10.
Sulla scuola di vita postmoderna
Margaret Mead, riassumendo decenni di riflessioni sui modi di vivere di numerose popolazioni
vicine e lontane, giunge alla seguente conclusione generale:
Così la struttura sociale e il modo in cui l’apprendimento è strutturato – il modo,
cioè, in cui passa dalla madre alla figlia, dal padre al figlio, dal fratello della
madre al figlio della sorella, dallo sciamano al novizio, dallo specialista in mitologia
all’aspirante specialista – determinano, molto al di là dell’attuale contenuto dell’apprendimento,
sia il modo in cui gli individui impareranno a pensare, sia come possa venire usato
e condiviso il bagaglio di conoscenza, cioè la somma dei diversi campi di capacità
e conoscenza, che è stato possibile ottenere intervistando separatamente ciascun membro
delle società in esame.
L’autrice, pur non richiamandosi direttamente al concetto del deuterolearning (deutero-apprendimento, o apprendimento di secondo grado) forgiato un quarto di secolo
prima dal suo compagno di vita Bateson, gli tributa comunque un omaggio, collocando
al primo posto nel processo di apprendimento e di insegnamento il contesto sociale,
il modo di trasmettere capacità e sapere, e attribuendogli un peso nettamente superiore al
contenuto della trasmissione stessa. Se il contenuto dell’insegnamento, ossia il contenuto di
ciò che Bateson chiama il protolearning (proto-apprendimento, o apprendimento di primo grado), può essere visto direttamente,
protocollato e perfino pianificato, l’insegnamento di secondo grado avviene per così
dire in modo subliminale, perlopiù inavvertibile da chi vi partecipa e indipendente
dal tipo di sapere trasmesso o assimilato. Nel corso di questo secondo insegnamento,
di rado pienamente controllato dagli insegnanti titolati o pretesi tali, l’uomo elabora
in sé capacità di vita infinitamente più importanti dei più preziosi bocconi di sapere
consapevolmente serviti nel processo di protolearning: «l’uomo acquista l’abitudine di cercare contesti e sequenze di un solo genere, piuttosto
che di molti: l’abitudine di porre in un dato modo l’accento sul corso degli eventi,
facendo di certe sequenze degli episodi dotati di senso».
In seguito Bateson metterà i punti sulle “i” e definirà il deuterolearning come l’«apprendere ad apprendere», presentandolo come l’indispensabile correzione
dell’«apprendimento di primo grado» che, di per sé, formerebbe una mentalità fossilizzata
e incapace di cambiare orientamento quando la situazione lo richieda. Poi, molto tempo
dopo, Bateson avvertirà il bisogno di sovrapporre all’insegnamento di secondo grado
un apprendimento «di terzo grado» consistente nell’acquisire la capacità di modificare
l’insieme delle alternative alle quali la persona si espone nel processo del secondo
apprendimento. L’apprendimento di secondo grado, osserva Bateson, ha un valore di
adattamento solo nella misura in cui lo studente ha il diritto di aspettarsi che i
fenomeni peraltro contingenti si sistemeranno secondo una forma determinata; quindi
l’utilità o la dannosità delle abitudini acquisite nel processo dell’apprendimento
di secondo grado non dipende tanto dallo zelo e dai talenti di chi studia, ma dalle
caratteristiche dell’ambiente nel quale vive. Mentre i primi due gradi del processo
di insegnamento sono in un certo senso conformi al genere di natura dell’uomo e accompagnano
ogni tipo conosciuto di cultura, invece la situazione che esige un apprendimento di
terzo grado può avere e, secondo Bateson, spesso ha, conseguenze patogene,che conferiscono alla personalità tratti schizofrenici.
Della postmodernità possiamo dire che essa ha innalzato a rango di norma ciò che,
alla fine della sua vita, Bateson vedeva ancora, o meglio presentiva, come un’anomalia:
una condizione malsana e contrastante con l’attrezzatura evolutiva propria del genere
umano. L’uomo postmoderno non può fare a meno del terzo grado di apprendimento. Non
può più dire, come l’eroe shakespeariano: «C’è del metodo in questa follia». Se spera di scovare un disegno logico nel groviglio degli eventi
casuali, resterà amaramente deluso. Se le abitudini che ha elaborato sono predisposte
alla ricerca, e quindi anche all’esistenza di un tale modello, lo aspettano solo guai
e dispiaceri. L’uomo postmoderno deve quindi mirare non tanto a rintracciare una logica
nel caos degli eventi e qualche forma geometrica nell’accozzaglia di macchie, quanto
invece a conoscere l’arte di smontare o sparpagliare le forme a comando, senza scrupoli
e in un colpo solo; l’arte, cioè, di comportarsi nei confronti dell’esperienza come
un bambino che giochi con il caleidoscopio. Il successo dell’uomo postmoderno nella
vita dipende dalla sua rapidità nello sbarazzarsi dei modelli, piuttosto che nell’acquistarne. La cosa migliore per l’uomo sarebbe di sgombrare definitivamente la propria mente
dalla necessità di formarsi modelli. La consuetudine acquisita durante l’insegnamento
di terzo grado è quella di fare a meno delle consuetudini.
Mead, consapevole dell’onnipresenza dell’apprendimento di secondo grado, ha comunque
tratteggiato il processo dello studiare e dell’insegnare come una trasmissione di
conoscenza “da – a”: da madre a figlia, da maestro ad allievo, da stregone ad apprendista
stregone. In questo quadro, a ogni briciola di sapere sono apposti gli indirizzi del
mittente e del destinatario. L’unica a non essere prevista nel quadro è l’eventualità
di una situazione dove non sia chiaro chi è il maestro e chi lo studente, chi possiede
il sapere e chi lo deve acquisire, quale sia il sapere degno di venire appreso e quello
invece da evitare; in altre parole, non è prevista né una situazione priva di struttura,
né quella, apparentemente opposta ma identica negli effetti, dotata di un eccesso
di strutture: si tratta di una situazione sottoposta a tali, tante e così scoordinate
pressioni strutturatrici da far sì che, in un certo senso, le strutture si cancellino
e si annullino a vicenda.
È una situazione pittorescamente descritta qualche tempo fa da Cornelius Castoriadis.
Dopo aver affermato che «la società democratica è un’immensa istituzione pedagogica,
una fabbrica di continua autoeducazione dei cittadini», e che la democrazia non può
esistere in nessun’altra forma, dato che «deve sempre richiamarsi alle azioni trasparenti
e all’illuminata opinione della massa», Castoriadis osserva che «oggi si verifica
una situazione esattamente contraria»:
i muri della città, i libri e gli spettacoli educano – ma oggi soprattutto diseducano
(miseducate) – i cittadini. Paragonate l’insegnamento che i cittadini ateniesi (donne
e schiavi compresi) ricevevano dalla rappresentazione delle tragedie, con il tipo
di conoscenza oggi consumata dallo spettatore di trasmissioni quali “Dinasty” o “Chi
l’ha visto?”.
