Introduzione.
Origine, dinamica e usi della paura
[...] la paura ha mille occhi
e vede anche le cose che stanno sotto terra.
Miguel de Cervantes Saavedra
Don Chisciotte della Mancia
Per avere paura non occorre
un motivo preciso [...]. Ero spaventato, ma quando si ha paura è bene sapere perché
[...].
Émile Ajar (Romain Gary)
La vita davanti a sé
Desidero sostenere la mia ferma convinzione secondo cui l’unica cosa di cui dobbiamo
avere paura è la paura stessa.
Franklin Delano Roosevelt
discorso d’insediamento del 4 marzo 1933
Quando, al termine di un lungo periodo di inquietudine, ansia, oscuri presagi, giornate
piene di apprensione e notti senza sonno, arriva davvero il momento di affrontare
un pericolo temuto, una minaccia reale, che finalmente riusciamo a vedere e a toccare,
avvertiamo un senso di sollievo strano, eppure comune e familiare a noi tutti, un’improvvisa
iniezione di energia e di coraggio. Questa esperienza forse è meno stravagante di
quanto sembri: dopotutto, in quel momento veniamo a sapere che cosa c’era di terribile
e di inevitabile dietro quella vaga ma ostinata sensazione che non smetteva di avvelenare
i giorni che ci saremmo dovuti invece godere e ci condannava a trascorrere notti senza
sonno... Se sappiamo da dove arriverà il colpo, sapremo anche se possiamo o no fare
qualcosa, e cosa, per evitarlo, o quanto meno capiremo che abbiamo ben poche possibilità
di cavarcela, e che genere di perdita, danno o dolore dobbiamo aspettarci.
Tante volte abbiamo sentito raccontare storie di individui pavidi che si trasformavano
in coraggiosi combattenti una volta posti di fronte a un «pericolo reale», finalmente
investiti dal disastro che avevano atteso per tanto tempo senza riuscire a immaginarlo.
La paura più temibile è la paura diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata,
fluttuante, priva di un indirizzo o di una causa chiari; la paura che ci perseguita
senza una ragione, la minaccia che dovremmo temere e che si intravede ovunque, ma
non si mostra mai chiaramente. «Paura» è il nome che diamo alla nostra incertezza: alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare – che possiamo o non possiamo fare – per arrestarne il cammino o, se questo non è in
nostro potere, almeno per affrontarla.
È nota la frase con cui Lucien Febvre ha condensato efficacemente in sole quattro
parole come ci si sentiva nell’Europa del Cinquecento, nel tempo e nel luogo in cui
stava per nascere l’era moderna: «Peur toujours, peur partout», paura sempre e ovunque1. Febvre collegava tale sensazione di onnipresenza della paura al buio che iniziava
appena fuori della porta della casupola, e che avvolgeva il mondo oltre la siepe della
fattoria: nell’oscurità qualsiasi cosa può accadere, ma non c’è modo di sapere che
cosa accadrà. Il buio non è la causa della minaccia, ma l’habitat naturale dell’incertezza,
e con essa della paura.
La modernità doveva essere un grande balzo in avanti: via dalla paura, verso un mondo
liberato dal fato cieco e imperscrutabile, che è la serra di tutte le paure. Nelle
meditazioni, dai toni talvolta nostalgici e lirici, di Victor Hugo2, la scienza («la tribuna politica si trasformerà in scientifica») avrebbe inaugurato
un’epoca in cui sarebbero scomparse sorprese, calamità e catastrofi – ma anche dispute,
illusioni, parassitismi... un’epoca, dunque, priva di tutto ciò di cui sono fatte
le paure. Quella che doveva essere una via di fuga si è rivelata invece una lunga
deviazione. A noi che cinque secoli dopo ci troviamo all’altra estremità dell’immenso
cimitero di speranze deluse, la conclusione di Febvre suona ancora molto appropriata
e attuale. La nostra è, ancora una volta, un’epoca di paure.
La paura è una sensazione nota a ogni creatura vivente. Gli uomini condividono tale
esperienza con gli animali. Gli etologi hanno descritto con abbondanza di dettagli
il ricco repertorio di reazioni degli animali di fronte a un’immediata minaccia per
la loro vita: reazioni che – come per gli uomini – oscillano tra fuga e aggressione.
L’uomo conosce però anche un altro tipo di paura, di «secondo grado»: una paura, per
così dire, socialmente e culturalmente «riciclata», ovvero «derivata» (come la chiama
Hugues Lagrange nel suo fondamentale studio sull’argomento)3: una paura che – indipendentemente dalla presenza immediata o meno di una minaccia
– orienta il comportamento dell’essere umano dopo aver modificato la sua percezione
del mondo e le aspettative che ne guidano le scelte. La paura secondaria può essere
vista come il sedimento di un’esperienza passata in cui si è dovuta affrontare una
minaccia a bruciapelo: sedimento che sopravvive a tale esperienza e diventa un fattore
importante nel regolare la condotta umana anche quando non sussiste più una minaccia
diretta alla vita o all’integrità fisica.
La «paura derivata» è un preciso stato d’animo che può essere descritto come sensibilità al pericolo: senso di insicurezza (il mondo è pieno di pericoli che possono colpire
in qualsiasi momento senza preavviso, o quasi) e di vulnerabilità (nell’eventualità
in cui il pericolo colpisca ci saranno ben poche o nessuna possibilità di sfuggirgli
o di difendersene con successo: presumere di essere vulnerabile ai pericoli dipende
più dalla mancanza di fiducia nelle difese disponibili che dall’entità o dalla natura
delle minacce effettive). Una persona che ha interiorizzato una visione del mondo
che includa l’insicurezza e la vulnerabilità farà ricorso abitualmente – anche in
assenza di minacce effettive – alle reazioni che sono appropriate nel caso di un incontro
a bruciapelo con il pericolo; la paura derivata si autoalimenta.
È stato ampiamente notato, ad esempio, che l’opinione secondo cui il «mondo là fuori»
è pericoloso ed è meglio evitarlo, è più diffusa tra coloro che di rado escono la
sera, quando i pericoli appaiono loro particolarmente temibili. E non c’è modo di
sapere se costoro evitino di uscire di casa perché avvertano tale pericolo o se, al
contrario, il loro timore di pericoli indefiniti in agguato nelle strade buie sia
dovuto alla scarsa familiarità con quei luoghi, per cui hanno perso la rassicurante
capacità di fronteggiare una minaccia, o con l’esperienza personale e diretta di tali
minacce, che li rende inclini a lasciar correre a briglia sciolta l’immaginazione,
già afflitta dalla paura.
