le informazioni occorrenti per spostarsi
a piacimento nel mondo descritto dalle mappe.
Mano a mano che la guerra proseguiva e che si allungava la cronaca delle battaglie
vinte, il «traguardo» è parso allontanarsi sempre più. Ormai propendiamo a credere
che su entrambi i fronti la guerra fosse, e sia, impossibile da vincere.
Tanto per cominciare, ogni volta che un territorio appena conquistato viene descritto
nelle mappe ciò sembra accrescere, anziché diminuire, il numero e l’estensione degli
spazi vuoti; il momento in cui si disporrà di una mappa mundi completa sembra dunque
allontanarsi. Inoltre il mondo «là fuori», che un tempo si sperava di catturare e
immobilizzare attraverso l’atto della rappresentazione, sembra ora colare fuori da
qualsiasi forma tramandata; sembra un altro giocatore (decisamente agguerrito e scaltro)
al gioco della verità, anziché la posta e il premio che i giocatori umani speravano
di dividersi.Secondo l’efficace descrizione data da Paul Virilio, «il mondo d’oggi
non ha più alcun genere di stabilità; è in moto perpetuo, si sposta, scivola via». Notizie ancor più importanti giungono però dal secondo fronte, quello dell’istruzione,
della distribuzione della conoscenza. Citando ancora Virilio, «l’ignoto si è spostato:
dal mondo, decisamente troppo vasto, misterioso e selvaggio»,alla «galassia nebulosa
dell’immagine».
Gli esploratori che desiderano esaminare quella galassia nella sua interezza sono
pochi e molto distanti tra loro, e quelli in grado di riuscirvi sono ancora di meno.
«Scienziati, artisti, filosofi [...], ci troviamo a formare una sorta di ‘nuova alleanza’
per l’esplorazione [di quella galassia]»: alleanza in cui le persone comuni possono
lasciare ogni speranza di poter entrare. La galassia è semplicemente inassimilabile.
La principale sede dell’«ignoto», più che il mondo di cui parla l’informazione, è
ormai l’informazione stessa. È quest’ultima a dare la sensazione di essere «decisamente
troppo vasta, misteriosa e selvaggia». Sono le enormi quantità di informazione che
si contendono l’attenzione ad apparire oggi agli uomini e alle donne comuni molto
più minacciose dei pochi «misteri dell’universo» rimasti, che interessano esclusivamente
un piccolo gruppo di maniaci della scienza e un numero ancora più ristretto di contendenti
per il premio Nobel. Ogni cosa sconosciuta ha l’aria minacciosa, ma cose diverse suscitano
reazioni diverse. Gli spazi vuoti nella mappa dell’universo stimolano la curiosità,
incitano all’azione e infondono in chi è avventuroso determinazione, coraggio e fiducia,
promettono un’interessante vita di scoperte e annunciano un futuro migliore, gradualmente
liberato dalle seccature che avvelenano la vita. Non così la massa impenetrabile dell’informazione:
essa sta tutta qui, a portata di mano, immediatamente disponibile eppure beffarda
ed esasperante nella sua distanza, tenacemente estranea e indifferente a qualsiasi
speranza di riuscire mai ad afferrarla. Il futuro non è più un tempo da attendere
con impazienza: esso non farà che accrescere le odierne difficoltà, incrementando
in maniera esponenziale la quantità di sapere che già oggi ci stordisce, ci soffoca
e ci preclude quella salvezza che ci propone in modo tanto seducente. La massa stessa
della conoscenza offerta è il principale ostacolo ad accogliere l’offerta. Ed è la
principale minaccia alla fiducia in noi stessi: sicuramente da qualche parte, in quella
impressionante massa d’informazione, ci sarà una risposta ai problemi che ci affliggono;
e dunque se le soluzioni non si trovano, ne derivano immediatamente e concretamente
autodisapprovazione e autoderisione.
