3. La cultura consumistica
Un fascicolo influente, diffuso e autorevole, allegato a una prestigiosa rivista di
moda, offriva, per la stagione autunno-inverno 2005, «una mezza dozzina di look chiave
[...] per i prossimi mesi [...] grazie ai quali sarete un passo avanti a chi fa tendenza».
Una promessa felicemente e abilmente calcolata per catturare l’attenzione: molto abilmente
davvero, se in un’unica frase, concisa e frizzante, riusciva a rispondere a quasi
tutte le ansie e gli impulsi che derivano dalla società dei consumatori e che nascono
dalla vita di consumo.
Innanzi tutto c’è la preoccupazione di stare, e rimanere, «un passo avanti a chi fa
tendenza», vale a dire rispetto al gruppo di riferimento, agli «altri significativi»,
a «chi di stile se ne intende», l’approvazione o il rifiuto dei quali separano il
successo dal fallimento. Come scrive Michel Maffesoli, «sono in una certa maniera
perché gli altri mi riconoscono in una certa maniera», mentre «la vita sociale empirica
non è che l’espressione di sentimenti di appartenenza successivi»1: l’alternativa sarebbe una serie di rifiuti o un’esclusione definitiva, una sorta
di scotto per non essere riusciti ad attestare il proprio riconoscimento, a forza,
a parole, oppure per vie traverse.
Va ricordato, tuttavia, che nella società dei consumatori, in cui i legami umani tendono
a essere mediati dai mercati dei prodotti di consumo, il senso di appartenenza non
si ottiene seguendo la procedura amministrata e controllata dal circolo di «chi fa
tendenza» cui ciascuno aspira, ma attraverso l’identificazione metonimica dell’aspirante
con quegli stessi «adepti»; il processo di identificazione avviene – e i suoi risultati
vengono presentati – con l’aiuto di «segni di appartenenza» visibili, che generalmente
si possono ottenere nei negozi. Nelle «tribù postmoderne» (come Maffesoli preferisce
chiamare «chi fa tendenza» nella società dei consumatori) al posto dei «totem» subentrano
«figure emblematiche» e i loro segni visibili (elementi che suggeriscono codici di
abbigliamento e/o comportamento). Essere un passo avanti nello sfoggiare i simboli delle figure emblematiche di un circolo
di adepti è l’unica prescrizione affidabile per convincersi che, se sapessero dell’esistenza
dell’aspirante, gli adepti del caso concederebbero certo il riconoscimento e l’accettazione
desiderati; mentre restare un passo avanti è l’unico modo per rendere tale riconoscimento di «appartenenza»
sicuro per il tempo desiderato, ossia per trasformare l’atto di ammissione una tantum in un permesso di residenza a tempo determinato, ma rinnovabile. Tutto sommato, «essere
un passo avanti» promette di offrire una chance di sicurezza, di certezza e di certezza
di sicurezza, ossia proprio del tipo di esperienza di cui la vita di consumo è più
palesemente e penosamente priva, pur essendo guidata dal desiderio di acquisirlo.
La promessa di «essere un passo avanti a chi fa tendenza»» si riferisce alla prospettiva di avere valore
di mercato elevato e domanda abbondante, che si traducono entrambi in certezza di
riconoscimento, approvazione e inclusione. Se candidarsi si riduce sostanzialmente
a ostentare emblemi, si comincia con l’acquistarli, se ne annuncia poi pubblicamente
il possesso e ci si considera giunti a destinazione quando tale possesso diviene di
pubblico dominio, il che a sua volta si traduce in senso di «appartenenza». Invece,
nel riferimento al «restare un passo avanti» si coglie una giusta cautela circa il pericolo di non accorgersi
del momento in cui gli attuali emblemi di «appartenenza» andranno fuori corso per
essere sostituiti da nuovi emblemi, e in cui i loro sbadati portatori rischieranno
di esser messi da parte – il che, nel caso di una candidatura mediata dal mercato,
si traduce in senso di rifiuto, esclusione, abbandono, isolamento, e in ultima analisi
si riflette nella bruciante sofferenza dell’inadeguatezza personale. Una celebre
affermazione di Mary Douglas rivela il significato nascosto delle preoccupazioni (che
consumano) i consumatori: una teoria dei bisogni «dovrebbe iniziare dal presupposto
secondo cui qualsiasi individuo ha bisogno di beni per guadagnare altre persone ai
suoi progetti [...]. I beni servono a mobilitare gli altri»2. O almeno a dare la confortante sensazione che si sia fatto tutto il dovuto per ottenere
tale mobilitazione.
In secondo luogo, il messaggio arriva con tanto di data di scadenza. I lettori si
ritengano avvisati: esso rimane valido «per i prossimi mesi» e non oltre. Ciò si abbina
bene all’esperienza del tempo puntinista composto da istanti, episodi a tempo determinato,
nuovi inizi, ed emancipa il presente (che deve essere pienamente esplorato e sfruttato)
dalle distrazioni del passato e del futuro che potrebbero rovinare la concentrazione
e turbare l’euforia della libera scelta. Offre il duplice premio di essere momentaneamente
al passo con i tempi e di portare con sé un salvacondotto contro il rischio di ricadere
all’indietro nel futuro (almeno in quello prevedibile, ammesso che qualcosa di simile esista). I consumatori più navigati coglieranno certamente
il messaggio, che li solleciterà a spicciarsi e ricorderà loro che non c’è tempo da
perdere.
Tale messaggio contiene dunque un avviso che è pericolosissimo ignorare: il vantaggio
di rispondere prontamente al richiamo, per quanto grande, non durerà per sempre. Trascorsi
alcuni mesi, qualsiasi polizza sia stata stipulata per garantirsi sicurezza andrà
rinnovata. Consultate dunque questo spazio. Nel romanzo dall’appropriato titolo La lentezza Milan Kundera rivela lo stretto legame tra velocità e oblio: «Il grado di velocità
è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio»3. Perché? Perché, se «per occupare la scena bisogna cacciarne via gli altri», conquistare
quella scena particolarmente importante che viene chiamata «attenzione del pubblico»4 (e, più precisamente, l’attenzione del pubblico di chi è stato marchiato per essere
trasformato in consumatore) richiede di tenere lontani dalla stessa scena altri oggetti
di attenzione: altri personaggi e altre storie, comprese le storie messe in scena
da chi cercava attenzione ieri... «Le situazioni messe in scena [...]», ci ricorda
Kundera, «rimangono sotto le luci dei riflettori solo per i primi minuti»5. Nel mondo liquido-moderno la lentezza preannuncia la morte sociale. Come nota Vincent
de Gaulejac, «poiché tutti avanzano, chi resta immobile sarà inevitabilmente separato
dagli altri da un divario crescente»6. Il concetto di «esclusione» suggerisce erroneamente un’azione da parte di qualcuno
per portare via l’oggetto di tale esclusione dal luogo dove si trovava; in realtà,
nella maggior parte dei casi è la «stagnazione a escludere».
In terzo luogo, poiché il look oggi offerto non è uno solo, ma almeno «una mezza dozzina»,
siete davvero liberi (anche se – un richiamo alla cautela molto opportuno – il ventaglio
delle offerte di questo momento circoscrive le vostre scelte con un limite insuperabile).
Potete scegliere con cura il vostro look. L’atto di scegliere di per sé – di scegliere un qualsiasi look – non è messo in discussione: questo è ciò che dovete fare e che potete cessare ed evitare di fare solo a rischio di esclusione. Né siete
liberi di influenzare la serie di opzioni tra le quali scegliere: non ce ne sono altre,
poiché tutte le possibilità realistiche e raccomandabili sono già state pre-selezionate,
pre-sceneggiate e pre-scritte.
Ma non preoccupatevi per tutte queste seccature: per la pressione del tempo, per la
necessità di entrare nelle grazie di «chi fa tendenza» qualora rivolgano lo sguardo
verso di voi, notino e registrino il vostro abbigliamento e la vostra condotta, o
per il numero rigorosamente limitato di scelte che si possono fare (solo «una mezza
dozzina»). Ciò che importa, in realtà, è che al comando ora siete voi. Dovete esserlo: la scelta può essere vostra, ma ricordate che è obbligatorio fare una scelta. Ellen Seiter nota che «l’abbigliamento, l’arredamento, i dischi, i giocattoli –
tutte le cose che acquistiamo – implicano decisioni e l’esercizio del nostro giudizio
e ‘gusto’», ma si affretta ad aggiungere: «Ovviamente non abbiamo il controllo su
ciò che è disponibile alla nostra scelta»7. Ciononostante, nella cultura dei consumi scelta e libertà sono due nomi diversi
per la stessa condizione; ed è corretto considerarli sinonimi, almeno nel senso che
potete evitare di scegliere solamente rinunciando al tempo stesso alla libertà.
La grande frattura che separa nel più netto modo possibile la sindrome culturale consumistica dalla precedente sindrome produttivistica, quella che tiene insieme l’insieme delle tante e diverse spinte, intuizioni e propensioni
elevando il tutto a programma di vita coerente, sembra essere il rovesciamento dei valori legati rispettivamente alla durata e alla transitorietà.
La sindrome culturale consumistica consiste soprattutto nell’enfatica negazione della
virtù del rinvio, e dell’opportunità e desiderabilità di ritardare la soddisfazione:
i due pilastri assiologici della società dei produttori regolata dalla sindrome produttivistica.
Nella gerarchia tramandata dei valori riconosciuti la sindrome consumistica ha declassato
la durata in favore della transitorietà. Essa antepone la novità alla durata. Ha abbreviato
molto non solo il tempo che separa il bisogno dall’appagamento (come hanno suggerito
molti osservatori, ispirati o fuorviati dalle agenzie di informazioni commerciali),
ma anche il momento in cui sorge la carenza dal momento in cui essa termina, e il
momento in cui ci si rende conto che un bene è utile e desiderabile da quello in cui
viene percepito come qualcosa di inutile da scartare. Ha collocato l’atto dell’appropriazione,
cui deve prontamente seguire lo smaltimento del rifiuto, tra gli oggetti del desiderio
umano, al posto che un tempo spettava all’acquisizione di un possesso che si presumeva
durevole e al suo durevole godimento.
La sindrome consumistica sostituisce nel novero delle preoccupazioni umane la necessità
di cautelarsi contro la possibilità che le cose (animate e inanimate) diventino ospiti sgraditi alla tecnica che serviva a tenersi le cose ben strette e all’attaccamento e all’impegno a lungo termine (se non infinito). La sindrome consumistica
abbrevia radicalmente l’aspettativa di vita del desiderio e la distanza temporale
tra il desiderio e la sua gratificazione, e tra quest’ultima e il cestino dei rifiuti.
La «sindrome consumistica» è fatta tutta di velocità, eccesso e scarto.