Mi rendo perfettamente conto che in quanto ho detto finora gli ascoltatori non scopriranno
niente che già non sappiano. Sto infatti parlando alla presenza di un dotto consesso
di pedagogisti e filosofi dell’educazione, i cui lavori – sia quelli già pubblicati,
sia quelli in preparazione – passeranno alla storia delle scienze pedagogiche sotto
l’onorifica insegna della “Scuola di Pozna, Toru e Danzica”. I problemi cui finora ho accennato sono già stati ampiamente analizzati,
molto meglio di quanto io possa fare, negli scritti di Zbigniew Kwieciski, Zbyszek Melosik, Tomasz Szkudlarek e Lech Witkowski. Essi mi hanno insegnato
molto; nei loro lavori ho trovato non solo una lucida e penetrante analisi delle situazioni
nelle quali oggi i pedagogisti devono operare, ma anche concreti tentativi di formulare
finalità educative e istituire mezzi studiati sulla misura della nuova, postmoderna,
condizione umana. Tutti insieme, costoro mi hanno permesso di riflettere su che cosa
significhi, nelle condizioni attuali, l’«educazione emancipatoria» (Melosik) o l’«educare
per la libertà» (Szkudlarek). Le considerazioni che seguiranno, Signori, sono nate
per effetto del Vostro influsso. Vi prego di considerarle come un riassunto delle
riflessioni suscitate dalla lettura dei Vostri lavori; una semplice glossa, il commento
apposto non da un pedagogista di professione, ma da un osservatore a latere, sociologo per titolo e più ancora per temperamento, alle questioni di cui professionalmente,
e con così rilevanti risultati, Vi occupate. Si tratta oltretutto di una raccolta
di pensieri non certo sistematici e ben lontani dal soddisfare non solo gli ascoltatori
ma anche lo stesso autore.
Desidero cominciare da due caratteristiche dell’esistenza postmoderna, a mio avviso
responsabili dei disagi della pedagogia odierna.
La prima è l’aprirsi di ogni “ambiente pedagogico” e il reciproco mescolarsi degli
ambienti. Nei tempi premoderni e per la maggior parte della storia moderna, l’ambiente
pedagogico (inclusi anche, come suggerisce Castoriadis, i muri della città, gli spettacoli
e gli accadimenti) era, dal punto di vista dell’“oggetto dell’educazione” o di ogni
categoria di oggetti, chiaramente delineato e accuratamente separato dagli altri.
Di solito l’ambiente pedagogico restava racchiuso all’interno del villaggio o del
quartiere cittadino; il flusso delle comunicazioni interambientali era esile; una
certa breccia in quel muro la producevano i libri, ma erano accessibili solo a una
minoranza, pochi vi ricorrevano e meno ancora riuscivano a trarne profitto. Per la
maggior parte degli umani oggetti pedagogici, il prete e il maestro erano le uniche
finestre sul mondo, gli unici trasmettitori di informazioni extrambientali nonché
mediatori di una cultura più vasta. Ogni programma educativo poteva quindi avere il
proprio destinatario e assumere nei suoi confronti un atteggiamento monopolistico.
Per gli ambienti educativi orientati su basi locali e divisi per categorie, i mezzi
di trasmissione di massa furono ciò che le trombe di Giosuè erano state per le mura
di Gerico. Le pareti divisorie tra le enclaves pedagogiche crollarono, e assieme a esse sparì la possibilità di dirigere il processo
di studio, la scelta pianificata degli influssi educativi e dei programmi di insegnamento
guidato. Per farla breve, svanì la possibilità di controllare efficacemente l’ambiente
da educare, quella possibilità che finora era stata alla base di ogni teoria e strategia
pedagogica.
L’immaginazione pedagogica dei tempi del moderno Sturm und Drang non oltrepassava l’ideale di chiusura e controllo accuratamente descritto da Foucault;
una continua e implacabile sorveglianza visiva e un terreno abbastanza esiguo da poterlo
sempre tenere d’occhio erano a quei tempi la condizione sine qua non di ogni controllo sociale, e quindi di ogni guida del comportamento umano. Nessuno
ha mai espresso questo ideale in modo chiaro e trasparente (poiché a nessuno esso
sembrò mai tanto prossimo a realizzarsi) quanto gli scalmanati legislatori della rivoluzionaria
Convenzione francese, decisi a buttare nella spazzatura tutto quello che avevano trovato
e a ricominciare la storia da zero. Non vedevano l’ora di dare il via al nuovo corso:
visto che bisognava comunque ripartire daccapo, non c’era motivo di traccheggiare;
il rimandare a domani la nascita dell’“uomo nuovo” non si spiegava se non come una
congiura dell’oscurantismo e delle forze controrivoluzionarie alleate contro il progresso.
Le varie leggi sull’educazione nazionale si accavallavano una sull’altra, una più
radicale e audace dell’altra; nessuna soddisfaceva le ambizioni sempre crescenti,
ognuna veniva accusata di mancare di coraggio e finiva abrogata a favore di un’altra
ancora più ardita, prima di riuscire ad arrivare alle prefetture provinciali e diventare
esecutiva.
Quello che comunque appare interessante dal punto di vista delle nostre considerazioni,
è l’assoluto silenzio di tutti i vari decreti in merito al contenuto dell’insegnamento.
Gli autori delle leggi, quasi fossero coscienti del dictum di McLuhan sui mezzi di trasmissione che sono essi stessi il messaggio, si occupavano
soltanto del regime, delle condizioni nelle quali l’insegnamento doveva effettuarsi, non della sua sostanza.
Dobbiamo allo sforzo gigantesco di Bronisaw Baczko la raccolta dei frutti del pensiero
pedagogico rivoluzionario francese. Ecco una manciata di esempi, scelti alla rinfusa
dalla raccolta da lui pubblicata.
Il progetto educativo nazionale redatto da Lepeletier e presentato alla Convenzione
dallo stesso Robespierre, probabilmente per sottolinearne l’importanza, si interessava
esclusivamente alla struttura dell’ambiente pedagogico; esponeva nei particolari le
regole del regime scolastico; voleva che tutto quanto riguardava la vita degli allievi
fosse trasparente, che gli educatori li tenessero per tutto il giorno sotto osservazione
e che nessun particolare della loro vita sfuggisse alla regolamentazione. Gli allievi
– sosteneva Robespierre – saranno
sempre a portata di vista, sempre sottoposti all’osservazione di qualcuno; ogni ora
avrà il suo impiego: il sonno, l’alimentazione, il lavoro, l’esercizio, il riposo;
l’ordine di vita sarà regolato in modo sempre uguale [...] Un salutare e uniforme
regolamento stabilirà ogni particolare, e la facilità a eseguirne le prescrizioni
garantirà buoni risultati [...] [Creeremo] una nuova razza di individui forti, laboriosi,
amanti dell’ordine e disciplinati, separati, come da un muro invalicabile, da ogni
contatto impuro con i pregiudizi del nostro vecchio genere.
