Oltre le nazioni
Nei sei anni trascorsi dalla pubblicazione di L’Europa è un’avventura, uscito nel 2006, grandi nuvole scure si sono addensate sul futuro dell’Unione Europea.
Oggi è ancora più chiaro di allora che nessuna delle agenzie politiche esistenti/tramandate,
nate al servizio di una società integrata a livello di Stato-nazione, è adeguata al
suo ruolo, e che nessuna è abbastanza intraprendente da poter affrontare i vasti e
seri compiti di oggi, e a maggior ragione quelli di domani. In molti paesi – persino
in quelli più ingegnosi – i cittadini sono quotidianamente esposti allo spettacolo
poco edificante di governi che per sapere se possono o non possono fare ciò che si
propongono, e soprattutto ciò che i loro cittadini ardentemente auspicano e chiedono,
guardano ai «mercati». Questi ultimi si sono ormai arrogati (non senza la connivenza,
l’approvazione e il tacito o esplicito sostegno dei poveri e impotenti governi degli
Stati) il diritto di stabilire il confine tra ciò che è e non è realistico. E l’espressione
«i mercati» non è altro che una forma abbreviata per indicare forze senza nome e senza
volto che nessuno sa dove abitino: forze che nessuno ha eletto e nessuno è in grado
di richiamare all’ordine, mettere in riga, limitare, controllare, guidare.
La sensazione che prende piede tra la gente e si fa strada anche nell’opinione degli
esperti è che i parlamenti eletti, e i governi che quei parlamenti costituzionalmente
sono tenuti a indirizzare, controllare e dirigere, non riescano a fare il loro lavoro,
come non ci riescono i partiti politici tradizionali, noti per smentire la poesia
delle promesse elettorali non appena i loro leader assumono incarichi di governo e
si trovano costretti ad affrontare la prosa, lo strapotere delle forze del mercato
e delle borse, intoccabili e sottratte alle prerogative attribuite e/o tollerate negli
organi e nelle agenzie di Stati-nazione apparentemente «sovrani». È qui che nasce
l’attuale profonda crisi di fiducia, che si aggrava sempre più. Tramontata la fede nella capacità di agire delle istituzioni
statali nazionali, viviamo un’era in cui le istituzioni non credono più in se stesse
e si diffonde lo scetticismo sulla capacità di agire dei governi.
La nozione di sovranità dello Stato territoriale risale al 1555, quando, in occasione
della dieta convocata ad Augusta da principi dinastici che cercavano disperatamente
una via d’uscita, o almeno un qualche sollievo, dai lunghi, cruenti e devastanti conflitti
di religione che dilaniavano l’Europa cristiana, fu coniato il principio cuius regio, eius religio, secondo cui è colui che governa a decidere la religione dei propri sudditi. La sovranità
del principe, suggerita da quella formula e approfondita da Machiavelli, Lutero, Jean
Bodin (nel suo De la République, pubblicato ventun anni dopo la pace di Augusta e straordinariamente influente) e
Hobbes, comportava il suo diritto illimitato di proclamare e applicare leggi vincolanti
per chiunque si trovasse nei territori soggetti alla sua potestà (variamente descritta
in termini di influenza, egemonia o dominio). La sovranità alludeva a un’autorità
suprema – indivisibile e non limitata da interferenze esterne – nell’ambito di un determinato territorio: fin dal suo ingresso nel lessico politico il termine fece riferimento a circostanze
e prerogative definite e delimitate in termini territoriali. Come affermò Machiavelli,
e come ribadirono dopo di lui tutti i politici degni di questo nome, il principe non
aveva altri obblighi se non quelli verso la raison d’état – dove état alludeva esplicitamente e immancabilmente a entità territoriali definite in base
ai propri confini.Come si legge nella Stanford Encyclopedia of Philosophy, «l’autorità sovrana viene esercitata nell’ambito di determinati confini e, per definizione,
nei confronti di altri soggetti, cui non è permesso interferire nell’attività di governo
del sovrano»: dove questi «altri» sono chiaramente altre autorità, anch’esse attestate
su un territorio, ma sul lato opposto del confine. Qualsiasi tentativo d’intromettersi
nell’ordine fissato dal sovrano sul territorio sottoposto alla sua potestà è dunque
illegittimo e classificabile come casus belli: il trattato di Augusta si può leggere come atto di fondazione del fenomeno moderno
della sovranità statale, ma contemporaneamente e necessariamente è considerato la
fonte testuale della moderna nozione di confini di Stato.
Ci volle però quasi un secolo di spargimenti di sangue e di devastazioni per arrivare,
nel 1648, all’accordo sulla «sovranità vestfalica», negoziato e sottoscritto a Osnabrück
e Münster: fu allora che attecchì nella realtà sociale e politica europea la raccomandazione
di Augusta, il principio cioè della sovranità di ogni principe sul suo territorio
e su coloro che vi risiedevano, il suo diritto d’imporre a discrezione leggi «positive»
più forti delle scelte individuali dei suoi sudditi, compresa persino la scelta del
Dio cui tributare fede e devozione. Questa formula era inavvertitamente destinata,
attraverso un semplice espediente – la sostituzione di religio con natio –, a fornire la cornice mentale o il cliché utilizzati di lì a poco per creare e
far funzionare l’ordine politico (secolare) della nascente Europa moderna: il modello
cioè dello Stato-nazione, in base al quale la nazione si avvaleva della sovranità statale per separare «noi» da «loro» e riservare a se
stessa il diritto inalienabile e indivisibile di definire un ordine vincolante per
tutto il paese, mentre lo Stato rivendicava la disciplina dei suoi sudditi appellandosi alla comunanza di storia,
destino e benessere della nazione, in base al presupposto e/o postulato secondo cui
nazione e Stato, i due elementi costitutivi del modello, coincidevano con un determinato
territorio.
