Excursus. Cultura ed eternità
Noi umani sappiamo di essere mortali: destinati a morire. Vivere con questa consapevolezza
è difficile. Sarebbe del tutto impossibile se non intervenisse la cultura. La cultura,
grande invenzione umana (forse la più grande di tutte: una meta-invenzione, un’invenzione
che mette in moto l’inventiva e rende possibile tutte le altre invenzioni), è un dispositivo
per rendere sopportabile – contro ogni logica e ragione – la vita degli umani, cioè
quel tipo di vita che comporta la consapevolezza della mortalità.
Quale che sia il metro con cui la si giudica, non è una conquista di poco conto. Ma
la cultura fa di più: riesce in qualche modo a trasformare l’orrore della morte in una forza motrice della vita. Estrae il senso della vita dall’assurdità della morte. «Dovunque», osserva Ernest Becker, «la società è un mito vivente del
significato della vita umana, una spavalda creazione di significato»3. O almeno, è ciò che un tempo facevano tutte le società, anche se il modo di farlo
variava da un luogo all’altro e da un’epoca all’altra, con effetti sorprendentemente
diversi sulla forma e lo stile della vita umana.
Che cosa avevano in comune quelle forme e quegli stili? Il fatto di essere autori
e di autorizzare una ricetta, quale che fosse, per trascendere la mortalità. Proprio
questo ha in mente Becker quando suggerisce che «la società è un sistema codificato
di eroismo», cioè un sistema concepito per fungere da «veicolo per l’eroismo terreno»,
teso a indurre «la speranza e la convinzione [...] che le cose che l’uomo crea nella
società abbiano un valore e un senso duraturo, che offuschino morte e decadenza vivendo
più a lungo di loro, che l’uomo e i suoi prodotti contino»4.
Vorrei però osservare subito che il termine «eroismo» può essere fuorviante. Accettare
la ricetta offerta, ingoiare la dose raccomandata del farmaco prescritto, stare perfettamente
in riga, seguire fedelmente le pratiche che promettono di condurre da qui all’eternità,
non richiede né il coraggio né la disponibilità al sacrificio di sé che tendiamo ad
associare con l’idea di eroismo. Tutt’al più, lo sforzo di sconfiggere la morte con
l’aiuto di strumenti il cui potere di sconfiggere la morte, appunto, è garantito dalla
società, è un artificio magico pari alle gesta degli alchimisti: garantire la durata,
forse una durata eterna, pur servendosi di materie prime penosamente fragili e di
poteri evidentemente caduchi. Si tratta indubbiamente di un’impresa eccezionale, straordinaria,
sbalorditiva, di un ordine di grandezza che, retrospettivamente, potrebbe giustificare
la pretesa al titolo di eroe. Ma quel titolo ha senso soltanto se è un privilegio
offerto a pochi eletti, mentre, per quanto riguarda la società come «sistema di eroi», il punto è che, al contrario, i modi e mezzi per realizzare questa conquista
sono messi a disposizione di gente comune, priva delle rare qualità e del valore di
quell’esiguo manipolo di valorosi guerrieri per i quali fu coniata l’idea di «eroismo»
nel suo senso originario. Il trucco non può funzionare, la società non può diventare
un «sistema di eroi», altrimenti «chiunque sarebbe capace». In tutta franchezza, l’espressione «sistema di eroi» è un ossimoro.
A diversi tipi di persone si offrono diversi veicoli per trasportarle nell’eternità,
ma la distinzione decisiva fra questi veicoli è, potremmo dire, la differenza fra
auto private e trasporti pubblici. La tesi di Becker, allora, necessita di una correzione.
La società, e la cultura che fa della società umana un sistema, è un marchingegno
che permette che il gesto eroico sia compiuto, quotidianamente e prosaicamente, da
esseri umani comuni e tutt’altro che eroici.
Effettivamente sono due, e non uno, gli stratagemmi della cultura che rendono sopportabile
vivere con la consapevolezza dell’inevitabilità della morte.