I pericoli che si temono (e le paure derivate che suscitano) possono essere di tre
tipi. Alcuni minacciano il corpo e gli averi. Altri sono di natura più generale, e
minacciano la stabilità e l’affidabilità dell’ordine sociale da cui dipendono la sicurezza
del proprio sostentamento (reddito, lavoro) o la propria sopravvivenza in caso di
invalidità o di vecchiaia. Esistono poi pericoli che insidiano la propria collocazione
nel mondo: la posizione nella gerarchia sociale, l’identità (di classe, genere, etnia
o religione) e, più in generale, espongono alla possibilità di essere umiliati ed
esclusi a livello sociale. Numerosi studi mostrano, tuttavia, che la paura derivata,
nella coscienza di chi vi è soggetto, tende a essere «sganciata» dai pericoli che
la provocano. Chi è afflitto dal senso di insicurezza e vulnerabilità può interpretare
una paura derivata mettendola in relazione a uno qualsiasi dei tre tipi di pericoli,
a prescindere dalle prove del loro rispettivo peso e responsabilità, e anzi spesso
in contrasto con esse. Le reazioni difensive o aggressive che ne risultano, volte
ad attenuare la paura, possono dunque essere indirizzate altrove rispetto ai pericoli
che sono i veri responsabili della presunzione di insicurezza.
Prendiamo lo Stato, per esempio. Ha fondato la propria raison d’être e la sua pretesa all’obbedienza dei cittadini sulla promessa di proteggerli dalle
minacce alla loro esistenza, ma non è più in grado di mantenere tale promessa (in
particolare per quanto riguarda i pericoli del secondo e terzo tipo), né di riaffermarla
in modo affidabile nel contesto dei mercati che si globalizzano rapidamente e diventano
extraterritoriali. Quindi è costretto a spostare l’accento della «protezione dalla
paura» dai pericoli per la sicurezza sociale a quelli per l’incolumità personale.
In tal modo lo Stato «sussidiarizza» la battaglia contro le paure «abbassandola» alla
sfera della «politica della vita», gestita e condotta dagli individui, e al tempo
stesso appalta ai mercati dei consumi la fornitura delle armi per combatterla.
La cosa che suscita più spavento è l’ubiquità delle paure; esse possono venir fuori
da qualsiasi angolo o fessura della nostra casa o del nostro pianeta. Dal buio delle
strade o dai bagliori degli schermi televisivi. Dalla nostra camera da letto o dalla
cucina. Dal posto di lavoro o dalla metropolitana che prendiamo per raggiungerlo o
per tornare a casa. Da coloro che conosciamo o da qualcuno di cui non ci eravamo nemmeno
accorti. Da qualcosa che abbiamo ingerito o con cui il nostro corpo è venuto in contatto.
Da quella che chiamiamo «natura» (e che minaccia, come mai a memoria d’uomo, di distruggerci
la casa e la sede di lavoro, e di annientarci fisicamente con il moltiplicarsi di
terremoti, inondazioni, uragani, smottamenti, siccità o ondate di caldo torrido),
o da altri popoli (che anch’essi, come mai a memoria d’uomo, minacciano di distruggerci
la casa e la sede di lavoro e di annientarci fisicamente con l’improvvisa abbondanza
di azioni terroristiche, crimini violenti, aggressioni sessuali, avvelenamento del
cibo e inquinamento dell’aria o dell’acqua).
Esiste anche una terza zona, che è forse la più terribile: una zona grigia che anestetizza
i sensi e logora la mente, che non ha ancora un nome, e genera paure sempre più dense
e sinistre, minacciando di distruggere la casa e il posto di lavoro e annientarci
fisicamente attraverso catastrofi naturali, ma non del tutto, umane ma non completamente,
naturali e umane nello stesso tempo, sebbene diverse dalle une e dalle altre. È una
zona che sembra ormai stare molto a cuore a un apprendista stregone estremamente ambizioso,
ma purtroppo appassionato di incidenti e catastrofi, o a un genio malvagio che qualche
imprudente deve aver lasciato uscire dalla bottiglia: la zona in cui le reti di distribuzione
di energia elettrica vanno in tilt, i rubinetti del petrolio si prosciugano, le borse
crollano, aziende che parevano onnipotenti scompaiono portandosi via decine di servizi
fino ad allora considerati ovvi e migliaia di posti di lavoro ritenuti solidi come
la roccia, la zona in cui si scontrano in volo aerei con a bordo mille e più dispositividi sicurezza e centinaia di passeggeri, in cui le stravaganze del mercato azzerano
persino il valore dei patrimoni più preziosi e ambiti, e in cui qualsiasi altra catastrofe,
immaginabile e inimmaginabile, si prepara (o viene preparata?) e si accinge a schiacciare
tutti, i cauti come gli incauti. Un giorno sì e l’altro pure veniamo a sapere che
l’inventario dei pericoli è ben lontano dall’essere completo: nuovi rischi vengono
scoperti e annunciati quasi quotidianamente e non c’è modo di sapere quanti altri,
e di che genere, siano sfuggiti alla nostra attenzione (e a quella degli esperti!),
mentre si preparano a colpire senza preavviso.
Tuttavia, come ha argutamente notato Craig Brown rievocando gli anni Novanta del secolo
appena trascorso,
ovunque si verificava una crescita dell’Avvertimento Globale. Ogni giorno venivano
lanciati nuovi Avvertimenti Globali a proposito di virus killer, onde killer, droghe
killer, iceberg killer, carni killer, vaccini killer, killer killer e ogni altra possibile
causa di morte imminente. Dapprima questi Avvertimenti Globali suscitavano spavento,
ma dopo un po’ la gente ha cominciato ad affezionarvisi4.
Proprio così. Sapere che questo è un mondo spaventoso non significa vivere nella paura:
o almeno, non per ventiquattr’ore al giorno sette giorni su sette. Per evitare tale
orribile eventualità disponiamo di stratagemmi in abbondanza (che richiedono i brillanti
gadget di ogni genere che premurosamente ci vengono proposti nei negozi). Potremmo
persino arrivare ad affezionarci agli «avvertimenti globali». In fin dei conti, vivere in un mondo liquido-moderno
che, notoriamente, non ammette che una certezza – e cioè che domani non può essere,
non dovrebbe essere e non sarà uguale a oggi –, significa fare ogni giorno una prova
di scomparsa, dileguamento, cancellazione e morte, e, indirettamente, provare il carattere
non definitivo della morte – con resurrezioni continue e reincarnazioni perpetue...
Come ogni altra forma di coabitazione umana, la nostra società liquido-moderna è un
congegno che cerca di rendere possibile convivere con la paura. In altri termini,
un congegno inteso a reprimere il terrore potenzialmente disarmante e invalidante
del pericolo, a tacitare le paure che derivano da pericoli che non si possono (o che,
nell’interesse dell’ordine sociale, non si devono) efficacemente prevenire. Quest’opera
necessaria, analogamente a tanti altri sentimenti dolorosi potenzialmente disgregatori
dell’ordine, avviene attraverso quella che Thomas Mathiesen ha chiamato «tacita tacitazione»:
un processo «che è silenzioso anziché rumoroso, occulto anziché palese, inosservato
anziché osservabile, non visto anziché visto, immateriale anziché fisico». La «tacita
tacitazione»
è strutturale; è parte della nostra vita quotidiana; è incontenibile e pertanto impressa
in noi; non fa rumore e passa perciò inosservata; è dinamica, nel senso che nella
nostra società si diffonde e si fa sempre più pervasiva. In quanto strutturale, la
tacitazione «esime» i rappresentanti dello Stato dalla responsabilità nei suoi confronti;
in quanto quotidiana, appare «inevitabile» a coloro che vengono tacitati; in quanto
sconfinata, essa è particolarmente efficace in relazione all’individuo; in quanto
silenziosa è più facilmente legittimabile; e in quanto dinamica, è un meccanismo di
tacitazione che riscuote fiducia sempre maggiore5.