La stessa massa di sapere accumulato è diventata l’epitome contemporanea del disordine
e del caos. In essa si sono via via inabissati e dissolti tutti i criteri ortodossi
di ordinamento: argomenti correlati, attribuzione di importanza, bisogni che determinano
l’utilità e autorità che determinano il valore. La massa fa apparire il suo contenuto
uniformemente incolore. Si può dire che in essa tutte le informazioni fluiscano con
identico peso specifico; e non c’è modo di separare il grano dal loglio per coloro
cui si nega la competenza per giudicare, ma che nondimeno sono esposti alle correnti
delle tesi contraddittorie degli esperti. Nella massa, la particella di conoscenza
ritagliata ad uso e consumo personale può essere valutata solamente in base alla quantità;
non c’è possibilità di compararne la qualità con quella del resto. Tutte le informazioni
si equivalgono. I quiz televisivi riflettono fedelmente questo nuovo volto della conoscenza
umana: per ogni risposta giusta, indipendentemente dall’argomento, il concorrente
ottiene lo stesso numero di punti.
Attribuire importanza alle diverse informazioni, e soprattutto attribuire maggiore
importanza ad alcune rispetto ad altre, è forse il compito più sconcertante e la decisione
più difficile. L’unico criterio pratico su cui basarsi è la pertinenza momentanea;
ma anch’essa cambia di momento in momento e le informazioni assimilate perdono di
significato appena utilizzate. Anch’esse, come altre merci sul mercato, sono destinate
a un utilizzo istantaneo, sul posto e una tantum.
In passato l’istruzione assumeva molte forme e si dimostrava capace di adattarsi a
circostanze mutevoli, di porsi nuovi obiettivi e di progettare nuove strategie. Ma,
se posso ribadirlo, il mutamento in corso è diverso da quelli verificatisi in passato.
In nessuna precedente svolta della storia umana gli educatori hanno mai affrontato
una sfida paragonabile in senso stretto a quella rappresentata dall’attuale spartiacque.
Non ci siamo mai trovati, prima d’ora, in una situazione simile. L’arte di vivere
in un mondo sovrasaturo d’informazione non è stata ancora appresa. E lo stesso vale
per l’arte, ancor più difficile, di preparare gli uomini a questo genere di vita.
II.
Il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges, parlando delle origini di uno dei
suoi straordinari racconti, La ricerca di Averroè, disse di aver avuto l’intenzione
«di narrare il processo di una sconfitta», di un «fallimento per esempio nella ricerca
della dimostrazione definitiva dell’esistenza di Dio da parte di un teologo, o della
pietra filosofale da parte di un alchimista, oppure della trisezione dell’angolo da
parte di un appassionato di tecnologia o ancora della quadratura del cerchio da parte
di un matematico... Ma poi gli sarebbe venuto in mente che era «più poetico il caso
di un uomo il quale si propone un fine che non è vietato agli altri, ma a lui soltanto»:
Averroè, il grande filosofo musulmano che si dedicò a tradurre la Poetica di Aristotele
ma, «chiuso nell’ambito dell’islam non poté mai sapere il significato delle voci tragedia
e commedia». In effetti Averroè risultava votato alla sconfitta dal momento «che voleva
immaginare quel che è un dramma senza sapere che cos’è un teatro».
Il caso scelto da Borges si dimostra effettivamente «più poetico», in quanto soggetto
di una splendida storia narrata da un grande autore. Ma dalla prospettiva sociologica
– priva d’ispirazione, ordinaria e banale – esso appare più prosaico. Solo poche anime
intrepide si mettono alla ricerca della soluzione dei problemi della geometria greca
classica o della pietra filosofale; ma tutti noi abbiamo sperimentato fin troppo bene
sulla nostra pelle e ripetiamo ogni giorno l’esperienza di cercare inutilmente di
comprendere ciò che altri non hanno difficoltà a capire. Ciò accade a noi, nel XXI
secolo, più che ai nostri avi nelle epoche passate... Si pensi a un solo esempio:
il tentativo di comunicare con i figli, per chi è genitore; o con i genitori, per
chi ancora li ha...
L’incomprensione reciproca tra generazioni, tra i «vecchi» e i «giovani», e il sospetto
che ne consegue, hanno una lunga storia. I suoi sintomi si possono rintracciare facilmente
molto indietro nel tempo. Ma la diffidenza intergenerazionale ha assunto rilievo molto
maggiore nell’era moderna, contrassegnata da cambiamenti permanenti, rapidi e profondi
delle condizioni di vita. È stata l’accelerazione radicale del ritmo del cambiamento,
caratteristica dei tempi moderni, a permettere di rendersi conto, nell’arco di una
singola vita umana, che «le cose cambiano» e che «non è più come una volta»: si tratta
di una constatazione che suggerisce un collegamento (o persino un nesso causale) tra
i cambiamenti della condizione umana e l’avvicendarsi delle generazioni.