Lo stratagemma più comune non richiede alcun tipo di eroismo, inteso in senso lato
oppure ristretto. La funzione di tale stratagemma è abolire, o almeno sospendere,
l’esigenza stessa di essere eroici, lasciando poco spazio alle situazioni che potrebbero
inserire a forza la questione della trascendenza nell’agenda della vita. Come osservava
Blaise Pascal molto tempo fa, «gli uomini, non avendo potuto guarire la morte... hanno
deciso di non pensarci per rendersi felici». Effettivamente, aggiunge, «è più facile
il sopportare la morte senza pensarci che pensarci senza avere paura»: l’implicazione
è che i pericoli reali s’impadroniscono della mente, prosciugano le emozioni ed esauriscono
fino all’ultima goccia le energie da investire nell’azione, cosicché nel momento del
pericolo si è meno inclini a meditare sulla morte di quanto si faccia normalmente.
Altri passatempi, meno ardui e rischiosi del tenere a bada le minacce mortali, ma
non meno capaci di assorbire, sono praticati socialmente con effetti assai simili:
spremer fuori la meditazione sulla morte dalle attività della vita quotidiana. Si
tratta, nell’opinione di Pascal, di diversivi che riempiono il tempo disponibile dal principio alla fine, senza neanche un momento
vuoto e ozioso in cui lasciare che i pensieri vaghino senza meta, per evitare che
possano concentrarsi per caso sulla vanità ultima delle occupazioni vitali, che appaiono
tanto importanti e avvincenti perché consumano tempo ed energie. «Noi non cerchiamo
il godimento tranquillo e pacifico che ci lascia pensare alla nostra infelice condizione...
ma cerchiamo proprio il trambusto che ci distoglie dal pensarci e ci diverte»5. Questa preferenza ci fa gustare più la caccia che la preda: «Quella lepre non ci
proteggerebbe dall’idea della morte... ma la caccia sì» (ovvero, per dirla con Robert
Louis Stevenson, viaggiare animati dalla speranza è meglio che arrivare). Una lepre
morta potrà anche occupare l’ultimo posto nell’elenco di priorità del cacciatore,
ma la caccia è in cima all’elenco e deve restarci perché, per quanto possa essere
vana in se stessa, la sua vanità è indispensabile per coprire l’altra vanità, quella
che conta davvero.
Max Scheler ha additato le conseguenze dell’applicazione estensiva di quello che è
lo «stratagemma di diversione». A differenza di Pascal, però, Scheler vedeva nella
fuga attraverso i diversivi un evento della storia, anziché una perpetua condizione
umana: un esito della moderna rivoluzione del modo di essere. Una novità da lui deplorata,
in quanto vi scorgeva un pericolo mortale per l’anelito umano alla trascendenza.
La morte è stata allontanata dalla vista degli uomini e delle donne contemporanei:
essa «non è più visibile». Questo «non-essere della morte» è diventato, secondo Scheler,
l’«illusione negativa della coscienza moderna»6. Non essendo più una parte del destino umano che va affrontata in tutta la sua maestà
e debitamente rispettata, la morte è stata retrocessa allo status di una deplorevole
catastrofe, come un colpo di pistola o una tegola che si stacca da un tetto. Da quando
l’orizzonte della mortalità è stato efficacemente rimosso dal suo raggio visivo e
reso incapace di orientare progetti a lungo termine, o di dare ordine alle attività
quotidiane, la vita ha perso la sua coesione interna. La vita è vissuta dall’oggi
all’indomani «finché, per una curiosa coincidenza, non c’è più un domani». Ma la paura della morte,ritirandosi sullo sfondo o addirittura scomparendo dalla vita quotidiana, non ha lasciato
il posto alla quiete spirituale come si sperava. Anzi è stata prontamente sostituita
dalla paura della vita. A sua volta, quest’altra paura provoca «un atteggiamento calcolatore nei confronti
della vita», alimentato da una sete inestinguibile di beni sempre nuovi e dal culto
del «progresso», che è in sé un’idea inutile e insensata. Il suo unico senso pratico
– e qui Scheler cita la memorabile sentenza di Werner Sombart – è «fare progressi».