In che cosa dovesse consistere tale isolamento veniva spiegato in modo ancora più
particolareggiato nel successivo progetto della struttura educativa, presentato poco
dopo alla Convenzione da Barère:
l’educazione repubblicana verrà raggiunta con l’aiuto dell’esperienza, desunta dall’ordine
trasparente di una controllata eguaglianza e da puri e durevoli costumi; con l’aiuto
della divisione degli allievi, secondo il sistema metrico rivoluzionario, in migliaia,
centinaia e decine; grazie all’assegnazione, mediante l’estrazione a sorte, delle
funzioni di decurioni, centurioni e miliari; grazie al divieto per gli allievi di
possedere un solo centesimo di denaro proprio [...] Ai discepoli sarà proibito di
venir avvicinati a meno di dieci passi, anche quando converseranno con i propri genitori.
Per usare il linguaggio di Bateson, agli autori delle leggi premeva soprattutto l’insegnamento
di secondo grado: l’influsso educativo di un ambiente accuratamente pianificato dove
il sapere viene trasmesso e assimilato, piuttosto che il sapere in sé o addirittura
la premurosa scelta di informazioni che esso deve contenere. La scuola doveva essere
“repubblicana”, nel senso che doveva preparare i suoi allievi alla vita repubblicana.
E, per adempiere a questa funzione, la scuola doveva essere una miniatura del “mondo
adulto”: una miniatura dove le caratteristiche ideali di tale mondo si potessero realizzare
ed evidenziare in modo più completo e con più nettezza che non nella società allargata,
tanto più difficile da sorvegliare quanto più vasta. L’ideale pensato per la nazione
come insieme, ma realizzato compiutamente e senza compromessi nella scuola, si esprimeva
soprattutto nella regolamentazione di ogni minimo particolare. Niente poteva essere
abbandonato al destino, niente lasciato a se stesso, niente affidato al capriccio
degli allievi. Ogni istante della vita doveva avere un significato prestabilito, ognuno
di essi doveva servire a qualcosa di socialmente importante, in modo da far assimilare
agli allievi il principio significante: servire le cose importanti. Occorreva quindi
controllare anzitutto i canali di comunicazione. L’educatore, guardiano delle regole
vigenti, doveva essere anche l’unica fonte di sapere. L’ammaestramento alle abitudini
di vita, la trasmissione delle informazioni e la produzione delle capacità pratiche
dovevano confluire in un unico processo, gestito e controllato dagli stessi insegnanti-educatori-guardiani.
Per usare la definizione di Jean-Marie Benoist, i legislatori della Convenzione rivoluzionaria
erano in preda al delirio della carte blanche, delirio caratterizzato da un’estrema impazienza, dal bisogno irrefrenabile di fare
tutto in una volta, da un’assoluta certezza del fine da perseguire, dall’indifferenza
per i costi e dalla tendenza a pronunciare senza esitazioni ad alta voce professioni
di fede che persone dai medesimi orientamenti, ma più moderate, si sarebbero trattenute
dal pronunciare pubblicamente, oppure avrebbero corredato di riserve.
La gioventù proclama spesso a gran voce ciò che l’età matura realizza senza parlarne.
Vista dalla prospettiva dell’era moderna, la gioiosa creatività della Convenzione
era nel tempo stesso ingenuamente giovanile e giovanilmente sincera. Ma quei principi,
spinti all’assurdo dai visionari della Convenzione, dovevano – in forma più mitigata
– guidare quasi tutta la pedagogia moderna. Anche certe loro scoperte sono rimaste
parte del nostro patrimonio comune: per esempio, che gli esiti pedagogici vengono
decisi, più che da ogni altro fattore, dal sistema entro il quale gli individui vivono
e crescono e dal modo in cui sperimentano tale sistema; insomma si può influire consapevolmente
su tali effetti solo tenendo saldamente il sistema sotto controllo.
Oggi questa condizione che regola l’effetto educativo dell’ambiente non viene esaudita.
Oggi la conoscenza è extraterritoriale; le stesse informazioni, trasmesse nello stesso
modo, sono accessibili a tutti, indipendentemente dal luogo di residenza e dall’appartenenza
di gruppo; il confrontarsi con esse non richiede alcuna condizione preliminare, neanche
il superare la soglia dell’alfabetizzazione. Le fonti del sapere sono ovunque e in
nessun luogo; in nessun luogo, nel senso che sono venuti a mancare i luoghi privilegiati
provvisti del monopolio della conoscenza affidabile e degna di essere posseduta; ovunque,
nel senso che, in questa mancanza di fonti privilegiate del sapere (o, in altre parole,
di fonti del sapere privilegiato), ogni unità di informazione, indipendentemente dal
contenuto e dalla provenienza, vale quanto le altre. In realtà l’unire in una sola
persona e in un solo luogo educazione, addestramento e insegnamento, aspetti uni e
trini dell’istruzione, è esistito solo nei progetti degli utopisti senza mai realizzarsi
nella vita; oggi tuttavia la reciproca separazione e l’autonomia delle funzioni appare
evidente e viene quasi universalmente riconosciuta come un fatto compiuto e irrimediabile.
Mezzo secolo fa, riflettendo sulla pratica dell’educazione moderna, Bateson concordò
con l’osservazione di Mead circa il fatto che «esiste una discrepanza – una discrepanza
fondamentale – tra l’“ingegneria sociale”, manipolazione della gente allo scopo di
raggiungere una società programmata a priori, e gli ideali della democrazia, “valore
superiore e responsabilità morale della persona umana individuale”».
Bateson accenna alla «tragedia» che di solito si verifica ogni qual volta «gli uomini
dichiarano che “il fine giustifica i mezzi”, quando si tratti di realizzare il regno
di Dio o qualche altro progetto di paradiso in terra». Essi ignorano il fatto che
«gli strumenti della manipolazione sociale non sono martelli o giraviti... Nella manipolazione
sociale i nostri strumenti sono persone, e le persone apprendono e acquisiscono abitudini
più sottili e penetranti dei trucchi che il pianificatore insegna loro». Gli educatori dicono una cosa, ma il modo in cui la dicono e l’ambiente nel quale
la dicono affermano tutt’altro. Non si tratta di un errore né di cattiva volontà da
parte loro. Sono le innate aporie del progetto moderno che si riflettono come in uno
specchio nel ruolo, lacerato dalle contraddizioni, dell’insegnante/educatore.
Scopo generalmente riconosciuto dell’educazione moderna era quello di formare un uomo
adatto alla vita “repubblicana”, come dicevano i legislatori della Convenzione, o
alla vita “democratica”, come dicevano quelli che da loro hanno ereditato il potere.