I consumatori maturi non fanno i pignoli quando si tratta di relegare le cose nella
spazzatura: ils (et elles, bien sûr) ne regrettent rien. Di regola accettano la brevità di vita delle cose e la loro fine prestabilita con
serenità, spesso con piacere appena dissimulato, in qualche caso con autentica gioia,
celebrandola come una vittoria. I più abili e pronti tra i cultori dell’arte consumistica
sanno che liberarsi delle cose che hanno superato la loro data-limite di utilizzo
(leggi: di godimento) è un evento di cui rallegrarsi. Per i maestri dell’arte consumistica il valore di ogni e qualsiasi oggetto sta tanto
nelle sue virtù quanto nei suoi limiti. Le carenze già note e quelle che devono essere
ancora rivelate – inevitabilmente, data la loro obsolescenza preordinata e programmata
o, per usare i termini di Karl Marx, dato il loro invecchiamento «morale», distinto
da quello fisico – promettono un imminente rinnovamento o ringiovanimento, nuove avventure,
nuove sensazioni, nuove gioie. In una società di consumatori la perfezione (se questo
concetto è ancora valido) può essere soltanto una caratteristica collettiva della
massa, di una molteplicità di oggetti di desiderio; il persistente impulso alla perfezione
richiede ormai, più che il miglioramento delle cose, la loro profusione e rapida circolazione.
E dunque, mi si lasci ripetere, una società dei consumatori non può che essere una
società dell’eccesso e dello sperpero – del superfluo e dello scarto abbondante. Quanto
più fluido è l’ambiente di vita degli attori, tanto più numerosi sono gli oggetti
di consumo potenziale di cui hanno bisogno per cautelarsi dalle loro stesse scommesse
e mettere le loro poste al riparo dai capricci del destino (ribattezzati, in gergo
sociologico, «conseguenze non previste»). L’eccesso, tuttavia, accresce l’incertezza
delle scelte, invece di eliminarla o almeno di attenuarla e sdrammatizzarla come si
sperava: per questo, difficilmente l’eccesso già raggiunto sarà abbastanza eccessivo.
La vita dei consumatori è condannata a essere una serie infinita di tentativi ed errori.
È una vita di continua sperimentazione che lascia però ben poche speranze di un experimentum crucis capace di condurre gli sperimentatori a una terra di certezze con tanto di mappe e
di indicazioni affidabili.
Cautelarsi contro le proprie scommesse: questa è la regola aurea della razionalità
del consumatore. In queste equazioni di vita ci sono quasi soltanto variabili, e ben
poche – o nessuna – costante; i valori si modificano troppo spesso e troppo velocemente
perché sia possibile seguirne i cambiamenti, tanto meno prevederne le future evoluzioni.
L’assicurazione spesso ripetuta secondo cui «questo è un paese libero» significa:
sta a a ciascuno decidere che genere di vita desidera vivere, come viverla e che tipo
di scelte fare per realizzare il suo progetto; se tutto ciò non produce la felicità
che sperava, la colpa è sua e di nessun altro. La gioia dell’emancipazione appare
strettamente intrecciata all’orrore della sconfitta.
Le due implicazioni non possono essere separate. La libertà è destinata a far sì che
i rischi non detti dell’avventura invadano lo spazio lasciato vuoto dalla certezza
della noia. L’avventura, pur promettendo sensazioni deliziosamente tonificanti perché
nuove, preannuncia anche l’umiliazione dell’insuccesso e la perdita di autostima dovuta
alla sconfitta. Quando, strada facendo, la reale dimensione dei rischi dell’avventura
– che in precedenza erano stati sottovalutati a cuor leggero – diverrà evidente, la
noia – piaga giustamente disapprovata e deprecata della certezza – tenderà a essere
dimenticata e perdonata: sarà allora il momento di minimizzare la portata dei disagi
che essa porta con sé e del disgusto che suscita.
L’avvento della libertà, camuffato da scelta del consumatore, tenderà a essere visto
come entusiasmante atto di emancipazione da obblighi penosi e fastidiosi divieti, o da routine instupidenti e monotone. La
libertà, quando si sarà affermata e trasformata in un’altra routine quotidiana, in
un tipo di orrore nuovo ma non meno spaventoso di quelli che doveva disperdere – l’orrore
della responsabilità – farà ben presto impallidire il ricordo delle sofferenze e dei rancori passati.
Le notti che seguono a giornate di scelte obbligate sono piene di sogni di libertà
dai vincoli.
Merita di essere notato – ma non sorprende – che le due difese più forti e persuasive
della necessità della «società» (termine che in questo caso sta a indicare un’autorità
che avalli e controlli un sistema completo di norme, regole, vincoli, divieti e sanzioni)
avanzate dai filosofi fin dall’inizio della trasformazione moderna, siano state dettate
dal riconoscimento delle minacce fisiche e degli oneri spirituali che sono connotati
endemici della condizione libera.
La prima difesa, formulata da Hobbes, sviluppata molto tempo dopo da Durkheim e trasformatasi
verso la metà del XX secolo in un tacito presupposto entrato a far parte del senso
comune della filosofia e delle scienze sociali, presentava la coercizione sociale
e i vincoli imposti alla libertà individuale dalla regolamentazione normativa come
mezzi necessari, inevitabili e in ultima analisi salutari e benefici per proteggere
la convivenza umana dalla «guerra di tutti contro tutti» e gli individui dalla vita
che è «brutta, brutale e breve». Secondo i fautori di questa posizione, la fine della
coercizione sociale gestita dall’autorità (ammesso che tale fine fosse possibile o
almeno concepibile) non avrebbe liberato gli individui ma, al contrario, li avrebbe
soltanto resi incapaci di resistere agli stimoli malsani dei loro stessi istinti,
essenzialmente antisociali. Li avrebbe resi vittime di una schiavitù molto più terribile
di quella prodotta da tutte le pressioni delle dure realtà sociali. Freud rappresentò
come essenza stessa della civiltà la coercizione esercitata dalla società e la limitazione
delle libertà individuali che ne risultava: la civiltà senza coercizione sarebbe stata
impensabile dato il «principio di piacere» (la spinta a ricercare la soddisfazione
sessuale o la congenita inclinazione degli uomini alla pigrizia), che avrebbe condotto
il comportamento individuale nel deserto dell’asocialità a meno di non vincolarlo,
regolarlo e bilanciarlo tramite il «principio di realtà», sostenuto dal potere e gestito
dall’autorità.
La seconda posizione in difesa della necessità, o meglio dell’inevitabilità, della
regolamentazione normativa applicata dalla società si fondava su una premessa pressoché
opposta: quella della sfida etica che gli uomini devono fronteggiare per la presenza
stessa degli altri, per «l’appello silenzioso del volto dell’Altro». Tale sfida precede
qualsiasi contesto ontologico creato ed elaborato dalla società: la società, se mai,
punta a neutralizzare, regolare e limitare la sfida di una responsabilità, altrimenti
illimitata, per rendere possibile sopportarla e convivere con essa. In questa versione,
elaborata compiutamente da Emmanuel Lévinas, ma anche da Knud Løgstrup con la sua
concezione della «domanda [etica] inespressa», la società è vista in primo luogo come
meccanismo per ridurre la responsabilità-verso-l’altro, essenzialmente incondizionata
e illimitata, a un insieme di prescrizioni e divieti che siano più in linea con le
capacità dell’uomo di farvi fronte. Come sostiene Lévinas, la funzione principale
della regolamentazione normativa, e anche la causa fondamentale della sua inevitabilità,
è fare della responsabilità verso l’Altro (sostanzialmente incondizionata e illimitata) qualcosa di condizionato (rispetto a circostanze selezionate, debitamente elencate e chiaramente definite)
e limitato (a un gruppo selezionato di «altri», molto più piccolo dell’umanità e, cosa particolarmente
importante, più circoscritto e facile da gestire rispetto alla somma indeterminata
degli «altri» che possono finire per destare dei sentimenti di responsabilità illimitata
e inalienabile). Nel lessico di Knud Løgstrup – pensatore molto vicino alle posizioni
di Lévinas e che, come quest’ultimo, sottolinea il primato dell’etica sulle realtà
della vita-in-società e chiama il mondo a rispondere di non essere all’altezza degli
standard della responsabilità etica – si può dire che la società sia una organizzazione
per rendere udibile (ossia specifica e codificata) la domanda etica, che altrimenti
resterebbe ostinatamente e fastidiosamente silenziosa, riducendo così l’infinita molteplicità
di opzioni che quel comando implica a una gamma molto più ristretta e gestibile di
obblighi più o meno chiaramente esposti.
L’avvento del consumismo ha indebolito la credibilità e il potere persuasivo di entrambe
le posizioni, ciascuna in modo diverso, ma per la stessa ragione, che può essere individuata
nel processo di scomposizione (sempre evidente e tuttora crescente) del sistema della
regolamentazione normativa, un tempo onnicomprensivo. Aree sempre più ampie del comportamento
umano si sono emancipate dalla modellizzazione, supervisione e vigilanza che la società
esercita in modo esplicito (con il sostegno di autorità e sanzioni ufficiali), lasciando
alla responsabilità di ciascuno, uomo o donna, un insieme sempre maggiore di responsabilità
precedentemente socializzate. In un contesto deregolamentato e privatizzato che si
concentra sugli interessi e sugli obiettivi dei consumatori, le responsabilità delle
scelte, delle azioni che seguono le scelte e delle conseguenze di tali azioni gravano
completamente sulle spalle dei soggetti individuali. Come segnalava già vent’anni
fa Pierre Bourdieu, l’incentivazione ha sostituito in gran parte la coercizione, la
seduzione i modelli di comportamento tassativi di un tempo, la comunicazione e la
pubblicità la vigilanza sul comportamento, e l’evocazione di nuovi bisogni e desideri
la regolamentazione normativa.
L’avvento del consumismo ha evidentemente privato le due posizioni sopra esaminate
di molta della loro credibilità originaria, poiché non si sono materializzate le
conseguenze catastrofiche (che si ritenevano inevitabili) dell’abbandono o dell’indebolimento
della regolamentazione normativa gestita dalla società.
L’abbondanza e l’intensità degli antagonismi e degli aperti conflitti tra gli individui
creati dalla progressiva deregolamentazione e privatizzazione di funzioni un tempo
svolte dalla società, nonché l’entità dei danni che possono arrecare al tessuto sociale,
sono attualmente oggetto di dibattito, ma la società dei consumatori deregolamentata
e privatizzata è finora ben lontana – e non si sta certo avvicinando – alla terrificante
visione hobbesiana. E sebbene il destino della consapevolezza etica e della condotta
moralmente motivata susciti numerose, serie e fondate preoccupazioni, l’esplicita
privatizzazione della responsabilità non ha disarmato e sopraffatto i soggetti umani
di fronte all’enormità della sfida, come supponevano le visioni di Lévinas e Løgstrup.
Sembra probabile (ma su questo non è ancora stato pronunciato un verdetto definitivo)
che i consumatori, esposti alla logica dei mercati dei beni di consumo e abbandonati
alle loro scelte, abbiano trovato un equilibrio di forze di segno opposto tra il principio
di piacere e quello di realtà. Si presume che sia ora il «principio di realtà» a trovarsi
sul banco degli imputati. In caso di conflitto tra i due principi che si riteneva
si opponessero inesorabilmente (cosa oggi tutt’altro che scontata, come ho scritto
sopra), è il principio di realtà ad avere le maggiori probabilità di trovarsi sotto
pressione e di essere costretto a battere in ritirata, ad autolimitarsi e a giungere
a compromessi. Sembra che ci sia ben poco da guadagnare dall’obbedire ai solidi e
coriacei «fatti sociali» che ai tempi di Émile Durkheim si credevano indomabili e
irresistibili, mentre venire incontro alle esigenze del principio di piacere, che
può espandersi all’infinito, promette ricavi e profitti anch’essi suscettibili di
crescita senza fine. Che i «fatti sociali» liquido-moderni siano sempre più, e sempre
più vistosamente, «morbidi» e flessibili contribuisce a emancipare la ricerca del
piacere dalle restrizioni di un tempo (ora censurate come irrazionali) e ad aprirla
totalmente allo sfruttamento commerciale.
