23. Il mondo è inadatto all’istruzione? (1)
La «crisi dell’istruzione», di cui in questi tempi si dibatte molto, non è certo una
novità. La storia dell’istruzione ha conosciuto molti periodi critici, durante i quali
apparve evidente che presupposti e strategie apparentemente collaudati e affidabili
stessero perdendo la presa sulla realtà ed esigevano di essere riconsiderati, rivisti
e riformati. L’attuale crisi sembra però diversa da quelle che l’hanno preceduta.
Le sfide dei nostri giorni assestano duri colpi all’essenza stessa dell’idea di istruzione,
così com’è stata intesa sin dagli albori della lunga storia della civiltà. Esse mettono
in dubbio le invarianti di tale idea: quei tratti costitutivi dell’istruzione che in passato hanno resistito
a ogni sfida, emergendo indenni da tutte le crisi, assunti mai indagati o messi in
discussione, e ancor meno sospettati di aver esaurito il loro cammino e di aver bisogno
di esser sostituiti.
Nel mondo liquido-moderno la solidità delle cose, così come la solidità dei rapporti
umani, tende a essere considerata male, come una minaccia: dopotutto, qualsiasi giuramento
di fedeltà e ogni impegno a lungo termine (per non parlare di quelli a tempo indeterminato)
sembrano annunciare un futuro gravato da obblighi che limitano la libertà di movimento
e riducono la capacità di accettare le opportunità nuove e ancora sconosciute che
(inevitabilmente) si presenteranno. La prospettiva di trovarsi invischiati per l’intera
durata della vita in qualcosa o in un rapporto non rinegoziabile ci appare decisamente
ripugnante e spaventosa. E questo non dovrebbe sorprenderci, se pensiamo che persino
gli oggetti più desiderati invecchiano rapidamente e perdono in poco tempo il loro
smalto, sino a trasformarsi da motivo di vanto a marchio infamante. I direttori delle
riviste patinate riescono ad avere il polso della nostra epoca, e oltre ad aggiornare
i propri lettori su ciò che «occorre fare» e ciò che «occorre avere», forniscono loro
consigli su ciò che è «out» e dunque va buttato. Il nostro mondo assomiglia sempre
di più alla città invisibile di Leonia descritta da Italo Calvino, la cui opulenza
«più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate [...] si misura
dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove»1. Nel nostro mondo liquido-moderno, la vera passione nasce dalla gioia di «disfarsi»,
di «eliminare», scartare e buttare.
Parlare della capacità di un oggetto o di un legame di durare per sempre non è più
motivo di lode. Oggetti e legami devono durare soltanto per un periodo di tempo limitato,
per poi decomporsi, essere mandati al macero o comunque tolti di mezzo una volta che
hanno assolto al loro scopo – come prima o poi accade. I beni materiali, e in particolare
quelli che durano a lungo e di cui non è facile disfarsi, vanno perciò evitati. Il
consumismo di oggi non si basa sull’accumulo di oggetti, bensì sul loro godimento
istantaneo e «usa-e-getta». Perché, allora, il «pacchetto di conoscenze» che accumuliamo
nella permanenza a scuola o all’università dovrebbe sfuggire a questa regola universale?
Nel vortice dei cambiamenti, la conoscenza appare decisamente più allettante se finalizzata
a un uso immediato e intesa come bene «usa-e-getta», il tipo di conoscenza che si
compiace di essere immediatamente disponibile, di pronto consumo, come quei programmi
di software che a ritmo sempre più serrato si avvicendano sugli scaffali dei negozi.
Il pensiero che l’istruzione possa essere un «prodotto» di cui appropriarsi e da conservare
per sempre ci appare dunque deprimente e certo non testimonia a favore dell’idea di
un’istruzione scolastica istituzionalizzata. Un tempo, per convincere i propri figli
dell’utilità dell’apprendimento, madri e padri usavano ripetere che «nessuno avrebbe
potuto toglier loro ciò che avrebbero imparato»; un’argomentazione che all’epoca appariva
forse incoraggiante per i loro figli, ma che i nostri giovani accoglierebbero con
orrore se venisse usata ancora dai loro genitori. Al giorno d’oggi, qualsiasi impegno
tende infatti a suscitare un senso di risentimento, a meno di non essere accompagnato
da una clausola di «fino a nuovo avviso». Sempre più nelle città americane i permessi
di costruzione vengono rilasciati soltanto contestualmente a quelli di demolizione,
mentre i generali americani si oppongono con decisione (benché invano) all’impiego
di truppe su un territorio, a meno che non sia stata elaborata in anticipo una «strategia
di uscita».