Per poter vivere in quel modo, l’uomo doveva possedere la capacità della libera –
ma anche ragionevole – scelta, assumere la responsabilità delle sue azioni e un atteggiamento
creativo nei confronti del mondo. Tali infatti erano gli insegnamenti che fin dall’infanzia
gli prodigavano genitori, insegnanti e superiori. Ma tutte le esperienze attinte dalle
circostanze in cui questi insegnamenti si diffondevano, spingevano l’uomo nella direzione
esattamente opposta. Gli insegnavano a nascondersi dietro alle scelte altrui, in particolare
dietro alle scelte più potenti di lui; a cedere la responsabilità a chi sa meglio
e può di più; a cercare la sicurezza della routine piuttosto che il rischio della
creazione. Da qui appunto nasceva la divergenza che lasciava perplessi e inquieti
Mead e Bateson.
L’odierna situazione pedagogica è lacerata da contraddizioni non certo minori: tuttavia
si tratta di contraddizioni di un genere diverso da quelle di una volta. Come prima,
anche ora le incoerenze che paralizzano il processo educativo non sono frutto di errori
o ignoranze dei pedagogisti. Come prima, esse rispecchiano in miniatura le aporie
della società dove si svolge l’educazione. L’odierna situazione pedagogica globale,
controllata solo in piccola parte dai pedagogisti di professione ma che influisce
in modo decisivo, mediante l’apprendimento di secondo e terzo grado, sulla forma e
sulle predisposizioni umane, non solo induce alla libertà di giudizio e di scelta,
ma in un certo senso vi costringe: condanna gli uomini ad assumere decisioni sotto
la propria responsabilità. D’altro canto rende anche estremamente difficile l’approfittare
di tale libertà per costruirsi una “personalità provvista di giroscopio”, autoguidata
e autoregolata.
La “rivoluzione pedagogica” che ha accompagnato la nascita della società moderna si
è svolta nei paesi dell’Europa occidentale tra il XVI e il XVIII secolo, anche se
poi le è occorso un altro secolo perché i suoi frutti giungessero a completa maturazione.
La rivoluzione consisté in tre profonde trasformazioni: nell’evidenziare una certa
parte del processo vitale come “periodo dell’immaturità”, irto di particolari pericoli
tuttavia caratterizzato anche da suoi peculiari bisogni, esigenti un regime e procedure
specifici; nella separazione spaziale di coloro che di tali procedure erano oggetti
e nell’affidarli alle cure di una categoria a sé di specialisti; infine, nell’addossare
alle famiglie la responsabilità di una particolare supervisione per un vantaggioso
e positivo processo di maturazione.
Come ha osservato Philippe Ariès, non solo le tele più popolari di Brueghel, ma tutte le testimonianze iconografiche
concordano nel mostrare che, fino all’intero XVI secolo, in Europa il bambino veniva
considerato come un “adulto di taglia minore”. Nel bambino non si vedeva niente di
particolare, eccetto la muscolatura più debole e una minore presenza di spirito. I
bambini presenziavano a tutte le attività compiute dagli adulti. Non esisteva il concetto
della stanza dei bambini né di una camera da letto separata per i genitori. Non esistevano
giochi riservati agli adulti e giochi da bambini. Il mondo degli adulti non aveva
segreti per i bambini. Il non prendere in considerazione la differenza generazionale
si manifestava anche a livello simbolico: non esistevano segni culturali che indicassero
uno status speciale del bambino. I bambini indossavano di solito gli abiti smessi
dai familiari maggiori di loro e se, nelle famiglie più abbienti, veniva loro cucito
qualche vestito su misura, esso copiava per filo e per segno la moda adulta del tempo.
Tutto ciò cominciò a cambiare più o meno dalla metà del XVII secolo, prima negli strati
sociali più alti e poi, gradualmente – per osmosi, imitazione, concorrenza interclassista
o ricaduta culturale – anche in quelli più bassi. Nelle case si riservarono aree alle
quali i bambini non avevano accesso e dove gli adulti praticavano attività vietate
agli occhi infantili; ai bambini si dedicarono un regime di vita separato e occupazioni
studiate solo per loro; si cominciò a vestirli in modo diverso, sottolineando il loro
status inferiore e il regime più severo a essi riservato, mediante indumenti che imitavano
l’abbigliamento delle classi inferiori (per esempio i pantaloni, in quel tempo indossati
dagli artigiani) oppure le vesti femminili.
Secondo Ariès e altri studiosi dei cambiamenti di costume, dietro al nuovo modo di trattare i bambini stava la “scoperta” del bambino come
una creatura provvista di suoi particolari ed esclusivi attributi. Tale scoperta era
la stretta conseguenza del nuovo modo di vedere la realtà sociale, secondo il quale
la “maturazione”, come ogni altro processo, non è e non può essere un processo naturale,
e quindi non può essere lasciato alla natura. Bisogna creare per il bambino un mondo
a parte e, soprattutto, isolare spazialmente e temporalmente questo mondo da quello
degli adulti. Bisogna anche prolungare il più possibile la permanenza dentro di esso;
insieme all’idea positiva della maturazione sotto controllo, si affaccia il concetto
negativo della “maturazione precoce”, chiaramente connessa a una connotazione patologica.
Il bambino viene visto come una creatura fragile e bisognosa di cure particolari:
innocente ma, proprio a causa della sua innocenza, esposto al pericolo della “corruzione”
e incapace di far fronte al pericolo da solo. Il bambino non può resistere con le
sue sole forze alle tentazioni di cui è pieno il mondo degli adulti e, per poter crescere,
ha bisogno dell’aiuto degli adulti, ma soprattutto del loro controllo: una supervisione
pianificata, mirata a sviluppare la ragione del bambino come una specie di guarnigione
lasciata dal mondo degli adulti nell’interno della sua personalità. Tutto ciò riguardava
soprattutto l’ambiente studiato apposta per la permanenza del bambino. La cosa principale
era comunque quella di non lasciare nessuna età fuori di questo ambiente organizzato
su misura e sempre supervisionato.
Come afferma Joseph F. Kett riferendosi a tutte le sfere sociali eccettuate l’aristocrazia
e la borghesia ricca, ancora all’inizio del XIX secolo «l’ambiente a diretto contatto
con i giovani era quasi sempre casuale e privo di strutture, anziché pianificato e
regolato». Tale stato di cose cominciò tuttavia a essere considerato sempre più inammissibile:
quanto maggiori fossero l’ordine e la struttura, quanti più aspetti dell’ambiente
fossero messi sotto controllo, quanta più parte della vita infantile fosse inserita
in un “ruolino quotidiano”, meglio sarebbe stato. Collocare i bambini delle classi
inferiori sotto la vigilanza del capomastro di una fabbrica era universalmente considerato
un salutare intervento educativo; occorreva ora tenerli “lontani dalla strada”, ambiente
per definizione fuori controllo, durante le poche ore in cui l’occhio del capomastro
non vigilava. Da qui il movimento delle scuole parrocchiali domenicali, largamente
introdotte non tanto con intenti didattici, quanto per tenere lontane dal male creature
soggette alla corruzione.