Le guerre per il riconoscimento (interpretabili, in alternativa, come richieste di
legittimazione) che si combattono a ogni nuova avanzata del principio di piacere sono
perlopiù brevi e quasi di circostanza, poiché il loro esito vittorioso è, nella grande
maggioranza dei casi, scontato. Il vantaggio fondamentale su cui il «principio di
realtà» poteva contare rispetto al «principio di piacere» consisteva generalmente
nelle sue grandi risorse (sociali, sovraindividuali), rispetto alle forze molto più
deboli (individuali e basta) del suo antagonista, ma questo vantaggio è stato assai
ridotto, se non annullato e svuotato, dai processi di deregolamentazione e privatizzazione.
Tocca ora ai singoli consumatori definire (e fissare, se ciò è possibile e auspicabile)
le realtà che potrebbero dare concretezza alla versione liquida del principio di realtà
e perseguire gli obiettivi dettati dal principio di piacere.
Quanto alla domanda posta e formulata da Lévinas, il compito di ridurre il carattere
infinito e sovrumano della responsabilità etica alle possibilità date dalla sensibilità,
dalla capacità di giudizio e dalla capacità di agire di un individuo normale tende
ormai a essere «sussidiarizzato» a ciascun uomo o donna, in ogni ambito o quasi. Poiché
manca una traduzione autorevole della «domanda silenziosa» in una lista circoscritta
di obblighi e divieti, tocca ormai ai singoli definire i limiti della propria responsabilità
verso gli altri, tracciare la linea tra gli interventi umani plausibili o meno, e
decidere fino a che punto sono disposti a sacrificare il proprio benessere per far
fronte alle responsabilità morali verso gli altri.
Questo compito, una volta trasferito agli individui, diviene schiacciante, poiché
l’espediente di nascondersi dietro un’autorità riconosciuta e inequivocabilmente
indomabile che garantisca di alleviarli, almeno in qualche misura, dalla responsabilità
non è più un’opzione realistica. Di fronte a un compito così immane gli attori si
trovano in uno stato di incertezza continuo e insanabile, e pervengono troppo spesso
a una penosa e avvilente auto-disapprovazione. Eppure, per l’io morale e per gli attori
morali il risultato complessivo della privatizzazione e sussidiarizzazione della responsabilità
si dimostra in qualche modo meno invalidante di quanto prevedessero Lévinas e i suoi
discepoli, me compreso. Bene o male si è trovato un modo per mitigare l’impatto potenzialmente
devastante dei fenomeni e per limitarne i danni. È evidente che esiste un gran numero
di agenzie commerciali pronte ad assumersi i compiti abbandonati dalle istituzioni
e dai governi e a vendere i propri servizi a consumatori affranti, impreparati e confusi.
Sotto il regime della deregolamentazione e della privatizzazione la formula dello
«scarico dalla responsabilità» è rimasta sostanzialmente la stessa utilizzata nelle
prime fasi della storia moderna: l’introduzione di una certa dose di vera o presunta
chiarezza in una situazione disperatamente opaca, la sostituzione (o, più esattamente,
l’occultamento) della vertiginosa complessità del compito con un elenco definito e
più o meno ampio di semplici regole, obblighi e divieti. Ora come allora, i singoli
attori sono spinti e indotti con lusinghe a riporre fiducia in autorità affidabili
per capire ciò che la domanda silenziosa chiede loro di fare in questa o in quella
situazione, entro (e non oltre) il punto cui la loro responsabilità incondizionata
li obbliga ad arrivare nella loro attuale condizione.
I concetti di responsabilità e di scelta responsabile, che in precedenza erano collocati
nel campo semantico del dovere etico e della preoccupazione morale per l’Altro, si
sono, o sono stati, trasferiti all’ambito della realizzazione di sé e della previsione
dei rischi. In questo processo «l’Altro» in quanto punto di partenza, destinazione
e metro di una responsabilità riconosciuta, accettata e sostenuta, è pressoché scomparso,
scacciato o messo in ombra dall’io dello stesso attore. La «responsabilità» ormai
si esaurisce nella responsabilità verso se stessi («devi questo a te stesso», «te lo meriti», così come la formula chi vende «scarico
dalla responsabilità»), mentre le «scelte responsabili» si riducono alle mosse che
servono agli interessi dell’io e ne soddisfano i desideri.
L’esito non è molto diverso dagli effetti «adiaforizzanti» dello stratagemma che veniva
adottato dalla burocrazia solido-moderna, vale a dire la sostituzione della «responsabilità
per» (per il benessere e la dignità umana dell’Altro) con la «responsabilità verso» (verso il proprio superiore, verso un’autorità, verso una causa e chi parla a suo
nome). Tuttavia, al giorno d’oggi gli effetti adiaforizzanti (ossia la dichiarazione
di «neutralità etica» di determinate azioni cariche di scelta morale, così esentate
dalla valutazione e dalla censura dell’etica) si ottengono piuttosto sostituendo alla
«responsabilità per gli altri» la «responsabilità verso se stessi» e la «responsabilità per se stessi», che oramai coincidono. La vittima collaterale di questo salto verso la variante
consumistica della libertà è l’Altro in quanto oggetto di responsabilità etica e di
preoccupazione morale.
Possiamo ora tornare ai tre messaggi segnalati e brevemente esaminati all’inizio di
questo capitolo. Essi, insieme e all’unisono, proclamano uno stato di emergenza.
In ciò non c’è niente di nuovo, se non un’ennesima rassicurazione, spesso ripetuta,
secondo cui l’attenzione continua, la costante disponibilità ad andare nella giusta
direzione e l’investimento di denaro e di sforzi necessari su questo percorso sono
tutte cose sacrosante e opportune. Le spie luminose che segnalano l’allarme (arancione?
rosso?) sono accese, nuovi inizi carichi di promesse e nuovi, minacciosi rischi ci
si presentano davanti. Tutto l’armamentario necessario per fare le scelte giuste (adempiere
alla responsabilità inalienabile verso e per se stessi), gli strumenti e le procedure adatti e le istruzioni semplicissime che
servono per farli funzionare nel modo desiderato sono in lì che aspettano, da qualche
parte, sicuramente a portata di mano, e possono essere trovati con una modica quantità
di ingegno e di sforzo. Il punto, oggi come allora, è non perdere il momento giusto
per agire: se disattento o distratto, negligente o indolente, lo sventurato attore
finirebbe facilmente in coda a «chi fa tendenza», anziché «un passo avanti». Ignorare
l’indifferenza dei mercati dei beni di consumo e fare affidamento su strumenti e routine
che hanno dato buoni risultati in passato non funzionerà.
Nicole Aubert sottolinea in uno studio significativo sugli attuali, decisivi cambiamenti
della nostra percezione ed esperienza del tempo, il ruolo fondamentale dello «stato
di emergenza» e il clima o la «urgenza» che è destinato e mira a diffondere, disseminare
e consolidare, una volta proclamato8. L’autrice sostiene che nelle società attuali lo stato e l’atmosfera di «emergenza»
servono a soddisfare numerosi bisogni esistenziali che in altri tipi di società vengono
tendenzialmente repressi o lasciati insoddisfatti, ricorrendo a stratagemmi molto
diversi per farvi fronte. I nuovi espedienti che Aubert ricollega alla strategia consistente
nel coltivare in modo sia intensivo che estensivo un senso di urgenza offrono un sollievo illusorio, ma comunque molto efficace, agli individui e alle istituzioni nei loro sforzi di
alleviare le conseguenze potenzialmente devastanti dei tormenti generati dalla necessità
di scegliere, che caratterizzano endemicamente la libertà del consumatore.
Una delle principali illusioni è costituita dalla condensazione temporanea dell’energia,
altrimenti diffusa, generata dal segnale di allerta. Quando essa raggiunge il punto
di autocombustione, l’accumulazione del potere necessario per agire allevia (sia pure
per poco) i tormenti dell’inadeguatezza che perseguitano quotidianamente i consumatori.
Gli individui che Aubert ha coinvolto e osservato da vicino (individui, vorrei notare,
guarda caso addestrati e avviati alle arti della vita di consumo e diventati perciò
intolleranti a ogni e qualsiasi frustrazione e incapaci di resistere al rinvio di
una gratificazione che si attendono sia sempre immediata), «essendosi per così dire
adagiati sul presente, su una logica di ‘non rinvio’, si cullano nell’illusione di
avere la forza di conquistare il tempo», abolendolo del tutto (per qualche tempo!),
o almeno attenuandone le conseguenze frustranti.
Non verrà mai sottolineata abbastanza la forza terapeutica o tranquillizzante di una
simile illusione di padronanza del tempo, la forza di dissolvere il futuro nel presente
o incapsularlo nell’«adesso». Se, come argomenta in modo convincente Alain Ehrenberg9, la sofferenza umana oggi più diffusa tende a svilupparsi a partire da un’indigestione
di possibilità, anziché da un’abbondanza di divieti come avveniva in passato, e se l’opposizione tra il possibile e l’impossibile è
subentrata, come quadro cognitivo e criterio essenziale per la valutazione e la scelta
della strategia di vita, all’antinomia tra ciò che è permesso e ciò che è vietato,
è inevitabile che la depressione causata dal terrore dell’inadeguatezza sostituisca, come disturbo psicologico caratteristico e diffuso tra gli abitanti
della società dei consumatori, la nevrosi provocata dall’orrore della colpa (cioè dall’accusa di non conformità che può seguire una violazione delle regole).
Come indica efficacemente il diffondersi di consuetudini linguistiche come «avere
tempo», «non avere tempo», «perdere tempo» e «risparmiare tempo», gli sforzi per tener
testa alla velocità e al ritmo con cui il tempo scorre ricorrendo all’intensità delle
intenzioni e al fervore delle azioni individuali sono in cima alla lista delle nostre
preoccupazioni per frequenza, dispendio di energia e logorio nervoso. Di conseguenza,
l’incapacità di raggiungere una perfetta corrispondenza tra sforzo e risultato (incapacità
che affiora sistematicamente e affievolisce la fiducia nella propria padronanza del
tempo) può essere una fonte prolifica del «complesso di inadeguatezza», grande afflizione
della vita liquido-moderna. E, in effetti, tra le prevalenti definizioni del fallimento
soltanto la penuria di denaro può competere seriamente oggi con la mancanza di tempo.
