6.
La cultura tra Stato
e mercato
In Francia il coinvolgimento dello Stato nelle arti, sotto il patrocinio di re e nobili,
è cominciato prima che nella maggior parte dei paesi europei. Francesco I, nel sedicesimo
secolo, istituì addirittura un laboratorio statale per la produzione di arazzi. Più
di cento anni dopo, Luigi XIV (celebre per aver affermato «lo Stato sono io») compì
un passo decisivo nella direzione delle moderne forme di patrocinio statale fondando
il teatro reale, cioè la Comédie Française, oltre a un gran numero di accademie reali
(tra cui quelle della musica e della pittura) per sviluppare le arti ed educare gli
artisti.
I primi finanziamenti alle arti da parte delle autorità, così come le iniziative che
oggi andrebbero sotto il nome di ‘politica culturale’, comparvero un buon duecento
anni prima che venisse coniato per la prima volta il termine ‘cultura’: si può ipotizzare
che il concetto sia nato a partire dell’ambizione e dall’iniziativa regia. Il concetto
francese di culture sorse come termine collettivo per indicare gli sforzi del governo di promuovere il
sapere, addolcire e far progredire i costumi, raffinare il gusto artistico e risvegliare
bisogni culturali che la cittadinanza non aveva fino ad allora posseduto, o non sapeva
di possedere. La ‘cultura’ era qualcosa che certuni (l’élite istruita e di potere)
facevano, o volevano fare, per gli altri (il ‘popolo’ o la ‘gente comune’, in entrambi
i casi privi di istruzione e di potere). Dapprincipio la ‘cultura’ francese era un
concetto in qualche modo messianico, perché segnalava intenzioni proselitistiche:
illuminare, aprire gli occhi, convertire, raffinare, perfezionare. Di questa vocazione
messianica le autorità statali si appropriarono, o forse fu loro affidata.
Dopo l’abolizione della monarchia francese, il governo rivoluzionario si impadronì
di questa missione riempiendo l’idea del rischiaramento e della cultura di ambizioni
che non erano venute in mente ai sovrani dinastici. Lo scopo della missione divenne
adesso la ricostruzione della società ‘dalle sue fondamenta’, la creazione dell’‘uomo
nuovo’, il salvataggio del popolo dall’abisso di secoli di ignoranza e superstizione
– in breve, la realizzazione di un nuovo modello di società e di individuo elaborato
in modo complesso e attento. Se era possibile abolire la monarchia e i suoi parassiti
aristocratici, tutto era possibile, tutto poteva essere rielaborato e rovesciato come
un calzino; quel che serviva era sapere cosa fare e come procedere. Il concetto di
‘cultura’ divenne una chiamata alle armi e un grido di battaglia.
Tra il 1815 e il 1875 l’ordinamento statale cambiò cinque volte, ma, nonostante le
drastiche differenze fra l’uno e l’altro, su una questione stabilita dai loro predecessori
si registrò l’indiscussa accettazione di tutti: la necessità che le autorità statali
proseguissero nel sostegno e nella supervisione degli sforzi per illuminare e coltivare,
conosciuti adesso collettivamente con il nome di ‘sviluppo e diffusione della cultura’.
In questo periodo, inoltre, la già istituita tradizione di responsabilità statale
per la cultura venne arruolata al servizio della costruzione della nazione. La finalità
generale di creare nuovi (e migliori) individui si trasformò in quella specifica di
creare patrioti francesi e leali cittadini della Repubblica. Il concetto di patrimoine – eredità nazionale di cui prendersi cura e da rendere accessibile ai cittadini (e
ulteriormente arricchita per il bene e la gloria dei posteri) – considerato del tutto
a ragione una della maggiori condizioni di identità, di unità nazionale e di lealtà
e disciplina civica, assunse una posizione sempre più significativa nelle realizzazioni
del progetto che via via si avvicendarono. Era tramite un programma culturale integrato
che il conglomerato di tradizioni, consuetudini, dialetti e calendari locali ereditati
da secoli di frammentazione feudale doveva essere unificato in uno Stato moderno.
C’erano stati in passato diversi tentativi, relativamente brevi e sporadici, di istituzionalizzare
e codificare la cura statale dell’attività culturale, ma fu solo il 3 febbraio 1959,
sotto la presidenza di Charles de Gaulle, durante la Quinta Repubblica, che venne
istituito un ministero degli Affari Culturali, a carattere apparentemente permanente.
Come ministro, de Gaulle nominò per primo André Malraux, e fu lui a realizzare ciò
che in precedenza era stato intrapreso molte volte, ma solamente con successi minimi
e transitori. All’epoca la situazione politica del paese era favorevole al progetto:
il leader del paese, impegnato nella missione di ravvivare la posizione della Francia
in Europa, compromessa durante la guerra, voleva che la cultura fosse parte della
futura gloria del paese, e che la cultura francese si irradiasse sul resto del continente,
divenendone l’ammirato e imitatissimo modello. La cultura doveva conferire in tutto
il mondo prestigio e gloria al paese sotto la cui egida essa fioriva. Come si è espresso
François Chabot oltre cinquant’anni dopo, in un articolo sulla diffusione della cultura
francese nel mondo, il compito di propagare la cultura francese in tutto il mondo, intrapreso (anche
se non necessariamente portato a compimento) mediante il patrocinio statale dell’arte,
«rimane argomento di acuto interesse nazionale, perché pochi altri fattori influiscono
in misura altrettanto grande sul modo in cui un paese viene percepito nel mondo e
sulla sua capacità di parlare ed essere ascoltato...».
