2.
Ritorno alle tribù
«Se mai gli Stati diventassero dei grossi vicinati, è probabile che i vicinati diventerebbero
dei piccoli Stati e che i loro membri si organizzerebbero per difendere la politica
locale e la loro cultura dagli estranei. Storicamente i vicinati si sono trasformati
in comunità chiuse o ristrette [...] tutte le volte che lo Stato era aperto»: così
concludeva, oltre trent’anni fa, Michael Walzer, riflettendo sulle esperienze del
passato e presagendo che fossero destinate a ripetersi presto1. Oggi quel futuro – divenuto presente – conferma le aspettative di Walzer e ribadisce
la sua diagnosi.
La globalizzazione – che porta alla separazione e al divorzio tra potere e politica
– sta trasformando davvero gli Stati in qualcosa di molto simile a estesi vicinati,
relegati entro confini vaghi, porosi e protetti da fortificazioni inefficaci, mentre
i vicinati di un tempo, che si pensava fossero ormai destinati – al pari degli altri
pouvoirs intermédiaires – a finire nella pattumiera della storia, lottano per assumere il ruolo di «staterelli»,
sfruttando al massimo ciò che resta della politica quasi-locale e di quella che un
tempo era la prerogativa esclusiva e inalienabile, gelosamente difesa, dello Stato:
separare «noi» da «loro», e ovviamente viceversa.
Una volta che ci si mette seriamente a tracciare confini, scavare fossati e costruire
muri sormontati dal filo spinato, qualsiasi «differenza riconoscibile [...] sarà usata
da qualcuno per giustificare la superiorità di un gruppo su un altro. Chi ama i fucili
si ritiene per questo superiore a chi li odia, e chi li odia superiore, per lo stesso
motivo, a chi li ama; [...] perché le differenze tra gruppi di popolazione si riducono
sempre a un rapporto di superiorità/inferiorità? Il perché è il tribalismo [...].
E il fine della tribù è stabilire chi soccorrere e chi uccidere»2.
I termini che si scelgono per drammatizzare l’argomento e mantenere alta la tensione
sono aspri e intransigenti; raramente si arriva a comporre le differenze, a mescolarsi
e a stabilire una sintonia, e di solito ciò accade per caso e non è visto di buon
occhio. Una volta drammatizzata la questione, il precetto di divisione/separazione
senza compromessi – l’«aut-aut» – appare non solo manifestamente evidente, ma anche
perentorio: non c’è più posto per l’altra logica, quella del «sia-sia»; e l’idea stessa
che ci si possa astenere da una scelta netta e irrevocabile tra due dogmi alternativi
appare inconcepibile. In simili situazioni «nessuno ascolta nessuno. Qualsiasi dato
contraddica le proprie asserzioni viene ignorato. [...] Non ci si ascolta nemmeno,
perché non si vuole davvero sapere cosa dice l’altra parte. Le informazioni a conferma
delle proprie convinzioni vengono elaborate, in quanto emotivamente significative,
mentre tutto il resto viene gettato via», o – meglio ancora – non lo si lascia nemmeno
entrare3.
In un territorio popolato da tribù, ognuna delle parti in conflitto evita e rinuncia
ostinatamente al tentativo di persuadere l’altra, farvi proseliti, convertirla; l’inferiorità
di un membro, di qualsiasi membro, di una tribù estranea è, deve e dovrà essere (o
quanto meno andrà considerata e affrontata come se fosse) un problema insuperabile,
scolpito nel destino, eterno e insanabile. L’inferiorità non può che essere la caratteristica
ineliminabile e irrecuperabile dell’altra tribù: il suo marchio indelebile, che si
sottrae a qualsiasi possibilità di rimedio e resiste a qualsiasi tentativo di riabilitazione.
Una volta che la divisione fra «noi» e «loro» è stata rappresentata in questi termini,
lo scopo di qualsiasi incontro fra antagonisti non è più riconciliarsi, ma ricavare/offrire
un’ulteriore dimostrazione di quanto la riconciliazione sia irragionevole e impossibile.
Per non svegliare il can che dorme ed evitare guai, i membri di tribù differenti avvinte
in un rapporto reciproco di superiorità/inferiorità preferiscono, anziché intendersi,
fraintendersi.
Ecco come Luc Boltanski descrive l’attuale tendenza del «ritorno alle tribù» – la
nascente filosofia egemone, la chiamerebbe forse Gramsci –, con particolare riferimento
alla variante francese, quella che egli chiama la «nuova ideologia dominante, il neoconservatorismo
alla francese»:
Si caratterizza per l’anticapitalismo (che lo differenzia dal neo-conservatorismo
americano), il moralismo e la xenofobia. Ha una fissazione quasi ossessiva sulla questione
dell’identità nazionale, sull’opposizione tra i veri (e buoni) francesi e gli immigrati
che vivono nelle banlieues, amorali, violenti, pericolosi, e soprattutto decisi ad approfittare della benevolenza
del Welfare State,4
quel Welfare State che in francese viene eloquentemente chiamato État-providence.
Boltanski aggiunge che l’ideologia neoconservatrice, dopo aver condannato e respinto
la politica ufficiale di tolleranza, ritenendola troppo permissiva, «pretende più
poteri per la polizia».
*
«Il perché è il tribalismo», nota Rozenblit. E noi probabilmente – e opportunamente
– ci chiederemo: «perché il tribalismo»?
Se l’«emotività» riemerge dal lungo esilio in cui era stata relegata nel secolo scorso,
il suo ritorno è stato favorito e spalleggiato – suggerisce Celia de Anca5 –, e addirittura alimentato ed esasperato, dal nuovo stile manageriale di grandi
aziende ben liete di «sfruttare le forze generate dalle disparità tra i dipendenti»;
la formidabile avanzata di questa nuova ondata di tribalismo si deve proprio a tale
ritorno: a un «cambio di paradigma» in cui «dall’aspirazione a rendersi indipendenti rispetto a una società formata da comunità» si passa «al bisogno altrettanto imperioso di sentirsi parte di una società formata da individui».
In poche parole, a emergere vittorioso dalla guerra all’ultimo sangue lungamente combattuta
dalla modernità – sotto il vessillo della razionalità, dell’efficienza e dell’utilitarismo
– contro i legami, obblighi e impegni sociali e morali che vincolano le scelte è stato
l’individuo che definisce e afferma da sé la propria identità; ma la sua si è rivelata
ben presto una vittoria di Pirro, in quanto il vincitore – «libero in senso negativo»,
per richiamare la dicotomia di Isaiah Berlin – si è ritrovato abbandonato alle sue
risorse desolatamente inadeguate, emotivamente inaridito, «impotente in senso positivo»:
libero da interferenze ma anche da aiuti esterni, e dunque privato del capitale sociale
indispensabile per operare efficacemente e per esercitare in modo realmente coerente
quel diritto all’autoaffermazione per il quale tanto duramente aveva combattuto. Questa
libertà somiglia ben poco ai sogni beati e alle seducenti promesse che hanno accompagnato
la guerra per conquistare lo status di individuo e l’emancipazione della propria soggettività.
La libertà individuale al prezzo della rinuncia alla sicurezza individuale non ha
più le sembianze di un buon affare, ma di un salto dalla padella alla brace.
De Anca nutre qualche speranza. Vede nel «cambio di paradigma» non un ritorno alla
vecchia versione della società «formata da comunità», con tutti i suoi aspetti altamente
detestabili, ma un passo avanti che supera, o quanto meno riduce drasticamente, il
consueto attrito tra «la capacità individuale di pensare con la propria testa» e «il
bisogno di far parte di un gruppo»: due cose «non necessariamente incompatibili tra
loro»; quindi non staremo andando a ritroso verso il tribalismo, bensì avanzando «oltre
il tribalismo» – anzi oltre il dilemma «tribalismo sì, tribalismo no» –, verso «nuove
forme di etnicità» che offrano «il senso di appartenenza totale a una comunità senza
perdere la coscienza individuale». De Anca giudica positivamente queste novità, che
a suo avviso sono già in atto: e nelle «nuove forme di tribalismo» intravede il modello
di «comunità aperte, con legami emotivi più deboli rispetto ai precedenti modi tribali».
Nell’esporre le proprie convinzioni, l’autrice si richiama a concetti che nascono
nelle «organizzazioni politiche ed economiche del mondo d’oggi», sviluppati «da consulenti
ben noti, coinvolti in molti dei loro programmi»: le sue tesi puntano insomma sulla
nuova filosofia manageriale, destinata forse ad assurgere a una supremazia quasi universale.