È a partire dall’avvento della modernità, e per tutta la sua durata, che generazioni
venute al mondo in fasi differenti della sua continua trasformazione tendono a divergere
nettamente nel giudizio sulle condizioni di vita condivise. I figli di solito si affacciano
a un mondo drasticamente diverso da quello che i loro genitori, sotto la guida degli
educatori, avevano imparato a considerare come standard di «normalità», e non avranno
mai modo di vedere quell’altro mondo, ormai scomparso, in cui hanno vissuto i loro
genitori da giovani. Quello che ad alcune generazioni può apparire «naturale» – per
la serie «le cose stanno così», «normalmente si fanno così» o «dovrebbero essere fatte
così» – ad altri può sembrare un’aberrazione: un distacco dalla norma, uno stato di
cose stravagante e forse anche irragionevole, ingiusto e odioso. Quella che ad alcune
generazioni può apparire una condizione confortevole e familiare, in quanto consente
di utilizzare le abilità e routine apprese e padroneggiate, potrebbe sembrare strana
e sgradevole ad altri; nelle stesse situazioni che mettono a disagio alcuni, rendendoli
confusi e smarriti, altri si sentiranno come pesci nell’acqua.
Le differenze di percezione sono ormai diventate multidimensionali, al punto che,
diversamente dai tempi premoderni, le generazionipiù vecchie non attribuiscono più
aigiovani il ruolo di «adulti in miniatura» odi «presunti adulti» – di «esseri-non-ancora-del-tutto-maturi-ma-destinati-a-maturare»
(«a maturare fino a essere come noi»). Non si spera più, né si presume, che i giovani
siano «avviati a diventare adulti come noi», ma essi sono visti come un genere di
persone alquanto differenti e destinate a restare diverse «da noi» per tutta la vita.
Le differenze tra «noi» (i vecchi) e «loro» (i giovani) non appaiono più come un problema
temporaneo destinato a risolversi e a svanire nel momento in cui i giovani (inevitabilmente)
apriranno gli occhi alle realtà della vita.
Il risultato è che le generazioni più vecchie e quelle più giovani tendono a guardarsi
reciprocamente con un misto di incomprensione e di apprensione. Gli anziani temono
che chi si è appena affacciato al mondo si accinga a rovinare e a distruggere quella
familiare, accogliente, decorosa «normalità» che essi, i loro genitori, hanno laboriosamente
costruito e conservato con amorevoli cure; i giovani, al contrario, sentono forte
l’impulso di risistemare ciò che i vecchi hanno abborracciato e scombinato. Né gli
uni né gli altri sono soddisfatti (o almeno non del tutto) per come vanno le cose
e per la direzione in cui sembra muoversi il loro mondo, e si accusano a vicenda del
disagio. Una rivista inglese molto autorevole ha pubblicato recentemente, a una settimana
di distanza, due accuse che differivano in modo impressionante tra loro: un commentatore
accusava i giovani di essere «una mandria di indolenti, depravati e buoni a nulla»,
mentre un lettore gli ha risposto che i presunti giovinastri pigri e insensibili in
realtà ottengono«ottimi risultati accademici» e «si preoccupano dei guai che hanno
combinato gli adulti». Qui, come in tante altre discussioni simili, la differenza è chiaramente riconducibile
a valutazioni e punti di vista con sfumature soggettive. In casi come questi è difficile
risolvere «oggettivamente» il disaccordo che ne scaturisce.
Ann-Sophie, una studentessa ventenne della Copenhagen Business School, ha risposto
così alle domande poste da Flemming Wisler: «Non voglio essere troppo controllata
dalla mia vita. Non voglio sacrificare tutto alla mia carriera [...] La cosa più importante
è sentirsi a proprio agio [...]. Nessuno vuole rimanere bloccato troppo tempo nello
stesso lavoro». In altri termini: tenetevi spalancate tutte le opzioni. A nulla e a nessuno dovete
giurare fedeltà «finché morte non ci separi». Il mondo è pieno di possibilità meravigliose,
allettanti, promettenti; sarebbe folle perdersene qualcuna legandosi mani e piedi
con impegni irrevocabili...