Secondo Chabot, l’atteggiamento verso l’arte dei vari governi francesi fu plasmato
da idee di «messianismo politico-culturale», benché il concetto della missione intrapresa
dalla Francia sia cambiato nel corso del tempo (nel diciannovesimo secolo riguardava
principalmente il diritto all’autodeterminazione delle nazioni, nel periodo tra le
due guerre la difesa delle ancora fragili e insicure democrazie e alla fine del ventesimo
secolo la promozione del multiculturalismo). Al ministro della Cultura, perciò, non
mancarono mai fondi aggiuntivi con i quali far risplendere i benefìci derivanti dalla
tutela statale degli artisti, degli operatori culturali e di coloro che beneficiavano
del loro lavoro. Per ‘cultura’ si intendeva adesso principalmente l’arte e la creazione
artistica, e la moltiplicazione della prima e l’intensificazione della seconda divennero
il punto focale delle attività del ministero da poco istituito; la democrazia politica
doveva avere come proprio complemento la democratizzazione dell’arte. Lo stesso Malraux
formulò questo compito nei termini seguenti: «il Ministero cui sono affidati gli affari
culturali ha la missione di rendere accessibili le più grandi opere dell’umanità,
soprattutto quelle francesi, al più gran numero di francesi; la missione di garantire
il più ampio pubblico possibile al nostro patrimonio culturale e di promuovere opere
d’arte che arricchiscano tale eredità».
Malraux rifiutò con vigore qualunque compito di natura pedagogica, in particolare
l’idea di dettare alla nazione scelte artistiche o canoni generali di preferenza culturale.
Diversamente dai predecessori, egli non era interessato a imporre modelli o gusti
elaborati ‘al vertice’, scelti dalle autorità, fatti passare sopra la testa degli
‘oggetti di cultura’ e ad essi affibbiati, né a realizzare contenuti e forme di sua
preferenza nei laboratori e negli atelier degli artisti. Era più interessato a creare
opportunità: per i creatori, opportunità di creare; per gli artisti, opportunità di
raffinare la loro arte; per tutti gli altri, l’opportunità di entrare da vicino in
contatto con gli uni e gli altri (Malraux parlava di mettere la cultura «a disposizione
di tutti, non al servizio decorativo di vite borghesi»).
I successori di Malraux seguirono la strada da lui segnata; e la logica dello sviluppo
della società dell’informazione, combinata con la logica dei princìpi formulati e
sperimentati dal primo ministro della cultura, hanno inesorabilmente orientato il
percorso verso il riconoscimento di una molteplicità di scelte culturali, e infine
verso l’adozione del pluralismo culturale come principale caratteristica – e motivo
di vanto – della cultura francese, sostenuto e rafforzato dal patrocinio statale quale
suo obiettivo precipuo. Le politiche culturali dei governi che si sono susseguiti,
sia di destra che di sinistra, si sarebbero potute perfettamente avvalere del motto
di Mao «facciamo fiorire cento fiori», se solo non fosse emerso che questo invito
apparentemente ospitale ed essenzialmente liberale era una trappola insidiosamente
preparata contro gli artisti cinesi, al fine di persuaderli a rivelare le loro segrete
intenzioni eretiche, così da stroncarle sul nascere... Ma in Francia il motto della
pluralità culturale e della diversità artistica era destinato a rimanere un faro della
politica culturale con lodevole costanza. Il presidente Georges Pompidou mise i puntini
sulle ‘i’ affermando solennemente che «l’arte non è una categoria amministrativa,
ma è, o dovrebbe essere, la cornice [cadre] della vita».