La seconda sfida ai presupposti basilari dell’istruzione arriva dalla natura intermittente
ed essenzialmente imprevedibile dei cambiamenti contemporanei, e va a rafforzare la
prima. Da sempre la conoscenza è apprezzata per la sua fedele rappresentazione del
mondo; cosa accade però quando il mondo cambia in modo da mettere continuamente in
discussione la verità della conoscenza esistente, cogliendo regolarmente di sorpresa
persino le persone «più aggiornate»? Werner Jaeger, autore di un’analisi classica
delle antiche radici dei concetti di insegnamento e apprendimento, riteneva che l’idea
di istruzione (Bildung, «formazione») si basasse in origine sul duplice assunto di un immutabile ordine
del mondo sottostante alla superficiale varietà dell’esperienza umana, e di leggi
analogamente eterne che la governano. Il primo assunto spiegava la necessità e i vantaggi
della trasmissione della conoscenza da insegnanti ad allievi, mentre il secondo forniva
agli insegnanti la convinzione necessaria a insistere sull’eterna validità del modello
che desideravano che i loro alunni o discepoli seguissero ed emulassero.
Oggi, il mondo in cui abitiamo assomiglia invece più a uno strumento per dimenticare,
anziché offrire un contesto adatto all’apprendimento e capace di favorirlo. Come in
quel labirinto di cui un tempo si servivano i comportamentisti, le suddivisioni possono
essere impervie e impenetrabili, e per di più poggiano su rotelle e si spostano di
continuo, così da svuotare di senso i percorsi collaudati ed esplorati appena il giorno
prima. Guai a possedere una buona memoria: quelli che sino a ieri erano dei binari
fidati, oggi ci condurrebbero contro una parete spoglia o nelle sabbie mobili, e i
consueti modelli di condotta, un tempo infallibili, rischiano di sfociare nel disastro
anziché portare al successo. In un mondo del genere, l’apprendimento è perennemente
destinato a inseguire fini sempre elusivi. A rendere la situazione ancora più complessa
è il fatto che questi inizierebbero a disintegrarsi nel momento stesso in cui venissero
raggiunti; e poiché le ricompense che premiano un comportamento corretto tendono a
essere spostate di giorno in giorno da un luogo all’altro, le tecniche di rinforzo
risulterebbero tanto fuorvianti quanto sono rassicuranti: sono delle trappole di cui
diffidare e da evitare, dal momento che potrebbero instillare abitudini e impulsi
destinati a rivelarsi inutili, se non addirittura dannosi, di lì a poco.
Come osservò Ralph Waldo Emerson, quando si pattina su una lastra sottile di ghiaccio
la salvezza sta nella velocità. Chi cerca la salvezza farà dunque bene a muoversi
con una rapidità sufficiente a evitare di sottoporre a carichi eccessivi una qualsiasi
parte della lastra. Nel mutevole mondo della modernità liquida, in cui quasi nulla
riesce a mantenere la propria forma per un tempo sufficientemente lungo da infondere
fiducia e a solidificarsi in un’affidabilità a lungo termine (in ogni caso, non abbiamo
modo di sapere se e quando si solidificherà, ed è poco probabile che ciò avvenga),
camminare è meglio che restare seduti, correre è meglio che camminare, e cavalcare
le onde è addirittura preferibile al correre. Tanto più se si è leggeri e agili, non
si è troppo esigenti sul tipo di onde che arrivano e si è sempre pronti ad accantonare
ciò che sino a un attimo prima si prediligeva.
Tutto questo è contrario a ciò che l’apprendimento e l’istruzione hanno rappresentato
per la maggior parte della loro storia. Dopo tutto, apprendimento e istruzione furono
pensati per un mondo durevole, che si sperava rimanesse tale e si pensava che lo sarebbe
diventato ancor più di quanto non lo fosse stato fino a quel momento. In un mondo
del genere la memoria era una risorsa preziosa: tanto più preziosa quanto più era
in grado di attingere al passato e duratura. Una memoria così profondamente radicata
oggi rappresenterebbe in molti casi un potenziale handicap, spesso risulterebbe fuorviante
e il più delle volte inutile.
Viene da domandarsi sino a che punto la rapida e spettacolare ascesa dei server e
dei network elettronici sia dovuta ai problemi di immagazzinamento, smaltimento e
riciclo dei rifiuti che i server hanno promesso di risolvere. La memorizzazione causa
più scarti che prodotti utili, e in assenza di un metodo affidabile per decidere in
anticipo come distinguerli (quali dei prodotti apparentemente utili saranno presto
superati, quali di quelli all’apparenza inutili godranno di un improvviso picco di
richieste), la possibilità di immagazzinare tutte le informazioni in contenitori tenuti
a distanza di sicurezza dal nostro cervello (dove potrebbero forse riuscire surrettiziamente
ad assumere il controllo del comportamento) appare come una proposta provvidenziale
e allettante...
(continua)