La «nuova filosofia e politica manageriale» del momento, impegnata com’è a trasferire
le noie gestionali il più in basso possibile lungo la catena di comando – a «subappaltare»
cioè ai dipendenti sia il compito di «produrre risultati», sia la responsabilità del
fallimento –, trova nella diffusa aspirazione a conciliare la sicurezza dell’appartenenza
con l’indisponibilità a rinunciare ai vantaggi dell’autonomia individuale una gradita
opportunità per accrescere i profitti e tagliare le spese. Nella versione attualmente
in voga nelle aziende, l’idea – volutamente nebulosa e indefinita – di «comunità aperta»
serve anzitutto a spacciare per abilitante una prassi disabilitante. Le idiosincrasie
personali – attaccamenti e allergie legate alle emozioni, simpatie e antipatie, preferenze
e ripugnanze, likes e dislikes,tutte quelle caratteristiche, ragioni e inclinazioni individuali non fabbricate in
serie che un tempo andavano lasciate al mattino fuori della fabbrica o dell’ufficio
– oggi non soltanto sono ammesse e tollerate, ma anzi caldamente invitate a entrare
e a restare; e sono fortemente raccomandate e incoraggiate in chiunque aspiri a essere
assunto o lo sia già stato: quelle idiosincrasie tendono a essere considerate parte
integrante della «job description» e criteri primari per la valutazione della «performance»
del dipendente. L’obiettivo dichiarato ed effettivo è la diversificazione; al contrario,
l’omogeneità e le routine vengono censurate ed evitate, perché ritenute controproducenti
e non redditizie.
I nastri trasportatori e le catene di montaggio di Henry Ford e la pianificazione
dei tempi e metodi di Frederick Taylor sono cose superate: il compito, volutamente
lasciato nel vago, di allineare le proprie azioni individuali alla «catena di montaggio»
della redditività aziendale viene scaricato sui dipendenti, cui si chiede di diventare,
essere e agire da individui. Questo profondo cambiamento riguardo a caratteristiche
un tempo bandite dal posto di lavoro – o almeno represse durante l’orario di servizio
– mira ad alimentare le aspirazioni dei dipendenti all’autoaffermazione e, contemporaneamente,
la loro nostalgia per il calore emotivo dell’appartenenza, postulando e promettendo,
stavolta, che le scelte individuali saranno riconosciute e approvate. Ma il risultato
pratico di tutte queste novità – nel contesto dell’attuale deregolamentazione totale
del mercato del lavoro e della condizione lavorativa – è l’obbligo di contribuire
al «benessere» di quella «comunità aperta [?]» senza alcuna garanzia di reciprocità,
e tanto meno di assicurazione contro il rischio di non risultare all’altezza di aspettative
perennemente indefinite e abbandonate alla volubile discrezione di una versione manageriale
degli «anziani della comunità».
Per farla breve: definendo in tal modo il processo di «costruzione della comunità»,
i sospirati benefici dell’appartenenza finiscono per dissolversi. E, ad aggiungere
il danno alla beffa, ora l’azienda – anziché acquistare una prestazione lavorativa
di durata specificata svolta da lavoratori con abilità professionali specificamente
definite e adatte alla particolare mansione per cui essi sono stati assunti – può
sostenere di aver diritto di sfruttare la totalità del tempo e delle caratteristiche
di personalità dei dipendenti, e persino attendersi tacitamente che essi restino a
sua disposizione 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana, senza che quel servizio
sia stato esplicitamente richiesto né, tanto meno, formalizzato per iscritto nel contratto.
L’idea di andare «oltre il tribalismo» riconciliando l’inconciliabile, prendendo e
mettendo assieme «il meglio dei due mondi» – quello della comunità e quello dell’individuo
– appare sospetta, al pari del tentativo dei manager più al passo con i tempi, e dei
loro consulenti, di trarre profitto dai sentimenti e dalla mentalità del «ritorno
alle tribù», che non affondano certo le radici in quell’utopia di società migliore
prefigurata e promessa dai nuovi filosofi e professionisti della managerialità, bensì
in fattori su cui costoro non hanno alcun potere.
*
Nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte Karl Marx ha spiegato il mistero di rivoluzioni che spalancano la porta a un futuro
ignoto, non ancora esistente, intentato, mai vissuto prima – e per questo inesplorato
e nel migliore dei casi vagamente intuito –, eppure abbigliato con repliche su misura
dei vecchi abiti originali oggi custoditi nei musei, oppure con panni che imitano
quelli degli eroi del passato riprodotti dalle statue di cera esposte nelle sale di
Madame Tussauds e in tante altre varianti:
Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze
scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti
a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione. La tradizione di tutte le generazioni
scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi
lavorino a trasformare sé stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio
in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato
per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine
per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento
e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia6.
Concentrandosi sulla serie di insurrezioni politiche scoppiate in Francia nel corso
dell’Ottocento, Marx svelava la logica psicosociale che spinge a cercare nel passato
un aiuto nell’aprire al futuro le porte del presente:
Ma, per quanto poco eroica sia la società borghese, per metterla al mondo erano però
stati necessari l’eroismo, l’abnegazione, il terrore, la guerra civile e le guerre
tra i popoli. E i suoi gladiatori avevano trovato nelle austere tradizioni classiche
della repubblica romana gli ideali e le forme artistiche, le illusioni di cui avevano
bisogno per dissimulare a sé stessi il contenuto grettamente borghese delle loro lotte
e per mantenere la loro passione all’altezza della grande tragedia storica7.
In effetti, la rinascita della mentalità tribale tratteggiata all’inizio di questo
capitolo sembrerebbe essere una reazione pubblica più o meno spontanea alle ampie
ma incoerenti trasformazioni delle condizioni di vita che, nel loro insieme, fanno
somigliare il presente a una «terra straniera» (per ricordare la memorabile diagnosi
fatta trent’anni fa da David Lowenthal8), non meno di quanto apparisse «straniero» il passato se visto con gli occhi del
nostro mondo moderno rapidamente e imprevedibilmente mutevole, abituato a sconcertare
e sorprendere di continuo i propri abitanti, a coglierli alla sprovvista, disorientarli
e confonderli. Oggi essere una terra straniera non è più una qualità specifica ed
esclusiva del passato; il risultato è che il confine che separa passato e presente
è sempre più confuso, e gli avamposti di frontiera sono ormai quasi vuoti. Ovviamente,
anche il futuro è una terra straniera, sebbene i nostri contemporanei sembrino interessati
a costruire recinzioni molto più rigide e impenetrabili per difendersi dal futuro
che dal passato: le schiere di turisti che non vedono l’ora di visitare ed esplorare
il futuro come terra straniera sono ormai in caduta libera, e si riducono a chi è
particolarmente ottimista e avventuroso, o – secondo alcuni – leggero e spensierato.
Ancora più rapidamente sembra assottigliarsi la schiera di persone che si affrettano
a partire per un futuro che si augurano pieno di esperienze più piacevoli della nostra
fitta successione di presenti; i nostri film e romanzi di fantascienza si collocano
ormai sempre più spesso nella categoria degli horror o della letteratura gotica.
Oggi tendiamo a temere il futuro, avendo perso fiducia nella nostra capacità collettiva
di temperarne gli eccessi, renderlo meno spaventoso e orribile, e magari anche più
user-friendly. Il «progresso», come continuiamo per inerzia a chiamarlo, provoca emozioni opposte
rispetto a quelle che voleva suscitare Kant quando coniò quel concetto. Molto spesso,
anzi, la parola evoca i timori di una catastrofe imminente, anziché le gioie legate
all’arrivo di nuovi comfort e alla prossima sparizione di antichi disagi destinati
all’oblio.
La prima cosa cui pensano molti di noi, quando si parla di «progresso», è la prospettiva
della ulteriore scomparsa di posti di lavoro – basati su abilità intellettuali oppure
(come tanti altri lavori già svaniti nel nulla) manuali – in cui dei computer, o dei
robot gestiti da computer, rimpiazzeranno gli esseri umani; e questo ci fa venire
in mente altri pendii, ancora più scomodi, su cui saremo costretti a batterci per
sopravvivere. Secondo quasi tutte le indagini, la generazione dei cosiddetti «millennials»
– i giovani che oggi entrano nel mercato del lavoro e affrontano le sfide della vita
autonoma e le incertezze legate alla ricerca di una posizione sociale dignitosa, soddisfacente,
gratificante e riconosciuta – è la prima, dai tempi della seconda guerra mondiale,
a esprimere la paura di perdere, anziché migliorare, lo status sociale raggiunto dai
loro genitori; la maggior parte dei «millennials» si aspetta che il futuro porti un
peggioramento delle loro condizioni di vita, anziché aprire la strada ai progressi
che hanno contrassegnato la storia personale dei loro genitori e che questi ultimi
avevano insegnato loro ad aspettarsi e a conquistarsi con il lavoro. Insomma, la visione
di un «progresso» inarrestabile si accompagna alla minaccia della perdita, più che
prefigurare nuovi traguardi e nuove posizioni nel mondo; e oggi è associata molto
più al degrado sociale che all’avanzamento e al miglioramento. Nel frattempo, come
ha scritto David Lowenthal, «mentre svaniscono le speranze di progresso, l’eredità
del passato ci consola con la tradizione»9.