Nei secoli successivi quel modello, emerso storicamente tra tanti altri principi ordinatori
concepibili, plausibili e realizzabili, finì in certo qual modo per «naturalizzarsi»
in gran parte d’Europa, acquisendo uno status di autoevidenza e indiscutibilità, e
gradualmente ma inesorabilmente fu imposto a tutto il pianeta da imperi mondiali il
cui centro era situato in Europa, durante e mediante una lunga serie di conflitti
con realtà locali che spesso resistevano ostinatamente a tale imposizione (si pensi
ai crudeli «confini nazionali» artificiali tassativamente assegnati a Stati post-coloniali
composti esclusivamente da feudi tribali, o al sanguinoso destino delle repubbliche
post-jugoslave). E quando, dopo gli orrori della guerra trentennale combattuta su
scala mondiale nel XX secolo, si fece il primo tentativo che storia ricordi di dar
vita a un ordine consensuale e plausibilmente sostenibile di coesistenza pacifica
su scala planetaria, lo Statuto dell’Onu (il consesso dei governi degli Stati sovrani
chiamato a controllare, dirigere e difendere collettivamente con ogni mezzo quella
condizione di coesistenza pacifica) fece riferimento proprio al modello vestfalico
di sovranità. L’articolo 2 di quell’atto vieta, al comma 4, qualsiasi attacco «all’indipendenza
politica e all’integrità territoriale» di uno Stato sovrano, mentre al comma 7 delimita
rigorosamente la possibilità di ingerenze esterne nei suoi affari, per quanto scandalosi
essi possano essere.
Viviamo tuttora nell’«era post-vestfalica», e ci stiamo ancora leccando le ferite
non sanate (e forse non sanabili) che la formula del cuius regio, eius natio ha inflitto e continua a infliggere agli organismi sociali che si sforzano e lottano
per proteggere e conservare la propria integrazione. L’emancipazione dalle ombre lunghe
della «sovranità vestfalica» non è ancora conclusa, e finora è stata un processo doloroso
e tutt’altro che omogeneo. Molte forze (finanza, interessi commerciali, informazione,
traffici di droga e di armamenti, criminalità e terrorismo) hanno già conquistato
in pratica, se non in teoria, la libertà di sfidare quello spettro e fingere che non
esista, ma esso continua a frenare la politica (intesa come capacità di decidere come
e quali forze schierare). L’evidente mancanza di agenzie politiche globali in grado
di recuperare questo ritardo e riassumere il controllo di forze capaci di agire su
scala globale è probabilmente il principale ostacolo sul cammino impervio verso una
«coscienza cosmopolita» adeguata alla nuova condizione di interdipendenza globale
dell’umanità.
Come si è detto, le stesse Nazioni Unite – l’istituzione che nacque per reazione alla
guerra scatenata dall’aggressione di alcuni Stati-nazione sovrani contro la sovranità
di altri, e che più di ogni altra si avvicina a un’idea di «corpo politico globale»
– recano iscritta nel proprio statuto la difesa del principio vestfalico con ogni
mezzo. Il genere di politica «internazionale» (leggi interstatale, intergovernativa,
interministeriale) che l’Onu è costretta a promuovere e seguire, l’unico genere di
politica che essa possa e sappia promuovere e seguire, non è affatto un passo sulla
strada che conduce a una politica autenticamente globale, e anzi si rivelerebbe uno
dei principali ostacoli su quella strada, se mai venisse imboccata. Prendiamo poi,
a un livello inferiore, se così si può dire, ma strutturalmente omomorfico, il destino
dell’euro, l’assurdità cioè di una valuta comune assistita/sostenuta da diciassette
ministri delle Finanze, ognuno tenuto a rappresentare e difendere i diritti sovrani
del proprio paese. La condizione di questa moneta, esposta agli alti e bassi di una
politica locale (nazionale) che subisce le pressioni di due centri d’autorità (l’elettorato
racchiuso nei confini nazionali e le istituzioni sovranazionali europee) distinti,
eterogenei, non coordinati, difficilmente riconciliabili e spesso istruiti ad agire,
di fatto, in direzioni contrapposte, è una delle tante forme in cui si manifesta un
doppio vincolo, una sorta di morsa paralizzante tra lo spettro della sovranità vestfalica degli
Stati e le realtà della dipendenza globale, o comunque sovranazionale. Mentre scrivo
queste righe, il dibattito tra i 27 Stati membri dell’Unione Europea su come salvare
l’euro, la Grecia e forse la stessa Unione è stato aggiornato a nuova data, nonostante
il rischio di conseguenze molto gravi, addirittura di un punto di non ritorno, e la
certezza che, in attesa delle elezioni in Grecia e in Francia, regalare a giocatori
di borsa e speculatori valutari un altro mese di «liberi tutti» arrecherà all’Europa
ulteriori danni collaterali.