L’accanita svalutazione del «lungo periodo» in quanto tale è un denominatore comune
delle qualità già perdute o divenute minacciosamente scarse e minacciate di estinzione:
qualità e stati che sono solidi, duraturi e durevoli, in ultima analisi qualità dell’eternità, di cui tutti quei fenomeni erano soltanto delle approssimazioni imperfette, benché
colme di anelito e speranza. L’eternità, si è tentati di concludere, ha fatto il suo
tempo: un tempo assai lungo, durato molti anni, secoli e millenni. Fin dagli albori
dell’umanità, l’eternità era apparsa una compagna/ guida affidabile degli esseri umani.
A quanto sembra, però, le strade dell’eternità e dell’umanità si sono divise o stanno
per dividersi; adesso uomini e donne devono percorrere la strada dall’infanzia alla
vecchiaia senza la minima idea del senso del loro viaggio e la minima fiducia che
abbia un significato.
L’eternità è stata uno dei pochi veri universali della cultura. A una mente lucida
e dotata di una formazione logica questo può apparire strano, almeno di primo acchito.
Occorre molta immaginazione anche solo per concepire una «durata eterna»: visualizzarla, poi, sfida il potere dei sensi umani. L’«eternità» non può essere ricavata in alcun
modo «dal di dentro» dell’esperienza umana: non può essere vista, toccata, udita,
annusata o assaporata. Tuttavia, sarebbe vano cercare una popolazione umana che non
abbia considerato l’eternità come qualcosa di men che ovvio. Effettivamente, la consapevolezza
dell’eternità (o forse dovremmo dire: la fede nell’eternità) si può definire una delle
caratteristiche distintive dell’umanità.
La soluzione di questo paradosso sembra risiedere in un altro universale umano: il
linguaggio. Ovvero – ed ecco un altro paradosso – è legata indissolubilmente al possesso
del linguaggio.
Poiché noi esseri umani abbiamo il linguaggio, non possiamo non essere consapevoli
che tutte le creature sono mortali, e così anche ciascuno di noi; noi (o più precisamente:
io) moriremo, così come prima o poi moriranno tutti gli altri esseri umani che conosciamo
o di cui abbiamo notizia, tutti quegli uomini e donne la cui vita è intrecciata alla
nostra. Ma per lo stesso motivo, nessuno di noi è legato alla realtà immediata dell’esperienza.
Il linguaggio può informarci di come sono le cose, ma il linguaggio è anche una lama che con un taglio ci libera – noi artefici di
parole, utilizzatori di parole e creature di parole – dalle cose così come sono e
dall’immediatezza della loro presenza. Usando le parole come un filato, possiamo tessere
tele che non descrivono nessuna delle «realtà» di cui noi (ma anche nessun altro utilizzatore
del linguaggio) abbiamo fatto esperienza. La veracità e l’affidabilità di queste tele
«non rappresentative» non differiscono marcatamente da quelle delle altre. E così,
grazie al linguaggio, possiamo «fare esperienza» per procura di un mondo da cui noi,
che ne siamo proprietari, siamo stati eliminati: un mondo che non ci contiene; il mondo così come potrebbe essere quando noi non saremo più. Un mondo simile è spaventoso; sminuisce e denigra tutto quel che facciamo o possiamo
fare mentre ne facciamo ancora parte. Questo rifiuto senz’appello dell’ammissione
a quel mondo è il più doloroso di tutti i rifiuti umilianti e lesivi della nostra
dignità; forse anche l’archetipo che trasforma la reiezione, l’esclusione, l’umiliazione,
la lista nera, la messa al bando e l’ostracismo – sue pallide copie – in quegli atti
di suprema crudeltà che sono.
Nella farmacia del linguaggio, però, accanto ai vasi che contengono i veleni non manca
mai almeno una dose di antidoto. Nel caso che stiamo attualmente considerando, il
dolore della caducità è accompagnato dall’annuncio della durata perpetua. La finitezza
è confezionata insieme con l’infinità, la brevità fa tutt’uno con l’eternità, la mortalità
con la vita dopo la morte.