«Come mai il passato oggi incombe così fortemente su tutti noi?» si chiede Lowenthal,
che va in cerca di possibili spiegazioni:
Le risposte variano da un luogo a un altro [...]. Però nessuna specifica motivazione
riesce a spiegare un simile contagio, in cui confluisce una serie di tendenze le cui
premesse, promesse e problemi sono globali nel vero senso della parola. Questi trend
producono l’isolamento e il distacco dell’individuo dalla famiglia, della famiglia
dalla comunità locale, della comunità locale dalla nazione, e perfino del sé dai precedenti
sé. Questi cambiamenti riflettono tanti aspetti diversi della vita: la crescente longevità,
il dissolvimento della famiglia tradizionale, la perdita del contesto familiare, l’obsolescenza
accelerata, il genocidio, le migrazioni, ma anche un timore crescente verso la tecnologia.
Questi aspetti erodono le speranze riposte nel futuro, accrescono la consapevolezza
del passato e instillano in tante persone l’idea di aver bisogno di una tradizione,
e che averla sia un loro diritto [...]. Assediati dal senso di perdita e dai cambiamenti
in atto, per non perdere l’orientamento ci aggrappiamo a quel che resta della stabilità10.
Detto ciò, Lowenthal ci mette ripetutamente in guardia: «L’ignoranza, al pari della
distanza, protegge la tradizione dall’esame rigoroso». Ma la vaghezza e l’ignoranza
hanno anche un’altra virtù: «Il passato è più ammirevole se lo vediamo come ambito
di fede, più che di fatti»11.
La conclusione di questo studio monumentale e ricco di sfaccettature è che «la rivalità
miope è [...] connaturata alla tradizione. Sottolineare che siamo stati i primi o
i migliori, celebrare ciò che è nostro e che esclude gli altri: la tradizione è tutta
qui»12.
La tradizione diventa orgoglio e finalità collettiva, ma così facendo accentua le
distinzioni fra i buoni (noi) e i cattivi (loro). La fede nella tradizione, la mercificazione
della tradizione, la retorica della tradizione fomentano l’inimicizia, soprattutto
quando la nostra peculiarità appare a rischio. L’inveterata miopia fomenta i contrasti;
l’ignoranza impedisce la reciprocità. Infatuati per le nostre tradizioni, ciechi a
quelle altrui, non solo sfuggiamo al confronto, ma rinunciamo ai vantaggi che offre13.
*
Un vicinato pieno di estranei è un segnale visibile e tangibile delle certezze che
svaniscono e delle prospettive di vita che sfuggono al nostro controllo e ai nostri
sforzi per realizzarle. Quegli estranei stanno a significare tutto ciò che di evasivo,
debole, instabile e imprevedibile esiste e avvelena con presagi d’impotenza le nostre
giornate caotiche e affolla di premonizioni da incubo le nostre notti insonni. È innanzi
tutto contro gli estranei – soprattutto se «palesemente insoliti», come forestieri,
stranieri, immigrati – che un «vicinato» (per riprendere il concetto di Michael Walzer)
si riorganizzerà come «piccolo Stato» al fine di sbarazzarsi degli estranei che invadono
il suo mondo politico e culturale locale. Considerato, però, che immaginare uno Stato
ripulito dagli stranieri non è affatto realistico, anzi con ogni probabilità esula
dall’ambito del possibile, l’immagine scelta per guidare lo sforzo di quella ricostituzione
è molto spesso ricavata dal passato: il passato com’era, ma ancor più come potrebbe essere immaginato – inequivocabilmente «nostro», non contaminato da «loro» e dalla loro intrusiva
presenza.
Una volta privata del potere di modellare il futuro, la politica tende a trasferirsi
nello spazio della memoria collettiva: uno spazio infinitamente più manipolabile e
gestibile, che promette di offrire una possibilità per arrivare a quella beata onnipotenza
che da tempo si è persa – forse irreparabilmente – per il presente e per l’avvenire.
È assolutamente palese – e dunque ancora più nocivo per la nostra sicurezza, autostima
e orgoglio – che non siamo noi a controllare il presente da cui germinerà e sboccerà
il futuro; e per questo abbiamo ben poche speranze di controllare quel futuro che
mentre si forma ci vede condannati al ruolo di semplici pedine sulla scacchiera di
qualcun altro, nel gioco di qualcun altro, ignoto e inconoscibile. Che sollievo, allora,
tornare da quel mondo misterioso, recondito, ostile, alienato e alienante, costellato
di trappole e agguati, a un mondo – familiare, intimo e accogliente, a volte malfermo,
ma comunque rassicurante perché sgombro di ostacoli e facilmente percorribile – di
ricordo: il nostro ricordo (dunque il mio, poiché sono uno di noi); il ricordo del nostro (non loro) passato posseduto (ossia, usato e abusato) da noi,e soltanto da noi.
In teoria, il futuro è la sfera della libertà (in cui tutto può ancora accadere), mentre il
passato è la sfera dell’inesorabilità immutabile e inalterabile (in cui tutto ciò
che può accadere è già accaduto); il futuro in linea di principio è duttile, mentre
il passato è solido, massiccio e definito una volta per tutte. Nella pratica della politica della memoria, invece, il futuro e il passato si sono – o è come se
si fossero – scambiati i rispettivi punti di vista. La duttilità del passato, la facilità
di plasmarlo e riplasmarlo, è sia la condizione necessaria della politica della memoria, sia il presupposto quasi assiomatico della sua legittimità, sia infine
ciò che permette di ricrearlo e reinterpretarlo all’infinito.
Nella società contemporanea, lo scopo principale della politica della memoria è la
giustificazione del diritto del gruppo – chiamato «nazione» – a una sovranità politica
definita in termini territoriali, che è a sua volta la principale aspirazione e finalità
del nazionalismo. Nella memorabile formulazione di Ernest Gellner,
Il nazionalismo è anzitutto un principio politico che sostiene che l’unità nazionale
e l’unità politica dovrebbero essere perfettamente coincidenti. [...] Non solo la
nostra definizione di nazionalismo dipende da una precedente presunta definizione
di Stato: ma sembra anche un fatto che il nazionalismo emerge soltanto in un contesto
in cui l’esistenza dello Stato sia già in larga misura data per scontata14.
Gellner precisa anche che il connubio fra Stato e nazione è una contingenza storica
e non una legge di natura, anche se il nazionalismo ha la funzione di negare la prima
e sostenere la seconda, fino a radicare l’idea che «l’uomo deve avere una nazionalità
come deve avere un naso e due orecchi; una deficienza in uno qualunque di questi particolari
non è inconcepibile, e di tanto in tanto si verifica, ma solo in conseguenza di qualche
sciagura, ed è essa stessa una specie di sciagura»15.
Comunque la si metta, il nazionalismo sarebbe un fenomeno quasi impensabile, e in
ogni caso estremamente improbabile, senza l’idea dello Stato territorialmente sovrano:
cuius regio, eius religio, una formula coniata per la prima volta con la pace di Vestfalia stipulata nel 1648
a Münster e Osnabrück, poi concretamente riformulata come cuius regio, eius natio dalla «primavera delle nazioni» del 1848, ed energicamente confermata da Woodrow
Wilson nella conferenza di pace di Versailles del 1919. Il nazionalismo moderno era
e resta una lotta di potere. E la posta più ambita di quella lotta – il bottino tanto
affascinante e seducente conquistato attraverso insurrezioni, guerre civili o conflitti
militari e diplomatici internazionali – è e resta il possesso di uno Stato territoriale
sovrano e politicamente indipendente. Un’altra citazione da Gellner: «Le nazioni come
maniera naturale, indicata da Dio, di classificare gli uomini, come destino politico
intrinseco anche se di là da venire, sono un mito; il nazionalismo, che talvolta prende
le culture pre-esistenti e le trasforma in nazioni, talvolta inventa queste culture
e spesso le annulla: questa è una realtà, nel bene o nel male, e in genere una realtà inevitabile»16.