Nessun altro gesto può alleviare più efficacemente (sia pure per poco) il complesso
di inadeguatezza quanto lo sforzo straordinariamente intenso che si fa nell’ambito
(e sotto l’influenza) di uno stato di emergenza. Come ha dichiarato uno dei professionisti
di alto livello intervistati da Aubert, nel compiere questo genere di sforzi egli
si sentiva quasi padrone del mondo... Aveva la sensazione di «vivere al massimo» e
provava enorme piacere in tale emozione. Gli piaceva, a suo dire, l’improvvisa iniezione
di adrenalina che gli dava l’impressione di avere un «potere sul tempo e su processi,
relazioni e interazioni complesse [...]». Il potere terapeutico della soddisfazione
ottenuta durante uno stato di emergenza può perdurare persino più dell’elemento che
l’ha provocata. Come ha riferito un altro degli intervistati di Aubert, il maggior
beneficio dato dall’affrontare un compito urgente è l’intensità stessa del momento
così vissuto. Il contenuto del compito e la causa dell’urgenza sono puramente accidentali,
inessenziali, e vengono quasi dimenticati: ciò che si ricorda, tuttavia, e con passione,
è la grande intensità, e la rassicurante evidenza, o la prova decisiva, della propria
capacità di essere all’altezza della sfida.
Un altro servizio che una vita vissuta attraverso stati di emergenza ricorrenti o
continui (anche se prodotti artificialmente o dichiarati in modo ingannevole) può
rendere alla salute mentale dei nostri contemporanei è una versione aggiornata della
«caccia alla lepre» di Blaise Pascal, adattata a un nuovo contesto sociale. A stridente
differenza del caso di una lepre già catturata, cucinata e consumata, questo genere
di caccia non dà al cacciatore tempo sufficiente a meditare sulla brevità, la vacuità,
l’insensatezza o la vanità dei suoi obiettivi e, per estensione, dell’insieme della
sua vita terrena. La successione di cicli in cui ci si riprende dall’ultima allerta,
ci si rimette in forma e si raccolgono le forze per quella successiva, si vive un
nuovo momento di emergenza per poi doversi riprendere ancora una volta dalle tensioni
e dal dispendio di energia dell’azione sotto pressione, può riempire tutti i potenziali
«vuoti» della vita che altrimenti avrebbero potuto essere occupati dall’insopportabile
consapevolezza delle «cose ultime», solo temporaneamente rimossa: cose che si preferirebbe
dimenticare per conservare la propria salute mentale e godersi la vita. Per citare
nuovamente Aubert:
Essere occupati in permanenza, un’urgenza dietro l’altra, dà la sicurezza di una vita
piena o di una «carriera di successo», uniche prove di autoaffermazione in un mondo
in cui manca qualsiasi riferimento all’«aldilà» e in cui l’unica certezza è l’esistenza,
con la sua finitezza [...]. Quando agiscono, le persone pensano a breve termine –
pensano a cose da fare immediatamente o nel futuro prossimo [...]. Fin troppo spesso
l’azione è solo una fuga dall’io, un rimedio contro l’angoscia10.
E vorrei aggiungere che quanto più intensa è l’azione, tanto più affidabile è il suo
potere terapeutico. Quanto più si sprofonda nell’urgenza di un compito da svolgere
immediatamente, tanto più si tiene a distanza l’ansia – o quanto meno, se il tentativo
di tenerla a distanza non riesce, essa apparirà più sopportabile.
Infine, c’è un altro servizio cruciale che una vita dominata dagli allarmi e dalle
urgenze e pienamente consumata dagli sforzi di affrontare emergenze, una dopo l’altra,
può rendere: un servizio utile alle aziende che fanno funzionare l’economia consumistica,
che lottano per la sopravvivenza in condizioni di concorrenza all’ultimo sangue e
sono costrette a adottare strategie che con ogni probabilità susciteranno fiera resistenza
e ribellione nei loro dipendenti e in ultima analisi minacceranno la capacità delle
aziende di agire efficacemente.
Al giorno d’oggi la prassi manageriale di provocare un’atmosfera di urgenza o di
presentare come stato di emergenza una situazione probabilmente normale è considerata
un metodo molto efficace, spesso il metodo preferito, per persuadere chi viene gestito
ad accettare tranquillamente anche cambiamenti drammatici che colpiscano al cuore
le sue ambizioni e prospettive o il suo stesso stile di vita. «Dichiara lo stato di
emergenza e continua a comandare» sembra essere la ricetta manageriale sempre più
in voga per esercitare un dominio indiscusso e far passare gli attacchi più spiacevoli
e devastanti al benessere dei dipendenti, o per liberarsi della forza-lavoro che non
si vuol più tenere, lavoratori in esubero a causa delle operazioni di «razionalizzazione»
o scorporo delle attività che si susseguono.
Forse nemmeno l’apprendimento e l’oblio sfuggono alle conseguenze della «tirannia
del momento», favorita e istigata dal continuo stato di emergenza, e del tempo perso
in una successione di «nuovi inizi» disparati e apparentemente (ma ingannevolmente)
scollegati tra loro. La vita di consumo non può essere altro che una vita di apprendimento
rapido, ma ha anche bisogno di essere una vita di oblio altrettanto rapido.
Dimenticare è importante come, se non più, che imparare. C’è un «non si può» per ogni
«si deve», e quale di questi due aspetti riveli il vero obiettivo del ritmo vertiginoso
di rinnovamento e rimozione, quale dei due sia invece solo una misura ausiliaria per
assicurare che l’obiettivo sia raggiunto, è una questione cronicamente opinabile e
irrisolta. Il tipo di informazioni/istruzioni che ha buone probabilità di saltar fuori
più copiosamente nel fascicolo sulla moda citato all’inizio di questo capitolo, e
in innumerevoli testi simili, è del tipo seguente: «questo autunno la nostra mèta è la Carnaby Street degli anni Sessanta», oppure «l’attuale trend
del gotico è perfetto per questo mese». Questo autunno è naturalmente del tutto diverso dall’estate che lo ha preceduto,
e questo mese non è affatto come i mesi passati; e dunque ciò che era perfetto per
il mese scorso non è affatto perfetto per questo mese, proprio come la mèta dell’estate
è anni-luce distante da quella dell’autunno. «Ballerine?» «È ora di toglierle di mezzo».
«Spalline sottili?» «Per loro non c’è posto nella nuova stagione». «Matita?» «Facciamone
a meno e il mondo sarà migliore». All’appello ad «aprire la borsetta del trucco e
dare un’occhiata al suo interno» seguirà probabilmente un’esortazione secondo cui
«la prossima stagione sarà fatta di colori vivaci», accompagnata subito dall’avviso che «il beige e i suoi
parenti, poco rischiosi ma spenti, hanno fatto il loro tempo [...]. Buttateli via,
immediatamente». Manco a dirlo, un colore «spento» come il beige non può convivere sul viso con
«colori vivacissimi». Una delle due gamme deve lasciare spazio all’altra ed essere
in esubero. Un altro scarto, o «vittima collaterale», del progresso. Qualcosa di cui
liberarsi, e alla svelta.
Siamo di nuovo alla questione dell’uovo e della gallina... Devi «buttar via» il beige
per preparare il viso a ricevere i nuovi, vivaci colori, oppure sono questi ultimi
che stanno inondando il reparto cosmetici dei supermarket per garantire che le scorte
inutilizzate di beige vengano effettivamente «buttate via, immediatamente»?
Molte delle donne che a milioni stanno buttando via il beige per riempire la borsetta
di cosmetici a colori vivaci direbbero molto probabilmente che cestinare il beige
è un effetto secondario, deprecabile ma inevitabile, del rinnovamento e miglioramento
del make-up, un sacrificio triste ma necessario per stare al passo con il progresso.
Ma tra le migliaia di direttori di negozio che stanno inviando ordini per il nuovo
assortimento qualcuno ammetterebbe, in un momento di sincerità, che se gli scaffali
dei cosmetici si sono riempiti di colori vivaci ciò è accaduto per la necessità di
abbreviare la vita utile del beige, facendo in modo che il traffico nei grandi magazzini
rimanga intenso, che l’economia continui ad andare avanti e che i profitti crescano.
Il Pil, indice ufficiale del benessere della nazione, non si misura forse dalla quantità
di denaro che passa di mano? La crescita economica non è forse alimentata dall’energia
e dall’attività dei consumatori? E il consumatore che non si dà da fare per liberarsi di cose consumate o obsolete
(o, meglio, di tutto ciò che rimane degli acquisti di ieri) è un ossimoro: come un
vento che non soffi o un fiume che non scorra...
Sembra che entrambe lerisposte di cui sopra siano giuste: esse sono complementari, non contraddittorie.
In una società di consumatori e in un’era in cui la «politica della vita» sta sostituendo
la Politica con la iniziale maiuscola un tempo ostentata con fierezza, il vero «ciclo
economico», quello che veramente fa andare avanti l’economia, è il ciclo del «compra,
godi e butta via». Che due risposte apparentemente contraddittorie possano essere
entrambe giuste nello stesso tempo è precisamente la grande impresa compiuta dalla
società dei consumatori: e, probabilmente, la chiave della sua stupefacente capacità
di auto-riproduzione ed espansione.
La vita di un consumatore, la vita di consumo, non consiste nell’acquisire e possedere.
E non consiste nemmeno nel liberarsi di ciò che era stato acquisito l’altro ieri e
orgogliosamente ostentato ieri. Consiste piuttosto, in primo luogo e soprattutto,
nel rimanere in movimento.
Se aveva ragione Max Weber affermando che il principio etico della vita di produzione
era (e doveva essere sempre, se lo scopo era una vita di produzione) il rinvio della gratificazione, allora la linea-guida etica della vita di consumo (se l’etica
di una vita simile può essere presentata sotto forma di un codice di comportamento
prescritto) dev’essere il rimanere insoddisfatti. Per un tipo di società che dichiara la soddisfazione del cliente come sua unica motivazione e suo scopo fondamentale, un consumatore soddisfatto non è né la motivazione né il fine, ma la più terribile delle minacce.
Ciò che vale per la società dei consumatori deve valere anche per gli individui che
ne fanno parte. La soddisfazione dev’essere un’esperienza momentanea, e se dura troppo
a lungo è da temere e non da desiderare ardentemente; la gratificazione durevole,
una-volta-per-tutte, deve apparire ai consumatori una prospettiva tutt’altro che attraente,
anzi una catastrofe. Come afferma Dan Slater, la cultura del consumo «associa la soddisfazione
alla stagnazione economica: i bisogni non devono avere fine [...]. Essa richiede che
i nostri bisogni siano insaziabili, ma che per soddisfarli si guardi alle merci»11. O forse potremmo metterla in questo modo: veniamo spinti e/o trascinati a cercare
soddisfazione senza sosta, ma anche a temere il tipo di soddisfazione che ci farebbe
smettere di cercare...
Col passare del tempo, in effetti, non abbiamo più bisogno di essere spinti o trascinati
per sentirci così e agire in base a questo sentire. Non è rimasto più niente da desiderare?
Niente da inseguire? Niente da sognare sperando che al risveglio il sogno sia diventato
realtà? Si è condannati ad accettare una volta per tutte ciò che si ha (e dunque, per procura, ciò che si è)? Non c’è più niente di nuovo e straordinario che si faccia strada verso il palcoscenico
per ricevere attenzione, e niente, sulla stessa scena, da eliminare e di cui sbarazzarsi?