Innanzi tutto, la morte – come tutto nella vita liquido-moderna – diventa temporanea
e valida fino a nuovo avviso. Essa dura fino all’ennesimo ritorno di una celebrità
o di un motivetto rimasti a lungo dimenticati, all’ennesima riscoperta di uno scrittore
o di un pittore da tempo caduti nell’oblio, o all’ennesimo revivaldi una moda. Quando essere morsi diventa la normalità, non è o non appare più un pericolo
mortale. La scomparsa di questo o di quello, se si verifica, si spera sia revocabile
come dimostrato in tanti altri casi.
Inoltre, i colpi continuamente annunciati sono molto più numerosi di quelli che arrivano
davvero, e dunque si può sempre sperare di essere risparmiati da uno dei tanti colpi
dati per imminenti. Quale computer è mai stato preda del sinistro millennium bug? Avete mai incontrato qualcuno che sia stato vittima degli acari dei tappeti? Quanti
vostri amici sono morti per la malattia della mucca pazza? Conoscete qualcuno che
si sia ammalato per colpa di cibi geneticamente modificati? Avete vicini o conoscenti
che siano mai stati aggrediti da qualcuno di quei perfidi e biechi soggetti che chiedono
asilo politico? Gli attacchi di panico vanno e vengono e ognuno di essi, per quanto
grave, si può ragionevolmente presumere che avrà lo stesso esito dei precedenti.
La vita liquida scorre, o si trascina, da una sfida all’altra, da un episodio all’altro,
e per la consuetudine che abbiamo con le sfide e gli episodi, essi tendono a non durare
a lungo. Lo stesso si può presumere per l’aspettativa di vita delle paure che attanagliano
le aspettative. Ma soprattutto, tante paure arrivano nella nostra vita già con i loro
rimedi, di cui abbiamo tante volte sentito parlare, prima ancora che i mali che essi
promettono di curare abbiano fatto in tempo a spaventarci. La minaccia del millennium bug non è stato l’unico caso di una notizia terribile dataci dalle stesse aziende che
si offrivano – al giusto prezzo – di rendere il nostro computer invulnerabile a tale
minaccia. La macchinazione è nascosta nel pacchetto in offerta anche nel caso del
«kit per iniziare» di una costosa terapia che, dopo aver avvisato i potenziali clienti
del fatto che «gli alimenti sbagliati sono i responsabili di un invecchiamento rapido
e prematuro, di un viso stanco, teso e pallido [...], di una pelle sciupata, secca,
piena di rughe», prontamente li rassicura: «rimanere senza rughe per tutta la vita
è possibile, se si segue il programma in 28 giorni» che costa soltanto 119 sterline6.
Lo schema dimostrato dalla storia del millennium bug e rivelato da Catherine Bennett nel caso del kit cosmetico che sfida la paura si
ripete all’infinito. L’economia dei consumi dipende dalla produzione di consumatori,
e i prodotti per combattere la paura hanno bisogno di consumatori paurosi e impauriti,
animati dalla speranza che sia possibile allontanare quei temibili rischi e che essi
possano riuscirci (naturalmente con un aiuto a pagamento).
Questa nostra vita si è rivelata ben diversa da quella che avevano previsto e iniziato
a progettare i saggi dell’Illuminismo e i loro eredi e discepoli. Nella vita nuova
che essi immaginavano e intendevano creare, si sperava che l’impresa di domare le
paure e di imbrigliare i pericoli da cui esse derivano potesse realizzarsi. Nel contesto
liquido-moderno, invece, la lotta contro le paure si è rivelata un compito a vita,
mentre i pericoli che innescano le paure hanno finito per apparire come compagni permanenti
e inseparabili della vita umana, anche quando si sospetta che nessuno di essi sia insormontabile. La nostra vita è tutt’altro che priva di paure, e il contesto liquido-moderno in
cui essa va vissuta è tutt’altro che esente da pericoli e minacce. Tutta la vita è ormai diventata una lotta, lunga e probabilmente impossibile da vincere, contro
l’impatto potenzialmente invalidante delle paure, e contro i pericoli, veri o presunti,
che temiamo. Essa può essere vista soprattutto come ricerca e verifica continua di
stratagemmi ed espedienti che ci consentano di scongiurare, anche se solo temporaneamente,
l’arrivo di pericoli imminenti – o meglio ancora di mettere da parte la preoccupazione
che essi suscitano sperando che si esauriscano da sé o restino dimenticati finché
occorre. La nostra inventiva in tal senso non conosce limiti. Gli stratagemmi sono
numerosi, e più se ne usano, tanto meno sono efficaci. Eppure, con tutto ciò che li
distingue, essi hanno una regola in comune: ingannare il tempo e sconfiggerlo sul
suo stesso terreno; dilazionarela frustrazione, e non più la gratificazione.
Il futuro è nebuloso? Un’altra buona ragione per non farsene ossessionare. I pericoli
sono indecifrabili? Un’altra buona ragione per dimenticarsene. Tutto va bene sinora:
potrebbe andar peggio. Andiamo avanti così. Non preoccupiamoci prima del tempo se
dobbiamo attraversare un ponte. Forse non ci arriveremo mai, oppure crollerà prima,
o sarà spostato altrove. Perché preoccuparsi ora? Meglio seguire l’antica ricetta:
carpe diem. O, più semplicemente: divertitevi ora, pagate dopo. O ancora, come vuole la versione
aggiornata – offertaci dalle carte di credito – di quella collaudata saggezza: «meglio
un uovo oggi che una gallina domani».
Viviamo a credito: nessuna generazione passata si è indebitata, individualmente e
collettivamente, in modo tanto pesante (i bilanci statali un tempo puntavano al pareggio:
oggi i «migliori» sono quelli che mantengono al medesimo livello dell’anno precedente
l’eccedenza delle uscite sulle entrate). Vivere a credito ha i suoi piaceri utilitaristici:
perché dilazionare la gratificazione? Perché aspettare, se la gioia futura si può
assaporare «qui e ora»? È vero, il futuro è fuori controllo. Ma la carta di credito,
come per magia, mette quel futuro, sgradevolmente elusivo, direttamente nelle nostre
mani. Possiamo consumarlo, per così dire, in anticipo – finché c’è ancora qualcosa
da consumare... Questa sembra essere l’attrazione latente del vivere-a-credito, il
cui vantaggio manifesto, se si presta fede alla pubblicità, è puramente utilitaristico:
dare piacere. E se il futuro sarà brutto come sospettiamo, possiamo consumarlo ora,
finché è ancora fresco e intatto, prima che la catastrofe colpisca, e prima che il
futuro stesso abbia la possibilità di mostrarci quanto sarebbe brutta. (Questo è,
a pensarci bene, ciò che facevano un tempo i cannibali: divorare i nemici appariva
loro come il modo più sicuro per risolvere definitivamente le minacce di cui costoro
erano latori; un nemico consumato, digerito ed escreto non faceva più paura. Ma, ahinoi,
è impossibile mangiare tutti i nemici. Mentre lo facciamo essi, invece di diminuire,
sembrano moltiplicarsi.)