In breve, ciò di cui avvertiamo la mancanza è l’equivalente/omologo globale delle
istituzioni dello Stato-nazione territoriale, inventate, progettate e realizzate dai
nostri nonni e bisnonni per difendere il matrimonio tra potere e politica: istituzioni
al servizio, almeno nelle ambizioni e nelle intenzioni, dell’aggregazione e del coordinamento
di opinioni e interessi diffusi, adeguatamente rappresentati e riflessi nella prassi
di organi esecutivi, leggi e procedure legali vincolanti per tutti. Resta da chiedersi
se questa sfida possa essere affrontata, se questo compito possa essere assolto, dalle
istituzioni politiche esistenti, nate e addestrate per servire e difendere da qualsiasi
intrusione «dall’alto» un livello di integrazione tra gli uomini totalmente diverso,
nazionale. Tutto nacque, ricordiamo, all’epoca in cui i monarchi dell’Europa cristiana
si opponevano alle pretese papali di sovrintendere ai loro domini...
Per qualche secolo, quell’ordine tramandato rimase sostanzialmente in linea con le
realtà dei suoi tempi: tempi in cui potere e politica erano reciprocamente legati
nello Stato-nazione emergente, tempi di Nationalökonomie, tempi in cui la Ragione si identificava con la raison d’état. Ma oggi non è più così. La nostra interdipendenza è già globale, mentre i nostri strumenti di azione ed espressione
di volontà collettiva rimangono locali e resistono ostinatamente a qualsiasi ampliamento,
violazione e/o limitazione. Il divario tra la scala delle interdipendenze e il raggio d’azione delle istituzioni
esistenti è abissale, e si fa ogni giorno più ampio e profondo. Colmarlo o superarlo
è a mio avviso la «meta-sfida» del nostro tempo, che dovrebbe essere in cima alle
preoccupazioni degli uomini del XXI secolo e che deve essere vinta se si vogliono
affrontare seriamente, adeguatamente ed efficacemente le sfide minori ma inevitabili
che ne conseguono.
Ci sono buoni motivi per leggere le iniziative prese subito dopo la fine della Seconda
guerra mondiale da Schuman, Monnet, Spaak, Adenauer e De Gasperi per costruire sull’Europa
geografica una sovrastruttura politica come una reazione alla presunta perdita di
fiducia in se stessa dell’Europa. Quei lucidi attivisti dovevano avere ben presente
che la posizione europea nel mondo non poteva essere sostenuta con le iniziative sparse,
scoordinate e spesso incoerenti di Stati-nazione relativamente piccoli e deboli, e
comunque non sufficientemente potenti. Prima di cercare di ricostruire la reputazione
dell’Europa nel mondo occorreva riconciliare i suoi Stati-nazione, che tanto si erano
combattuti.
È presto per tirare le somme di questa storica impresa. In fin dei conti, i padri
fondatori dell’Europa politica avevano avviato un compito grandioso: la costruzione
di una solidarietà paneuropea e transnazionale, destinata a unificare le solidarietà
storiche locali, nate spontaneamente e consolidatesi nel corso del tempo, che per
secoli avevano affermato la propria identità attizzando e rinfocolando continuamente
la discordia con i rispettivi vicini. C’è chi dubita della possibilità stessa di una
simile solidarietà transnazionale, a volte definita «senso d’identità europea». Stato
e nazione, si dice, sono uniti ora e per sempre al cospetto di Dio e della storia,
e sono l’unica cornice entro cui la solidarietà umana può essere un attributo naturale
della convivenza tra gli uomini: senza un destino nazionale formatosi storicamente
esiste solo la possibilità di alleanze fragili, instabili e intrinsecamente temporanee,
stipulate attraverso tediosi negoziati e compromessi forse ragionevoli, ma accettati
senza il minimo entusiasmo.
A questa idea Jürgen Habermas ha opposto un argomento molto solido, sottolineando
che l’ordine democratico non ha bisogno di appoggiarsi a una idea radicata di «nazione»
come comunità prepolitica di sorte e di destino, e che la forza di uno Stato costituzionale
democratico si basa proprio sulla sua potenziale capacità di creare e ricreare l’integrazione
sociale attraverso l’impegno politico dei cittadini. La comunità nazionale non precede la comunità politica, ma è il suo prodotto che si riproduce costantemente e incessantemente. La tesi secondo cui senza una entità
etnoculturale consolidata non può esistere un sistema politico stabile e in grado
di autoriprodursi non è né più né meno convincente dell’affermazione secondo cui nessuna
entità etnoculturale è in grado di consolidarsi e di trovare la forza di autoriprodursi
senza disporre di un meccanismo politico autosufficiente.
