1. Dall’«agorà» al mercato
La democrazia è la forma di vita propria dell’agorà: quello spazio intermedio che collega/separa gli altri due settori della polis: l’ekklesìa e l’oikos.
Nella terminologia aristotelica l’oikos rappresentava il nucleo familiare, il luogo all’interno del quale gli interessi privati
prendevano forma ed erano perseguiti; l’ekklesìa simboleggiava invece il “pubblico”, il consiglio dei cittadini, composto da magistrati
eletti, nominati o estratti a sorte, a cui spettava il compito di curare gli affari
della comunità riguardanti tutti i cittadini della polis – come le questioni di pace e di guerra, la difesa del dominio e le norme che regolano
la convivenza tra cittadini all’interno delle città-Stato. Il concetto di “ecclesia”
deriva dal termine kalèin, che significa chiamare, convocare, radunare, e presumeva sin dall’inizio la presenza
dell’agorà, il luogo dove incontrarsi e discutere, il punto d’incontro tra popolo e consiglio:
la sede della democrazia.
All’interno della città-Stato, l’agorà era lo spazio fisico in cui la bulè – il consiglio – convocava una o più volte al mese tutti i cittadini (i capifamiglia)
per deliberare su temi di interesse comune o per eleggere o estrarre a sorte i propri
membri. Per ovvi motivi, una volta che l’ambito della polis o il corpo politico si estesero ben oltre i confini della città, tale procedura divenne
insostenibile, in quanto il significato di agorà non poteva più coincidere, letteralmente, con quello di pubblica piazza nella quale
tutti i cittadini dello Stato erano tenuti a convenire per prendere parte al processo
decisionale. Ciò non significa, però, che l’intento alla base della costituzione dell’
agorà e la funzione da essa svolta nel perseguirlo avessero perso significato o dovessero
essere abbandonati per sempre. Si può raccontare la storia della democrazia come il
succedersi dei tentativi di tenere in vita sia l’intento che i processi volti a soddisfarlo
dopo la scomparsa del suo substrato materiale originario.
O, in alternativa, si potrebbe dire che a mettere in moto, ispirare e tenere in vita
la storia della democrazia fu il ricordo dell’agorà. Si potrebbe – e si dovrebbe – dire inoltre che la conservazione e la reviviscenza
di tale ricordo fossero destinati a seguire traiettorie diverse e ad assumere svariate
forme; non esiste un unico modo di svolgere l’opera di mediazione tra oikos ed ekklesìa, né esiste un modello che sia privo di imperfezioni e intoppi. Oggi, a più di due
millenni di distanza, occorre pensare in termini di democrazie multiple.
Il proposito dell’agorà (talvolta dichiarato, ma per lo più implicito) era e rimane il perpetuo coordinamento
di interessi “privati” (legati all’oikos) e “pubblici” (gestiti dall’ekklesìa). La funzione dell’agorà era e continua ad essere invece quella di fornire la condizione essenziale e necessaria
a tale coordinamento: ovvero, la traduzione del linguaggio degli interessi individuali/familiari nel linguaggio
degli interessi pubblici, e viceversa. Ciò che nell’agorà essenzialmente ci si aspettava o si auspicava di conseguire era riconfigurare questioni
e desideri privati sotto forma di argomenti pubblici e, viceversa, riconfigurare questioni
di interesse pubblico sotto forma di diritti e doveri individuali. Il livello di democrazia
di un regime politico potrebbe quindi essere misurato in base al successo o al fallimento,
alla scorrevolezza o alla grossolanità di quella traduzione: vale a dire, in base alla misura in cui il suo obiettivo precipuo è stato raggiunto,
anziché, come spesso accade, in base alla tenace osservanza di questa o quella procedura, erroneamente considerata condizione necessaria e al tempo stesso sufficiente della
democrazia. Di ogni democrazia, della democrazia in quanto tale.
Il modello di “democrazia diretta” proposto dalla città-Stato, in cui la fedeltà e
la scorrevolezza della traduzione potevano essere misurate sul momento basandosi semplicemente
sul numero di cittadini che prendevano parte “in carne e voce” al processo decisionale,
era chiaramente inapplicabile al moderno, resuscitato concetto di democrazia (e in
particolare alla “grande società”: quell’entità immaginata, astratta, lontana dall’esperienza personale e dalla sfera di influenza del cittadino);
la moderna teoria politica si adoperò quindi per individuare o inventare dei parametri
alternativi in base ai quali valutare il livello di democrazia di un dato regime politico.