I mezzi sono i messaggi. Le carte di credito sono anch’esse messaggi. Se i libretti
di risparmio ispirano certezza nel futuro, un futuro incerto reclama a gran voce carte
di credito.
I libretti di risparmio nascono da un futuro degno di fiducia e si nutrono di esso:
un futuro che certo arriverà e che, una volta giunto, non sarà tanto dissimile dal
presente. Un futuro che si prevede darà valore a ciò cui noi diamo valore, rispettando
i risparmi passati e premiando coloro che li hanno. I libretti di risparmio prosperano
anch’essi sulla speranza/aspettativa/fiducia che – grazie alla continuità tra il presente e il futuro – ciò che si fa ora, nel presente, si accaparrerà il
futuro, impegnandolo prima ancora che arrivi; ciò che facciamo ora «farà la differenza», determinerà la forma del futuro.
Le carte di credito, e i debiti che esse consentono di fare facilmente, dovrebbero
atterrire i più miti tra noi, e turbare persino chi è più propenso al rischio; e se
ciò non accade, lo si deve alla discontinuità che ipotizziamo: al presentimento che ci dice che il futuro che arriverà (se arriverà, e se ci saremo a testimoniarne l’arrivo) sarà diverso dal presente che conosciamo,
pur non avendo idea di come e quanto lo sarà. Vorrà premiare, tra qualche anno, i
sacrifici fatti oggi in suo nome? Ricompenserà gli sforzi compiuti per assicurarsi
la sua benevolenza? O, al contrario, trasformerà in passività le attività di oggi,
e in fastidiosi fardelli i carichi pregiati? Non lo sappiamo e non possiamo saperlo,
e non ha molto senso cercare di vincolare ciò che non si può conoscere.
Indugiamo nella preoccupazione per i ponti che alla fine dovremo attraversare comunque;
eppure non sono così lontani da poter rinviare a cuor leggero la preoccupazione che
desta l’idea di doverli attraversare... Non tutti i pericoli appaiono abbastanza remoti
da poterli liquidare come bizzarre creazioni di una immaginazione febbrile, o comunque
come qualcosa di irrilevante rispetto alla voce in cima alla lista delle cose da fare.
Comunque per fortuna abbiamo un modo di aggirare quegli ostacoli che si sono avvicinati
troppo e non si possono più ignorare: possiamo pensare (e lo pensiamo) che siano dei
«rischi».
Riconosciamo allora che il prossimo passo da compiere è «rischioso» (ossia che potrebbe
rivelarsi intollerabilmente costoso, riesporci ad antichi pericoli o crearne di nuovi),
e del resto ciò vale tendenzialmente per qualsiasi passo. È possibile che non raggiungeremo
ciò che desideriamo, e che otterremo invece qualcosa di totalmente diverso e di assolutamente
sgradevole; qualcosa che preferiremmo evitare («effetti secondari» o «danni collaterali»
– così chiamiamo queste spiacevoli e indesiderabili conseguenze, in quanto non intenzionali
e distanti dal bersaglio della nostra azione). E riconosciamo anche che essi possono
sopraggiungere «inattesi» e, nonostante tutti i calcoli che avevamo fatto, possono
coglierci di sorpresa e trovarci impreparati. Pur avendo pensato, valutato e dichiarato
tutto ciò, in mancanza di un’opzione migliore procediamo lo stesso come se potessimo prevedere quali conseguenze indesiderabili richiederanno la nostra attenzione e la
nostra vigilanza e come se potessimo monitorare i nostri passi in tal senso. Ciò non sorprende: possiamo preoccuparci
solo delle conseguenze indesiderabili che siamo in grado di prevedere, e soltanto queste possiamo cercare di evitare. E dunque quelle che noi
classifichiamo nella categoria dei «rischi» sono solo le conseguenze di questo tipo,
quelle «pre-vedibili». I rischi sono i pericoli la cui probabilità noi possiamo (o crediamo di potere) calcolare: sono pericoli calcolabili. Una volta definiti in tal modo, i rischi sono la massima approssimazione possibile
alla certezza (irraggiungibile, purtroppo).
Dobbiamo tuttavia notare che «calcolabilità» non significa prevedibilità: ciò che
si calcola è solo la probabilità che le cose vadano male e che sopraggiunga il disastro. Il calcolo delle probabilità
dice qualcosa di affidabile sulla distribuzione degli effetti di un gran numero di
azioni simili, ma è quasi inutile come mezzo di previsione quando lo si impiega (alquanto
impropriamente) per orientarsi in una specifica impresa. La probabilità, anche quella
calcolata nel modo più rigoroso, non offre la certezza che i pericoli saranno, o non
saranno, evitati in questo o quel particolare caso, qui e ora, o lì e allora. Ma il fatto stesso che abbiamo stimato
le probabilità (e dunque, implicitamente, abbiamo evitato decisioni affrettate e non
possiamo essere accusati di temerarietà) ci può infondere il coraggio di decidere
se il gioco vale o non vale la candela, e offrire una certa dose di rassicurazione,
pur se priva di garanzia. Prendendo in considerazione le probabilità facciamo qualcosa
di ragionevole, e forse persino di utile; ora «abbiamo ragione» di considerare le
probabilità negative troppo alte per giustificare la misura rischiosa, o troppo basse
per dissuaderci dal correre il rischio.
Di solito, tuttavia, spostare l’attenzione dai pericoli ai rischi si rivela come un
altro stratagemma; un tentativo di eludere il problema, più che un salvacondotto efficace.
Come ha notato Milan Kundera in I testamenti traditi7, il contesto della nostra vita è avvolto dalla nebbia, e non dal buio totale in cui
non vedremmo niente e saremmo incapaci di muoverci: «nella nebbia si è liberi, ma
è la libertà di chi si trova nella nebbia»; possiamo vedere a una decina di metri
di distanza, possiamo ammirare i begli alberi sulla strada lungo cui camminiamo, vedere
i passanti e reagire alle loro mosse, evitare di urtare qualcuno, accorgerci in tempo
di un masso o di una buca sulla nostra strada, ma difficilmente possiamo vedere l’incrocio
un po’ più avanti, o l’auto che si trova ancora a un centinaio di metri ma che si
sta avvicinando a tutta velocità. Possiamo dire che, coerente con la «vita nella nebbia»,
la nostra «certezza» orienta e focalizza le nostre precauzioni sui pericoli visibili,
noti e vicini, che è possibile prevedere e la cui probabilità può essere calcolata, mentre i pericoli decisamente più tremendi e spaventosi sono proprio
quelli impossibili o drammaticamente difficili da prevedere: i pericoli non previsti, e con ogni probabilità imprevedibili.