Speculare sul valore relativo di queste opposte visioni appare poco proficuo, poiché
la disputa potrà essere risolta autorevolmente solo dalla volontà politica e dalle
conquiste istituzionali degli europei (la cui importanza, purtroppo, finora spicca
soprattutto per la loro invisibilità), e non da riflessioni filosofiche, per quanto
sottili o rigorose. Guardiamo in faccia la realtà: la giuria chiamata a decidere le
sorti dell’unità politica d’Europa è ancora riunita, ed è difficile dire se stia facendo
progressi o passi indietro. Dopo il trattato di Lisbona, che ha istituito le cariche
di presidente europeo e di capo della diplomazia europea, queste due posizioni sono
state occupate da individui che si distinguevano unicamente per mancanza di lucidità
o di autorità... (Ultimamente viaggio molto per l’Europa per tenere conferenze, e
chiedo spesso alle persone che incontro come si chiamano il presidente europeo e il
capo della diplomazia, ma non mi è ancora capitato che qualcuno mi desse la risposta
giusta.) Poiché non sono un profeta, né posso diventarlo grazie ai miei studi in sociologia,
devo evitare di esprimere giudizi prematuri. Tuttavia, vorrei condividere con il lettore
un’osservazione, la sola che la diagnosi sociologica mi autorizzi a fare. Quali che
siano le sue radici o la fonte del suo potere, lo stimolo all’integrazione politica,
e il fattore necessario affinché progredisca, è la visione condivisa di una missione collettiva: una missione unica, una missione (cosa ancor più importante) cui un corpo politico,
esistente o prefigurato, si senta particolarmente predestinato, e infine una missione
che esso è l’unico a poter compiere con successo. Dove trovare una simile missione
nella nostra Europa del 2012?
È chiaro che non la troveremo, per fortuna, nella potenza militare, e nemmeno nella
potenza economica, a giudicare dai miracoli economici che avvengono davanti ai nostri
occhi in altre aree del mondo, dalla Cina all’America Latina. Esiste però un ambito
in cui l’Europa ha acquisito un’esperienza storica e delle capacità che non temono
confronti. E poiché si dà il caso che quell’ambito sia letteralmente questione di
vita e di morte per il futuro del pianeta, è impossibile sopravvalutare l’eredità
che noi europei possiamo dare al mondo che si globalizza rapidamente. È questo ciò
che occorre, più di ogni altra cosa, a un mondo globalizzato, a un mondo di interdipendenza
universale, affinché esso possa aspirare a quella che Immanuel Kant chiamò la allgemeine Vereinigung der Menschheit,l’«unificazione generale dell’umanità», e, per estensione, alla pace universale, mondiale.
Questo lascito è la forma storicamente assunta dalla cultura europea, ed è anche il
nostro odierno contributo ad essa.
L’Europa è stata capace di apprendere l’arte di convivere. In Europa più che in qualsiasi
altro luogo, «l’Altro» è il vicino della porta accanto o di fronte, e gli europei,
pur divisi da differenze e alterità, sono costretti, piaccia loro o no, a negoziare
le condizioni di vicinato. È impossibile esagerare l’importanza di questa opportunità,
e della risolutezza con cui l’Europa ha saputo coglierla. Essa è diventata una conditiosine qua non,in tempi in cui solo l’amicizia e una solidarietà energica (o, come si dice oggi,
«proattiva») possono dare alla convivenza umana una struttura stabile. È alla luce
di questo genere di osservazioni che noi europei dovremmo porci la domanda: quali
azioni dobbiamo compiere per realizzare questa vocazione?
Visto dall’alto, il mondo di oggi si presenta come un arcipelago di diaspore; e le
diaspore, per loro natura, pongono grandi interrogativi sugli assunti finora indiscussi
secondo cui tra identità e cittadinanza o habitat, tra spirito e luogo, tra senso
di appartenenza e territorio esiste una correlazione ineluttabile. Tutta l’Europa
si sta trasformando davanti ai nostri occhi, anche se con differenze di luoghi e tempi,
in un mosaico di diaspore (o, più precisamente, in una collezione di arcipelaghi etnici
che si sovrappongono e si intersecano). Chi si trova su una di queste isole ha senz’altro
la possibilità di salvaguardare la propria identità nazionale senza dover ricorrere
a politiche di assimilazione forzata, come se fosse a casa propria, e forse ancor
più efficacemente, poiché nell’esilio (come profughi, emigrati o deportati) tale identità,
come direbbe Martin Heidegger, non è più qualcosa di ovvio e «dato» (zuhanden), ma un «compito» che richiede attenzione costante e sforzo vigoroso (vorhanden). A volte le diaspore, avvicinandosi o mescolandosi ad altre diaspore, nell’atto
stesso di negoziare identità desiderabili, si arricchiscono e si rafforzano a vicenda,
anziché indebolirsi.
L’opera sarà lunga, il processo durerà parecchio tempo e non produrrà risultati immediati.
Ma si potrebbe anche cercare di accelerarlo, favorendo in modo consapevole e sistematico
una confluenza di orizzonti. Nulla impedisce e rallenta il processo quanto la confusione
delle lingue ben nota ai costruttori della Torre di Babele. L’Unione Europea riconosce
ben 23 lingue «ufficiali», ma sicuramente nei diversi paesi che la compongono si legge,
si scrive e si pensa anche in catalano, basco, gallese, bretone, gaelico, casciubo,
lappone, rom e nelle infinite varianti locali dell’italiano (mi scuso per le inevitabili
omissioni, è impossibile fare un elenco completo...). La maggior parte di noi, ad
eccezione di pochi insigni poliglotti, non ha accesso a gran parte delle lingue europee,
e ciò rappresenta un handicap e una perdita per tutti. Un enorme patrimonio di saggezza
umana è stato tramandato in storie narrate in dialetti inintelligibili. Una delle
componenti più significative (ma certamente non l’unica) di questa saggezza nascosta
è che le paure, i sogni e le esperienze di genitori e figli, coniugi e vicini, capi
e dipendenti, «familiari» e «stranieri», amici e nemici, si somigliano in modo stupefacente,
a prescindere dalla lingua in cui sono stati narrati... Abbiamo tanto da imparare
gli uni dagli altri sulle tante preoccupazioni che ci accomunano. Quanta saggezza
in più avremmo, e quante possibilità in più di compiere la nostra missione nel mondo,
se una parte dei bilanci dell’Unione Europea fosse destinata a finanziare la traduzione
della letteratura di tutti gli Stati membri e a renderla disponibile sia in forma
stampata che su tutti gli altri mezzi di comunicazione comunemente utilizzati oggi...