Una situazione di questo tipo – di breve durata, si spera – si può chiamare solo con
il suo nome: «noia». Gli incubi che ossessionano l’Homo consumens sono le cose, animate o inanimate, o le loro ombre – i ricordi delle cose, animate
o inanimate – che minacciano di trattenersi più del dovuto e occupare la scena...
La principale preoccupazione (il «prerequisito funzionale», come direbbe Talcott Parsons)
della società dei consumatori non è la creazione di nuovibisogni (qualcuno li chiama «bisogni artificiali», ma a torto, perché l’«artificialità» non
è solo una caratteristica dei bisogni «nuovi»: pur utilizzando le naturali predisposizioni
umane come materia prima, tutti i bisogni di qualsiasi società ricevono forma tangibile
e concreta grazie all’«artificio» della pressione sociale). L’economia dei consumi
e il consumismo sono mantenuti in vita in quanto i bisogni di ieri sono sminuiti e svalutati, e i loro oggetti ridicolizzati e sfigurati come ormai
obsoleti, e ancor più è l’idea stessa che la vita di consumo debba essere guidata
dalla soddisfazione dei bisogni a esserescreditata. Il trucco beige, che la scorsa stagione era segno di sicurezza, ormai
è solo un colore che sta passando di moda, spento e brutto, e per giunta un marchio
di disonore, segno di ignoranza, indolenza, inettitudine o complesso di inferiorità;
l’atto che fino a poco tempo fa denotava generalmente ribellione e azzardo e confermava
che si era «un passo avanti a chi fa tendenza» diventa ben presto sintomo di pigrizia
o codardia («Non è trucco, è una coperta di sicurezza»), segno che ci si trova ormai
in coda, che si è persino al verde...
Ricordiamoci del verdetto della cultura consumistica: gli individui che si accontentano
di avere un insieme finito di bisogni, che agiscono solo in base a ciò di cui pensano
di avere bisogno e non cercano mai nuovi bisogni che potrebbero suscitare un piacevole
desiderio di soddisfazione sono consumatori difettosi, vale a dire il tipo di emarginati sociali specifici della società dei consumatori.
La minaccia e la paura dell’ostracismo e dell’esclusione aleggiano anche su chi è
soddisfatto dell’identità che possiede e su chi si accontenta di ciò che i suoi «altri
che contano» lo portano a essere.
La cultura consumistica è contrassegnata dalla costante pressione a essere qualcun altro. I mercati dei beni di consumo sono imperniati sulla svalutazione delle loro precedenti
offerte, in modo da creare nella domanda del pubblico uno spazio che sarà riempito
dalle nuove offerte. Essi alimentano l’insoddisfazione nei confronti dei prodotti
usati dai consumatori per soddisfare i propri bisogni, e coltivano un perenne scontento
verso l’identità acquisita e verso l’insieme di bisogni attraverso i quali viene
definita. Cambiare identità, liberarsi del passato e ricercare nuovi inizi, lottando
per rinascere: tutto ciò viene incoraggiato da quella cultura come un dovere camuffato da privilegio.
Ciò che, dato il numero infinito di punti di vista consumistici, rende la «puntinizzazione»
o «puntuazione» del tempo (di cui si parla nel primo capitolo) una novità particolarmente
attraente e un modo di essere-nel-mondo che sarà sicuramente appreso con piacere e
praticato con fervore, è la duplice promessa di anticipare il futuro ed esautorare
il passato.
Tale doppia azione è, dopo tutto, l’ideale della libertà in quanto assenza di coercizione
(stavo per scrivere l’«ideale moderno della libertà», ma mi sono reso conto che l’aggettivo renderebbe l’espressione un
ossimoro: quella che nei contesti premoderni era chiamata «libertà» non supererebbe
il test di libertà intesa come libertà di agire secondo gli standard moderni, e dunque
non sarebbe affatto considerata tale)12.
La promessa di emancipare gli attori dai vincoli di scelta che impone il passato (quel
tipo di vincoli che appare particolarmente fastidioso perché essi hanno la cattiva
abitudine di aumentare di numero e di consolidarsi via via che il «passato» inesorabilmente
si riempie dei sedimenti sempre più abbondanti lasciati da periodi sempre più lunghi
della storia della propria vita), se abbinata al permesso di archiviare le preoccupazioni
per il futuro (e più precisamente per le conseguenze future delle azioni attuali,
che hanno il potere assai irritante di vanificare le speranze del momento, revocare
o rovesciare il valore delle sentenze del momento e svalutare retrospettivamente i
successi oggi celebrati), annuncia una libertà completa, senza restrizioni, quasi
«assoluta». La società dei consumatori offre questa libertà in una misura senza precedenti,
e addirittura inconcepibile in qualsiasi altra società conosciuta.
Consideriamo in primo luogo l’atto inquietante di esautorare il passato. Esso si riduce
a un unico, ma miracoloso cambiamento della condizione umana: alla possibilità di
«rinascere», inventata recentemente (ma pubblicizzata come se fosse stata appena scoperta).
Grazie a questa invenzione, non sono più soltanto i gatti ad avere nove vite. Agli
uomini-trasformati-in-consumatori si offre ormai la possibilità di stipare in una
sola visita sulla terra, per quanto orribilmente breve (di una brevità che già tanto
tempo fa era considerata disgustosa, e che da allora non si è radicalmente allungata)
molte vite: una serie infinita di nuovi inizi. Tutta una serie di famiglie, carriere,
identità. Basta ormai un’inezia per ripartire da zero... O almeno così sembra.
Una delle manifestazioni dell’attuale attrazione delle «nascite in sequenza» – della
vita come serie infinita di «nuovi inizi» – è l’espansione, stupefacente e ampiamente
riscontrabile, della chirurgia estetica. Quest’ultima, fino a non molto tempo fa,
vegetava ai margini della professione medica come un’officina da «ultima spiaggia»
per pochi uomini e donne crudelmente sfigurati da una stramba combinazione di geni,
da ustioni inguaribili o da brutte cicatrici che non sarebbero mai scomparse; ma ora
si è trasformata, per i molti che possono permettersela, in uno strumento normale
di rifacimento perpetuo del proprio io visibile. Perpetuo davvero: la creazione di un look «nuovo e migliorato» non è più considerata una questione
una tantum, e il nuovo significato del termine «miglioramento», e con esso il bisogno (e naturalmente
l’offerta) di ulteriori interventi chirurgici per cancellare le tracce dei precedenti,
sono insiti nell’idea stessa e ne costituiscono una delle principali attrazioni (come
riferiva il «Guardian» del 16 maggio 2006, «Transform, la maggiore azienda britannica
di chirurgia plastica, che conta nel paese undici centri», offre ai suoi clienti «carte
fedeltà» utilizzabili per nuovi interventi chirurgici). La chirurgia plastica non
ha a che vedere con l’eliminazione di un difetto o con il conseguimento di una forma
ideale negata dalla natura o dal destino, ma con la necessità di stare al passo con
standard che si modificano rapidamente, col mantenimento del proprio valore di mercato
e con l’eliminazione di un’immagine che ha esaurito la propria utilità o il suo fascino,
al fine di sostituirla con una nuova immagine pubblica – in confezione unica con una
nuova identità (è una speranza) e con un nuovo inizio (è una certezza). Nella sua
indagine, sintetica ma esauriente, sull’aumento spettacolare del business della chirurgia
estetica, Anthony Elliott osserva:
La cultura chirurgica di oggi promuove una fantasia di plasticità infinita del corpo.
Il messaggio che arriva dall’industria della trasformazione è che non c’è niente che
impedisca di reinventarsi nel modo che si è scelto; ma, per la stessa ragione, è improbabile
che il proprio corpo migliorato dalla chirurgia renderà felici a lungo. Gli attuali
rifacimenti del corpo sono impostati esclusivamente sul breve termine: fino alla «prossima
procedura» [...]. La chirurgia cosmetica, più economica e accessibile di quanto non
sia mai stata in precedenza, sta rapidamente diventando una questione di stile di
vita13.
Ogni nuovo inizio può portarti fin qui, e non oltre; ogni nuovo inizio promette tanti
nuovi inizi futuri. Ogni momento ha la fastidiosa tendenza a trasformarsi in passato
– e in men che non si dica sarà disabilitato a sua volta. La capacità di esautorare,
disabilitare il passato è, in fin dei conti, il senso più profondo della promessa
di abilitazione che viene dai beni di consumo sul mercato.
Il mondo abitato da consumatori è percepito dai suoi abitanti come un immenso contenitore
di pezzi di ricambio. Il magazzino è costantemente e copiosamente rifornito, e se
le scorte temporaneamente si esauriscono, si confida che i rifornimenti arriveranno
prontamente. Non si pensa più di doversi accontentare e arrangiare con ciò che si
ha o con ciò che si è, rassegnandosi all’assenza di alternative e cercando di usare
al meglio ciò che il destino ha offerto. Se qualche elemento (degli attrezzi di uso
quotidiano, della rete attuale di contatti umani, del proprio corpo e della sua presentazione
in pubblico, del proprio io/identità e dell’immagine che ne viene presentata in pubblico)
perde attrattiva pubblica o valore di mercato, esso va reciso, allontanato e sostituito
con un pezzo di ricambio «nuovo e migliorato», o semplicemente mai usato prima, e
dunque non ancora usurato, fatto in casa o con strumenti «fai da te», o meglio ancora
prodotto in fabbrica e reperibile in commercio.
I consumatori della società dei consumatori vengono addestrati fin dalla nascita,
e per tutta la vita, a una simile percezione del mondo e un simile modus operandi nel mondo. L’espediente di vendere il prodotto successivo a un prezzo inferiore
a condizione che il prodotto simile precedentemente acquistato sia restituito al negozio
«dopo l’uso» è ampiamente praticato da aziende che vendono beni per la casa; ma Lesaw
Hostyn´ski, attento studioso dei valori della cultura del consumo, ha elencato e descritto
una lunga serie di stratagemmi, utilizzati nel marketing dei beni di consumo per dissuadere
i (sempre più) giovani adepti del consumismo dallo sviluppare un attaccamento a lungo
termine verso qualsiasi cosa da loro acquistata e apprezzata14. La Mattel, per esempio, che ha inondato il mercato dei giocattoli di bambole Barbie,
le cui vendite hanno raggiunto 1,7 miliardi di dollari nel solo 1996, ha offerto ai
suoi giovani consumatori uno sconto per l’acquisto di una nuova Barbie a condizione
che venga restituita la Barbie in loro possesso, ormai «esaurita». La «mentalità dello
scarto», indispensabile complemento della visione del mondo (mercificato) all’insegna
delle parti di ricambio, fu segnalata per la prima volta in Lo choc del futuro di Alvin Toffler15 come forma di sviluppo spontaneo e di base, ma da allora è diventata uno dei principali
obiettivi delle aziende nell’educare i propri clienti potenziali a una vita di consumo
fin dalla prima infanzia.
Scambiare una Barbie con un’altra Barbie «nuova e migliorata» porta a una vita di
liaisons e partnerships definite e vissute secondo un modello di affitto-acquisto. Come osserva Pascal Lardellier,
«la logica dei sentimenti» tende a diventare sempre più consumistica16: punta alla riduzione di ogni genere di rischio, alla categorizzazione delle qualità
ricercate, a uno sforzo per definire con precisione i connotati del partner desiderato.