Una realtà inevitabile ci offre quel terreno solido di cui sentiamo l’ardente desiderio
ma anche l’irrimediabile mancanza, esposti come siamo al tiro incrociato di messaggi
che si smentiscono e si elidono a vicenda. In La moltiplicazione dei media, uno dei saggi che compongono la raccolta di «cronache» degli anni 1977-1983, Umberto
Eco precisa: «Cosa siano oggi le radio e le televisioni lo sappiamo. Pluralità incontrollabili
di messaggi che ciascuno usa per comporseli a modo proprio col telecomando». Ma «cos’è
oggi un mezzo di massa? Una trasmissione televisiva? Anche, certo». Ma non solo:
È l’inserto pubblicitario sul giornale, è la trasmissione, è la maglietta [con il
logo del produttore stampato o ricamato sopra]? Abbiamo qui non uno, ma due, tre,
forse più mezzi di massa che agiscono su canali diversi. [...] E chi emette ormai
il messaggio? [...] Non c’è più il Potere, da solo (e com’era consolante!). [...]
il potere è imprendibile e non si sa più da dove venga il «progetto». Perché c’è un
progetto, certo, ma non è più intenzionale, e dunque non si può criticarlo attraverso
la critica tradizionale alle intenzioni17.
Il saggio di Eco risale all’inizio degli anni Ottanta: non deve perciò meravigliare
se radio e televisione qui figurino ancora tra i protagonisti sulla scena delle comunicazioni
di massa. Se Eco avesse voluto aggiornare quell’intervento per tener conto del wi-fi,
dell’era digitalizzata del World Wide Web, di Internet e dei computer tascabili con
touch screen, avrebbe fatto un sacco di domande in più e avrebbe avuto molte più difficoltà a
trovare delle risposte univoche. Una volta si sperava che le informazioni tracciassero
mappe comprensibili del mondo, corredando le strade di segnali ben piantati per terra,
in grado di resistere a bufere e inondazioni; ma oggi la loro attività consiste nel
rendere estremamente mobili quei segnali, piazzandoli su carrelli ben oliati, facili
da spingere e da girare con un solo dito, semplicemente toccando il tasto «Canc» di
uno schermo user-friendly: una funzione richiestissima e utilizzata molto volentieri da internauti alla ricerca
di «ambienti sicuri», in un mondo la cui instabilità è tanto esasperante quanto irrimediabile,
e la cui confusione è universalmente riconosciuta. Grazie a questa funzione, presente
ormai su qualsiasi dispositivo portatile, scomporre e filtrare i messaggi dai rumori
provenienti dai tanti canali è semplice quanto comporli, ma entrambe le operazioni
restano cariche di rischi e revocabili in qualsiasi momento. In un mondo attrezzato
con simili dispositivi, le mappe caricate sui navigatori satellitari vanno aggiornate
sempre più spesso, eppure chi guida le trova quasi sempre superate e rischia di perdersi.
Paradossalmente, il passato offre un luogo estremamente comodo, e anche molto seducente,
per costruire simili zone di comfort. L’aspetto paradossale è che il passato – proprio
in quanto è visto come deposito di faits accomplis irreversibili inframmezzati da vuoti impossibili da colmare a posteriori – dovrebbe,
in linea di principio, limitare fortemente la libertà di chi compone messaggi, e quindi
restringere notevolmente il novero delle scelte che riesce a concepire; e se dovessero
prendere sul serio e obbedire sinceramente al richiamo di Leopold von Ranke a studiare
gli avvenimenti del passato «come sono andati davvero», molti di coloro che tornano
al passato si vedrebbero costretti a desistere dalle scelte di loro gradimento. O
peggio ancora, poiché le indagini storiografiche à la Ranke sono di fatto inesauribili – e dunque è cronicamente impossibile dirimere le
querelles interpretative –, parecchi di loro finirebbero per abbandonare la speranza stessa
di usare i «fatti del passato» per costruire una «zona di comfort» difendibile. Ma
difficilmente andrà così.
In realtà gli irriducibili lati oscuri del passato, la molteplicità di interpretazioni
cui è suscettibile qualsiasi selezione di eventi passati e, di conseguenza, il carattere
incompleto e controverso di qualsiasi tentativo di arrivare a una narrazione completa
e coerente di «com’è andata davvero», anche se a uno storico di professione possono
risultare estremamente fastidiosi, sono esattamente i vantaggi che il passato offre
a chi è in cerca di trincee difendibili per la propria fede. La stessa impossibilità
di risolvere le divergenze, e quella di sottoporre le narrazioni al decisivo test
di verità, aiutano i fedeli a restare saldamente attaccati al proprio credo indipendentemente
dal peso delle argomentazioni avanzate dai loro antagonisti.
In fatto di fede, lo scopo del dibattito non è arrivare a un accordo, ma mostrare
che l’avversario è incurabilmente sordo e cieco alla «verità dei fatti» e fatalmente
incline alla malafede. E una volta sentenziato che le sue intenzioni sono cattive,
a nulla varrà che cerchi di dimostrare la propria sincerità. Ascoltare gli avversari
è fortemente sconsigliato, provare empatia nei loro confronti è un errore fatale,
assolutamente suicida: «Quando discutete con i vostri avversari, non usate mai il
loro linguaggio»18, raccomanda agli attori (o aspiranti tali) che recitano sulla scena politica George
Lakoff, di cui Geoffrey Nunberg della Università della California tesse le lodi per
aver saputo coniugare – nella nuova edizione del suo Non pensare all’elefante (definito «geniale» anche dal Nobel per l’economia George Akerlof) – «l’orecchio di
un linguista per le sottigliezze del linguaggio e la comprensione delle complessità
della politica moderna». Contrariamente al mito ampiamente diffuso tra gli attori
politici, gli utenti dei canali comunicativi rimangono sordi ai messaggi che parlano
ai loro interessi egoistici, se a inviarglieli sono «loro», etichettati a priori come
«nostri» nemici giurati. «Prestare ascolto a quei messaggi sarebbe un tradimento della
“nostra” identità, minacciando di indebolire il nostro proponimento e minare le stesse
fondamenta del mondo a cui apparteniamo: il nostro mondo». «La gente non vota necessariamente per il proprio interesse», avverte Lakoff:
«vota per la propria identità, per i propri valori, per la persona con cui si identifica.
A volte può identificarsi con il proprio interesse, può succedere, non è che non abbia
mai a cuore il proprio interesse. Ma tutti votano per la propria identità. E solo
se identità e interesse coincidono, voteranno per il candidato che li rappresenta.
È importante comprendere questo»19.
«Altrimenti – aggiunge Lakoff – i fatti entrano ma poi escono immediatamente. Non
li vediamo, o non li accettiamo, come fatti, oppure ci confondono: perché qualcuno
dovrebbe dire una cosa del genere? A quel punto etichettiamo il fatto come irrazionale,
folle o stupido» e per delega estendiamo quell’etichetta a coloro che ce l’ha detto,
ammesso che «non ce l’avessero prima di cominciare a parlare»20.
Una diversa spiegazione del sorprendente fenomeno del sacrificio del proprio interesse
al fine di restare aggrappati alla propria identità arriva da Friedrich Nietzsche:
«già il sentimento ereditario di risultare un essere superiore con diritti superiori
rende piuttosto freddi e lascia la coscienza tranquilla»21. E dunque «l’egoismo non è cattivo» semplicemente in quanto «che l’altro soffra, bisogna apprenderlo: e pienamente non può mai essere appreso»22. Con quel che ne segue:
La cattiveria non ha come scopo il male dell’altro in sé, bensì il nostro godimento,
[...]. Già ogni piccolo motteggio mostra come faccia piacere esercitare sull’altro
la nostra potenza e trarne un piacevole senso di superiorità. [... Quest’ultima costituisce
la posta in gioco ed essa] può farsi conoscere appunto solo attraverso il dolore altrui, come per esempio nel motteggio23.