Personalmente sono convinto che il tesoro incredibilmente ricco costituito dalla parte
più pregiata dell’esperienza e del pensiero di ogni nazione dell’Unione Europea sarebbe
il miglior investimento per il futuro dell’Europa e per il successo della sua missione.
Il futuro dell’Europa politica dipende dalle sorti della cultura europea. E questo
a sua volta, se si considera la composizione sempre più marcatamente e irreversibilmente
diasporica dell’Europa, dipende dalla nostra padronanza dell’arte di trasformare la
differenziazione culturale da passiva in attiva, di vedere in essa non qualcosa da
tollerare ma da esaltare, diaccettarla come risorsa anziché bollarla come impedimento. In realtà non è un requisito
nuovo, anche se è facile dimenticarne la storia o sminuirne e liquidarne il ruolo
passato finché si rimane fermi all’ottica dell’era della formazione delle nostre nazioni,
con il suo accento sull’omogeneizzazione culturale e la sua tendenza ad attribuire
alla cultura un ruolo emostatico, anziché vedervi un fertile terreno di cambiamento
sociale e morale.
Urge richiamare alla nostra memoria collettiva che la convivenza non conflittuale
tra culture diverse per il vantaggio reciproco è stata la norma per secoli, e ha continuato
a esserlo ancora in tempi molto recenti in molte zone di quella parte dell’Europa
geografica che si definisce «centrale». A prestar fede allo storico dell’Impero romano
Tito Livio, autore di Ab Urbe Condita, l’ascesa di Roma, che dalle umili origini seppe assurgere a statura ecumenica e
allo splendore di un impero durato sei secoli, fu dovuta alla prassi sistematica con
cui si concedevano a tutti i popoli conquistati e annessi pieni diritti di cittadinanza
e accesso incondizionato alle più alte cariche dello Stato in espansione, mentre gli
dèi venerati dai nuovi arrivati erano riconosciuti ed equiparati alle divinità del
pantheon di Roma. La tradizione romana del rispetto per le diverse culture e convenzioni,
per la molteplicità delle forme di vita anziché l’uniformità, per la solidarietà ottenuta
non a dispetto ma a causa della differenza, fu alla base della fioritura dell’Impero, ma non si trasmise come
eredità ai posteri, né ebbe più riscontro nella storia d’Europa. Se essa sopravvisse,
in forma residuale, fu solo alla periferia dell’Impero di un tempo, a debita distanza
dalle monarchie assolutistiche in lizza per la supremazia nel sistema europeo di equilibrio
tra le potenze.
Mentre l’Europa occidentale si tuffava a capofitto in un secolo di guerre di religione
sanguinose e distruttive che diffondevano i semi di un astio ereditario, una parte
significativa dell’Europa a est dell’Elba riusciva a rimanere estranea ai massacri
fratricidi, proteggendo così l’eredità della tolleranza religiosa (e perciò culturale
e sociale avant la lettre). Un eccellente esempio alternativo rispetto al sistema vestfalico fu il Commonwealth
polacco-lituano, che diede vita a uno Stato notoriamente generoso nel concedere alle
minoranze etniche, linguistiche e religiose diffuse in tutto il suo territorio autogoverno
e rispetto delle identità culturali, evitando così gli spargimenti di sangue e le
altre atrocità religiose cui andarono incontro i meno fortunati vicini occidentali,
le cui ferite ci misero secoli a rimarginarsi. Tuttavia, le scissioni provocate dai
suoi ingordi vicini – monarchie dinastiche con ambizioni nazionali più o meno scoperte
– infersero a questo peculiare Stato polacco-lituano un colpo mortale. L’autonomia
culturale, tanto delle felici maggioranze quanto delle infelici minoranze, subì a
est una russificazione forzata e a ovest una germanizzazione forse ancora più spietata,
cui si aggiunsero conflitti religiosi a intermittenza, come le offensive anticattoliche
delle Chiese ortodossa e luterana. Sfuggirono a un simile destino soltanto le regioni
meridionali, annesse da una monarchia che aspirava a conformarsi a principi simili
a quelli del Commonwealth polacco-lituano.