La pratica del sostegno al pluralismo culturale raggiunse l’apice durante la presidenza
di François Mitterrand, con Jack Lang ministro. In un decreto del 10 maggio 1982,
ispirato da Mitterrand e scritto da Lang, veniva dichiarato che la missione fondamentale
del ministero della Cultura dovesse essere quella di permettere a tutti i francesi
di promuovere la propria innovazione e creatività, sviluppare le proprie potenzialità
creative, dimostrare liberamente i propri talenti e trarre beneficio dalla formazione
artistica che essi avrebbero scelto. Per realizzare tale obiettivo, il decreto imponeva
alle istituzioni statali il dovere di sostenere le iniziative regionali e di gruppo
e di dare assistenza ai movimenti indipendenti e non istituzionalizzati, nonché alle
pratiche amatoriali. Lo sviluppo dell’arte, la sua ricchezza, prevalenza e disponibilità
– come Lang sempre sottolineò, instancabilmente e ossessivamente – richiede una decisiva
decentralizzazione delle iniziative culturali. I poteri, le sovvenzioni e il know-how
organizzativo del ministero della Cultura non esistevano per dirigere le tendenze
culturali e scegliere tra di esse, ma per aumentare le potenzialità e finanziare l’auto-organizzazione
di iniziative regionali che emergessero spontaneamente. Marc Fumaroli – membro dell’Académie
Française e autore di un saggio fortemente polemico sulle complicazioni storiche de
‘l’état culturel’, lo Stato culturale, che ha riscosso grande successo ed è stato
ferocemente discusso – commentò con un certo sarcasmo che la preoccupazione principale
del ministero francese della Cultura era di evitare il sospetto che volesse governare
la cultura e di essere quindi accusato di favorirne una variante tra le altre. Fumaroli
non considerava affatto ammirevole una simile posizione. Ma d’altro canto Theodor
Adorno, noto per i suoi sospetti sulle motivazioni delle amministrazioni statali quando
cominciarono a mostrare interesse per le arti, avrebbe probabilmente salutato con
favore l’arretramento dell’amministrazione dalle sue antiche ambizioni di giudicare
i meriti e i demeriti delle proposte artistiche.
Theodor Adorno fa notare che incorporare lo spirito oggettivo di un’epoca in un concetto
unico di ‘cultura’ tradisce immediatamente un punto di vista amministrativo; dalla
sua prospettiva più elevata, il compito è di collazionare, distribuire, valutare,
organizzare – e prosegue elencando le caratteristiche di quel punto di vista:
la richiesta che l’amministrazione pone alla cultura è sostanzialmente eteronoma:
essa deve misurare il culturale, quale che possa essere, secondo norme che non gli
sono immanenti, che non hanno nulla a che fare con la qualità dell’oggetto, ma soltanto
con certi criteri esteriori e astratti.
Ma, come è facile aspettarsi da una relazione sociale così asimmetrica, davanti agli
occhi di chi fa esperienza di questo stato di cose dal versante opposto – cioè da
quello degli amministrati, non degli amministratori – si parerà uno spettacolo completamente
diverso; e una conclusione completamente diversa ne verrebbe tratta, se a quegli osservatori
venisse permesso di esprimere un giudizio. Vedremmo in questo caso un panorama di
repressione infondata e indesiderata, e verrebbe pronunciata una sentenza di ingiustizia
e illegalità. Da quest’altra prospettiva la cultura sembra in opposizione all’amministrazione,
e ciò accade perché, come diceva Oscar Wilde (provocatoriamente, secondo Adorno),
la cultura è «inutile», o almeno sarà considerata tale finché i supervisori (autonominati
e, dal punto di vista dell’arte, illegali) avranno il monopolio di tracciare la linea
di confine tra utilità e inutilità. In questo senso, secondo Adorno, la «cultura»
rappresenta gli interessi e le richieste del particolare contro le pressioni omogeneizzanti
del «generale», e assume una posizione intransigentemente critica verso lo stato esistente
delle cose e verso le sue istituzioni.
Non si possono evitare le collisioni e l’antagonismo che cova continuamente tra due
prospettive e narrazioni derivanti da esperienze diverse. È impossibile impedire ai
conflitti di emergere e, nel momento in cui ciò si verifica, è anche impossibile arginare
l’antagonismo. La relazione tra l’amministrazione e gli amministrati è antagonistica
per natura: le due parti aspirano a risultati opposti e possono esistere unicamente
in uno stato di collisione potenziale, in un’atmosfera di reciproca sfiducia e sotto
la pressione di una sempre crescente tentazione di venire allo scontro.
Il conflitto è lampante in modo speciale, gli scontri sono particolarmente amari e
le relazioni sono singolarmente cariche di conseguenze catastrofiche nel caso delle
belle arti, ossia il settore più prominente della cultura, centrale energetica della
sua dinamica. Le belle arti sono il settore più pubblicizzato della cultura; per questo
non possono fare a meno di compiere sempre nuove incursioni in territorio vergine
e di condurre una guerriglia al fine di plasmare, spianare e progettare sempre nuovi
sentieri che il resto della cultura umana possa percorrere («l’arte non è un’esistenza
migliore, ma è una esistenza alternativa», osservava Iosif Brodskij: «non è un tentativo
di sfuggire alla realtà, ma il contrario, un tentativo di animarla»). I creatori d’arte sono per loro stessa natura avversari o concorrenti in attività
che gli amministratori preferirebbero, in fondo, trasformare in loro prerogative.
Quanto più si distanziano dall’ordine esistente e quanto più vigorosamente rifiutano
di cedere ad esso, tanto meno sono adatte le arti e gli artisti ai compiti attribuiti
loro dall’amministrazione; ciò significa a sua volta che gli amministratori li considereranno
inutili, se non apertamente nocivi per l’impresa. Gli amministratori e gli artisti
si presentano con finalità contrapposte: lo spirito dell’amministrazione rimane in
uno stato di lotta permanente con la contingenza, che è il territorio/ecotipo naturale
dell’arte. Ma, come abbiamo notato poc’anzi, la preoccupazione delle arti di abbozzare
alternative immaginarie allo stato prevalente delle cose le pone come rivali dell’amministrazione,
che lo vogliano o no. Il controllo sull’attività umana e gli sforzi profusi dall’amministrazione
si riducono, in ultima analisi, al desiderio di dominare il futuro. Ci sono perciò
un’infinità di ragioni per cui non si debba parlare di amore perduto tra amministratori
e appartenenti al mondo dell’arte.