Alla base di ciò è la convinzione che sia possibile comporre l’oggetto dell’amore
a partire da un certo numero di caratteristiche fisiche e sociali e di tratti caratteriali
definiti e misurabili. In base ai precetti di un simile «marketing amoroso» (termine
coniato dallo stesso Lardellier), se l’«oggetto d’amore» cercato è difettoso in uno
o più aspetti l’«acquirente» potenziale deve desistere dall’«acquisto», come farebbe
nel caso di qualsiasi altro prodotto offerto sul mercato; se invece un difetto si
rivela dopo l’«acquisto», l’oggetto difettoso, come ogni altra merce, deve essere scartato e
debitamente sostituito. Secondo Jonathan Keane il comportamento di chi naviga in internet
alla ricerca dell’ideale composito di un compagno appare come un’«attività emotivamente
rimossa» – «è come se le persone fossero bistecche esposte in una macelleria»17.
«Rinascere» significa che la o le precedenti nascite, con le relative conseguenze,
sono state annullate a tutti gli effetti pratici.
Ogni «nuovo inizio» (un’altra incarnazione) è avvertito, in modo rassicurante ma ingannevole,
come avvento di una potenza (che, sebbene sempre sognata, mai prima d’ora si era creduto
di poter sperimentare, e tanto meno impiegare), del tipo che l’illustre filosofo esistenzialista
russo-francese Lev Sestov ha indicato come prerogativa esclusiva e caratteristica
definitoria di Dio, sostenendo che il potere di annullare il passato (ottenendo, per
esempio, che Socrate non fosse mai stato costretto a bere cicuta) era il segno ultimo
dell’onnipotenza divina. La forza di ridefinire o annullare eventi passati può avere
la meglio sul potere di determinazione causale e vanificarlo; la capacità del passato
di eliminare le opzioni del presente può essere radicalmente limitata, e forse persino
azzerata. Ciò che sono stato ieri non esclude più la possibilità che io diventi oggi
una persona totalmente diversa, né elimina la prospettiva che un’altra mia incarnazione
futura cancelli il presente – vale a dire il suo passato.
Poiché, ricordiamolo ancora una volta, ogni punto nel tempo è ritenuto carico di un
potenziale inesplorato, e questo potenziale è ritenuto originale, unico e non replicabile
in un altro punto-tempo qualsiasi, il numero dei modi per modificare se stessi (o
almeno tentare di farlo) è realmente incalcolabile: esso sminuisce la sorprendente
molteplicità di permutazioni e la vertiginosa varietà di forme e sembianze che gli
incontri fortuiti dei geni sono riusciti finora, e riusciranno probabilmente in futuro,
a produrre nella specie umana. Andrzej Stasiuk, attento osservatore dell’attuale stile
di vita, ha sostenuto che la molteplicità, anzi l’infinità di opzioni disponibili
si avvicina alla impressionante capacità dell’eternità, nell’ambito della quale, come
sappiamo, tutto prima o poi può accadere e tutto si può fare; ormai, però, la mirabile potenza dell’eternità è stata compattata nella
durata tutt’altro che eterna di una sola vita umana.
Di conseguenza, l’impresa di privare il passato del potere di restringere le successive
scelte, e la possibilità che ne scaturisce di un’«altra nascita» (ossia di un’altra
incarnazione), sottrae all’eternità la sua attrazione più seducente. Nel tempo puntinizzato
della società dei consumatori l’eternità non è più un valore né un oggetto di desiderio. La caratteristica che più di ogni altra conferiva ad essa il suo valore unico e
realmente maestoso e la rendeva oggetto di sogni è stata espunta, compressa e condensata
in una esperienza tipo big bang e inserita nell’istante – in un istante qualsiasi. Di conseguenza, la «tirannia del momento» liquido-moderna,
con il suo precetto del carpe diem, sostituisce la tirannia premoderna dell’eternità, il cui slogan era memento mori.
Nel suo libro dall’eloquente titolo Tempo tiranno Thomas Hylland Eriksen indica nella «tirannia del momento» la caratteristica più
evidente della società contemporanea, e probabilmente la sua principale novità:
Le conseguenze di questa terribile fretta sono devastanti: il passato e il futuro
come categorie mentali sono minacciati dalla tirannia dell’istante. [...] La minaccia,
anzi, riguarda persino il «qui e ora», perché l’istante successivo arriva talmente
in fretta che è difficile vivere il presente18.
Siamo di fronte a un autentico paradosso e a una fonte inesauribile di tensione: quanto
più grande e capiente è l’istante, tanto più esso si riduce (si abbrevia); al dilatarsi
del suo contenuto potenziale si restringe invece la sua dimensione. «Forti indizi
fanno pensare che stiamo creando una società in cui risulta quasi impossibile pensare
qualcosa di più di una frase smozzicata»19. Ma contrariamente alle speranze diffuse, che le promesse del mercato dei beni di
consumo alimentano, cambiare la propria identità, se anche fosse davvero plausibile,
richiederebbe molto più di un pensiero lungo un paio di centimetri.
Una volta sottoposta al trattamento di «puntinizzazione», l’esperienza del tempo viene
troncata su entrambi i versanti. Le sue interfacce con il passato e anche con il futuro si trasformano in abissi, privi di ponti e, si spera, invalicabili.
Paradossalmente, nell’epoca del collegamento istantaneo e senza sforzo e della promessa
di rimanere costantemente «in contatto» esiste un desiderio di sospendere la comunicazione
tra l’esperienza di quel momento e tutto ciò che la precede o la segue, o meglio che
la interrompe irrimediabilmente. Il vuoto alle proprie spalle deve impedire al passato
di raggiungere l’io in corsa. E il vuoto davanti a sé è condizione per vivere l’attimo
con pienezza, per abbandonarsi totalmente e senza riserve al suo fascino e al suo
potere di seduzione (senza dubbio fugace): atto che sarebbe pressoché impossibile
se vivere quell’attimo fosse contaminato dall’inquietudine nell’ipotecare il futuro.
Idealmente, ogni istante sarà modellato sullo schema con cui si usa la carta di credito,
atto radicalmente spersonalizzato: in mancanza di un rapporto faccia a faccia, diventa
più facile ignorare il prezzo che si dovrà pagare per il momento piacevole, o comunque
evitare di pensare prima di tutto ad esso. Non stupisce che le banche, ben contente
che il contante circoli e di guadagnare ancor più che se il contante disponibile restasse
fermo, preferiscono che i loro clienti mettano mano alla carta di credito, anziché
inchiodare alle loro responsabilità i manager di filiale.
Elz.bieta Tarkowska, eminente studiosa della sociologia del tempo, ha adottato la
terminologia di Bertman sviluppando il concetto di «uomini sincronici», che «vivono
esclusivamente nel presente» e «non prestano attenzione all’esperienza passata o
alle conseguenze future delle proprie azioni»: strategia che «si traduce nell’assenza
di legami con gli altri». La «cultura presentista [...] premia la velocità e l’efficacia,
penalizzando la pazienza e la perseveranza»20.
Possiamo aggiungere che la fragilità e l’evidente facilità di scartare le identità
individuali e i legami interumani sono rappresentati nella cultura contemporanea come
la sostanza della libertà individuale. L’unica scelta che tale libertà non riconoscerebbe,
ammetterebbe o consentirebbe è l’intenzione (e la capacità) di perseverare nell’identità
già costruita, vale a dire nel tipo di attività che presuppone e implica necessariamente
il mantenimento e la sicurezza della rete sociale su cui quell’identità poggia e che
la riproduce attivamente.
In Amore liquido21 ho tentato di analizzare la crescente fragilità dei legami interumani. La conclusione
che vi ho sostenuto è che tali legami tendono oggi a essere considerati – con esultanza
mista ad ansia – vulnerabili, facili a stringersi quanto a disgregarsi e a spezzarsi.
L’esultanza nasce dal fatto che la fragilità dei legami riduce i rischi che si ritiene
siano presenti in ogni interazione, il pericolo di stringere nel presente un nodo
che impedisca di sentirsi a proprio agio in futuro, e la probabilità che esso si consolidi
diventando una di quelle cose che hanno «fatto il loro tempo», che ieri attraevano
ma oggi respingono, che ingombrano l’habitat e tolgono la libertà di esplorare il
numero infinito di momenti che si succedono, gravidi di nuove e migliorate attrattive.
L’ansia è invece dovuta al fatto che la fragilità, la temporaneità e la revocabilità
degli impegni reciproci sono a loro volta fonte di rischi tremendi. Le propensioni
e le intenzioni degli altri esseri umani che vivono e agiscono nell’ambito di esistenza
di ogni individuo sono, in fin dei conti, delle incognite. Non possono essere date
per scontate, considerate affidabili o prevedibili con sicurezza – e l’incertezza
che ne risulta pone un punto interrogativo enorme e ineliminabile sui piaceri che
derivano da qualsiasi legame esistente molto prima che le soddisfazioni che ci si
attende da esso siano state pienamente degustate e realmente esaurite. La crescente
fragilità dei legami umani è dunque una esperienza costante di felicità e, insieme,
maledizione, dal momento in cui essi sono concepiti fino a molto tempo dopo la loro
fine. Non riduce la quantità totale di ansia, limitandosi a distribuirla in un altro
modo, e le sue future evoluzioni sono virtualmente impossibili da prevedere, e ancor
più da preordinare e controllare.
Alcuni osservatori della scena contemporanea, e in particolare Manuel Castells e Scott
Lash, vedono nelle nuove tecnologie che consentono di stringere e sciogliere legami
virtuali forme alternative di socialità, promettenti e per certi versi superiori,
e le considerano una terapia forse efficace, o una medicina preventiva, contro il
rischio della solitudine del consumatore e una spinta alla sua libertà (la libertà
di fare e disfare le proprie scelte): una forma alternativa di socialità che in qualche
modo va verso la riconciliazione delle esigenze conflittuali di libertà e sicurezza.
Castells parla di «individualismo di rete», Scott Lash di «legami comunicativi». Entrambi
sembrano però scambiare pars pro toto, sebbene ciascuno si concentri su una diversa parte della complessa e ambivalente
totalità.
Se la si guarda dal punto di vista della parte mancante, la «rete» somiglia in modo
preoccupante, più che a un luogo dove si costruiscono legami sociali affidabili, a
una duna di sabbie mobili. Quando entrano a far parte dell’ambiente di vita del singolo
consumatore, le reti di comunicazione elettronica sono dotate fin dall’inizio di un
dispositivo di sicurezza, della possibilità cioè di scollegarsi istantaneamente, senza
problemi e (si spera) senza dolore, di recidere la comunicazione in modo da abbandonare
a se stesse alcune parti della rete, annullandone la rilevanza e il potere di disturbo.
È questo meccanismo di sicurezza, e non la facilità di entrare in contatto, e tanto
meno di restare insieme in modo permanente, a rendere il sostituto elettronico della
comunicazione faccia a faccia così attraente per uomini e donne addestrati a operare
in un mondo mediato dal mercato. In questo mondo il senso della libertà individuale
consiste, ancor più che nel procurarsi ciò che si desidera, nel liberarsi di ciò che
non si desidera. Il congegno di sicurezza che su richiesta consente di scollegarsi
immediatamente collima in pieno con i precetti fondamentali della cultura consumistica,
ma le sue prime e principali vittime collaterali sono i legami sociali e le capacità
necessarie a stringerli e mantenerli.