Esisteva una categoria di adulti potenzialmente in possesso dei migliori titoli per
controllare il processo di maturazione attraverso una minuziosa organizzazione dell’ambiente
e l’accesso quotidiano a ogni aspetto della vita dei bambini: i genitori. Oggi il
ruolo cruciale dei genitori e dell’ambiente familiare nel processo educativo ci appare
ovvio, ma agli albori dell’era moderna esso era a malapena un miraggio baluginante
all’orizzonte, un fine da raggiungere. La famiglia non era considerata particolarmente
affidabile quando ancora la corporazione – la società relativa al luogo, al rango
e al mestiere – si prendeva cura di integrare e riprodurre l’ordine sociale, e quando
la reciproca sorveglianza tra vicini era il principale, e di solito sufficiente, mezzo
di controllo sociale. I figli dei nobili si conquistavano gli speroni di cavaliere
prestando servizio lontano dalla loro casa natale; i figli di capomastri e mercanti
diventavano a loro volta capomastri e mercanti facendo gli apprendisti in città lontane
da quella di nascita. A partire dal XVIII secolo, maestri salariati e accademie per
i figli dei nobili, seguite a ruota da scuole con collegio per i rampolli dell’alta
borghesia cominciarono a sostituire i castelli, i laboratori e gli uffici di altra
gente, ma tale processo, di per sé, non bastava ancora a porre la famiglia nel centro
della funzione educativa. Altri processi paralleli ostacolavano l’assunzione di tale
ruolo: con la separazione tra casa e lavoro – tra la sfera degli interessi e il luogo
dove guadagnarsi la vita – i contatti personali tra padre e figli diventavano ancora
più rari di prima. Per quanto riguardava le classi inferiori, povere o del tutto prive
di mezzi, ancora nella metà del XIX secolo era difficile parlare di famiglia e di
vita familiare; sia il padre sia la madre trascorrevano la giornata fuori di casa
per guadagnarsi il pane; anche dai bambini ci si aspettava che, già in tenera età,
facessero la stessa cosa.
Il chiudersi della famiglia dentro la casa natale, l’isolarsi dal resto del vicinato,
il creare una fitta rete di rapporti parentali intimi ed emotivamente intensi, l’assumersi
da parte della famiglia il ruolo di principale referente nel processo educativo, non
fu quindi un processo naturale né tantomeno spontaneo. Il trasformarsi della famiglia
in “vasi capillari” del sistema sociale di controllo e regolamentazione, minuziosamente
analizzato da Foucault, richiedeva molteplici interventi legislativi, una pressione
sociale coordinata e un intenso propagandare le nuove forme di intima convivenza.
La riorganizzazione dello spazio e del sistema di controllo sociale attraversava vari
fronti e vi coagivano numerosi fattori fino a quel momento non coordinati, talmente
numerosi da non poter essere citati in questa sede. Mi concentrerò quindi (ispirandomi
in questo caso ai lavori di Foucault) su uno solo dei molti fattori della riorganizzazione:
la ridefinizione sociale del sesso e dei partner sessuali.
Levin L. Schücking, nel suo studio, oggi diventato un classico, sul formarsi della
famiglia moderna, ha esaminato il nascere del modello culturale dell’amore coniugale
e, in particolare, la mobilità dell’impulso sessuale al fine di cementare un’unione
duratura e un nucleo familiare. L’amore coniugale
non si riduceva a un sentimento romantico capace, per sua natura, di suscitare nell’amante
uno stato di ebbrezza voluttuosa, solo per lasciarlo prima o poi immergersi nuovamente
nelle banali faccende quotidiane. L’amore coniugale significava una sublimazione di
tutto l’essere, trasformava persino le questioni più comuni e ordinarie; da esso i
partner traevano la coscienza di poter fare affidamento uno sull’altro e di poter
sempre contare sull’appoggio dell’altro per quanto riguardava il proprio rispetto
e la propria dignità.
Schücking considera una metafora particolarmente felice di tale concetto il paragone,
uscito nella metà del XVII secolo dalla penna di Daniel Rodgers, della coppia coniugale
a due persone che tagliano un tronco d’albero con una grossa sega: «ciascuno dei due
dipende completamente dall’abilità dell’altro». Ma non si trattava solo di segare
alberi o di altre simili banalità. Marito e moglie erano anche “compagni di viaggio”
nel pellegrinaggio terreno verso l’eternità, quindi dovevano aiutarsi a vicenda per
reprimere gli impulsi peccaminosi ed evitare le varie trappole del male.
Come ha chiarito Foucault nel suo studio rivelatore sulla storia della sessualità,
il sesso in tutte le sue manifestazioni, sia quelle conosciute da sempre sia quelle
recentemente scoperte o costruite, serviva all’articolazione dei nuovi-moderni meccanismi
di potere e di controllo sociale. I discorsi medici e pedagogici del XIX secolo costruirono
in pieno il fenomeno della “sessualità infantile” che poi, ex post, sarebbe divenuto la pietra angolare della psicoanalisi freudiana. Il ruolo centrale
in tale articolazione lo assumeva il panico suscitato dalla tendenza dei bambini a
masturbarsi, vista simultaneamente come inclinazione naturale e come malattia, come
vizio inestirpabile e come pericolo dalle conseguenze patologiche addirittura incalcolabili.
I bambini andavano difesi con tutte le forze dalla tentazione dell’onanismo; ma, per
farlo, bisognava informarli circa l’esistenza del fenomeno, subodorare la presenza
di esso in ogni cambiamento d’espressione del fanciullo, subordinare il regime della
vita infantile alla necessità di vigilare incessantemente sul pericolo e di interpretare
sia i diritti sia i doveri infantili secondo le categorie dei sintomi di tale minaccia.
Attorno alla lotta contro la minaccia dell’onanismo si costruì un meccanismo completamente
nuovo di minuzioso controllo parentale, medico e pedagogico. Come dice Foucault, «il
controllo della sessualità infantile prende di mira [l’obiettivo – n.d.t.] attraverso una diffusione simultanea del proprio potere e dell’oggetto sul quale
si esercita»; l’incoercibilità della tentazione onanistica giustificava il rigore
del controllo.
dovunque [questi piaceri, n.d.t.] rischiavano di manifestarsi, si sono installati dispositivi di sorveglianza, posti
tranelli per costringere alla confessione, imposti discorsi inesauribili e correttivi;
si sono messi in allarme i genitori e gli educatori, insinuato in loro il sospetto
che tutti i bambini siano colpevoli, e la paura di essere essi stessi colpevoli se
non li sospettano abbastanza; li si è tenuti in guardia dinanzi a questo pericolo
ricorrente; si è prescritto la loro condotta e ricodificata la loro pedagogia; nello
spazio familiare sono stati ancorati i punti d’innesto di tutto un regime medico sessuale.
Il “vizio” del bambino è più un supporto che un nemico.