I libri di storia ascrivono ex post facto alla storia modernail merito di aver promosso i principi della tolleranza, ma non vi è dubbio che l’intolleranza
culturale fu inseparabile dalle due principali imprese moderne, strettamente intrecciate
tra loro: la formazione delle nazioni e degli Stati. Le lingue nazionali esigevano
la repressione e delegittimazione dei dialetti locali, le Chiese di Stato esigevano
la soppressione delle «sette» religiose, e la «memoria nazionale» aveva bisogno di
annientare la memoria collettiva locale. A questa tendenza dominante riuscì a resistere,
fino allo scoppio della Prima guerra mondiale, una soltanto delle grandi monarchie
europee, prossima al centro geografico d’Europa: l’Impero austro-ungarico, imperniato
sul principio di autonomia di gruppi etnici e culture, e governato da Vienna, all’epoca
incubatrice culturale e brodo di coltura dei più affascinanti e profondi contributi
alla filosofia, alla psicologia, alla letteratura, alla musica e alle arti visive
e drammatiche europee. Non è un caso che proprio qui mettesse radici una teoria, o
piuttosto un programma d’integrazione politica, basata sul postulato dell’autonomia
nazionale/personale: il «principio di personalità» (persönliches Prinzip), come lo avrebbe definito il più celebre dei suoi sostenitori, lo scrittore marxista
Otto Bauer, il cui scritto Die Nationalitätenfrage und die Sozialdemokratie, che si richiamava al saggio/manifesto Staat und Nation di Karl Renner pubblicato otto anni prima, presentava quel postulato come un modo
per «fare della nazione non un corpo territoriale, ma una semplice unione di persone», ossia per separare o svincolare l’esistenza di una nazione dai suoi prerequisiti
territoriali e l’integrazione politica dalle identità nazionali. Un principio analogo fu formulato e sostenuto da Vladimir Medem, esponente del Bund,
il movimento socialista ebraico nell’Impero russo, che in un saggio su «socialdemocrazia
e questione nazionale»,uscito nel 1904 in lingua yiddish, ricollegava il cambiamento da lui auspicato alle esperienze del Commonwealth polacco-lituano.
Medem proponeva tra l’altro che «i cittadini delle varie nazionalità si uniscano in
organizzazioni culturali attive in ogni regione del paese» e che «ogni cittadino dello
Stato appartenga a un gruppo nazionale la cui scelta dipenda dalle sue preferenze
personali e sia sottratta al controllo di qualsiasi organo amministrativo».
Quei postulati e quelle speranze furono tra le vittime collaterali della Prima guerra
mondiale. Quando i vincitori si riunirono a Versailles Woodrow Wilson, aggiornando
la pace di Vestfalia del 1648 e innalzando quelle idee a regola generale, proclamò
che la sovranità di una nazione sul proprio territorio era riconducibile a un principio
universale di umanità (tesi questa che, per inciso, preoccupava Hannah Arendt, convinta
che «i gruppi di popolazioni miste», tanto comuni nei Balcani ma sparsi anche nel
resto dell’Europa centro-orientale, mal si adattassero a principi come ein Volk, ein Reich). Ma nemmeno l’ignoranza o l’arroganza di Wilson riuscirono a impedire un altro tentativo,
pur tiepido e di breve durata, di trovare, con la Jugoslavia, una forma di convivenza
più adeguata alla realtà di arcipelaghi sovrapposti e intersecati di diaspore etnoculturali.
E anche quel tentativo, che non ebbe molto successo, fu circoscritto al perimetro
della Bosnia, regione caratterizzata da una lunga e pacifica coesistenza tra numerosi
gruppi etnici e religiosi, che per sopravvivere aveva bisogno proprio di un simile
contesto misto. Quel contesto superava la brutalità della pulizia etnica avviata anche
per colpa delle più alte autorità europee: in fondo era stata di Helmut Kohl, in un
momento di leggerezza, la disastrosa uscita secondo cui la Slovenia meritava l’indipendenza
perché era etnicamente omogenea: dichiarazione che fu interpretata (contro le sue
intenzioni) come licenza ufficiale di espellere e massacrare...
A tutti noi europei tocca in sorte di vivere in un’era di diasporizzazione crescente
e probabilmente inarrestabile, che promette in prospettiva di trasformare tutte le
regioni d’Europa in «gruppi di popolazioni miste». Secondo le proiezioni demografiche
più aggiornate, la popolazione dell’Unione Europea (che conta attualmente circa 400
milioni di persone) nei prossimi cinquant’anni è destinata a ridursi a circa 240 milioni,
il che renderebbe obsoleto il genere di vita che siamo abituati a condurre e intendiamo
conservare. Gli studiosi di demografia ci avvertono inoltre che se non arriveranno
nel nostro continente almeno 30 milioni di stranieri il sistema europeo non potrà
sopravvivere. Se queste previsioni hanno qualche fondamento, dobbiamo prepararci alla
possibilità che questa situazione (portata a ebollizione, con tutte le tragiche conseguenze
del caso, dall’imposizione del principio ein Volk, ein Reich) si estenda a tutta l’Europa. Tutti noi, ripeto, stiamo inesorabilmente evolvendo,
pur se a velocità diverse, verso la situazione compendiata da Hannah Arendt nell’espressione
«gruppi di popolazioni miste».
Le risposte «proattive» alla situazione emergente sono poche, fiacche e terribilmente
lente, dettate dalla pressione o dal ricatto di sporadiche esplosioni di sentimenti
tribali e attuate senza particolare entusiasmo; eppure la futura esistenza politica
e culturale d’Europa dipende dal ripensamento e ribaltamento delle tendenze degli
ultimi quattro secoli di storia europea. È tempo ormai di considerare seriamente la
possibilità che il passato della regione geografica centrale d’Europa diventi il futuro
della politica e della cultura europee. In realtà, potrebbe trattarsi dell’unico futuro
in grado di salvaguardare la civiltà europea.