Nietzsche – nonostante la sua straordinaria sensibilità per le prodromiche, embrionali,
incipienti, informi e sotterranee tendenze assiologiche della cultura europea (occidentale?
potenzialmente, e progressivamente, globale?) – non immaginò, né poteva farlo, un
mondo in cui esistono Facebook, Twitter, MySpace, LinkedIn: un mondo in cui gli atti
con cui si creano o spezzano legami fra esseri umani, s’includono o escludono altri
dalla Lebenswelt e, in ultima analisi, si tracciano le linee del fronte fra «noi» e «loro», sono stati
resi istantanei, ridotti al semplice movimento di un dito, accessibili ormai a chiunque
e in qualunque momento. In un mondo del genere le possibilità di «esercitare sull’altro
la propria potenza», e quindi le occasioni di assaporare «un piacevole senso di superiorità»,
non hanno più confini, sono quasi infinite. Inoltre, si trasferiscono dall’ambito
della valutazione morale allo spazio dell’estetica, che – come nota Kant – è il campo
dell’esperienza disinteressata, non strumentale, autotelica. Il principale – spesso
l’unico – ruolo assegnato all’altro (agli altri) su cui si riversano calunnie a fiumi
consiste nel placare la propria sete di superiorità. E quando la calunnia, la diffamazione
o la denigrazione sono digitali, la forza seduttiva di un simile metodo di autogratificazione
aumenta a dismisura, grazie all’anonimato e alla sostanziale non perseguibilità, offrendo
così la garanzia, o almeno la speranza, di non poter essere incriminati e dunque di
rimanere impuniti.
In una cultura in cui – come scriveva Lindy West sul «New York Times» l’11 marzo 2016
– «c’è chi crede che sia peggio essere chiamati razzisti che esserlo», saranno probabilmente
in tanti a vedere in una simile funzione digitalizzata una manna dal cielo. In uno
dei tanti affollati incontri di sostenitori di Donald Trump una certa signora Kemper
(descritta come «impetuosa, passionale, scettica») si confida: «Penso che questo paese
dovrebbe riscoprire alcuni di quei valori: i valori con cui sono cresciuti i miei
genitori e i miei nonni. [...] Se una cosa era sbagliata ce lo dicevano, ci avvertivano»24. È bastato dare voce in pubblico – con un semplice microfono, senza tanti giri di
parole, a viso scoperto – a pensieri che fino ad allora erano stati covati e coltivati
semi-clandestinamente, in privato, parlando al cellulare o scrivendo sulla tastiera
di un tablet, per assicurare a Trump le simpatie della nazione formattata on-line.
Trump non è che un esempio – per quanto spettacolare e arcinoto – della categoria
già folta e crescente dei «politici della rabbia», come li definisce sulla rivista
«Social Europe» Dani Rodrik, professore alla Kennedy School di Harvard25. Rodrik nota che «i conflitti tra un’economia iper-globalizzata e un sistema di coesione
sociale sono reali», e parla di «due forme di divergenza politica» che «tendono a
inasprirsi: una divergenza sul fronte dell’identità, articolata sulla nazione, sull’etnia
o sulla religione, e una divergenza sul fronte del reddito, che ruota attorno alla
classe sociale. I populisti derivano il loro fascino dall’una o dall’altra [...].
In entrambi i casi, c’è un “altro” ben definito su cui sfogare la propria rabbia.
[...] Il fascino dei populisti è legato al fatto che essi danno voce alla rabbia degli
esclusi».
In questa situazione, lasciare che la rabbia covi all’infinito sotto la cenere è la
miglior ricetta per far vincere i populisti: la rabbia degli esclusi e dei reietti
è un filone incredibilmente ricco da cui ci si può attingere senza sosta per rifornirsi
di capitale politico; e poiché quel capitale tende a essere speso per promuovere soluzioni
«fuorvianti e spesso pericolose», le possibilità che quelle riserve si esauriscano
nel futuro prossimo sono pressoché nulle. Non occorre altro combustibile, come non
occorreva per cremare i cadaveri nei forni di Auschwitz e Treblinka: la rabbia che
cova sotto la cenere produce da sé tutto il calore di cui ha bisogno per continuare
a bruciare.
In ogni caso, ai tanti umiliati e abbandonati in questo mondo segnato da un abisso
sempre più profondo tra l’élite globale che si sposta a piacimento e le popolazioni locali ancorate al suolo, infuriate
e al tempo stesso terrorizzate dalla prospettiva dell’esclusione, le politiche di
«ritorno alle tribù» che incitano a innalzare muri, sigillare frontiere ed estradare
stranieri portano un messaggio – come ha suggerito Vadim Nikitin – di «rifugio e compassione,
non di odio e divisione»26. In realtà esse preannunciano rifugio per «noi» e odio per altri, per «loro». La
combattività e la rigidità che accompagnano le tetre e aspre, ruvide e crude usanze
delle tribù, indossano la maschera di «comunità» che offrono rifugio e protezione.
E le comunità sono bifronti, come la sicurezza illusoria e seducente che promettono;
sono dei frame (come li chiama Lakoff) che hanno una faccia – sorridente e imbellettata – che prospetta
la fine di ogni preoccupazione, mentre l’altra – arcigna e tetra – sventola la minaccia
di declassare ed escludere. La metafora della sicurezza «come contenimento (ovvero,
non far entrare i malfattori)» richiama alla mente – nota Lakoff27 – l’idea di rafforzare le (nostre) frontiere, di tenere loro – e le (loro) armi –
fuori dagli aeroporti e di far salire i poliziotti a bordo degli aerei.
La maggioranza degli esperti è dell’opinione che tutte queste misure non possano che
risultare inefficaci: un terrorista in gamba è in grado di superare qualsiasi sistema
di sicurezza. Ma per le impressioni e le convinzioni popolari – cioè dei nativi, in
quanto distinti dagli estranei – l’opinione degli esperti conta poco. Ciò che conta
è il potere del frame,la sua capacità d’influenzare la nostra mente: «I frame sono strutture mentali che plasmano il nostro modo di vedere il mondo. Di conseguenza,
plasmano anche i nostri scopi, i nostri piani, il nostro modo di agire e il fatto
che i risultati delle nostre azioni siano ai nostri occhi buoni o cattivi»28. Ciò che il frame della comunità plasma è una visione del mondo e del nostro modo di essere nel mondo
che lega a filo doppio l’integrazione e la separazione: l’intimità della propria casa
e la distanza verso ciò che è fuori; l’amicizia all’interno e lo straniamento, la
diffidenza e la circospezione all’esterno. Questa visione e questo modo di essere
si condensano oggi nel fenomeno del nazionalismo.
*
Anthony D. Smith, da molti considerato il più autorevole studioso britannico in tema
di nazioni e nazionalismo, si chiede: «Come mai si sono riaccese le fiamme di un nazionalismo
feroce, neppure quarant’anni dopo che parevano essersi spente nel Götterdämmerung del Terzo Reich?». E subito dopo aggiunge che «le fiamme del nazionalismo non erano
mai state spente, ma solo temporaneamente nascoste dai nostri sensi di colpa legati
alla presa di coscienza delle loro terribili conseguenze. Anche in Occidente, il nazionalismo
etnico era sopravvissuto dietro una sottile patina di democrazia sociale e di liberalismo»,
il che porta Smith a concludere che «la nazione e lo stesso nazionalismo costituiscono
l’unica realistica cornice socioculturale per il moderno ordine mondiale»29.
Dei frames della nazione, dello Stato e della sovranità territoriale, però, possiamo dire che
poggiano tutti sull’esperienza concreta – che per ora non accenna a declinare – della
vita in un mondo solcato da frontiere, punteggiato da posti di confine e presidiato
da funzionari dell’ufficio immigrazione. Ipotizzo che sia questa esperienza a fornire
la materia prima per un’ampia serie di variazioni sul tema della contrapposizione
fra «noi» e «loro» – o, per dirla in termini pragmatici, dell’integrazione tramite
separazione, e della separazione tramite integrazione. Come fa notare ancora Anthony
D. Smith, «qualsiasi elemento culturale può agire come segno diacritico o simbolo
della nazione», sebbene in proposito possa esserci una considerevole differenza nella
scelta compiuta in particolari circostanze; e alcuni studiosi si spingono a negare
la stessa possibilità di una «valida dottrina del nazionalismo». Smith non arriva
a tanto; ma ritiene che l’unico elemento comune a tutti i nazionalismi sia il fatto
di essere dei «moviment[i] ideologic[i] per il conseguimento e il mantenimento dell’autonomia,
dell’unità e dell’identità da parte di una popolazione che i suoi membri giudicano
una “nazione”»30.
Nel suo opusmagnum Smith menziona solo fugacemente il grande antropologo norvegese Fredrik Barth, e
lo fa nel capitolo dedicato a quello che chiama l’«errore modernista» che si riscontrerebbe
in molti approcci alla questione nazionale. Di sfuggita, Smith critica l’idea di Barth
secondo cui i confini sociali contano più delle differenze culturali, ma riconosce,
sia pure con riserve, che Barth non è vittima della fallacia del «confine sociale»:
il suo non sarebbe «puro strumentalismo», in quanto anch’egli ritiene «le identità
etniche [...] in qualche modo (pre)esistenti»31 – qualunque cosa ciò significhi.