Osserviamo che il tipo di sorveglianza e di controllo messo in atto, e mantenuto in
vita dal panico che la masturbazione infantile suscitava, si intonava perfettamente
alla generale tendenza del moderno potere “panottico”. Anzi era a tal punto sintomatico
di tale tendenza, che lo si poteva usare come campione per studiare le caratteristiche
generali dei moderni meccanismi di creazione dell’ordine sociale.
Più che dei vecchi divieti, questa forma di potere ha bisogno per esercitarsi di presenze
costanti, attente, curiose anche; presuppone una prossimità, procede attraverso esami
ed osservazioni insistenti; richiede uno scambio di discorsi, tramite domande che
estorcono confessioni e confidenze che vanno al di là delle richieste. Implica un
approccio fisico ed un gioco di sensazioni intense.
Il sesso si adattava a questo scopo meglio di qualunque altro aspetto o processo vitale
della personalità umana. Naturale e nello stesso tempo contronatura, inevitabile ma
irto di rischi, desiderato ma pieno di pericoli e, soprattutto, onnipresente, universale,
ignaro e insofferente di eccezioni alla regola, il sesso si adattava a un potere totale
e onnipervasivo, fatto per amministrare la produzione sociale del corpo e della mente
umana: mens sana in corpore sano. Foucault parla dell’“utilizzazione” del sesso per sostenere le gerarchie del potere
e del controllo; talvolta usa persino metafore militari, paragonando i vari vizi sessuali
sciorinati nel discorso medico-pedagogico agli assetti sviluppati nei preparativi
per la battaglia e nel suo successivo svolgimento.
Il sesso costituiva l’infallibile materiale costruttivo per numerosi frammenti della
moderna struttura sociale. Lo si usava soprattutto per la costruzione dei sottili
“vasi capillari” domestici i quali, malgrado le esigue dimensioni, risultavano decisivi
per il successo di tutta l’impresa, in quanto estendevano la sorveglianza e l’influsso
dell’addestramento disciplinare agli individui non sottoposti alla diretta influenza
delle principali istituzioni panottiche, ossia le fabbriche e l’esercito. Nel sistema
sociale del potere, la famiglia era il campo d’addestramento destinato soprattutto
alle donne e ai bambini. Che tale aspetto non riguardasse il capo famiglia, colui
che guadagnava il pane ossia il padrone di casa, veniva confermato dal modo in cui
la sessualità maschile si articolava. Se la naturale predisposizione delle donne all’isterismo
e quella dei bambini alla masturbazione invocavano la chiusura di entrambi in uno
spazio sorvegliato e sempre ispezionabile, giustificando continui controlli e cure
mediche, il concetto dell’innata tendenza maschile alla poligamia e al rapporto sessuale
con più donne postulava invece uno spazio più vasto di quello familiare, come pure
il diritto ad avere segreti e spazi autonomi non controllati dagli altri membri della
famiglia. La sessualità maschile sottolineava e nel tempo stesso giustificava il fatto
che il vero posto dell’uomo stava nel mondo extrafamiliare. In un certo senso essa
poneva l’uomo, all’interno della famiglia, sullo stesso piano di un capomastro di
fabbrica o di un sergente dell’esercito. E la famiglia, l’anello più piccolo del sistema
sociale panottico, integrata e completamente mantenuta, non era molto diversa da una
squadra di operai o da una compagnia militare.
Secondo il concetto sviluppato da Edward Shorter in Famiglia e Civiltà, a partire dalla metà del corrente secolo il mondo occidentale attraversa la “seconda
rivoluzione sessuale”. Più o meno, essa consiste nello smantellamento di tutto ciò
che la prima rivoluzione, poc’anzi descritta e iniziata alla fine del XVII secolo,
aveva lasciato in eredità. Oggi avviene una sistematica demolizione del “nido familiare”,
il cui correlato culturale è lo strappare via il velo romantico dall’amore erotico
svelandone la nuda e cruda sostanza sessuale. Osserviamo tuttavia che, a dispetto
delle popolari ma erronee credenze, la trasformazione in atto da mezzo secolo non
corrisponde alla cosiddetta “emancipazione sessuale”: la fine della “funzionalità”
dei rapporti sessuali, la liberazione del sesso dai pesanti gravami che gli imponevano
le non meritorie funzioni socio-culturali, a esso estese nell’epoca moderna classica.
Il sesso ha tuttora una funzione da svolgere, anch’essa strumentale, con la differenza
che la funzione è cambiata e il sesso è diventato lo strumento di un altro processo.
Come nel caso della prima rivoluzione sessuale, anche ora le trasformazioni della
sfera sessuale non sono un episodio isolato, ma parte di un cambiamento più generale.
Per duecento anni la rivoluzione sessuale è stata un elemento costruttivo del panottico
sistema di integrazione e di controllo sociale; oggi la seconda rivoluzione è a sua
volta un aspetto della demolizione di tale sistema: quel processo che nei miei lavori
ho definito di deregolazione, di privatizzazione e di marketing del controllo sociale, dell’organizzazione dello spazio sociale e dei cosiddetti problemi
di identità. La seconda rivoluzione sessuale può anche essere vista come parte integrante
del passaggio dal modello dell’“operaio-soldato” alla coltivazione del modello del
“collezionista di sensazioni”, da me in altra sede descritto.
Se per effetto della prima rivoluzione sessuale il sesso si era trasformato, in linea
generale, in uno strumento per costruire strutture sociali durature ed estensioni
capillari del sistema di controllo sociale, oggi invece il sesso serve alla progressiva
atomizzazione sociale; se la prima rivoluzione associava la sessualità all’assunzione
e all’osservanza di un obbligo, la seconda lo ha spostato nella sfera delle esperienze
collezionate; se la prima rivoluzione poneva il sesso come misura del conformismo
nei confronti delle esigenze sociali, la seconda lo ha trasformato in un criterio
di “adeguatezza” e di “efficienza fisica”, i due principali ideali su cui si concentra
l’attenzione del raccoglitore e collezionista di sensazioni.
Un aspetto del processo qui descritto risiede nel districare accuratamente il sesso
dalla fitta rete dei diritti acquisiti e dei doveri assunti. Niente esprime questo
fenomeno quanto i concetti di «relazione pura» e di «amore convergente», forgiati
da Giddens. Niente scaturisce dal rapporto sessuale all’infuori del sesso stesso e delle sensazioni
che lo concernono; il sesso, in un certo senso, ha lasciato le pareti domestiche per
uscire in strada, dove si incontrano solo passanti casuali, consapevoli che tra qualche
attimo le loro strade torneranno a dividersi. Come riassumono i sociologi olandesi
Henk Kleijer e Ger Tillekens «le pratiche sessuali governate dal piacere anziché dal
dovere vengono esportate in uno spazio compreso tra il domicilio e il luogo di lavoro». Si sarebbe tentati di dire che, per quanto riguarda il sesso e la famiglia, oggi
si assiste a un divorzio analogo alla separazione descritta da Weber tra la sfera
domestica e la sfera di lavoro. Come cantavano i Beatles nel 1965, «Non dico di star
male con te / ma ora che ho incontrato qualcuno di nuovo / non sono matto, non prendo
qualcosa che non mi va / e ora ho un’altra ragazza».