Tutti presi dal calcolo dei rischi, tendiamo a trascurare questo problema più serio,
e a evitare che le catastrofi che non potremmo impedire minino la sicurezza in noi
stessi. Concentrandoci sui casi in cui possiamo fare qualcosa, non ci resta tempo
per metterci a riflettere sui casi in cui ci è impossibile fare alcunché. Ciò ci aiuta
a tutelare il nostro equilibrio mentale. Tiene a distanza gli incubi e ci permette
di dormire la notte. Ma non ci rende necessariamente più sicuri.
Del resto, questo approccio non rende i pericoli meno realistici. La nostra congettura/intuizione/diffidenza/previsione/convinzione/certezza
che le cose stiano così può schiacciare un pisolino, ma puntualmente si risveglierà.
Di tanto in tanto, anzi sempre più spesso, i pericoli tornano a ricordarci fino a
che punto essi rimangano realistici nonostante tutte le misure precauzionali prese.
In modo ricorrente e abbastanza regolare essi vengono riesumati dalla fossa poco profonda
in cui erano sepolti, a pochi centimetri dalla superficie della nostra coscienza,
e brutalmente esposti sotto i riflettori della nostra attenzione; le catastrofi si
susseguono, offrendoci premurosamente numerose occasioni per ricordarcene.
Pochi anni prima che eventi come l’11 settembre, lo tsunami, l’uragano Katrina e il
fortissimo aumento del prezzo del petrolio che ne conseguì (stavolta, almeno, misericordiosamente
breve) ci offrissero traumaticamente delle occasioni per aprire gli occhi e smaltire
la sbornia, Jacques Attali rifletteva sull’enorme successo ottenuto ai botteghini
dal film Titanic, che aveva superato ogni record d’incasso di analoghi film-catastrofe. Attali ne
dava la seguente spiegazione, che suonava già assai credibile nel momento in cui venne
scritta, e che qualche anno dopo sarebbe parsa quasi profetica:
Titanic siamo noi, la nostra società trionfalista, autocelebrativa, cieca, ipocrita, spietata
verso i poveri: una società in cui tutto viene previsto, tranne i mezzi per prevedere
[...]. Tutti [...] intuiamo che c’è un iceberg ad attenderci, nascosto da qualche
parte tra le brume del futuro nebuloso, e che ci andremo a sbattere contro per poi
sprofondare al suono della musica [...]8.
Una musica dolce: suadente, eppure inebriante. Musica dal vivo, musica in tempo reale.
Ultimi successi, cantanti di successo. Suoni assordanti, luci stroboscopiche accecanti.
Che impediscono di udire il flebile sussurro dei pronostici, e di scorgere la mole
maestosa e immensa degli iceberg silenziosi.
Sì, gli iceberg: non uno ma molti, probabilmente troppi anche per poterli contare. Attali
ne citava alcuni: l’iceberg finanziario, quello nucleare, quello ecologico, quello
sociale (che porta con sé la prospettiva di ben tre miliardi di «esuberi» tra gli
abitanti del pianeta). Oggi sicuramente allungherebbe la lista, riservando il posto
d’onore all’iceberg terroristico o a quello del fondamentalismo religioso, o, molto
più probabilmente, all’iceberg dell’«implosione della civiltà», recentemente manifestatosi
sulla scia delle avventure militari in Medio Oriente o nell’arrivo di Katrina a New
Orleans, in una sorta di prova generale di tutta la sua ripugnante e orribile mostruosità.
Non esplosionema implosione: ben diversa per forma dal modo in cui tendevano a essere formulati nella
fase «solida» dell’era moderna i timori di «crollo dell’ordine civilizzato» che accompagnavano
i nostri antenati almeno da quando Hobbes proclamò come «stato di natura» dell’umanità
il bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti.
Non c’erano rivoluzionari in Louisiana, né per le strade di New Orleans si erano registrati
scontri o barricate; nessuno si era ribellato contro l’ordine costituito, e molto
probabilmente nessuna rete clandestina era stata scoperta a tramare attentati contro
le leggi e il modello di ordine vigente. Definire ciò che è accaduto a New Orleans
e dintorni un «crollo della legge e dell’ordine» non coglie pienamente l’evento né
tantomeno il messaggio che ha lanciato. La legge e l’ordine erano semplicemente svaniti:
come se non fossero mai esistiti. Tutt’a un tratto le abitudini acquisite e la routine
che regolavano il novanta per cento e più delle attività quotidiane hanno perso il
proprio senso: un senso normalmente troppo ovvio per dedicarvi qualsiasi riflessione
ulteriore. I presupposti impliciti hanno cessato di far presa. Le consuete sequenze
di causa ed effetto si sono disintegrate. Ciò che definiamo «normale» nei giorni feriali
e «civiltà» nei giorni festivi si è dimostrato sottile, letteralmente, come un foglio
di carta: carta che le acque di Katrina hanno inzuppato, spappolato e travolto in
un attimo.
Al centro di detenzione 3 del distretto di Rapides, ad Alexandria, in cui normalmente
si trovano persone condannate per crimini, sono stati portati duecento nuovi detenuti
[...] evacuati dalle carceri di New Orleans, rese impraticabili dall’inondazione.
Per loro non c’è alcuna pratica che indichi se sono in carcere per aver bevuto troppo
alcool o per tentato omicidio. Non c’è un giudice per le loro cause, né è stato nominato
un tribunale, né un avvocato difensore. [...]
È un’implosione della rete legale che non si era più vista dal tempo di catastrofi
come l’incendio di Chicago del 1871 o il terremoto di San Francisco del 1906: eventi
verificatisi in epoche in cui la complessità era di gran lunga inferiore all’attuale,
tanto da non esserci di alcun aiuto nell’interpretare ciò che accade ora9.
«Nessuno ha idea di chi sia questa gente, né del perché si trovi qui»: così riassumeva
la situazione dei nuovi arrivati uno degli avvocati assegnati a quel carcere. Questa
breve e secca dichiarazione esprime ben più della mera implosione della «rete legale»
formale. E non sono stati solo i detenuti, investiti dall’evento nel corso di una
procedura legale, ad aver perso la propria definizione sociale, e addirittura l’identità
con cui erano riconosciuti e che in precedenza avviava la sequenza di atti che rispecchiavano/determinavano
il loro posto nell’ordine delle cose. Molti altri dei sopravvissuti hanno avuto lo
stesso destino. E non solo i sopravvissuti...
Nel quartiere degli uffici, in centro, su un tratto asciutto di Union Street, [c’era]
un cadavere [...]. Le ore sono passate, e al calar della sera, al momento del coprifuoco,
il corpo era ancora lì. [...] È trascorsa la notte, poi il mattino, poi mezzogiorno:
e il sole batteva ancora su un defunto di Crescent City. [...] È significativo che
nel centro di una importante città americana un cadavere possa esser rimasto a marcire
per giorni come una carogna di animale, e che ciò sia accettabile. Benvenuti a New
Orleans dopo l’apocalisse [...]. Qualcuno degli abitanti emerge trasandato da una
selva fradicia d’acqua farfugliando qualcosa di incomprensibile, e poi se ne torna
tra le macerie. Le auto percorrono contromano l’autostrada e nessuno ci fa caso. Fuochi,
cani in cerca di cibo, e al posto delle vecchie insegne che risalivano a les bons temps ci sono solo scritte scarabocchiate a mano che minacciano di sparare a vista agli
sciacalli10.