Parlando di cultura, ma con un occhio particolare alle belle arti, Adorno riconosce
l’inevitabilità del conflitto con l’amministrazione. Ma afferma anche che gli antagonisti
hanno bisogno l’uno dell’altro; e, cosa più importante, l’arte ha bisogno di paladini,
per giunta pieni di risorse, perché senza il loro aiuto la sua vocazione non può essere
realizzata. È una situazione non dissimile da quella di molti matrimoni, nei quali
i coniugi non sanno vivere insieme in armonia, ma non riescono nemmeno a vivere separati
l’uno dall’altra; per quanto disagevole, spiacevole e insopportabile sia una vita
piena di scontri e litigi aperti, una vita forse avvelenata quotidianamente da una
reciproca ostilità nascosta, non c’è disgrazia più grande che possa capitare alla
cultura (o più precisamente alle belle arti) del suo completo e incondizionato trionfo
sulla sua avversaria: «la cultura risente danno, se viene pianificata e amministrata;
ma se è abbandonata a sé stessa, tutto ciò che è cultura rischia di perdere non solo
la possibilità di esercitare un’influenza, ma la stessa esistenza». Nell’esprimere questo parere Adorno trae ancora una volta la dolente conclusione
che aveva raggiunto con Max Horkheimer mentre lavorava alla Dialettica dell’illuminismo: che la storia delle religioni antiche, come l’esperienza dei partiti e delle rivoluzioni
moderne, ci insegna che il prezzo della sopravvivenza è la «metamorfosi dell’idea
in dominio». Questo insegnamento della storia deve essere studiato assiduamente, dice Adorno,
perché venga assimilato e impresso sulle pratiche degli artisti professionisti, i
quali portano l’onere principale della funzione «trasgressiva» della cultura e ne
accettano consapevolmente la responsabilità, facendo così della critica e della trasgressione
un modo di vita:
L’appello ai creatori di cultura affinché si sottraggano al processo dell’amministrazione
e se ne tengano fuori suona vuoto. Se ciò accadesse, non verrebbe tolta loro solo
la possibilità di guadagnarsi il pane, ma anche quella di esercitare una qualsiasi
influenza, la possibilità di un contatto fra l’opera e la società, a cui non può rinunciare
neanche l’opera più integra, se non vuole inaridire.
Che dire? Questo è un vero paradosso, e fra i più difficili da risolvere... Gli amministratori
devono difendere l’ordine affidato alla loro cura come ‘ordine delle cose’, ossia
proprio il sistema che gli artisti fedeli alla propria vocazione devono colpire, denunciandone
la perversità della logica e mettendone in discussione la saggezza. Come suggerisce
Adorno, l’innata sospettosità dell’amministrazione verso la naturale insubordinazione
e imprevedibilità dell’arte non può essere che un costante casus belli per gli artisti; d’altro canto, come egli non manca di aggiungere, i creatori di
cultura non possono andare avanti senza amministrazione, se – essendo fedeli alla
loro vocazione e volendo cambiare il mondo (per il meglio, per quanto possibile) –
vogliono farsi sentire e vedere, e, per quanto possibile, farsi conoscere e notare.
I creatori di cultura, dice Adorno, non hanno scelta: devono convivere ogni giorno
con questo paradosso. Per quanto gli artisti possano maledire a gran voce le tesi
e gli interventi dell’amministrazione, l’alternativa rispetto a una qualche forma
di convivenza è la perdita di significato all’interno della società e lo sprofondamento
nel non-essere. I creatori possono scegliere tra forme e stili di amministrazione
più o meno sopportabili, ma non possono scegliere tra accettazione e rifiuto dell’istituto
dell’amministrazione in quanto tale. Avere il diritto per una simile scelta è un sogno
irrealistico.
Il paradosso qui discusso non può essere risolto perché, nonostante i conflitti tra
loro e il loro muto o sonoro reciproco denigrarsi, i creatori di cultura e i funzionari
coabitano nello stesso condominio e partecipano alla medesima impresa. Le loro dispute
sono una manifestazione di ciò che gli psicologi descriverebbero come ‘rivalità tra
fratelli’. Gli uni e gli altri sono dominati dalla medesima comprensione del proprio
ruolo e della sua finalità nel mondo condiviso, che vuol dire rendere quel mondo diverso
da ciò che continuerebbe a essere, o diverrebbe, senza il loro intervento e senza
l’input che essi immettono nella sua condizione e nel suo funzionamento. Entrambi
nutrono un dubbio (non infondato) sulla capacità dell’ordine, esistente o desiderato,
di sostenersi o di venire in essere con le proprie forze, senza il loro aiuto. Essi
non sono in disaccordo sul fatto che il mondo necessiti di un monitoraggio costantemente
vigile e di frequenti aggiustamenti. Il disaccordo riguarda gli oggetti di aggiustamento
e la direzione che le correzioni dovrebbero prendere. In fin dei conti, ciò che è
in gioco nelle discussioni e nelle continue lotte di potere è il diritto di prendere
decisioni su questa materia, per fissare così la propria posizione e rendere vincolante
la propria decisione.