È questo l’aspetto del problema di cui si parla e si scrive di più. Nell’evidenziarlo,
si loda spesso il cambiamento di “collocazione sociale” del sesso come tappa inevitabile
in un salutare processo di emancipazione. Ma questo non sembra essere l’unico aspetto
del processo, né soprattutto il più importante. L’enfatizzarlo a scapito degli altri
aspetti sembrerebbe piuttosto una manifestazione di “falsa consapevolezza”: si capovolge
l’effettivo ordine delle cose e si storna lo sguardo dal reale contenuto dei cambiamenti.
L’altro aspetto del problema, forse il più importante, è la separazione del rapporto
sessuale dalle altre forme e dagli altri aspetti del rapporto sociale, e soprattutto
dalle relazioni coniugali e genitoriali: separazione che appare più un potente strumento
che una conseguenza del processo di privatizzazione e mercificazione. L’integrazione
e l’autocreazione del sistema sociale avvengono oggi attraverso il porsi degli individui
in un ruolo di consumatori, anziché di creatori: l’insorgere di nuovi desideri sostituisce
la regolazione normativa; la seduzione succede al regime di necessità. Le strutture
rigide e durature del tipo “finché morte non ci separi” e della famiglia fondata una
volta per tutte, un tempo indispensabili nel sistema panottico di potere, non solo
perdono la loro utilità ma diventano addirittura “disfunzionali” in un regime di integrazione-attraverso-il-mercato.
Da un lato, quindi, l’emancipazione sessuale appare come un prendere a calci un avversario
già abbattuto; dall’altro, invece, è uno dei colpi più efficaci per abbatterlo.
Da un lato il sesso si purifica accuratamente da tutte le “impurità” quali il contrarre
obblighi, allacciare vincoli, acquisire diritti. Dall’altro, invece, si purificano
tutti gli altri rapporti – in modo meticoloso, accanito, ossessivo e talvolta addirittura
prossimo al panico – da qualunque vago sospetto di sessualità capace di addensarli
e renderli permanenti. Si fiutano sottofondi sessuali in qualsiasi emozione che esuli
dal magro inventario dei sentimenti compresi nell’ambito di un incontro occasionale,
in ogni offerta di amicizia, in ogni manifestazione di interesse personale verso qualcuno
(un mio conoscente del Canada, eminente professore di sociologia, mi confessò di avere
deciso, qualche anno fa, di tenere la porta del corridoio spalancata quando le studentesse
venivano a consultarlo, in modo che non potessero accusarlo di avances sessuali; in breve però si accorse che la porta doveva restare aperta, per la medesima
ragione, anche quando a consultarlo erano studenti maschi). Oggi il complimentare
un collega di lavoro per il suo fascino o per la sua bellezza è visto sempre più spesso
come una provocazione sessuale, e l’invito a prendere un caffè è considerato una “molestia
sessuale”. Lo spettro del sesso imperversa negli uffici e negli studi dei professori,
la minaccia incombe in ogni sorriso, in ogni sguardo, in ogni tentativo di conversazione.
Le conseguenze sono il rapido assottigliarsi di ogni intima e stretta relazione interumana
e la perdita del desiderio di allacciarne qualcuna.
Il passaggio del sesso dal ruolo di cemento per rapporti associativi a quello di loro
solvente e di forza frenante che mantiene le relazioni in uno stato di perenne provvisorietà
e disponibilità a rompere, salta agli occhi soprattutto nel contesto della vita quotidiana.
Dopotutto, era nei rapporti familiari che il sesso serviva da materiale per erigere
la struttura: nella sua versione positiva, il sesso era il cemento del legame coniugale,
mentre nella versione negativa (come forza elementare che deve essere imbrigliata)
era l’ossatura della cura genitoriale per i bambini. Oggi il sesso diventa sempre
più uno strumento di dissoluzione della struttura familiare in tutte le sue dimensioni. Uno dopo l’altro, i tribunali dei paesi occidentali legalizzano
il concetto della “violenza coniugale”; non solo le prestazioni sessuali non sono
né un dovere né un diritto coniugale, ma il praticarle senza il consenso del partner
diventa un reato perseguibile. Dato che è obiettivamente difficile distinguere la
concessione dell’accordo dalla sua negazione, soprattutto se i partner dividono da
anni il letto coniugale, quasi ogni singolo atto sessuale può, con un briciolo di
buona (o piuttosto di cattiva) volontà, essere presentato come una violenza. Molti
partner cominciano a vedere come una trappola la pretesa evidenza dei diritti reciproci,
che doveva conferire al sesso coniugale una superiorità su quello, più rischioso,
fuori del matrimonio; quei partner vedono sempre meno chiaramente perché dovrebbero
associare l’appagamento dei bisogni sessuali al matrimonio (visto soprattutto quanto
sia facile trovare altrove relazioni sessuali “pure” in senso giddensiano).
La sessualità infantile, manifesta o latente, sveglia o addormentata che fosse, era,
come ricordiamo, un possente strumento di articolazione della famiglia moderna; era
motivo di una invadente e continua sorveglianza sui bambini, esigeva che i bambini
si trovassero sempre a portata dello sguardo dei genitori, induceva a discorsi intimi,
autorizzava a pretendere confidenze e confessioni. Oggi, invece, la sessualità infantile
diventa un fattore altrettanto possente di separazione dai genitori. Ora la paura
deriva dalla soggettività sessuale dei genitori, non da quella dei bambini; non è
in quello che i bambini fanno per conto proprio, ma in quello che fanno su richiesta
dei genitori, che tendiamo a sospettare sottofondi sessuali. Dato che i genitori sono
più forti dei bambini e per molti aspetti occupano una posizione di potere nei loro
confronti, la sessualità può facilmente portare i genitori ad approfittare della loro
superiorità per soddisfare i propri istinti sessuali. Lo spettro del sesso ossessiona
dunque anche la casa natale. Per esorcizzarlo, bisogna stare il più possibile alla
larga dai bambini, e soprattutto astenersi dall’intimità e dal manifestare in modo
troppo tangibile l’amore genitoriale.
Alcuni anni fa, l’Inghilterra fu attraversata da un’epidemia di “sfruttamento sessuale
dei bambini”; in altri termini, gli assistenti sociali, in collaborazione con medici
e insegnanti, accusarono decine di famiglie (in particolare i padri, ma anche madri
in numero sempre crescente) di rapporti incestuosi con i figli; i bambini, tolti alle
famiglie incriminate, vennero affidati a istituti di riabilitazione, mentre ai lettori
dei giornali venivano propinate raccapriccianti descrizioni degli antri di depravazione
in cui si trasformavano bagni e camere da letto familiari. La stampa riportava una
dopo l’altra continue scoperte di “abusi sessuali” ai danni di bambini internati in
collegi e ospizi.