In realtà, il merito della scuola creata e guidata da Barth, con cui essenzialmente
mi trovo d’accordo, è di aver approfondito – come si evince dal titolo della sua fondamentale
opera, Ethnic Groups and Boundaries: The Social Organization of Culture Difference (1969)32 – la differenza culturale nel contesto delle pratiche del «confine sociale». Lo stesso
Barth ha spiegato la peculiarità della propria impostazione: «piuttosto che lavorare
con una tipologia delle forme dei gruppi e delle relazioni tra le etnie, cerchiamo
di esplorare i diversi processi che sembrano essere implicati nella formazione e nel
mantenimento dei gruppi etnici»; e di spostare il «centro della ricerca dalla costituzione
interna e dalla storia dei gruppi separati ai confini etnici e al mantenimento dei
confini»33. Dopo aver sottolineato che fra gli studiosi della questione nazionale «viene data
generalmente un’importanza centrale alla condivisione di una cultura comune», Barth
nota che «vi sarebbe un vantaggio notevole a considerare questo tratto di grande rilievo
come un’implicazione o un risultato, piuttosto che come una caratteristica primaria
e definitoria dell’organizzazione di un gruppo etnico»34. «Centro cruciale dell’indagine, da questo punto di vista, diventa il confine etnico che definisce il gruppo, non la sostanza culturale che esso racchiude»35. Nella concezione di Barth, che condivido pienamente, «la dicotomizzazione degli
altri come stranieri, come membri di un altro gruppo etnico, implica un riconoscimento
di limitazioni alle conoscenze condivise, differenze nei criteri dei giudizi di valore
e negli atti e una restrizione dell’interazione ai settori di presupposta conoscenza
comune e mutuo interesse»36.
Nella tredicesima edizione (2006) del suo classico studio su Nazioni e nazionalismo, Eric Hobsbawm osservava:
Dalla data di pubblicazione di questo libro (inizio 1990), si è assistito alla nascita
e alla gestazione di un numero di Stati-nazione che non ha eguale in questo secolo
[...]. Oggi, tutti gli Stati sono ufficialmente «nazioni», e non c’è sommovimento
politico che non sia pronto a scagliarsi contro gli stranieri: quelli stessi stranieri
che pressoché tutti gli Stati sottopongono a non poche angherie e cercano in un modo
o nell’altro di cacciare37.
«Loro» possono, o meglio debbono essere incolpati per il malcontento, l’insicurezza
e il disorientamento che affliggono molti di noi dopo un quarantennio in cui si sono
verificati i più repentini e profondi sconvolgimenti dell’intera storia dell’umanità.
E chi sono questi «loro»? Ovviamente e, per definizione, quelli che non sono «noi»:
gli stranieri che, in quanto estranei, sono nemici. [...]. Se non ci sono stranieri
a tessere i loro maligni inganni, ce li si può sempre inventare di sana pianta. Ma,
alla fine del nostro millennio, non c’è un gran bisogno di inventarseli: sono infatti
onnipresenti e ben riconoscibili nelle strade delle nostre città, in quanto pericolo
pubblico e agenti di inquinamento, onnipresenti al di là dei nostri confini e al di
fuori di ogni nostro possibile controllo, ma, ad ogni modo, pieni di odio nei nostri
confronti e intenti a cospirare contro di noi38.
Hobsbawm si guarda bene dal dichiarare che l’esplosione del nazionalismo – tutto rivolto
ad aggiungere nuove unità politiche autonome a quelle in cui è stata già suddivisa
l’umanità del nostro pianeta – sia un prodotto naturale, e privo di alternative,
della legge «oggettiva» della storia, o un tratto inalienabile del modo d’essere a
livello di specie. Tutt’altro: Hobsbawm afferma ripetutamente che questa esplosione
è in ultima analisi conseguenza di una scelta umana e, come tutte le scelte, potrebbe
essere diversa:
L’apparente esplosione dei separatismi verificatisi nel 1988-92 si può pertanto definire
molto semplicemente: «una faccenda lasciata in sospeso nel 1918-21» [...]; il concetto
di «nazione» e relative aspirazioni che, piuttosto stranamente, Lenin condivideva
con Woodrow Wilson, creò in maniera quasi automatica le linee lungo le quali si sarebbero
frantumate quelle unità multinazionali che erano quasi tutti gli Stati comunisti;
così come le frontiere coloniali del 1880-1950 si sarebbero trasformate in quelle
degli Stati postcoloniali, in mancanza di alternative39.
Detto altrimenti: è stata una serie di scelte operate dall’uomo a portare a una situazione in cui non
c’è scelta40.
In realtà, un’altra scelta c’era, prima che i vincitori della prima guerra mondiale,
riuniti a Versailles, decidessero di accettare la separazione e la sovranità territoriale
di ogni nazione come principio universale, globalmente vincolante. All’epoca si era
sperato che l’ordine mondiale costruito su questo principio facesse della guerra appena
conclusa l’ultimo di una lunga serie di cruenti conflitti etnici, la guerra che avrebbe
posto fine a qualsiasi altra guerra futura (in realtà, la dichiarazione ispirata da
Wilson aprì la strada alla guerra di gran lunga più sanguinosa nella storia del mondo).
Quell’altra scelta fu discussa nelle aree d’Europa abitate da quelli che Hannah Arendt
ha definito «gruppi di popolazioni miste»41. Da secoli tante categorie etniche, religiose e linguistiche vivevano mescolate,
a stretto contatto tra loro; e se si fosse applicata a quelle regioni la formula di
Versailles – che derivava dalla pace di Vestfalia del 1648 – non sarebbe stato affatto
chiaro quale delle tante lingue, religioni o tradizioni etnico-culturali presenti
su un determinato territorio dovesse diventare lo standard vincolante per la popolazione
della costituenda unità politica. Molto probabilmente, qualsiasi progetto sarebbe
stato duramente contestato. Per citare ancora Gellner:
È consuetudine rilevare la forza del nazionalismo. È un grosso errore, sia pur facilmente
comprensibile, giacché, ogni qual volta il nazionalismo ha attecchito, la sua tendenza
è stata di prevalere senza fatica su altre ideologie moderne. La chiave per capire
il nazionalismo è, tuttavia, la sua debolezza certo non meno della sua forza. A fornire
l’indizio cruciale a Sherlock Holmes fu il cane che tralasciò di abbaiare. Il numero
di potenziali nazionalismi che, per così dire, tralasciarono di abbaiare è di gran
lunga maggiore di quello dei nazionalismi che abbaiarono, anche se questi ultimi hanno assorbito tutta la nostra attenzione42.
Il «calcolo approssimativo» di Gellner «ci dà ancora un solo nazionalismo effettivo su dieci potenziali! [...] Per ogni nazionalismo effettivo, ci sono n nazionalismi potenziali, [...] che non si curano di attuare il loro potenziale nazionalismo,
che non ci provano neppure»43; ma vorrei aggiungere che a oltre trent’anni di distanza da quel calcolo il valore
che assume la variabile «n» non si è affatto ridotto, ed è semmai aumentato – sia pure a ritmi diversi – in
tutto il mondo. L’interdipendenza si globalizza, vanificando, gradualmente ma inesorabilmente,
pressoché tutte le «sovranità territoriali»; altrettanto gradualmente e inesorabilmente
si annacquano perciò i criteri utilizzati per riconoscere il diritto alla separazione
politica territoriale: e questo dato di fatto è uno dei più potenti fattori propulsivi
le attuali tendenze di «ritorno alle tribù».
In una delle principali fasce abitate da «gruppi di popolazioni miste» sorgeva l’Impero
austro-ungarico, dove la scelta di cui sopra fu ampiamente discussa e approfondita,
soprattutto nel mondo politico socialdemocratico. L’opzione alternativa consisteva
nel riconoscere ai vari gruppi etnici un’autonomia culturale: non territoriale, né
politico-statuale. In breve, si trattava di separare la «questione nazionale» dalla
dimensione territoriale e di associarla al «principio di personalità», trasformando
l’auto-identificazione nazionale, da compito amministrativo affidato allo Stato, in
questione di scelta individuale. Fra i tanti interventi a favore di quest’alternativa,
il più rappresentativo è forse il volume di Otto Bauer, Die Nationalitätenfrage und die Sozialdemokratie (1907)44.