Hannah Arendt ha fatto un passo avanti e ha guardato oltre la posta direttamente in
gioco nel conflitto, raggiungendo, per così dire, le radici esistenziali della discordia:
un oggetto può dirsi culturale nella misura in cui resiste nel tempo; la sua durevolezza
è in proporzione inversa alla sua funzionalità. Quest’ultima è la caratteristica che
fa di nuovo sparire l’oggetto dal mondo fenomenico attraverso l’uso e la consumazione.
(...) Quando tutti gli oggetti e le cose di questo mondo, prodotti oggi o nel passato,
diventano mere funzioni del processo vitale della società, quasi la loro esistenza
fosse giustificata solo dalla soddisfazione di qualche bisogno, la cultura è minacciata,
e importa poco se i bisogni invocati per questa funzionalizzazione siano di ordine
superiore o inferiore.
Secondo la Arendt, la cultura si estende al di là e al di sopra della realtà attuale.
Non si occupa di ciò che potrebbe essere l’ordine del giorno in un determinato momento,
di ciò che potrebbe essere salutato come l’«imperativo del momento». Essa fa di tutto
per non essere vincolata da limiti definiti dall’«attualità» delle questioni – indipendentemente
da chi le abbia dichiarate tali e con quali mezzi – e per liberarsi dalle costrizioni
che quest’ultima impone.
Essere usati e consumati sul posto, o, di più, essere danneggiati nel corso dell’uso
e del consumo, non è, secondo la Arendt, ciò cui sono destinati i prodotti culturali,
né è la misura del loro valore. La Arendt sostiene che la cultura (cioè l’arte) sta
tutta nella bellezza. Credo che scelga di definire gli interessi della cultura in
questo modo perché l’idea della bellezza è sinonimo, o incarnazione, di un ideale
che elude risolutamente e ostinatamente la giustificazione razionale e la spiegazione
causale; per sua natura la bellezza è priva di scopo o di uso ovvio, non è al servizio
di altro che di sé stessa – né può giustificare la propria esistenza invocando un
bisogno riconosciuto, palpabile e documentato che, impazientemente e a gran voce,
richieda di essere soddisfatto. Quali che siano i bisogni che l’arte potrebbe semmai
soddisfare, essi devono prima di tutto essere evocati e portati in vita mediante l’atto
della creazione artistica. Una cosa è un ‘oggetto culturale’ se dura più a lungo di
qualsiasi uso pratico che ne potrebbe accompagnare o ispirare la creazione.
I creatori di cultura possono ribellarsi oggi, come hanno fatto in passato, contro
l’interferenza invadente e pervasiva che insiste a valutare gli oggetti culturali
secondo criteri estranei e inadeguati alla naturale non-funzionalità, all’irrequieta
spontaneità e all’intrattabile indipendenza della creazione; possono ribellarsi contro
certi capi, nominati o autonominati, che sfruttano il potere e i mezzi a loro disposizione
per richiedere conformità a regole e parametri di utilità che essi stessi hanno stilato
e definito; e che, alla fin fine, proprio come in passato, tarpano le ali dell’immaginazione
artistica e minano i princìpi della creazione artistica. E tuttavia qualcosa negli
ultimi decenni è cambiato nella situazione dell’arte e dei suoi creatori: in primo
luogo, la natura dei manager e amministratori attualmente in carica nel mondo dell’arte,
o che aspirano a tale posizione; in secondo luogo, i mezzi che utilizzano per arrivarci;
in terzo luogo, il senso attribuito da questa nuova razza di amministratori alla nozione
della ‘funzionalità’ e ‘utilità’ che si aspettano dall’arte e che utilizzano per indurla
in tentazione e/o farle richieste.
Con il suo abituale gusto per il paradosso e la contraddizione, e con l’orecchio in
notevole sintonia con le tendenze più recenti, Andy Warhol ha affermato in un colpo
solo che «l’artista è uno che fa cose di cui nessuno ha bisogno» e che «esseri bravi
negli affari è il tipo d’arte più affascinante. Fare soldi è un’arte, lavorare è un’arte
e il successo negli affari è l’arte migliore». La tentazione offerta dai capi-operazione
del mercato consumistico – in altre parole, da coloro che sono specializzati nel far
aumentare la domanda di pari passo con l’offerta – consiste nella promessa che, sotto
la nuova amministrazione, quelle due affermazioni non saranno più contraddittorie:
i nuovi capi garantiranno che la gente senta il bisogno di possedere precisamente
ciò che gli artisti vogliono creare (e che paghi), e che la pratica dell’arte divenga
un «affare di successo». La costrizione, d’altro canto, consiste nel fatto che d’ora
in avanti la volontà delle nuove autorità detterà di quali creazioni artistiche ci
sarà richiesta e quale tipo di creatività diverrà un «affare di successo», la migliore
di tutte le arti, un’arte nella quale gli esperti del mercato dell’arte vincono a
mani basse contro i maestri del pennello e del bulino.