Se si considera che lo «spazio virtuale» sta rapidamente trasformandosi nell’habitat
naturale di chi fa parte, o vorrebbe far parte, delle classi della conoscenza, non
sorprende che parecchi accademici tendano a vedere internet e il World Wide Web come
promettente e gradita alternativa, o surrogato, rispetto alle deperite e fatiscenti
istituzioni ortodosse della democrazia politica che oggi, come sappiamo, suscitano
sempre meno interesse e ancor meno impegno da parte dei cittadini.
Come scrive Thomas Frank, per chi fa, o vorrebbe fare, parte delle classi della conoscenza
«la politica, da sforzo teso a costruire un movimento, diventa soprattutto un esercizio
di autoterapia individuale, una conquista solitaria»22: un mezzo per informare il mondo delle proprie virtù, come documentano ad esempio
i messaggi iconoclasti applicati ai finestrini delle auto o l’ostentazione dimostrativa
di consumi dichiaratamente «etici». Teorizzare internet come forma nuova e migliorata
della politica, la navigazione del World Wide Web come forma nuova e più efficace
di impegno politico e la crescente velocità di connessione alla rete e di navigazione
elettronica come progresso della democrazia ricorda in modo sospetto le tante interpretazioni
sulle prassi di vita sempre più comuni e depoliticizzate della cosiddetta knowledge class, la «classe di coloro che sanno», e soprattutto sul suo grande interesse a essere
onorevolmente esonerata dalla «politica del reale».
Tanto più spicca, rispetto a questo coro di elogi, il secco verdetto di Jodi Dean:
le odierne tecnologie della comunicazione sono «profondamente depoliticizzanti», e
«la comunicazione funziona in modo feticistico, come disconoscimento di una esautorazione
o castrazione politica di fondo»:
il feticcio tecnologico è «politico» [...] e ci consente di affrontare il resto della
nostra vita sollevati dal senso di colpa secondo cui forse non stiamo facendo la nostra
parte, e saldamente convinti che in fin dei conti siamo cittadini informati e impegnati.
[...] Non siamo costretti ad assumerci una responsabilità politica perché [...] è
la tecnologia a farlo per noi [... essa] ci fa credere che tutto ciò di cui abbiamo
bisogno è universalizzare una determinata tecnologia, e che allora avremo un ordine
sociale democratico o riconciliato23.
La realtà, oggi come ieri, contrasta nettamente con il ritratto sanguigno e ottimista
dipinto dai «feticisti della comunicazione». Il potente flusso di informazione non
è un affluente del fiume della democrazia, ma un insaziabile collettore che ne intercetta
i contenuti e li canalizza altrove, verso laghi artificiali straordinariamente vasti,
ma putridi e stagnanti. Quanto più potente è tale flusso, tanto maggiore è il rischio
che l’alveo si prosciughi. I server di tutto il mondo accumulano informazioni in modo
tale che la nuova cultura liquido-moderna possa sostituire l’apprendimento con l’oblio,
facendone la principale forza di propulsione delle attività di cui è fatta la vita
dei consumatori. I server risucchiano e accumulano al proprio interno le impronte
di dissenso e protesta, in modo che la politica liquido-moderna possa scorrere inalterata
e inesorabile, sostituendo le battute e la visibilità mediatica al confronto e all’argomentazione.
Non è facile ricondurre nell’alveo le correnti che defluiscono da un corso d’acqua:
Bush e Blair sono potuti scendere in guerra con falsi pretesti nonostante i tanti siti web che ne scoprivano il bluff. Ed è giusto che i conduttori dei notiziari televisivi
preferiscano stare (o si preferisce stiano) in piedi a dire tutto ciò che hanno da
dire sulla situazione politica, con l’aria di chi è stato appena distolto da tutt’altra
attività o di chi è diretto da qualche parte e può fermarsi solo un attimo. Standosene
seduti a una scrivania farebbero credere che le notizie abbiano un significato più
durevole di quello che devono avere, e meritino una riflessione più profonda di quella
che i consumatori che si trovano all’estremità opposta del canale delle comunicazioni
di massa, ognuno intento nella sua attività, si ritiene possano tollerare.
Quanto alla «politica reale», il dissenso, nel suo viaggio verso i magazzini elettronici,
viene sterilizzato, neutralizzato e reso irrilevante. Chi agita le acque nei laghi
dove esso viene archiviato può anche congratularsi con se stesso per la verve e il
brio che sono segni di fitness, ma chi cammina nei corridoi del potere reale difficilmente sarà costretto a prestare
attenzione a queste cose, e anzi non potrà che essere grato alle nuove tecnologie
di comunicazione per il lavoro che fanno nel dirottare i problemi potenziali e distruggere
le barricate sul suo cammino prima ancora che chi le erige abbia avuto il tempo di
finirle e di chiamare a raccolta la gente per difenderle.
La politica reale e la politica virtuale vanno in direzioni opposte, e la distanza
tra esse aumenta man mano che l’autosufficienza di ciascuna si avvantaggia dell’assenza
dell’altra. L’età dei simulacri di Jean Baudrillard non ha cancellato la differenza
tra le cose autentiche e i loro riflessi, tra le realtà reali e virtuali; essa ha
soltanto scavato un precipizio tra queste e quelle, facile da superare di slancio
per gli internauti, ma sempre più difficile da colmare per i cittadini attuali, e
ancor più per gli aspiranti cittadini.
Come commentava amaramente Christopher Lasch poco prima che computer e telefoni portatili
iniziassero a colonizzare il mondo privato e intimo dei consumatori, chi «vive in
città e nei sobborghi in cui i centri commerciali hanno sostituito il vicinato [...]
difficilmente reinventerà delle comunità solo perché lo Stato si è dimostrato un surrogato
tanto insoddisfacente»24. Dopo che la colonizzazione si è diffusa, veloce come l’incendio in un bosco, negli
angoli e nelle crepe più remote del pianeta, il verdetto di Lasch è ancora valido.
Nel suo recente studio sulle ossessioni contemporanee imperniate sull’identità (e
in particolare sulla composizione e scomposizione delle identità, cui oggi si dedica
tanta attenzione), Kwame Anthony Appiah tenta di cogliere la strana dialettica tra
«collettivo» e «individuale», tra «appartenenza» e «autoaffermazione», che rende i
tentativi di autoidentificazione in ultima analisi inefficaci, eppure (forse per la
stessa ragione) inarrestabili e molto probabilmente destinati a conservare la loro
forza25. Appiah sostiene che se, ad esempio, sono un afro-americano, questo fatto può influenzare
la forma dell’io che a fatica cerco di esprimere e mostrare pubblicamente, ed è proprio
questa esigenza di avere un io adeguato a essere esibito pubblicamente la principale
ragione per cui scendo in questa lotta e cerco riconoscimento in quanto afro-americano.
Determinazioni attributive incidentali e contingenti possono spiegare la scelta tra
i diversi io che si prestano a essere mostrati, ma non l’attenzione a fare una scelta, e tanto meno l’impegno con cui si cerca di darle visibilità pubblica.
Anche se il soggetto ritiene che l’io in lotta per la visibilità e il riconoscimento
preceda, superi e predetermini la scelta dell’identità individuale (attribuzioni etniche,
di razza, religione o genere rivendicano l’appartenenza a quella categoria dell’io),
l’autodefinizione dell’individuo liquido-moderno sta nell’impulso alla scelta e nel
tentativo di rendere tale scelta pubblicamente visibile. Il tentativo difficilmente sarebbe stato fatto se l’identità in questione fosse
davvero dotata del potere che essa sostiene di avere e/o che le viene attribuito.
Nella società dei consumatori liquido-moderna nessuna identità è un dono ricevuto
alla nascita, nessuna identità è «data», e tanto meno lo è una volta per tutte e in
modo sicuro. Le identità sono progetti: compiti da assumersi e svolgere con impegno
fino a un completamento infinitamente remoto. Anche nel caso di quelle identità che
aspirano a essere e/o sono ritenute «date» e non negoziabili, l’obbligo di compiere
uno sforzo individuale per appropriarsene e di combattere quotidianamente per conservarle
è presentato e percepito come il principale requisito e la condizione indispensabile
del loro essere «date». A chi è negligente, fiacco e indolente, e ancor più al rinnegato,
all’ambiguo e al fedifrago, sarà negata la possibilità di invocare il proprio diritto
di nascita.
L’identità, ben lungi dall’essere un omaggio (e tanto meno un «omaggio gratuito»,
per riprendere l’espressione pleonastica usata dai consulenti di marketing), è una
sentenza di condanna ai lavori forzati a vita. Ed essa è anche una fonte inesauribile
di capitale per i produttori di avidi e infaticabili consumatori e per i venditori
di beni di consumo: una fonte che tende a crescere a ogni scoop. Una volta avviata,
nella prima infanzia, la composizione e scomposizione dell’identità diventa un’attività
che si autoalimenta e si autorafforza.
Occorre ricordare che i consumatori sono spinti dal bisogno di «mercificare» se stessi
– di rifarsi per essere prodotti attraenti – e sono quindi sollecitati a usare stratagemmi,
espedienti e prassi di marketing collaudate. Costretti a trovare una nicchia per ciò
che di valore possiedono o sperano di sviluppare, devono osservare attentamente le
oscillazioni della domanda e dell’offerta e seguire i trend di mercato: compito poco
invidiabile e di solito assai estenuante, poiché come si sa i mercati dei beni di
consumo sono volatili. I mercati fanno di tutto per rendere il compito sempre più
snervante, e al tempo stesso per offrire (a pagamento) scorciatoie, kit fai-da-te
e formule brevettate per alleviare l’onere dei loro clienti, o almeno per convincerli
che il sollievo tanto agognato è arrivato davvero, almeno per un istante.
Due espedienti, in particolare, svolgono un ruolo fondamentale nell’alleviare le pene
della costruzione e scomposizione dell’identità nella società dei consumatori.
Il primo è quello che in altra sede ho chiamato «comunità di guardaroba», alludendo
al modo in cui si radunano gli spettatori al guardaroba di un teatro dove tutti, da
soli o a piccoli gruppi, hanno lasciato il soprabito o la giacca a vento per la durata
dello spettacolo teatrale che sono venuti a vedere. Si tratta di comunità fantasma,
comunità illusorie, comunità ad hoc, comunità da carnevale: quel genere di comunità cui ci si sente uniti semplicemente
stando là dove stanno gli altri, oppure ostentando distintivi o altri segni di intenzioni,
stili o gusti in comune: e comunità a tempo determinato (o almeno dichiaratamente temporanee) da cui «si esce» non appena la folla si disperde,
pur restando liberi di andarsene anche prima, in qualsiasi momento, se l’interesse
iniziale si è affievolito.