L’incomprensibile è diventato normale.
Mentre la legge e gli avvocati si dissolvevano e i cadaveri attendevano inutilmente
una sepoltura, la strategia del «prendi ora, paghi dopo» che ha reso così gratificante
«la civiltà così come la conosciamo» le si è ritorta contro. L’impeto di commozione
e la frenetica attività di pubbliche relazioni dei politici hanno momentaneamente
attutito l’impatto e offerto temporaneo sollievo a persone oberate di debiti, ma prive
del reddito con cui speravano di poterli saldare. Ma tutto ciò si è rivelato poco
più che una breve tregua. Un giornalista di «The New York Times» ha previsto che «tra
minimo sei e massimo nove mesi la Fema [l’agenzia federale di protezione civile] e
i gruppi religiosi se ne saranno andati, e i creditori torneranno a esigere i propri
crediti»11; «chi aveva un ottimo lavoro fino all’arrivo di Katrina potrebbe oggi trovarsi ad
avere un reddito molto diverso da allora», mentre «migliaia e migliaia di persone
hanno perso il libretto degli assegni, i documenti assicurativi, il libretto di circolazione
della propria auto (e la stessa auto), il certificato di nascita, la tessera della
previdenza sociale e il portafogli [...]». Mentre scrivo queste righe non sono ancora
trascorsi sei mesi, ma nella città che un tempo era uno dei «gioielli della corona»
americani «le luci brillano in decine di quartieri, ma il buio si estende sul quaranta
per cento della superficie urbana»; «in quasi metà di New Orleans manca il gas per
la cucina e il riscaldamento», «in circa metà delle case il bagno non è ancora collegato
al sistema fognario» e a circa un quarto della città manca ancora l’acqua potabile12. E scarse sono le speranze che le cose cambino in meglio.
Meno di tre mesi dopo che l’uragano Katrina ha devastato New Orleans, i provvedimenti
di emergenza rimangono a sonnecchiare sui tavoli di Washington e cresce lo sconforto
tra i funzionari, nel timore che il Congresso e l’Amministrazione Bush abbiano perso
interesse al problema. [...] Il senso di urgenza che a settembre aveva spinto all’azione
si sta esaurendo rapidamente13.
Pochi anni prima che Katrina arrivasse sulle coste statunitensi, Jean-Pierre Dupuy
aveva trovato un nome per ciò che stava per accadere: «l’irruzione del possibile nell’impossibile»14, non senza avvertire che per evitare una catastrofe bisogna prima credere nella sua possibilità. Occorre convincersi che l’impossibile è possibile. Che il possibile è sempre in agguato, senza tregua, ben protetto dal carapace dell’impossibilità, in attesa
del momento giusto per irrompere. Nessuna minaccia è così temibile e nessuna catastrofe
colpisce tanto duramente come quelle ritenute altamente improbabili; ritenerle impossibili,
o non pensarvi nemmeno, è la scusa per non fare nulla al fine di fermarle prima che
si giunga al punto in cui l’improbabile diventa reale e improvvisamente è troppo tardi
per ridurne l’impatto, tanto meno per evitarne l’arrivo. Eppure, è precisamente questo
ciò che facciamo (o, meglio, non facciamo) quotidianamente, senza nemmeno pensarci.
«La situazione attuale ci mostra», osserva Dupuy, «che l’annuncio di un disastro non
provoca alcun cambiamento visibile del nostro modo di comportarci o di pensare. Anche
se veniamo informati, non crediamo a ciò che ci dicono»15. Dupuy cita Corinne Lepage: «La mente respinge [tale notizia], semplicemente dicendo
a se stessa che non è possibile»16. E conclude: l’ostacolo più impressionante alla prevenzione di una catastrofe è che
non ci si vuole credere...
Apocalypse Now (espressione che è di per sé una sfida alla nostra idea di probabilità) è tornato
sullo schermo: non in una sala cinematografica o nel teatro dell’immaginazione, ma
sulle strade di una città americana. «Non a Bagdad, non nel Ruanda, ma qui»: ecco
l’elemento originale di questo show secondo Dan Barry, in una città dove l’impossibile
ha rivelato la possibilità che covava al proprio interno17. Stavolta l’apocalisse non era giunta nella remota foresta pluviale vietnamita in
cui era ambientata la versione originale del film, e nemmeno sulle rive oscure del
più oscuro dei continenti, dove Conrad aveva collocato il «cuore di tenebra» per rendere
il proprio messaggio leggibile dai suoi civilizzati lettori, ma qui, nel cuore del mondo civilizzato, in una città celebrata per la sua bellezza e joie de vivre, e che fino a pochi giorni prima era stata una calamita per milioni di turisti tra
coloro che perlustrano il pianeta alla ricerca di delizie artistiche e di intrattenimento
di classe, doni tanto lodati e vagheggiati delle forze creative della civiltà.
Katrina ha rivelato il segreto della civiltà custodito più gelosamente: che, come
ha efficacemente sintetizzato Timothy Garton Ash in un saggio dall’eloquente titolo
It always lies below («Se ne sta sempre sotto la superficie»), «la crosta della civiltà su cui camminiamo
è sempre sottile come un’ostia. Basta una scossa per precipitare di sotto, e ritrovarsi
a grattare e scavare come un cane inselvatichito per salvarsi la vita».
Non riesco a liberarmi della sensazione che, man mano che ci inoltriamo nel XXI secolo,
possa accadere più di questo, molto di più. Sono troppi i grandi problemi incombenti
che potrebbero riportare indietro l’umanità. [...] Se vaste aree del mondo fossero
colpite da imprevedibili tempeste, inondazioni e cambiamenti di temperatura, ciò che
è accaduto a New Orleans sembrerebbe un banale tè delle 5.
In un certo senso, anche questi sarebbero uragani creati dall’uomo [conseguenza del
fatto che gli Stati Uniti continuano a emettere biossido di carbonio come se non esistesse
un domani]. Ma non mancano minacce ancora più dirette di esseri umani contro altri
esseri umani [...]. Supponiamo che una «bomba sporca» o un piccolo ordigno nucleare
vengano fatti esplodere in una grande città da un gruppo terroristico: quali sarebbero
le conseguenze?18.
Certo, domande retoriche. Il messaggio di Garton Ash è che la minaccia di «de-civilizzazione» (termine che egli ha rinvenuto in un romanzo di Jack London) è terribilmente
reale: «togliamo le basi fondamentali della vita civile e organizzata, e in poche
ore torneremo allo stato di natura hobbesiano, alla guerra di tutti contro tutti».