La mediazione nel portare l’arte al pubblico non è niente di nuovo; nel bene e nel
male, era di solito nelle mani del patrocinio statale, con più o meno soddisfazione
per gli artisti; se ne occupavano le istituzioni politiche responsabili della cultura.
Ciò che è veramente nuovo sono i criteri usati in tale mediazione dalla nuova razza
di manager, agenti delle forze del mercato, che rivendicano le posizioni abbandonate
dagli agenti delle autorità statali (o loro sottratte). Poiché questi sono criteri
del mercato dei consumi, essi riguardano per la maggior parte questioni come l’immediatezza
del consumo, l’immediatezza della gratificazione e l’immediatezza del profitto. Un
mercato dei consumi che opera per soddisfare bisogni a lungo termine, per non dire
bisogni eterni o senza tempo, è una contraddizione in termini, un ossimoro. Il mercato
dei consumi favorisce e promuove il ricambio rapido con il più breve intervallo di
tempo possibile tra uso e smaltimento, al fine di fornire immediata sostituzione per
beni che non sono più utilizzabili. Una simile posizione, tipica dello «spirito del
nostro tempo» – che, secondo Milan Kundera, «è concentrato sull’attualità, che è così
espansiva, così ampia, da escludere il passato dal nostro orizzonte e ridurre il tempo
al solo attimo presente» –, è in acuta contraddizione con la natura della creazione artistica e con lo scopo
di tutta l’arte, non solo del romanzo, di cui parla Kundera. La missione dell’arte,
per citare ancora Kundera, è «proteggerci contro l’oblio dell’essere». Quel che è
nuovo, quindi, con riferimento alle precedenti osservazioni, è che le strade dei fratelli
ancora impegnati nella reciproca rivalità si separano.
Ciò che è in gioco nella fase odierna di questo antico tira e molla non è solo la
risposta alla domanda ‘chi comanda?’, ma il senso stesso dell’amministrare l’arte,
la finalità dell’amministrazione e le conseguenze che se ne vogliono ottenere. Potremmo
proseguire e presumere che ciò che è in gioco è la sopravvivenza delle arti nella
forma in cui esse sono esistite a partire dall’epoca in cui le pareti delle grotte
di Altamira sono state ricoperte di pitture. Sottoporre l’attività culturale ai parametri
e ai criteri del mercato dei consumi equivale a richiedere che le opere d’arte accettino
le condizioni d’ingresso fissate per ogni prodotto che aspira al rango di bene di
consumo, ossia che si giustifichi nei termini del suo attuale valore di mercato. Ma
può la cultura sopravvivere alla svalutazione dell’essere e alla decadenza dell’eternità,
forse i due più dolorosi tipi di danno collaterale causati dal trionfo del mercato
dei consumi? Non conosciamo, né possiamo ancora conoscere, la risposta a questa domanda
– e allora sarà meglio attenerci al ragionevole consiglio del filosofo Hans Jonas,
di fidarci di più, quando l’epoca è incerta, delle buie previsioni dei «profeti di
sventura» che non delle consolatorie rassicurazioni dei promotori e dei sostenitori
del «meraviglioso nuovo mondo di consumatori».
La prima domanda che ci si fa a proposito delle nuove iniziative artistiche in cerca
di riconoscimento riguarda le prospettive della domanda sul mercato, sostenuta dai
mezzi finanziari di potenziali acquirenti. Ma dobbiamo ricordare che le intenzioni
consumistiche sono notoriamente capricciose e volatili, e che la storia del dominio
dell’arte da parte dei mercati del consumo è quindi costellata di false prognosi e
di valutazioni errate e fuorvianti, con le decisioni sbagliate che ne derivano. La
logica di questo dominio si riduce in pratica a compensare la mancanza di criteri
estetici di qualità con la moltiplicazione delle offerte, gli ‘scaffali ben ripieni’,
o, per dirla semplicemente, con dispendiosi eccessi e scarti in eccesso. George Bernard
Shaw, che non era solo un grande commediografo ma anche un grande appassionato di
fotografia, consigliava di solito agli altri amatori che nel fare le foto dovevano
seguire l’esempio del merluzzo, il quale deve deporre migliaia di uova perché almeno
uno dei pesci appena nati possa vivere fino all’età adulta. Sembra che tutta l’industria
dei consumi e i suoi agenti di mercato abbiano preso molto sul serio gli avvertimenti
e i consigli di George Bernard Shaw.