Come dice George Steiner,
è perché possiamo raccontare storie, inventate o matematico-cosmologiche, sull’universo
fra un miliardo di anni; è perché possiamo... concettualizzare il lunedì mattina dopo
la nostra cremazione; è perché le proposizioni in «se»... possono, liberamente enunciate,
negare, rielaborare, modificare il passato, il presente e il futuro, descrivendo diversamente i fattori determinanti della realtà pratica, che l’esistenza vale ancora la pena di
essere vissuta. La speranza è grammatica7.
Questo fatto – si affretta ad aggiungere Steiner – non è nulla meno che un miracolo.
Basta pensare «al futuro del verbo essere, la cui enunciazione genera gli spazi vitali
della paura e della speranza, del rinnovamento e dell’innovazione che costituiscono
la cartografia dell’ignoto». In sé, lo stupore che si prova dinanzi a un’impresa prodigiosa,
che ispira reverenza, come l’inventiva umana non ha nulla di sorprendente. Quel che
è davvero sbalorditivo è il «pacchetto» che ci si offre: aver acquistato la vanità
in blocco con la dignità, l’assurdo con il sensato, la paura con la speranza è forse
il migliore affare che l’umanità abbia mai fatto.
L’invenzione dell’eternità è davvero la magia del linguaggio; è un’invenzione curiosa
e degna di nota, eppure è un’invenzione inevitabile, qualcosa che non avrebbe potuto
non essere inventato. Veramente inconcepibile sarebbe una specie simile all’umana, e
dotata di linguaggio, che non inventasse l’eternità. E sarebbe inconcepibile per la
semplice ragione che potrebbe restare inconsapevole della sua mortalità. Di per sé,
tuttavia, nella sua forma originaria, grezza, non elaborata, la visione dell’eternità
non avrebbe fatto che aggravare la disperazione seminata dalla certezza della morte.
Per poter racchiudere speranza e paura insieme nella stessa confezione, occorreva
un legaccio, un cordone, un cardine: per legare la vita che è destinata a finire,
e presto, al mondo che è destinato a durare, per sempre.
Ivan, il più «intellettuale» dei fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, sapeva quanto
fosse difficile vivere con la consapevolezza dell’eternità, ma sapeva altrettanto
bene quanto fosse difficile essere umani senza di essa... Secondo un altro personaggio
dello stesso romanzo, Rakitin, uomo di vasta cultura anch’egli, Ivan dimostrava che
l’amore era contro la Natura, e, se capitava e continuava a capitare fra gli esseri
umani, era soltanto grazie alla fede degli umani nella loro immortalità8. Se l’uomo perde quella fede, «si inaridirà in lui non solo l’amore, ma anche qualsiasi
forza vitale capace di perpetuare la vita nel mondo. E non basta: allora non ci sarà
più niente di immorale, tutto sarà permesso, persino l’antopofagia...». Smettete di
credere in Dio e nell’immortalità, mettete la ragione al posto della fede, e l’egoismo
diventerà l’unica soluzione ragionevole. «Non c’è virtù se non c’è immortalità», ammette
Ivan dinanzi alla pressante richiesta di rivelare le sue convinzioni.
Allo stesso Rakitin, Dmitri, uno dei fratelli di Ivan, attribuisce l’opinione che
«a un uomo intelligente tutto è permesso». «La chimica, fratello, la chimica! Non
c’è nulla da fare, Vostra Eminenza [Dio] – tiratevi un poco più in là, passa la chimica!».
Che cosa accadrà quando l’umanità si sarà liberata da Dio e dall’eternità (e deve
accadere, nella logica spietata degli strati geologici successivi)? Gli uomini si
dedicheranno a «prendere dalla vita tutto ciò che essa può dare, ma lo faranno unicamente
ed esclusivamente per avere la gioia e la felicità in questo mondo». Allora l’uomo
diverrà egli stesso «come un dio», imbevuto di spirito divino e di «orgoglio titanico».
La consapevolezza che la vita non è che un attimo fugace, che una seconda opportunità
non è data, modificherà la natura dell’amore. L’amore non avrà il tempo di sostare.
Quel che perde in durata, guadagnerà in intensità. Brucerà più abbagliante che mai,
consapevole del destino di essere vissuto e consumato in un solo istante e sino in
fondo, anziché di essere distribuito, come prima, uniformemente e in uno strato sottile
lungo tutta l’eternità e la vita immortale dell’anima...