Le comunità di guardaroba non richiedono permessi di entrata e di uscita, né hanno
uffici in grado di rilasciarli, né tanto meno hanno il diritto di definire criteri
vincolanti di appartenenza per coloro che aspirino a farne parte. La modalità di «iscrizione
alla comunità» è totalmente soggettiva; ciò che conta è la «esperienza momentanea di comunità». In una vita di consumo sottoposta alla tirannia del momento
e scandita dal tempo puntinista, la facilità di entrare e uscire a piacimento dà a
tale esperienza di comunità fantasma e ad hoc un netto vantaggio rispetto alla «cosa reale», sgradevolmente solida, vincolante
ed esigente.
I biglietti per gli spettacoli, i distintivi e gli altri segni d’identità mostrati
in pubblico sono tutti in vendita; questo è il secondo dei due espedienti forniti
dalla modalità della vita consumistica per alleviare l’onere della costruzione e decostruzione
dell’identità. I beni di consumo non sono quasi mai neutrali rispetto all’identità;
essi tendono ad arrivare «completi di identità» (proprio come i giocattoli e i gadget
elettronici che si vendono «completi di batterie»). L’attività dedicata alla costruzione
delle identità adatte a essere mostrate e riconosciute in pubblico e a ottenere l’agognata
«esperienza di comunità» richiede soprattutto abilità nello shopping.
Data l’abbondanza vertiginosa di identità nuove di zecca, appariscenti e seducenti,
nessuna delle quali dista di più del centro commerciale più vicino, le possibilità
che una determinata identità venga serenamente accettata come definitiva equivalgono
a quelle che ha la proverbiale palla di neve di sopravvivere all’inferno. E in effetti,
perché accontentarsi dell’identità che, nel bene e nel male, ci si è appena finiti
di costruire, quando dei nuovi kit di montaggio promettono di potersela spassare in
modi mai provati prima e spalancano porte per le quali si potrà arrivare (hai visto
mai?) a delizie mai assaggiate prima? «Se non siete soddisfatti, riportate il prodotto
al negozio»: non è questo il primo principio di una strategia di vita di consumo?
Iosif Brodskij, il poeta-filosofo russo-americano, ha vividamente descritto il tipo
di vita innescata e sollecitata dalla ricerca ossessiva e compulsiva, attraverso la
mediazione dei negozi, di una identità continuamente aggiornata e ri-formata da nuove
nascite e nuovi inizi:
vi verranno a noia il vostro lavoro, i vostri coniugi, i vostri amanti, la vista dalla
vostra finestra, il mobilio o la tappezzeria della vostra stanza, i vostri pensieri,
voi stessi. Di conseguenza, cercherete di escogitare delle vie di fuga. Oltre ai gratificanti
gadget succitati, magari cambierete lavoro, luogo di residenza, azienda, paese, clima,
magari vi darete alla promiscuità, all’alcol, ai viaggi, alle lezioni di cucina, alla
droga, alla psicanalisi [...]. Anzi, magari metterete tutte queste cose assieme, e
per un po’ potrà funzionare. Fino al giorno in cui, naturalmente, vi svegliate nella
vostra camera da letto in mezzo a una nuova famiglia e con la tappezzeria diversa,
in uno Stato e in un clima diverso, con una pila di conti del vostro agente di viaggio
o del vostro strizzacervelli, ma guardando la luce del giorno che penetra dalla finestra
proverete la stessa sensazione di vuoto e di noia26.
Andrzej Stasiuk, eminente romanziere polacco e osservatore particolarmente sensibile
della condizione dell’uomo contemporaneo, afferma che «la possibilità di diventare
qualcun altro» è uno dei surrogati odierni della salvezza o redenzione, ormai abbandonata
e ignorata dai più. Si potrebbe aggiungere che è un surrogato molto superiore all’originale,
in quanto istantaneo (anziché fastidiosamente lento ad arrivare), multiplo e revocabile
(anziché «uno e uno solo» e definitivo).
Servendoci di diverse tecniche, possiamo cambiare il nostro corpo e ricostruirlo sulla
base di diversi modelli [...]. Quando si sfogliano le riviste patinate, si ha l’impressione
che raccontino in gran parte la stessa storia: sui modi per ricreare la propria personalità,
a partire dalla dieta, dall’ambiente circostante, dalla casa, su fino alla ricostruzione
della struttura psichica, un processo spesso definito convenzionalmente «essere se
stessi»27.
Sawomir Mroz.ek, scrittore polacco di fama mondiale che ha avuto esperienza diretta
di molte terre, concorda con l’ipotesi di Stasiuk. Egli paragona il mondo in cui abitiamo
a
una bancarella di mercato piena di bei vestiti e circondata da una folla di persone
alla ricerca di «se stesse» [...]. Si può cambiare vestito all’infinito, tanta è la
meravigliosa libertà di cui godono i cercatori [...]. Continuiamo a cercare il nostro
vero io: è divertente da matti, a patto di non trovarlo mai, questo vero io. Perché
se così fosse, il divertimento finirebbe [...]28.
Al cuore dell’ossessione del consumatore per la manipolazione delle identità sta il
sogno di rendere l’incertezza meno scoraggiante e la felicità più profonda, di dover
compiere meno sacrifici e risparmiarsi lo snervante sforzo quotidiano, utilizzando
semplicemente la possibilità di cambio dell’io, la sostituzione del proprio io con
abiti che non si incollino alla pelle e che non impediscano nuove sostituzioni in
futuro. Nel caso dell’autodefinizione e dell’autocostruzione, come in ogni altra
attività dell’esistenza, la cultura consumistica rimane fedele a se stessa e impedisce
di trovare un assetto definitivo e una gratificazione completa e perfetta che non
richieda ulteriori miglioramenti. Nell’attività chiamata «costruzione dell’identità»
il vero scopo, anche se segreto, consiste nello scarto e nell’eliminazione dei prodotti
difettosi o non perfettamente riusciti. Non sorprende che, come affermò in modo profetico
Sigfried Kracauer, nella nostra epoca «la personalità integrata è senza dubbio una
delle superstizioni favorite della psicologia moderna»29.
Rimescolare le identità, scartando quelle precedentemente costruite e sperimentandone
di nuove, è il diretto risultato della vita vissuta nel tempo puntinista, in cui ogni
momento è gravido di opportunità inesplorate che probabilmente moriranno prive di
riconoscimento e di eredità se non saranno messe alla prova. Esse, tuttavia, si trasformano
costantemente in attività che vengono desiderate ed eseguite come fini a se stesse.
Poiché probabilmente nessun numero di esperimenti potrà esaurire l’infinito numero
delle possibilità, l’impegno all’esplorazione e l’impazienza per i deludenti risultati
dei tentativi precedenti difficilmente diminuiranno. I limiti naturali imposti alla
durata e all’ampiezza della sperimentazione – dalla finitezza della vita umana, dalla
scarsità delle risorse disponibili per produrre nuove identità, dalla dimensione limitata
degli habitat in cui le identità vengono messe ripetutamente alla prova del riconoscimento
pubblico e dalla resistenza e incredulità degli «altri che contano», la cui approvazione
ha un ruolo decisivo per ottenere il riconoscimento – tendono a essere considerati
offensivi, a essere visti come vincoli illegittimi e inaccettabili alla libertà di
scelta individuale.
Fortunatamente per i patiti del cambiamento di identità, dei nuovi inizi e delle nascite
in sequenza, internet apre opportunità negate o precluse nella «vita reale». Il mirabile
vantaggio dello spazio di vita virtuale su quello(i) «offline» consiste nella possibilità
di ottenere il riconoscimento della propria identità senza doverla mettere in pratica
davvero.
Gli internauti cercano, trovano e si godono le scorciatoie che conducono direttamente
dal gioco della fantasia all’accettazione sociale (sia pure soltanto virtuale) della
finzione. Come nota Francis Jauréguiberry, trasferire nello spazio virtuale gli esperimenti
di autoidentificazione è avvertito come emancipazione dai fastidiosi vincoli che affollano
il regno dell’offline: «Gli internauti hanno modo di sperimentare nuovi io continuamente, ripartendo da zero, a loro piacimento, e senza dover temere sanzioni»30. Non sorprende che molte delle identità assunte durante una visita al mondo di connessioni
istantanee e disconnessioni a richiesta che esiste su internet siano di un genere
che sarebbe fisicamente o socialmente insostenibile offline. Esse sono «identità carnevalesche»
pienamente e realmente, ma grazie al computer o al telefono portatile è possibile
godersi i carnevali, soprattutto quelli privatizzati, in qualsiasi momento, e soprattutto
si può scegliere il momento.
Nel gioco carnevalesco delle identità la socializzazione offlinesi rivela per quella che è in effetti nel mondo dei consumatori: un fardello ingombrante
e non particolarmente piacevole, tollerato e sopportato solo perché inevitabile, in
quanto richiede uno sforzo lungo e forse interminabile per ottenere il riconoscimento
dell’identità prescelta, con tutti i rischi, tipici degli incontri faccia a faccia,
di vedersi smascherare o attribuire un bluff. Eliminare questo aspetto opprimente
delle battaglie per il riconoscimento è, probabilmente, l’elemento più allettante
a favore della mascherata e della truffa che avvengono su internet. La «comunità»
degli internauti in cerca di un surrogato di riconoscimento non deve sobbarcarsi il
lavoro ingrato della socializzazione, ed è dunque relativamente al riparo dal rischio
– questo effetto noto, e da molti temuto, delle battaglie per il riconoscimento che
avvengono offline.
Altra rivelazione del gioco delle identità in internet è la possibilità di rendere
l’«altro» superfluo in qualsiasi ruolo che non sia quello di segno di certificazione
e di approvazione. L’«altro» (destinatario e mittente dei messaggi) si riduce allo
zoccolo duro di uno strumento interamente manipolabile di autoconferma, privato di
tutti o quasi i pezzi non necessari e irrilevanti ai fini del compito, che nell’interazione
offline, sia pure a denti stretti e controvoglia, era necessario tollerare. Per citare
ancora una volta Jauréguiberry,
In cerca di una autoidentificazione riuscita, gli individui che si automanipolano
mantengono una relazione altamente strumentale con i loro interlocutori. Questi ultimi
sono ammessi esclusivamente al fine di certificare l’esistenza dei manipolatori –
o, più esattamente, per consentire a costoro di ribaltare in realtà i propri «io virtuali».
Gli altri vengono cercati all’unico scopo di attestare, confortare e blandire gli
io virtuali degli internauti.
Nel gioco di identificazione mediato da internet l’Altro è come disarmato e depurato.
L’internauta ha ridotto l’Altro a ciò che davvero conta per lui: allo status di strumento
per la sua autoapprovazione. L’esigenza poco allettante di accettare l’autonomia
e l’originalità dell’Altro e di approvarne la rivendicazione di una propria identità,
per non parlare della sgradevole necessità di legami e impegni durevoli, inevitabili
nelle battaglie per il riconoscimento che si svolgono offline, sono completamente
eliminate, o quanto meno tenute a distanza per il tempo necessario. La socializzazione
virtuale segue gli schemi del marketing e i suoi strumenti elettronici vengono fabbricati
a misura delle tecniche di marketing.
La grande attrattiva della socializzazione virtuale è il piacere genuino della finzione,
di un «far credere» in cui l’insipida parte del «fare» è pressoché eliminata dall’elenco
delle preoccupazioni di colui che «fa», in quanto rimane invisibile a chi «crede».