Sono i clienti potenziali – o più precisamente il loro numero, l’entità dei loro conti
correnti e l’ampiezza del credito di cui hanno disponibilità – che decidono oggi,
consapevolmente o meno, il destino dei prodotti culturali. La linea che divide l’arte
‘di successo’ (cioè l’arte che attira l’attenzione pubblica) da quella non di successo,
povera o inefficace (cioè l’arte che non è riuscita ad inserirsi in gallerie rinomate
o in case d’asta frequentate dalla giusta clientela) viene tracciata con riferimento
a statistiche di vendita, frequenza delle esposizioni e profitti. In linea con la
celebre espressione di Daniel J. Boorstin – in parte ironica, ma non del tutto – secondo
cui «le celebrità sono persone famose per il fatto di essere famose», ‘un buon libro
è un libro che vende bene perché è molto vendibile’. I teorici e i critici d’arte
che stabiliscono il valore delle opere d’arte che entrano oggi nel mercato, e che
cercano di trovare una correlazione tra la popolarità dell’artista (uomo o donna)
e il valore delle sue opere d’arte, non sono riusciti ad andare oltre, o a risultare
più profondi, di quanto abbia fatto Boorstin con la sua arguzia. Quando si cerca una
ragione decisiva per l’alto costo di un artista, è più facile trovarla nel nome della
galleria, del programma televisivo o del giornale responsabile di aver fatto passare
l’artista e la sua opera dall’oscurità alla piena luce dello spazio pubblico, che
nelle opere d’arte in quanto tali.
Non sono solo istituzioni e aziende a conferire valore aggiunto alle opere d’arte
concedendo loro il proprio marchio, o a svalutarle togliendolo. L’attribuzione di
un ‘imprimatur’ è accompagnata da un evento, saltuario e occasionale ma ‘strombazzato’
in pompa magna, un baccanale mediatico di ‘pubblicità’ e ‘promozione’. Oggi gli eventi
sembrano essere la più ricca fonte di valore aggiunto per la cultura. Stando alla
ricetta di Boorstin, essi attirano l’attenzione delle masse perché le masse vi prestano
attenzione, e vendono un gran numero di biglietti perché ci sono lunghe file per quei
biglietti...
Gli eventi sono esenti dai rischi cui sono esposte anche le più celebri gallerie d’arte
e sale da concerto. In un mondo sintonizzato sul capriccio, la fragilità e la labilità
della memoria pubblica, e in presenza di innumerevoli attrazioni tentatrici che si
fanno la guerra per accedere a un’attenzione cronicamente depauperata, essi hanno
il vantaggio di non dover contare sulla lealtà – dubbia, date le circostanze – di
clienti fedeli. Gli eventi, così come tutti gli altri autentici prodotti di consumo,
sono dotati di una data di scadenza (di solito molto ravvicinata). Chi li progetta
e chi vi opera può pertanto rimuovere dai propri calcoli qualsiasi preoccupazione
a lungo termine, contenendo così le spese – e, quel che più conta, guadagnando credibilità
e prestigio grazie alla percepita risonanza tra il loro carattere e lo spirito del
tempo. Gli eventi, secondo George Steiner, sono programmati per avere massimo impatto
e obsolescenza istantanea. Essi pertanto evitano la piaga tipica di ogni investimento
a lungo termine, ossia la ‘legge dei rendimenti decrescenti’, nota in pratica da sempre
a qualsiasi contadino e in teoria a qualsiasi economista dai tempi di Turgot, Malthus
e Ricardo.
La straripante corsa agli eventi – ad attività che non durano mai più della vita media
dell’interesse del pubblico e che sono oggi la più ricca fonte di introiti per il
mercato – si armonizza alla perfezione con una tendenza molto diffusa nel mondo liquido-moderno.
I prodotti della cultura vengono creati di questi tempi con un ‘progetto’ in testa,
progetto che è predeterminato e che ha di solito il ciclo vitale più breve possibile.
Come ha notato Naomi Klein, le aziende che preferiscono ricavare guadagni attaccando
la propria etichetta su prodotti già fatti invece che accettare la responsabilità
di produrli, con tutti i rischi che questo comporta, possono applicare tale procedimento
a qualsiasi cosa: «non solo alla sabbia, ma anche alla farina, alla carne di manzo,
ai mattoni, ai metalli, al cemento, ai prodotti chimici, alle granaglie e a un’infinita
varietà di prodotti solitamente considerati non interessanti per questo processo»; prodotti, in altre parole, che venivano considerati (erroneamente, come si è rivelato)
capaci di dare prova del loro valore e della loro utilità grazie alle proprie, facilmente
dimostrabili, qualità e virtù. Che in questo elenco manchino le opere d’arte va ascritto
a un raro caso di omissione da parte di Naomi Klein...
Per secoli la cultura è vissuta in una non semplice simbiosi con ogni sorta di ricchi
patrocinatori e impresari verso i quali nutriva sentimenti contrastanti, e dal cui
abbraccio unilaterale si sentiva limitata, anzi soffocata – anche se spesso raffreddava
i suoi bollenti spiriti facendo loro continue richieste o domande d’aiuto e riscuotesse
da tanto pubblico nuovo vigore e rinnovate ambizioni. La cultura trarrà beneficio
o svantaggio dal ‘cambiamento di amministrazione’? Uscirà indenne dal cambio della
guardia nella torre? Sopravvivrà a questo cambiamento? Le sue opere d’arte godranno
di qualcosa di più di una fuggevole vita e di quindici minuti di celebrità? E i nuovi
amministratori, in conformità con gli stili di amministrazione che vanno oggi di moda,
non limiteranno le proprie attività di custodia alla ‘spoliazione dei beni’, togliendo
valore a ciò che devono curare? Non finirà che il ‘cimitero degli eventi culturali’
sostituirà la ‘montagna che si innalza verso il cielo’, per usare la metafora più
appropriata alla condizione in cui si trova la cultura? Dobbiamo aspettare ancora
un po’ prima di rispondere a queste domande. Ma non dobbiamo cessare di cercare le
risposte, e anche in modo energico. Né dobbiamo trascurare la questione di quale forma
la cultura prenderà infine come risultato delle nostre azioni o della mancanza d’azione.