Si potrebbe discutere con Garton Ash se un simile «stato di natura» esista, o se la
famosa «guerra di tutti contro tutti» sia piuttosto una condizione che affiora all’estremità
opposta del «processo di civilizzazione», nel momento cioè in cui quella crosta «sottile
come un’ostia» viene rotta da una catastrofe prodotta dalla natura o dall’uomo. Se
esista davvero una «seconda linea di trincee» – per quanto acquitrinosa, melmosa,
maleodorante e comunque inospitale per gli uomini – nella quale possa ricadere un’umanità
preparata dalla e per la «vita civilizzata» quando il suo habitat «secondario-naturale»
implode. O se invece non sia parte integrante del suddetto processo di civilizzazione
l’intenzione, diametralmente opposta, di evitare il «ritorno all’indietro» attraverso
l’«assuefazione alla civiltà» degli uomini, oggetto di tale processo, e quindi la
loro «dipendenza» dalla civiltà stessa, e al tempo stesso privandoli di tutte le capacità
alternative che renderebbero possibile la coabitazione tra gli uomini qualora venisse
meno la patina dei costumi civilizzati. Questa è però, lo ammetto, una questione minore
e «marginale»: cruciale forse per i filosofi della cultura, ma sostanzialmente estranea
e irrilevante per l’argomento in discussione, che si potrebbe definire nel modo migliore
come complesso del Titanic, o sindrome del Titanic.
La sindrome del Titanic è il terrore che la «crosta sottile come un’ostia» si spezzi, lasciandoci precipitare
in quel nulla che resterebbe una volta scomparse le «basi elementari della vita civile
e organizzata»: vita civile in quanto organizzata – la routine, prevedibile, che regola/tiene
in equilibrio repertorio di comportamenti e segnaletica. Il terrore è quello di precipitare,
da soli o in compagnia, ma in entrambi i casi estromessi da un mondo in cui vengono fornite le «basi elementari» e si può contare su una forza
di coesione.
Il protagonista (sebbene rimanga in silenzio) della storia del Titanic è, come sappiamo, l’iceberg. Ma non è l’iceberg, in agguato «là fuori», l’orrore che distingue questa vicenda da tante altre storie di orrori/disastri. Tale orrore
consiste piuttosto nel caos verificatosi «qua dentro», nel ventre del lussuoso transatlantico:
la mancanza, ad esempio, di un qualsiasi piano ragionevole e realistico per evacuare
e salvare i passeggeri in caso di affondamento della nave, o la penuria di scialuppe
e salvagenti – cose rispetto alle quali l’iceberg che vagava «là fuori», nel buio
della notte subartica, agì semplicemente da catalizzatore e da cartina al tornasole
al tempo stesso. Quel «qualcosa» che «se ne sta sempre sotto la superficie» ad attenderci
finché ci si parerà davanti improvvisamente quando ci getteremo nelle gelide acque
dell’oceano. Qualcosa che è tanto più spaventoso in quanto per la maggior parte del
tempo (forse per sempre) rimane nascosto, per assalire di sorpresa le vittime nel momento in cui striscia
fuori dalla sua tana, cogliendole sempre impreparate e incapaci di reagire.
Nascosto? Sì, ma separato soltanto da un sottile diaframma. La civiltà è vulnerabile:
basta un solo colpo per spedirla all’inferno. Come ha acutamente osservato Stephen
Graham, «dipendiamo sempre più, nella nostra vita, da complessi sistemi remoti»; «interruzioni
e disattivazioni anche minime di tali sistemi possono avere enormi effetti a cascata
sulla vita sociale, economica e ambientale», soprattutto nelle città, dove moltissimi
tra noi vivono la maggior parte della propria vita, e che sono luoghi «estremamente
vulnerabili al disordine esterno». «Oggi più che mai, un crollo nel funzionamento
delle reti infrastrutturali urbane produce il panico per paura di un crollo del funzionamento
dell’ordine sociale»19. O, come ha scritto Martin Pawley, citato da Graham, «il timore di un massiccio sconvolgimento
dei servizi urbani» è ormai «endemico nella popolazione di qualsiasi grande città»20.
Endemico... Parte della vita quotidiana. Non occorre una grande catastrofe se basta
un piccolo incidente per dare il via a un «massiccio sconvolgimento». La catastrofe
può arrivare senza preavviso: non ci saranno trombe ad annunciare che le mura inattaccabili
di Gerico stanno per crollare. Ci sono fin troppe ragioni per aver paura, e dunque
fin troppe ragioni per circondarsi di musiche così assordanti da non sentire gli scricchiolii
delle mura.
Le paure che scaturiscono dalla sindrome del Titanic riguardano la possibilità di un crollo o di una catastrofe che ci colpisca tutti, ciecamente e indiscriminatamente, a caso e senza alcuna logica, trovandoci tutti impreparati e indifesi. Esistono però anche altre paure, forse ancor più terrorizzanti.
Si teme di essere selezionati individualmente, o in piccolo numero, nella gaia folla e di essere condannati a soffrire da soli mentre tutti gli altri continuano a fare baldoria. Si teme una catastrofe personale. Si teme di essere presi a bersaglio, marchiati per essere personalmente distrutti.
Si teme di essere sbalzati fuori da un veicolo in rapida accelerazione, o da un fuori
bordo, mentre il resto dei passeggeri, con la cintura di sicurezza saldamente allacciata,
rimane a godersi il viaggio. Si teme di essere lasciati indietro. Si teme di essere
esclusi.
Che simili paure siano tutt’altro che immaginarie, lo si può desumere dalla preminente
autorità dei mezzi di comunicazione, fautori – visibili e tangibili – di una realtà
che non si riesce a vedere né a toccare senza il loro aiuto. Gli spettacoli di reality Tv, quelle versioni liquido-moderne degli antichi «drammi morali», certificano quotidianamente
la dura realtà delle paure. Come suggerisce il nome assunto da tali programmi – un
nome cui gli spettatori non si oppongono, e che viene messo in questione solo da qualche
voce pedante e particolarmente incline al moralismo – ciò che essi mostrano è reale;
ma, soprattutto, quel nome suggerisce che il «reale» è proprio quello. E il loro messaggio
è che in fondo la realtà si riduce all’inevitabilità dell’esclusione e alla lotta
per opporvisi. I reality shows non hanno bisogno di ribadirlo in maniera ossessiva, perché la maggior parte degli
spettatori conosce già questa verità, ed è proprio questa familiarità profondamente radicata ad attirarli
in massa di fronte alla Tv.
Si dà il caso che tendiamo a trovare piacevolmente confortante ascoltare melodie che
già conosciamo a memoria. E tendiamo a credere molto più a ciò che vediamo che a ciò che udiamo. Pensiamo alla differenza tra la «testimonianza oculare» e il «semplice sentito dire»
(ci è mai capitato di sentir parlare di «testimonianze auricolari», o del «semplicemente
visto»?). Le immagini sono molto più «reali» delle parole stampate o dette. E le vicende
che raccontano nascondono il narratore, «colui (o colei) che potrebbe mentire», e
dunque potrebbe fornire un’informazione distorta. Diversamente dagli intermediari
umani, l’obiettivo «non mente», «dice la verità» (o, quanto meno, ci è stato insegnato
a crederlo). Grazie all’immagine, ciascuno di noi può «tornare alle cose stesse»,
zurück zu den Sachen selbst, come voleva Edmund Husserl, il filosofo più desideroso di trovare un modo certo
e infallibile per raggiungere la «verità delle cose». Quando ci confrontiamo con un’immagine
realizzata con metodo fotografico/elettronico, nulla sembra frapporsi tra noi e la
realtà: nulla che possa attirare o distrarre l’occhio. «Vedere per credere» significa
«ci crederò solo quando lo vedrò», ma anche «crederò in ciò che vedrò». E ciò che
vediamo sono persone che cercano di escludere altre persone per evitare di essere escluse a loro
volta. Una verità banale per la maggior parte di noi, che tuttavia evitiamo di esprimere,
in buona parte riuscendoci. I reality lo hanno fatto per noi e noi gliene siamo grati. La conoscenza che essi illustrano
per filo e per segno resterebbe altrimenti diffusa, dispersa in parti e frammenti
che come si sa sono difficili da raccogliere e interpretare.