Solo pochi tra i casi pubblicamente denunciati arrivarono in tribunale. In alcuni
di essi, i genitori o precettori riuscirono a dimostrare l’infondatezza delle accuse
e a riprendersi i bambini. Ma ormai il male era fatto: la tenerezza dei genitori aveva
perso la sua innocenza. L’opinione pubblica era stata informata che i bambini erano
oggetti sessuali, che l’amore parentale celava desideri sessuali latenti, che ogni
coccola aveva un lato ambiguo, ogni carezza un risvolto sessuale, ogni gesto poteva
nascondere una molestia sessuale. Nell’ignara routine delle cure genitoriali si scopriva
un abisso di ambiguità: niente in esse era semplice e ovvio, tutto poteva avere due
facce. E da certe ambiguità è bene tenersi alla larga, altrimenti sono guai. In uno
dei casi ampiamente pubblicizzato, la treenne Geraldine fu tolta ai genitori per il
fatto che, all’asilo, disegnava serpenti che lanciavano veleno dalla bocca, costruiva
con la plastilina oggetti allungati (identificati senza esitazione dagli psicologi
come altrettante allusioni al pene), era incapace di concentrarsi e durante la siesta
pomeridiana si rigirava sul materasso. Invano i genitori si sgolarono a ripetere che
la bimba era in cura per un raffreddore, che il serpente sprizzante veleno rappresentava
lo spray nasale e che le forme di plastilina imitavano certe gelatine alla frutta
di cui Geraldine era particolarmente ghiotta. Così ha detto Rosie Waterhouse, commentando
la situazione creatasi in seguito a tutto ciò:
Come stabilire che cosa è un abuso e che cosa un “normale” comportamento genitoriale?
Ecco il punto fondamentale, il nocciolo del problema... Abbracciare e baciare i bambini,
fare loro il bagno, portarli nel lettone matrimoniale, tutto ciò rappresenta normali
modelli del comportamento genitoriale, oppure sono atti scorretti e intrisi di sesso,
vere e proprie molestie sessuali?
E quali sono i passatempi normali dei bambini? Se un bambino disegna streghe e serpenti,
significa che esprime simbolicamente un abuso subito, oppure questi disegni si spiegano
anche in modo meno tortuoso e demoniaco? Ecco il problema fondamentale che gli assistenti
sociali e i professionisti delle cure dei bambini devono affrontare.
Riassumendo: in quanto oggi si dice, il bambino riveste più il ruolo di oggetto che
non, come prima, quello di soggetto del desiderio sessuale. La soggettività sessuale
del bambino giustificava un’intima e assillante cura/sorveglianza genitoriale; invece
il bambino come oggetto sessuale giustifica la reticenza, la distanza e l’astensione
dei genitori per paura di sbagliare. La prima serviva a intensificare i legami e a
rafforzare le strutture sociali. E la seconda?
La seconda serve a indebolire i legami a vantaggio della “monadizzazione” del futuro
consumatore di sensazioni. Come anche in altre dimensioni, il discorso sessuale instaura
qui (parallelamente alla separazione del sesso da altri aspetti interumani, separazione
finalizzata a un più completo sfruttamento del potenziale edonistico del sesso stesso)
il “raffreddamento” delle relazioni interpersonali, il depurarle da ogni sfumatura
sessuale e più generalmente emotiva: insomma la loro “spersonalizzazione”. Come un
tempo la separazione del lavoro dal nido domestico permetteva di sottoporre liberamente
il primo alle dure leggi della concorrenza trascurando tutti gli altri valori, l’attuale
separazione del sesso dagli altri rapporti interumani permette di subordinarlo totalmente,
senza curarsi degli altri aspetti del problema, ai criteri estetici delle esperienze
forti e della gratificazione emotiva. Si tratta di un’operazione tutto sommato semplice:
prima, attraverso la “purificazione” del rapporto tra i partner, si riduce l’eros
al sesso; poi, in nome dell’eliminazione di ogni intento sessuale impuro, si spogliano
dell’amore tutti gli altri rapporti.
Che cosa ha a che fare tutto ciò con i problemi affrontati oggi da insegnanti ed educatori
e sui quali i pedagogisti costruiscono teorie? Solo questo: che le trasformazioni
nel modo di vedere il sesso rappresentano perfettamente le generali tendenze dei cambiamenti
postmoderni in quel contesto sul quale i pedagogisti non esercitano controllo, contesto
che decide il corso e gli effetti dell’apprendimento di “secondo” e di “terzo” grado.
Oggi in quasi tutti i campi della vita è in atto una “purga” dei rapporti, per effetto
della quale ogni esperienza cercata trova la sua forma di intensificazione; intanto
il soddisfacimento di ogni bisogno e di ogni desiderio diviene un’arte o mestiere
autonomo con le proprie regole, il proprio campo di competenze e i propri specialisti.
O, perlomeno, è in questa direzione che spingono di comune accordo la logica delle
esperienze di vita quotidiane e l’assillante, ubiqua pressione delle strapotenti forze
di mercato. La pedagogia, basata sull’indissolubilità tra educazione e insegnamento,
nonché sull’ideale di una personalità sintetica che associ in sé i valori cognitivi,
morali ed estetici, deve in un certo senso navigare contro corrente.
In un suo intelligente intervento presentato all’ultimo congresso di pedagogia, Andrzej
Szahaj ha citato l’ironia, il bricolage e l’amore come i principi richiesti dalla
scuola odierna. Per quanto riguarda l’ironia, direi che la scuola trova un potente
alleato nelle forze di mercato che. governano la vita quotidiana del consumatore solitario. Il bricolage è qualcosa alla
quale oggi il mondo, di per sé, ci condanna tutti senza eccezione. Il vero problema
è quello dell’amore. «Dev’essere l’amore inteso in senso lato – dice Szahaj – a stabilire
le “frontiere dell’ironia”». Szahaj, tuttavia, è troppo acuto per non accorgersi di
stare proponendo ai pedagogisti di «camminare su una corda tesa: da un lato si spalanca
l’abisso del cinismo, dall’altro quello del più melenso sentimentalismo». Szahaj suggerisce
quindi di «educare sentimentalmente» ma, nel tempo stesso, di «insegnare a ironizzare
le raffigurazioni culturali dell’amore inteso in senso lato». Non c’è che dire: la
quadratura del cerchio. Osserviamo che il mondo ideato per il consumatore può anche
tranquillamente convivere con il cinismo; quello che invece esso non sopporta è precisamente
«l’amore in senso lato»: è proprio qui che ci è stato insegnato a subodorare la trappola
del «sentimentalismo melenso». Il programma di Szahaj, peraltro difficile da contestare,
non si realizza senza, come dicono gli inglesi, afferrare quest’ortica a mani nude.