Questo, si noti, è Satana che invoca un cambiamento quando fa visita a Ivan durante
un incubo.
Incubo? Perché incubo? Perché occorreranno millenni perché l’intero genere umano rinsavisca
e raggiunga l’intelligenza rimasta finora appannaggio esclusivo di Satana e di pochi
sapienti... Mentre il resto del genere umano continuerà a cullarsi nelle sue superstizioni
e a brancolare per i corridoi bui dell’eternità, quei pochi illuminati diverranno
dèi – non come gli dèi immortali fra i mortali, ma come dèi liberi nel mondo degli schiavi –. Poiché «al di sopra di Dio non ci sono leggi! Dove si mette
Dio, lì è il suo posto... ‘Tutto è permesso’ e basta!»
Forse alla fine della strada che conduce alla saggezza della ragione ci attende un
paradiso di amore appassionato. Ma potremmo impiegare millenni per percorrere quella
strada. E nel frattempo, mentre la percorriamo, miglio per miglio, anno dopo anno,
l’inferno. L’inferno può mai essere la via al paradiso? E il paradiso vale i millenni
di inferno?
Ecco il genere di interrogativi che gli uomini di cultura come Ivan Karamazov o Rakitin
(o anche Satana) si pongono di continuo e da cui sono tormentati. Nella tradizione
ebraica, però, a un certo punto della storia l’era profetica – cioè di Dio che parla
agli uomini – è finita. (Alle soglie dell’era moderna, Pascal avrebbe riscoperto quella
fine nella sua idea del Deus absconditus. Una volta che ha cominciato a sbiadire l’autorità della Chiesa come mediatrice collettiva
fra Dio e gli uomini, questi ultimi hanno scoperto che nessuno rispondeva alle loro
chiamate, che non sentivano nessuna voce all’altro capo della linea). Per dirla con
Larry Jay Young, «Dio ha deciso di chiudere un canale di comunicazione che prima era
aperto. Nessuno ha mai veramente capito perché». Era forse offeso, deluso o respinto
dalla sua creatura insubordinata, indisciplinata, compiaciuta delle sue bricconate?
Oppure desiderava mettere alla prova la Sua creatura per vedere quanto fossero bene
(o male) istruite le creature umane, e come se la cavavano di fronte alle tentazioni,
e al disgusto, del mondo in cui Egli le aveva scagliate? O forse, il fatto che la
linea diretta si fosse interrotta non era altro che
il modo di Dio per dirci che non abbiamo più bisogno che Lui ci aleggi attorno, commentando
ogni mossa che facciamo... Dio deve convincersi che noi siamo capaci di stare in piedi
sulle nostre gambe e di rendere giustizia l’uno all’altro e al mondo lasciato alle
nostre cure. L’unico interrogativo che resta è se gli esseri umani si dimostrino o
no degni della fiducia di Dio9.
Il senso ultimo della «fine dell’era profetica» è che noi esseri umani siamo condannati
alla scelta, una scelta senza alcuna certezza che si tratti della scelta giusta, ma
che nondimeno dovrà essere fatta e rifatta, poiché non abbiamo idea di come (e se!)
si possa cancellare la maledizione dell’incertezza. Resi orfani dall’autorevole comando
«non-vi-è-dubbio» e «non-è-permesso-disobbedire», sofferenti per la crudeltà del verdetto
e la conseguente enormità del loro compito, gli uomini hanno chiamato «paradiso» quella
condizione lieta e spensierata di non dover scegliere ed esser liberi dalla premonizione
che le azioni possano essere buone o malvagie.
Fu all’alba della modernità che il Deus fu scoperto absconditus. E fu all’alba della modernità che fu scoperta la cultura e si seppe che era rimasta
nascosta tutto il tempo dietro il Dio parlante. Spettava ora alla cultura, fatta dagli
esseri umani, accollarsi il compito di collegare la vita mortale con l’eternità del
mondo e di distillare (come avrebbe detto Baudelaire) briciole di solidità e durevolezza
dal flusso impetuoso delle transitorie realizzazioni umane.
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