La grande questione, che probabilmente influenzerà più di ogni altra l’avvenire d’Europa,
è quale di questi due opposti «dati di fatto» finirà (presto) per prendere il sopravvento:
il ruolo di salvatori assunto dagli immigranti in un’Europa che invecchia rapidamente
(ruolo che nessun politico, o quasi, osa riconoscere apertamente), oppure l’ascesa
dei sentimenti xenofobi, incoraggiata e assistita da un potere ben contento di convertirli
in voti? I pronunciamenti ufficiali dei governi e i sondaggi sulle intenzioni di voto
puntano tutti in una direzione, ma le abitudini comuni della vita quotidiana e i lenti
ma inesorabili cambiamenti «sotterranei» del contesto e delle logiche di vita sembrerebbero
indicare un’altra possibilità.
Come ha scritto José Saramago, «quello che prima era stato sfruttato, e ha perso la
memoria di esserlo stato, sfrutterà. Quello che è stato disprezzato, e finge di averlo
dimenticato, raffinerà il proprio disprezzo». Non ho ancora trovato, per quanto lo cerchi, un solo caso di vittimizzazione che
abbia nobilitato le sue vittime anziché privarle della loro umanità (e dalle crudeli
lezioni subite mia moglie Janina aveva tratto la conclusione che restare umani in
condizioni disumane è la più difficile delle imprese). Il ricordo delle proprie sofferenze,
e ancor più l’attuale fenomeno della memoria artefatta e indiretta delle sofferenze
non vissute in prima persona, non rende più generosi, gentili e sensibili ai dolori
altrui; al contrario, suggerisce ai discendenti delle vittime di essere crudeli con
i discendenti dei carnefici, ed è usato come ricevuta di pagamento anticipato per
la propria insensibilità, o come assegno in bianco per la propria disumanità. La violenza,
la disumanità, l’umiliazione e la vittimizzazione innescano quelle che Gregory Bateson
ha definito «catene schismogenetiche»: veri e propri nodi gordiani che resistono tenacemente
ai tentativi di scioglierli/spezzarli/tagliarli, per quanto abilmente si maneggi la
spada. José Saramago guardava al Portogallo, particolarmente vicino al suo cuore,
ma l’onda di xenofobia che monta in questo paese non è un’eccezione, bensì la regola.
La stessa tendenza si riscontra in quasi tutti i paesi che un tempo esportavano lavoro
(come l’Irlanda, l’Italia, la Francia, la Svezia, la Norvegia, la Danimarca o l’Olanda)
e che ora il lavoro lo importano. Da Copenaghen a Roma, da Parigi a Praga, assistiamo,
per ora senza speranze, al crescere di una marea di sentimenti neotribali ingigantita
e gonfiata dagli allarmi e dalle paure sul «nemico alle porte» e sulla «quinta colonna»,
e all’emergere di uno «spirito da fortezza assediata» che si traduce nella crescente
popolarità delle politiche che propugnano frontiere ermeticamente chiuse e delle porte
saldamente serrate.
Gli antropologi hanno riflettuto a lungo e in profondità sull’arte di trasferire informazioni
da una cultura all’altra, ma finora non sono riusciti a trovare un metodo privo di
rischi, impeccabile e riconosciuto. Tutt’al più hanno individuato ricette sul modo
di procedere, non certo garanzie assolute di arrivare a destinazione. La completa
«fusione di orizzonti» che Hans-Georg Gadamer indica come conditiosine qua non di una comprensione accurata è una prospettiva remota, forse irraggiungibile. La
prassi della comunicazione interculturale è piena di trappole, e i malintesi sono
la regola, non l’eccezione, poiché non esistono due idiomi culturali totalmente traducibili
l’uno nell’altro: affinché un messaggio venga perfettamente compreso dal destinatario,
occorre che sia in qualche modo adattato alla sua mentalità, e dunque distorto, mentre
se manterrà la sua forma originaria potrà essere compreso solo in parte. E comunque
al momento la situazione è questa: indubbiamente scomoda, ma a mio avviso non tragica
perché, nonostante ciò, siamo riusciti in qualche modo a comunicare fra culture e,
cosa ancora più importante, perché lo strenuo sforzo di migliorare la comprensione
reciproca, pur essendo – o meglio, proprio grazie al fatto di essere – condannato
all’insuccesso, si è rivelato una ricca sorgente di creatività culturale.
Tra i molti suggerimenti su «come procedere» vorrei ricordare la formula del «coinvolgimento
e distacco» di Norbert Elias, secondo cui lo sforzo di reciproca comprensione deve
barcamenarsi tra i due estremi della totale identificazione con gli Altri e della
totale separatezza da loro, tenendosi costantemente alla larga da questi due opposti.
Un altro approccio, la «resa-e-cattura» teorizzata da Kurt Wolff, consiste invece
nell’entrare il più profondamente possibile in un’altra cultura, penetrare nel suo
nucleo di unicità e ricavarne un ricco bottino... Ma entrambe queste ricette, come
del resto l’«osservazione partecipativa» di Bronisaw Malinowski, si sviluppano a
partire dal presupposto di una rigida separazione tra ricercatore e ricercato, soggetto
e oggetto dell’incontro interculturale: io, l’antropologo, intendo conoscere come
vive l’altro – ignorando la possibilità che la controparte modifichi la sua comprensione
di come viviamo io e la mia gente... Il grande interrogativo è se simili approcci
unidirezionali siano di qualche utilità in casi diversi dal sopralluogo una tantum di un solo antropologo in un paese esotico: se possano cioè essere utili ai fini
di una convivenza e collaborazione stabile tra culture diverse.