Non sorprende che nella lista delle abilità di vita fondamentali che i giovani sono
sollecitati a padroneggiare (e impazienti di farlo), cavalcare l’onda superi di gran
lunga concetti sempre più obsoleti come «indagare» e «approfondire». Come ha osservato
Katie Baldo, consulente di orientamento nella Cooperstown Middle School nello Stato
di New York, «gli adolescenti si perdono alcuni importanti segnali sociali perché sono troppo
assorbiti dai loro iPod, cellulari o videogiochi. In aula mi accorgo continuamente
che non riescono a salutare né a stabilire un contatto oculare». Entrare in contatto
con lo sguardo e ammettere la prossimità fisica di un altro essere umano sono sinonimi
di spreco, in quanto equivalgono a dedicare del tempo, scarso e perciò prezioso, ad
«approfondire»: decisione che costringerebbe a smettere, o impedirebbe, di cavalcare
tante altre superfici invitanti. Nella vita di emergenza continua, le relazioni virtuali
hanno facilmente la meglio sulla «rob
a vera». Il mondo off-line invita i giovani a essere in costante movimento; simili
sollecitazioni servirebbero tuttavia a ben poco se non fosse per la capacità, basata
sull’elettronica, di moltiplicare gli incontri inter-individuali trasformando ciascuno
di essi in un atto rapido, superficiale e «usa e getta». Le relazioni virtuali sono
corredate dei tasti «cancella» e «spam» che proteggono dalle conseguenze scomode (e
soprattutto dispendiose in termini di tempo) delle interazioni più approfondite. Non
si può non ricordare, a questo proposito, il personaggio di Chance (interpretato da
Peter Sellers nel film di Hal Ashby Oltre il giardino del 1979), che nella strada
trafficata in cui si viene a trovare appena emerso dal prolungato tête-à-tête con
il-mondo-visto-in-Tv, cerca invano di allontanare dalla propria vista, con l’aiuto
del telecomando, un gruppo di suore che lo mette a disagio...
Per i giovani la principale attrattiva del mondo virtuale deriva dall’assenza delle
contraddizioni e delle finalità contrastanti che infestano la vita off-line. Il mondo
on-line, a differenza della sua alternativa off-line, rende possibile pensare all’infinita
moltiplicazione dei contatti come a qualcosa di plausibile e sostenibile. Ci riesce
attraverso l’indebolirsi dei legami – in netto contrasto con il mondo off-line, notoriamente
orientato al costante tentativo di rafforzare i legami limitando fortemente il numero
di contatti e approfondendo ciascuno di essi. Questo è un effettivo vantaggio per
uomini e donne che altrimenti sarebbero assillati all’infinito dalla eventualità (giusto
un’eventualità) che compiere un passo si riveli un errore, o dalla eventualità (giusto
un’eventualità) che sia troppo tardi per tagliare le perdite che quel passo comporta.
Di qui l’avversione per tutto ciò che è «a lungo termine», che riguardi la programmazione
della propria vita o l’assunzione di impegni verso altri esseri viventi. Di recente
uno spot pubblicitario, evidentemente solleticando i valori della giovane generazione,
annunciava l’arrivo di un nuovo mascara che «promette solennemente di durare ventiquattr’ore»,
e lo commentava così: «Parliamo di un rapporto serio. È sufficiente un colpo e queste
belle ciglia sfideranno pioggia, sudore, umidità e lacrime. E per toglierlo basta
un po’ di acqua calda». Ventiquattr’ore suonano già come un «rapporto serio», ma nemmeno
così il rapporto sarebbe attraente, se i suoi segni non fossero facili da eliminare...