Allo stesso modo, la proliferazione di nuove divisioni su base territoriale – tutte
accomunate dal fatto di essere «pronte a scagliarsi contro gli stranieri» – non è
certo un fenomeno nuovo; in realtà, come ci ricorda Hobsbawm, lo aveva osservato già
Georg Simmel: «ci potrebbe persino essere un pizzico di saggezza politica nel contemplare
la presenza di un nemico al fine di rendere effettiva l’unità degli appartenenti al
gruppo e, per quanto riguarda quest’ultimo, al fine di mantenerne la coscienza dell’unità
come interesse vitale»45. In effetti, poiché tutt’e tre le gambe – militare, economica e culturale – su cui
si regge lo sgabello ormai precario della sovranità politica degli Stati territoriali
nazionali vengono erose, distrutte e travolte dalle ondate crescenti di globalizzazione
che investono la finanza, i commerci e l’informazione, è possibile che questa si riveli
l’unica «saggezza politica» che un numero sempre maggiore di leader politici (o aspiranti
tali) cerca, trova e utilizza, non avendo da offrire molto altro ai propri elettori,
se non una «coscienza dell’unità» radicata in un remoto e torbido passato che sembra
trovare sonora conferma negli scaltri complotti e nelle occulte trame orditi da «loro»
– gli sconosciuti, i forestieri, gli estranei che si accalcano alle nostre porte e
tra noi. Come ho già cercato di spiegare in un’intervista con Brad Evans per «The
Stone», la rubrica del «New York Times»46, alla domanda se «l’attuale crisi dei profughi che sommerge l’Europa rappresenta
un ennesimo capitolo nella storia delle fughe dalle persecuzioni o se invece sta avvenendo
qualcos’altro», ho risposto che è senz’altro «un ennesimo capitolo di quella storia»
anche se, come sempre, ogni capitolo aggiunge qualcosa ai precedenti.
*
Nell’era moderna le migrazioni di massa non sono né una novità, né un evento sporadico
eccezionalmente prodotto da una irripetibile concatenazione di circostanze. In realtà,
quelle migrazioni sono una conseguenza costante e permanente dell’esistenza moderna,
perennemente preoccupata della creazione di ordine e del progresso economico: il che
fa sì che quella modalità d’esistenza diventi, di fatto, una fabbrica di moltitudini
«ridondanti»: ossia di persone localmente inoccupabili o la cui presenza appare intollerabile,
che per questo si trovano costrette a cercare rifugio o opportunità più promettenti
di vita lontano da casa propria.
Certo, gli itinerari più battuti dai migranti mutano direzione, seguendo il diffondersi
dello stile di vita moderno dall’Europa, che ne è il luogo di origine, al resto del
globo. Finché l’Europa era l’unico continente «moderno» di tutto il pianeta, le persone
in esubero venivano costantemente scaricate sui territori «pre-moderni» e riconvertite
in coloni, soldati o personale dell’amministrazione coloniale (si stima che, quando
l’imperialismo coloniale era all’apice del suo sviluppo, fino a 60 milioni di europei
abbiano lasciato l’Europa alla volta delle due Americhe, dell’Africa o dell’Australia).
Da metà del Novecento il flusso migratorio ha invertito direzione: da centrifugo si
è fatto centripeto rispetto all’Europa. Ma questa volta i migranti non avevano armi,
né puntavano a conquistare le terre cui erano diretti. I migranti dell’era post-coloniale
hanno cambiato, e stanno tuttora cambiando, le proprie strategie di sopravvivenza
– visto che quelle tramandate sono state ormai distrutte dalla modernizzazione trionfante
promossa dai loro ex colonizzatori – e puntano a fare il nido negli interstizi delle
economie di questi ultimi.
A ciò si aggiunge una marea montante di persone cacciate di casa dalle decine di guerre
civili, etniche e religiose e dal banditismo nei territori che i colonizzatori si
sono lasciati alle spalle: «Stati» nominalmente sovrani ma concepiti in modo artificioso,
con scarse prospettive di stabilità e giganteschi arsenali – pieni di armi in cerca
di un bersaglio – forniti dai loro ex padroni coloniali. La destabilizzazione apparentemente
infinita dell’area medio-orientale a seguito delle politiche malaccorte, terribilmente
miopi e totalmente fallimentari e delle azzardate iniziative militari delle potenze
occidentali ne è l’esempio più evidente, ma certamente non il solo. Di fatto, una
parte enorme dell’Africa – la fascia situata fra il tropico del Cancro e quello del
Capricorno – è stata trasformata in una fabbrica di masse di profughi.
Michel Agier, il principale studioso delle origini e conseguenze delle migrazioni
di massa, avverte che, sulla base delle stime attuali, nei prossimi quaranta anni
si prevede un miliardo di «sfollati»: «Dopo la globalizzazione dei capitali, delle
merci e delle immagini, è finalmente giunta l’ora della globalizzazione dell’umanità»47. Ma gli sfollati sono persone che non hanno un loro posto, né possono legittimamente
rivendicarlo; come sottolinea Agier, il loro stesso mettersi in viaggio senza una
destinazione precisa li colloca a tempo indeterminato in un «non luogo», anziché nel
mondo che accomuna tutti gli altri48. Ma i loro «non luoghi» (per esempio le stazioni ferroviarie di Roma e Milano o il
parco Kalemegdan, nel centro di Belgrado) fanno parte dei nostri quartieri, quelli
dei fortunati «nativi» liberi di viaggiare per scelta anziché spinti dalle raffiche
di un destino avverso. Trovarsi al cospetto di questi «non luoghi», anziché limitarsi
a guardarli a debita distanza sugli schermi televisivi, è un’esperienza scioccante.
Ci mostra con chiarezza – ci porta letteralmente dentro casa – la turbolenza mondiale
nel suo aspetto peggiore. La globalizzazione, con tutti i suoi sgradevoli effetti
collaterali, non è più «da qualche parte là fuori», ma si è insediata proprio qui,
nelle vie dove abitiamo, in tutte quelle che siamo costretti a percorrere per andare
al lavoro, e nella scuola dei nostri figli.
Il punto, però, è che riuscire a tenere lontane le sciagure globali barricandosi in
casa propria, nella speranza che quel territorio sia sicuro, non è meno improbabile
che pensare di scampare alle conseguenze di una guerra nucleare acquattandosi in un
rifugio per senzatetto. I problemi globali richiedono soluzioni globali: non c’è altro
modo di sbarazzarsene. Molto semplicemente, lasciar marcire il problema, purché non
sia nel cortile di casa nostra, non funzionerà. La cura radicale, definitiva, non è alla portata di un singolo paese – per quanto grande e forte
–, e nemmeno di un insieme di paesi come l’Unione europea: e questo è vero a prescindere
dal fatto che confiniamo «i migranti» in campi appositamente costruiti in Europa,
Africa o Asia oppure li lasciamo scomparire nelle acque del Mediterraneo o del Pacifico.
In ultima analisi le tribù, «primordiali» e «primitive» quali apparivano ai fautori
dell’idea elitaria e intellettuale di nazione – che verso di esse avevano un atteggiamento
simile a quello assunto da Marx verso i socialisti vecchio stile, bollati come «utopisti»
figli di un autoinganno secolare che richiedeva una profonda rilettura e rettifica
da parte della critica scientifica – o nella veste «nuova e migliorata», «razionalizzata»,
di «nazioni», sono prodotti del bisogno umano, troppo umano di ridimensionare l’incomprensibilità
e disinnescare così la complessità della condizione esistenziale che accomuna gli
uomini, riducendola a una dimensione concepibile dai nostri sensi, «conforme alla
ragione».
Da quando esiste la specie umana, questa riduzione è stata attuata dividendo il mondo
degli uomini fra «noi» e «loro»: quelli che stanno all’interno dell’universo dell’obbligo
morale e quelli che ne sono estromessi. Come suggeriva Lévinas, tale divisione era
(e forse rimarrà) parte integrante dello sforzo senza fine per elevare la modalità
del «vivere in società» – il cui perno è la «responsabilità assoluta per l’altro» – a principio e spinta propulsiva di tutta la convivenza umana. In questo sforzo incessante, le divisioni sono gli strumenti
necessari: il principio della responsabilità assoluta e incondizionata per tutti gli
esseri umani, infatti, è a misura dei santi, non di creature che in fatto di santità
lasciano molto a desiderare, come più o meno tutti siamo e, probabilmente o sicuramente,
rimarremo fino alla fine.