La nostra è una società sempre più ricca di diaspore, e non sorprende che molti abitanti
delle città siano preoccupati e impauriti trovandosi esposti non semplicemente a estranei
(in fondo, vivere in città significa da sempre essere fra estranei), ma a un nuovo
tipo di estranei mai visti prima, e dunque presumibilmente «non addomesticati», «selvaggi»,
forieri di pericoli ignoti. La prima reazione, «viscerale», è quella di rinchiudersi
in quelle minifortezze che sono le gated communities, i condomini recintati, e sprangare la porta; segue, a stretto giro, la richiesta
di allontanare gli estranei, che dà spazio a ogni sorta di demagoghi. Questo processo,
se non contrastato, si rafforza sempre più e tende ad autoalimentarsi: la paura porta
a evitare o interrompere le comunicazioni con chi è visto come un vettore di rischi,
ma la mancanza di comunicazione rende ancora più minaccioso lo spettro del pericolo
presunto/immaginato, ancora più estrema, radicale e in ultima analisi assoluta la
perdita di contatto. In assenza di comunicazione reciproca non c’è modo di sottoporre
le proprie fantasie a verifica empirica, e diventa praticamente impossibile elaborare
un modus co-vivendi soddisfacente per entrambe le parti, che permetta di trasformare in risorsa quella
varietà culturale delle città che oggi viene considerata un peso.
Eppure, non si può fare a meno di notare che il già notevole rigore delle norme europee
sull’immigrazione e sull’accoglienza si sta ulteriormente accentuando, e che l’atteggiamento
verso chi ha ottenuto o potrebbe chiedere asilo si irrigidisce sempre più – e tutto
questo senza che esista alcun nesso con le inquietudini che si diffondono dalla Tunisia
al Bahrain. In occasione della campagna contro gli immigrati repentinamente lanciata
da Nicolas Sarkozy poco prima del suo tentativo di rielezione, un antropologo e sociologo
autorevole come Éric Fassin commentava su «Le Monde» che lo scopo di questa iniziativa
era far «dimenticare» al resto dei francesi «il fallimento delle politiche del presidente
su tutti i fronti, dalla perdita di potere d’acquisto alla crescente insicurezza»,
e soprattutto l’uso della politica di identità nazionale come paravento per sostituire
al sistema delle protezioni sociali la mischia del mercato.
In realtà, non c’è nulla di nuovo. Gli stranieri all’interno (soprattutto quelli stabili) e gli stranieri alle porte (soprattutto quelli che ci sono molte
buone ragioni per lasciar entrare) impersonano ormai saldamente il ruolo dei «soliti
sospetti». Ogni volta che prende il via l’ennesima inchiesta pubblica su uno dei tanti
misfatti, reati, insuccessi e flop governativi, quegli estranei sono i primi a essere
portati in commissariato, ripresi avidamente dalle telecamere e mostrati in televisione
con la stessa insistenza con cui sono stati trasmessi i memorabili video degli aerei
dirottati che si abbattevano contro le Torri gemelle di New York.
In un significativo saggio breve su questi temi, Richard Sennett sostiene che «il modo migliore per entrare in contatto con la differenza
è quello di cooperare in modo informale e aperto». In quest’affermazione ogni parola
ha valore cruciale. L’aggettivo «informale» allude all’assenza di regole di comunicazione
prestabilite, poiché si confida che esse si svilupperanno spontaneamente, e che in
ogni caso siano destinate a modificarsi man mano che la comunicazione si arricchisce
per ampiezza, profondità e sostanza: «i contatti tra persone con abilità o interessi
diversi sono ricchi quando avvengono in modo disordinato e deboli quando vengono regolati».
«Aperto» significa che l’esito dipende dalla comunicazione stessa (presumibilmente
prolungata) e non è stabilito unilateralmente e in anticipo: «si tratta di scoprire
com’è l’altro senza sapere dove questo ci porterà; in altri termini, è bene evitare
la ferrea regola utilitaristica che fissa a priori un obiettivo, un prodotto, un risultato
politico». Infine, il concetto di «collaborazione»: «Si suppone che tutte le parti
in causa traggano benefici dallo scambio, e non che una di esse vinca a spese delle
altre». Aggiungerei che occorre accettare il fatto che in questo gioco i guadagni,
o le perdite, sono concepibili soltanto insieme. O vinciamo tutti, o perdiamo tutti. Tertium non datur.
Così Sennett sintetizza la propria raccomandazione:
Gli uffici e le strade diventano disumani quando vi regnano la rigidità, l’utilitarismo
e la competizione, mentre si umanizzano se promuovono interazioni informali, aperte
e collaborative.
Ritengo che tutti noi, decisori o destinatari, vittime o beneficiari delle scelte
politiche, possiamo e dobbiamo imparare a definire le nostre strategie a partire da
questo precetto uno e trino, sintetico ma onnicomprensivo, descritto da Richard Sennett.
E noi europei dobbiamo assimilarlo per metterlo in pratica, ma soprattutto per trasmetterlo
a tanti altri, a tutti coloro che sono chiamati, o aspirano, a imparare da noi.