Il patrocinio statale della cultura nazionale non è stato risparmiato dal destino
di molte altre funzioni statali ‘deregolate’ e ‘privatizzate’: come queste, e in vista
del mercato, si è sbarazzato di un numero sempre maggiore di compiti su cui non poteva
più esercitare la sua sempre più debole presa. Ma ci sono due funzioni che è impossibile
deregolare, privatizzare e cedere senza un ‘danno collaterale’ socialmente catastrofico.
Una è la funzione di difendere i mercati da sé stessi, dalle conseguenze della loro
nota incapacità di autolimitarsi e di autocontrollarsi, come dalla loro altrettanto
nota tendenza a sminuire tutti i valori che non si prestano alla valutazione e alla
negoziazione, facendoli decadere dalla sua lista degli interventi programmati ed eliminandone
il costo dai calcoli relativi all’efficacia dei costi. L’altra è la funzione di riparare
i danni sociali e culturali che coprono la strada dell’espansione del mercato a causa
di questa incapacità e tendenza. Jack Lang sapeva quel che faceva...
Non saprei riassumere queste considerazioni e trarne conclusioni pratiche meglio di
quanto ha fatto Anna Zeidler-Janiszewska, intelligente ricercatrice che ha indagato
sul destino della cultura artistica nell’Europa post-bellica:
se distinguiamo la cultura artistica (in quanto ‘realtà mentale’) dalla pratica della
partecipazione ad essa (partecipazione creativa e ricettiva – meglio, oggi: partecipazione
creativo-ricettiva o ricettivo-creativa) e dalle istituzioni che rendono possibile
tale partecipazione, allora una politica culturale di Stato dovrebbe occuparsi delle
istituzioni di partecipazione (che comprendono i media ‘pubblici’) e la sua preoccupazione
principale dovrebbe essere di parificare le opportunità di partecipazione (...). Qualità
e pari opportunità di partecipazione: in altre parole, il punto focale della politica
culturale sono i ‘ricettori’, ovvero le relazioni tra gli ‘amministratori’ e il ‘pubblico
delle arti’, piuttosto che il contenuto e la forma.
Dalle nostre precedenti considerazioni segue che le creazioni culturali così come
le scelte e gli usi culturali che ne fanno i loro ‘ricettori’ sono incastonate in
un’intrinseca interazione – oggi più che in qualsiasi altro periodo del passato –
e che, data la mutevole collocazione delle arti nel complesso della vita contemporanea,
in futuro questa interazione è destinata con ogni probabilità a divenire ancora più
stretta. In effetti le opere d’arte contemporanee tendono ad essere indeterminate,
indefinite, incomplete, ancora in cerca del proprio significato e per il momento insicure
del proprio potenziale – e destinate a rimanere tali fino al momento del loro incontro
con il loro ‘pubblico’ (più esattamente, il ‘pubblico’ che esse invocano e/o provocano,
facendolo così esistere), un incontro attivo da entrambe le parti; il vero significato
(e quindi il potenziale di illuminazione e innovazione) delle arti viene concepito
e matura all’interno di un simile incontro. Il meglio delle arti contemporanee (in
effetti la caratteristica più promettente ed efficace nello svolgimento del loro ruolo
culturale) sta in ultima istanza nei passi che esse fanno compiere nel processo infinito
di reinterpretazione dell’esperienza condivisa, offrendo inviti sempre validi per
il dialogo, ovvero, in questo caso, un polilogo in perpetuo ampliamento...
Proprio come la vera funzione dello Stato capitalistico nell’amministrare la ‘società
della produzione’ era quella di assicurare un continuo e proficuo incontro tra il
capitale e il lavoro, mentre la vera funzione dello Stato che presiede alla ‘società
dei consumi’ è di assicurare il frequente e positivo incontro tra i prodotti di consumo
e i consumatori, così il punto focale dello ‘Stato culturale’, ossia dello Stato orientato
verso la promozione delle arti, deve concentrarsi sul garantire e coadiuvare il continuo
incontro tra gli artisti e il loro ‘pubblico’. È dentro questo tipo di incontro che
le arti della nostra epoca vengono concepite, generate, stimolate e realizzate. È
nell’ottica di un tale incontro che le iniziative artistiche e performative locali
e ‘di base’ devono venire incoraggiate e sostenute: come tante altre funzioni dello
Stato contemporaneo, la sponsorizzazione della creatività culturale attende di essere
‘sovvenzionata’ con urgenza.