Finora questo cammino tortuoso è stato influenzato da due forze parallele. La prima
è la crescita in termini quantitativi del «noi», dalle orde di cacciatori-raccoglitori
alle «totalità immaginate» degli Stati-nazione odierni. L’altra è il «processo di
civilizzazione», l’«ingentilimento dei costumi» all’interno di quell’habitat di un
«noi» in costante espansione – e dunque costretto ad accettare, adottare e assorbire
un numero irrefrenabilmente crescente di estranei – che ha sostituito all’impulso
del rifiuto, alla bellicosità istintiva e all’ostilità assoluta verso gli altri da
noi l’«inattenzione civile» e/o una guerra meramente verbale, simbolica. Tali forze,
ad ogni modo, non sono minimamente riuscite a modificare le regole del gioco «noi
contro loro» che dura da migliaia di anni. L’afflusso massiccio di stranieri, che
è ben lungi dall’essersi esaurito, e le cui dimensioni con tutta probabilità sono
destinate più ad aumentare che a diminuire, ci ha colti impreparati alla stregua di
quelle tribù cui ci sforziamo di fare ritorno.
Nel numero del 14 gennaio 2016 del «New York Times» Roger Cohen49 ricordava che fra il 1880 circa e il 1924 gli Stati Uniti accolsero 4 milioni di
immigrati italiani, e citava in proposito Leon Wieseltier della Brookings Institution:
«Abbiamo avuto Enrico Fermi, Frank Sinatra, Joe Di Maggio, Antonin Scalia – e Al Capone.
Chi potrebbe negare, in tutta onestà, che l’immigrazione italiana non sia stata per
il nostro paese un dono del cielo?». E proseguiva:
Durante il suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione il presidente Obama ha presentato
un immigrato siriano, Refaai Hamo, come prova «della nostra diversità e della nostra
apertura» [...]. Ma se guardiamo al grado di apertura che l’America ha offerto ai
profughi siriani nel corso di quasi cinque anni di guerra durante i quali sono state
uccise 250mila persone, questa coreografia politica è una bella prova di faccia tosta.
In quei cinque anni di guerra gli Stati Uniti hanno accolto quasi 2500 profughi siriani:
«appena lo 0,06 per cento dei 4,4 milioni di siriani fuggiti dal loro paese», notava
Cohen. Quindi «sarebbe stato meglio presentare Hamo come simbolo della chiusura mentale
americana»: chiusura – aggiungo io – che è perfetta, a sua volta, per dimostrare il
ritmo accelerato con cui si va verso il tribalismo.
Dai primi dell’anno l’amministrazione non fa altro che spedire agenti federali nelle
case per punire in maniera esemplare i trasgressori delle leggi sull’immigrazione
e difendere il principio dei confini sicuri. Un presidente che ha pronunciato parole
toccanti sui bambini uccisi dalle armi da fuoco nel suo paese si è assunto il compito
di rispedire madri e figli in viaggio di sola andata verso i paesi più letali del
nostro emisfero [Honduras, Guatemala, El Salvador]: madri e figli che non rappresentano
alcuna minaccia, effettiva o potenziale, per la nostra sicurezza50.
Finora, la tendenza e la spinta a suddividere gli uomini – lontani e irraggiungibili,
oppure a portata di mano – in «noi» e «loro» è riemersa intatta dalle tante svolte
della storia, indipendentemente dai cambiamenti di schemi comportamentali generati
e promossi da quelle svolte. Finché l’«umanità» rimarrà un fantasma, un’entità non
intelligibile, mentalmente e pragmaticamente inassimilabile (ricordo la caustica valutazione
di Ulrich Beck sullo stato della nostra coscienza cosmopolita, che rimane molto attardata
rispetto alle realtà cosmopolitiche della nostra vita odierna), la ricerca dell’identità
– lo sforzo cioè di contrastare le pressioni interne ed esterne, al fine di tracciare
e stabilire il nostro posizionamento nel mondo popolato da altri, e la necessità di
sottoporre la nostra scelta al riconoscimento e all’approvazione di altri – continuerà
a pretendere un punto di riferimento. La «somiglianza» contrapposta alla «dissomiglianza»,
l’«appartenenza» contrapposta all’«alterità» – insomma, sempre noi contro loro – sono, e minacciano di restare ancora a lungo, strumenti indispensabili nel lavoro
di auto-identificazione: perché possano esistere dei «noi» devono esistere anche dei
«loro», i «non-noi»; oppure, devono essere evocati, o al limite vagheggiati – e sono
davvero presenti, inventati, designati o immaginati, in ogni possibile varietà o stadio
dell’esecuzione di quell’opera. La dimensione crescente che assumono, se non tutti,
almeno alcuni dei gruppi con i quali – o in contrapposizione ai quali – le persone
tendono a identificarsi, e l’ingentilimento (la «civilizzazione») delle interazioni
fra molti di coloro che fanno parte di quei gruppi, sono cambiamenti quantitativi,
non qualitativi: di forma, non di funzione.
*
Per le tribù come per le nazioni, l’identità – consapevolmente scelta, oppure tacitamente
e passivamente ricevuta alla nascita – portava con sé pesanti richieste: l’«appartenenza»
tendeva a rivestire un carattere «di vita o di morte», integrale, totale: non negoziabile
e illimitato. L’idea di «sacrificare la mia vita per il benessere del gruppo», già
insita nel vivere in tribù, sarebbe diventata il supremo attestato di appartenenza
postulato dalle «totalità immaginate» degli Stati-nazione: formazioni moderne che
di quel passato tribale accolsero quell’unico principio, contestando e rifiutando
in blocco tutto il resto. Quella stessa spietata e crudele regola è stata a sua volta
revocata o dimenticata, in quanto resa inutile, o addirittura molesta e controproducente,
dall’ascesa – al posto della guerra tra eserciti di massa fondati sulla leva obbligatoria
– delle operazioni tecnologicamente sofisticate di piccoli gruppi militari professionali,
nonché dal fatto che lo sfruttamento economico si è emancipato dal suo antico, stretto
legame con la conquista territoriale.
La storia del capitolo «addio alle tribù» e, ancor più, dell’attuale processo di «ritorno
alle tribù» sarebbe peraltro largamente incompleta se non entrasse a farne parte la
recente rivoluzione culturale dell’informazione digitale. Di per sé, l’ingresso dell’informatica
nella vita quotidiana di una vasta e crescente parte dell’umanità non è che un nuovo
capitolo della storia della tecnologia; tuttavia la sua accessibilità quasi universale
e l’avvento di una mobilità pienamente e realmente «deterritorializzata», sganciata
cioè dagli spostamenti fisici del nostro corpo – di cui questa tecnologia diviene
di fatto, per molti di noi, una vera e propria estensione, tutt’uno con esso, praticamente
inseparabile, come nessuna apparecchiatura tecnica aveva mai potuto, tentato o anche
solo immaginato di essere – ha completamente riconfigurato la nostra gamma di opzioni,
creando sia un’enorme varietà di risposte del tutto inedite ma realistiche a stimoli
a noi ben familiari, sia la capacità di generare una grande quantità di stimoli nuovi
e di liberare istinti e consentire gesti mai sperimentati in precedenza. Sulla base
di una logica di razionalità strumentale capovolta – del tipo «Fammi sapere come si
può utilizzare questa apparecchiatura» e «Se questo si può fare, lo farò!» –, queste
nuove possibilità, occasioni e opportunità portano a ridefinire la relativa forza
d’attrazione di schemi comportamentali aperti alle scelte, e indirettamente rivoluzionano
le probabilità di scelta fra le diverse linee di condotta alternative.
Tuttavia, i media elettronici sono neutrali rispetto al modo in cui quella razionalità
strumentale rovesciata deve – dunque dovrà essere e sarà – utilizzata. I nuovi media
agevolano – dunque promuovono – un atteggiamento culturale onnivoro, ma al tempo stesso
una severa ma capricciosa selettività nella raccolta d’informazioni, nella costruzione
di reti e nella comunicazione: le tre categorie prevalenti di funzione/utilizzo di
quei media. Essi incoraggiano l’apertura e la «fusione di orizzonti» teorizzata da
Hans-Georg Gadamer non più – ma neanche meno – della chiusura ermetica verso tutto
ciò che viene altezzosamente scartato perché ritenuto ingombrante, scomodo e sgradevole.
Rendono più facile di quanto sia mai stato – e tuttora è nell’universo off-line– sia moltiplicare gli input, sia limitarli rigidamente. Sono in grado di agevolare le scelte umane e di manipolarne le probabilità, ma non certo di determinare quelle scelte, e tanto meno di garantire che esse vengano perseguite con coerenza
e determinazione fino alla loro definitiva attuazione in una forma in linea con il
progetto iniziale.