Qualsiasi scelta si finisca per fare, somiglierà al «leggero mantello» di uno dei
fondatori della sociologia moderna, Max Weber – che si può mettere o togliere a piacimento
e senza preavviso – anziché alla sua «gabbia di durissimo acciaio», che offre un’efficace
e durevole protezione dalla turbolenza, ma ostacola i movimenti di chi ne è protetto,
e limita molto lo spazio della libera volontà. Ciò che più importa ai giovani è conservare la capacità di ri-creare l’«identità»
e la «rete» ogni volta che ciò è necessario o si pensa stia per diventarlo. Alla preoccupazione
dei nostri avi per l’identificazione subentra quella per la ri-identificazione. Le
identità devono essere monouso; un’identità insoddisfacente o non abbastanza soddisfacente,
o che tradisca la propria età avanzata, deve essere facile da abbandonare; può darsi
che l’attributo più desiderato dell’identità ideale sia la biodegradabilità.
La capacità interattiva di internet è fatta a misura di questo bisogno nuovo. È la
quantità delle connessioni, più che la loro qualità, a fare la differenza tra le possibilità
di successo o di fallimento. Essa consente di rimanere al corrente dell’«ultimo grido»
– dei successi più gettonati, delle t-shirt di ultima creazione, dei più recenti e
più chiacchierati festival, feste, eventi con personaggi famosi. Al tempo stesso,
aiuta ad aggiornare i contenuti e ridistribuire i connotati nel ritratto del proprio
io; e a cancellare rapidamente i segni del passato, i contenuti e i connotati ormai
vergognosamente fuori moda. Nell’insieme essa facilita enormemente, sollecita o meglio
ancora impone il perenne sforzo della re-invenzione in una misura impensabile nella
vita off-line. Questa è probabilmente una delle principali ragioni del tempo che la
«generazione elettronica» trascorre nell’universo virtuale – un tempo che cresce costantemente
a spese di quello vissuto nel «mondo reale».
I referenti dei principali concetti in cui viene inquadrata e mappata la Lebenswelt,
il mondo in cui vivono e sopravvivono i giovani, il mondo di cui fanno personalmente
esperienza, vengono gradualmente ma incessantemente trapiantati dal mondo off-line
al mondo on-line. Spiccano soprattutto concetti come «contatti», «appuntamenti», «incontri»,
«comunicare», «comunità» o «amicizia», tutti riferiti ai rapporti interpersonali e
ai legami sociali. Una delle principali conseguenze della nuova collocazione di quei
referenti è che i legami e gli impegnisociali in essere vengono percepiti comeistantanee
scattate nell’ambito di un processo di rinegoziazione continua, anziché come condizioni
stabili destinate a durare a tempo indeterminato. Tuttavia la metafora non mi sembra
del tutto calzante: sebbene «istantanee», queste foto implicano ancora una tendenza
a durare più dei legami e degli impegni mediati dall’elettronica. La parola «istantanee»
rientra nel lessico della stampa fotografica; la carta fotografica è in grado di accogliere
un’immagine sola, mentre nel caso dei legami elettronici il cancellare e il ri-scrivere
o sovra-scrivere, inconcepibili nel caso dei negativi in celluloide e della carta
fotografica, sono opzioni particolarmente importanti e molto utilizzate; anzi, sono
gli unici attributi indelebili dei legami mediati dall’elettronica...
Teniamo però presente che gran parte della giovane generazione odierna non ha mai
sperimentato veri stenti, una depressione economica prolungata e priva di prospettive
e una disoccupazione di massa. Chi fa parte di quella generazione è nato e cresciuto
in un mondo in cui ci si poteva riparare sotto ombrelli a prova di pioggia e vento
prodotti e gestiti socialmente, che sembravano essere lì per sempre a proteggerli
dal cattivo tempo, dalla pioggia, dal freddo e dai venti gelidi – un mondo in cui
ogni mattino prometteva un giorno più soleggiato del precedente e più ricco di piacevoli
avventure. Mentre scrivo queste righe le nuvole si accumulano su quel mondo. La condizione
felice, fiduciosa e piena di promesse che i giovani ritengono ormai lo stato «naturale»
del mondo potrebbe potrebbe essere agli sgoccioli. Una depressione economica (che
minaccia, come danno a intendere alcuni osservatori, di rivelarsi altrettanto o persino
più profonda delle crisi sperimentate in gioventù dalla generazione dei padri) è forse
in agguato appena dietro l’angolo. Perciò è troppo presto per capire in che modo le
visioni del mondo e gli atteggiamenti profondamente radicati dei giovani di oggi finiranno
per adeguarsi al mondo a venire, e in che modo tale mondo si adeguerà alle loro aspettative
profonde.