Ciò che i reality ci aiutano a scoprire (volutamente o inavvertitamente, esplicitamente o indirettamente)
è, ad esempio, che le nostre istituzioni politiche, su cui avevamo imparato a fare
affidamento quando eravamo nei guai, e che ci era stato insegnato a considerare garanti
della nostra sicurezza, formano – come ha osservato recentemente John Dunn – un congegno
al servizio dell’«ordine dell’egoismo», e che il principio fondamentale su cui è costruito
tale ordine è la «scommessa sui più forti» e «sui più ricchi, ossia, necessariamente,
in certa misura, su coloro che hanno la buona sorte di esserlo già, ma soprattutto
su coloro che possiedono la capacità, i nervi saldi e la fortuna per diventarlo»21. Quando si tratta di abbandonare una nave che affonda, o di trovare posto sulla scialuppa,
capacità e nervi saldi non sono poi di grande aiuto; la fortuna è forse l’unica salvezza:
ma la fortuna, si sa, è un dono del destino, uno di quei doni elargiti a pochi e raramente.
Sono milioni coloro che trovano ogni giorno conferma di tale triste realtà – come
è accaduto, ad esempio, a Jerry Roy di Flint (nel Michigan) che, assunto trent’anni
fa dalla General Motors, «si trova di fronte alla prospettiva di perdere il lavoro
o di accettare una forte riduzione di salario», dato che «la Gm, un tempo simbolo
inattaccabile della potenza industriale della nazione», è ormai «diventata l’ombra
di ciò che era, ed è così svanita la promessa del secondo dopoguerra secondo cui il
lavoro in fabbrica era per gli operai una via sicura al sogno americano». A che cosa
possono servire capacità e nervi saldi quando «tanti di quei posti che una volta erano
fabbriche sono ormai diventati parcheggi per auto» e l’azienda che possedeva quelle
fabbriche «si accinge a riscrivere, o addirittura a strappare, i suoi contratti di
lavoro», a «tagliare i benefici sanitari e previdenziali», e a trasferire «all’estero
migliaia di posti di lavoro»?22
Le occasioni di aver paura sono una delle poche cose che non scarseggiano in questi
nostri tempi tristemente poveri di certezze, garanzie e sicurezze. Le paure sono tante
e varie. Ognuno ha le sue, che lo ossessionano, diverse a seconda della collocazione
sociale, del genere, dell’età e della parte del pianeta in cui è nato e ha scelto
di (o è stato costretto a) vivere.
Il guaio è che tali paure non sono tutte uguali fra loro. Dato che arrivano una alla
volta, in successione ininterrotta ma casuale, esse sfidano i nostri (eventuali) sforzi
di collegarle tra loro e ricondurle alle loro radici comuni. Ci spaventano di più
perché risultano difficili da abbracciare nella loro totalità, ma ancor più per il
senso di impotenza che suscitano in noi. Non riuscendo a comprenderne le origini e
la logica (ammesso che ci sia), ci troviamo al buio e incapaci di prendere provvedimenti
– e, a maggior ragione, di prevenire o contrastare i pericoli che esse ci segnalano.
Siamo semplicemente privi di strumenti e capacità a tal fine. I rischi che temiamo
trascendono la nostra capacità di agire; finora non siamo nemmeno riusciti a definire
chiaramente come dovrebbero essere gli strumenti e le capacità adeguate – e dunque
siamo ben lontani dal poter iniziare a progettarli e realizzarli. Ci troviamo in una
situazione non molto diversa da quella di un bambino disorientato; per riprendere
l’allegoria utilizzata tre secoli fa da Georg Christoph Lichtenberg, se un bambino
urta contro un tavolo, dà la colpa a quest’ultimo, mentre per casi simili noi abbiamo
coniato la parola «destino» contro cui lanciare accuse23.
Il senso di impotenza che costituisce l’effetto più tremendo della paura nasce tuttavia
non dai pericoli (veri o presunti) in quanto tali, ma dall’ampio quanto scarsamente
attrezzato spazio che si spalanca tra i pericoli da cui promanano le paure e le nostre
reazioni possibili e/o ritenute realistiche. Ma che le nostre paure «non siano tutte
uguali tra loro» è vero anche in un altro senso: per quanto le paure che tormentano
i più possano essere straordinariamente simili tra loro, si presume che ciascuno di
noi vi si opporrà individualmente, con le proprie sole risorse, quasi sempre drammaticamente
inadeguate. Non si vede quasi mai chiaramente in che modo le nostre possibilità di
difesa possano guadagnarci dal mettere insieme le risorse di tutti e cercare modi
per dare a tutti coloro che ne soffrono le stesse opportunità di sicurezza dalla paura.
A peggiorare ulteriormente le cose, anche se e quando i benefici di una lotta comune
vengano perorati in modo convincente, rimane aperta la questione di come fare per
tenere uniti tutti i combattenti isolati. Le condizioni della società individualizzata
sono inadatte all’azione solidale, e rendono difficile vedere una foresta invece che
i singoli alberi. Inoltre le antiche foreste – paesaggio un tempo familiare e facile
da riconoscere – sono state decimate, ed è improbabile che ne vengano piantate di
nuove, dato che la coltivazione tende a essere demandata ai singoli contadini. La
società individualizzata è contraddistinta da una dispersione dei legami sociali,
che sono il fondamento dell’azione solidale. Essa si distingue anche per la sua resistenza
a una solidarietà che potrebbe rendere tali legami durevoli e affidabili.
Questo volume è un inventario (assolutamente preliminare e incompleto) delle paure
liquido-moderne. È anche il tentativo (anch’esso preliminare, e molto più ricco di
domande che di risposte) di individuare le radici comuni di tali paure, gli ostacoli
di cui è costellata la via della scoperta di esse, e alcuni modi per rimuovere tali
ostacoli o impedir loro di nuocere. Questo libro, in altre parole, è solo un invito
a pensare di agire, e ad agire consapevolmente: non è un libro di ricette. Esso si
prefigge unicamente di avvertirci del tremendo compito che dovremo certamente affrontare
(che lo sappiamo o no, che lo vogliamo o no) per gran parte di questo secolo, nella
speranza che l’umanità sappia portarlo a termine e, alla fine, si senta più al sicuro
e sicura di sé di quanto non fosse all’inizio.