Criteri dei quali discutere, e capaci di riflettere e indicare se lo scopo dell’agorà era stato adeguatamente raggiunto e la sua funzione svolta a dovere. I più popolari
tra questi criteri alternativi erano forse quelli di tipo quantitativo, basati sulla
percentuale di cittadini che prendevano parte alle elezioni (che nella democrazia
“rappresentativa” si erano sostituite alla partecipazione “in carne e voce” dei cittadini
al processo legislativo). L’efficacia di questa partecipazione indiretta tendeva tuttavia
a rimanere controversa, in particolare dopo che il voto popolare aveva iniziato a
trasformarsi nell’unico, accettabile metro della legittimità dei governanti, mentre
regimi apertamente autoritari, dittatoriali, totalitari e tirannici che non ammettevano
né il pubblico dissenso né un aperto dialogo potevano facilmente vantare percentuali
di affluenza alle urne ben superiori (e quindi, stando ai criteri formali, un maggiore
sostegno popolare verso le politiche dei loro governanti) a quelle rilevate nei governi
che al contrario rispettavano e tutelavano scrupolosamente la libertà di opinione e di espressione – percentuali che questi ultimi potevano solo sognare di raggiungere. Non sorprende
dunque che oggi, quando si tratta di esplicitare i tratti distintivi della democrazia,
l’enfasi tenda a spostarsi dai dati sulla partecipazione e l’assenteismo elettorali
a questi criteri di libertà di opinione e di espressione. A partire dai concetti di
«defezione» e di «protesta», che Albert O. Hirschman considera le due principali strategie
a cui i consumatori possono (e tendono a) ricorrere al fine di esercitare una vera
e propria influenza sulle politiche di marketing, è stato spesso suggerito che il diritto dei cittadini a dare apertamente voce al
proprio dissenso, la disponibilità di strumenti che consentono loro di farlo e di
raggiungere il pubblico a cui intendono rivolgersi, e il diritto a prendere le distanze
dal governo sovrano di un regime detestato o non condiviso sono le condizioni imprescindibili
affinché un assetto politico veda riconosciute le proprie credenziali democratiche.
Nel sottotitolo di questo lavoro così autorevole, Hirschman pone nella stessa categoria
i rapporti venditori-compratori e quelli Stato-cittadini, in quanto sottoposti ai
medesimi criteri di misurazione della performance. Una decisione legittimata oggi
come ieri dal presupposto che le libertà politiche e le libertà di mercato sono strettamente
collegate tra loro, si alimentano e si rafforzano a vicenda – oltre a necessitare
le une della presenza delle altre; e che la libertà dei mercati, la quale è alla base
della crescita economica e la promuove, è, in definitiva, la condizione necessaria,
nonché l’humus, della democrazia politica – e la politica democratica è l’unico contesto
entro il quale è realmente possibile perseguire e raggiungere il successo economico.
Tale presupposto, tuttavia, è quanto meno controverso. Pinochet in Cile, Syngman Rhee
nella Corea del Sud, Lee Kuan Yew a Singapore, Chiang-Kai-shek a Taiwan o gli attuali
governanti della Cina erano o sono in tutto e per tutto dittatori (Aristotele li avrebbe
definiti “tiranni”), a prescindere dai titoli che di volta in volta adottavano o adottano
per definire la propria carica. E tuttavia detenevano o detengono il potere su mercati
di considerevole estensione e in rapida crescita. Se non fosse per una protratta “dittatura
dello Stato”, i succitati Paesi non sarebbero oggi l’epitome del “miracolo economico”.
E, potremmo aggiungere, non è una semplice coincidenza che lo siano diventati.
Ricordiamoci che la fase iniziale dell’insorgere di un regime capitalista, quella
della cosiddetta “accumulazione originaria” del capitale, è invariabilmente caratterizzata
da sovvertimenti sociali eccezionali, accolti da profondo risentimento, dall’espropriazione
dei mezzi di sostentamento e da una polarizzazione delle condizioni di vita; fenomeni
che non possono non sconvolgere coloro che li subiscono e produrre tensioni sociali
dagli effetti potenzialmente esplosivi – che commercianti e imprenditori alle prime
armi devono reprimere con il sostegno di un’energica, spietata e coercitiva dittatura
statale. Mi si permetta di aggiungere, inoltre, che i “miracoli economici” del Giappone
e della Germania del dopoguerra possono essere in grande misura spiegati dalla presenza
in quei Paesi di forze di occupazione straniere, che si fecero carico di espletare
le funzioni coercitive/oppressive del potere statale che sarebbero spettate alle istituzioni
politiche locali, sottraendosi al tempo stesso a qualsiasi controllo da parte delle
istituzioni democratiche dei Paesi occupati.
Uno dei punti notoriamente più dolenti dei regimi democratici è dato dalla contraddizione
tra la formale universalità dei diritti democratici (riconosciuti in egual misura
a tutti i cittadini) e la possibilità men che universale di riuscire a esercitarli
effettivamente; in altre parole, la discrepanza tra la posizione giuridica di un “cittadino
de jure” e le effettive opportunità godute da un cittadino de facto. Uno scarto che ci si aspetta venga colmato dagli individui stessi tramite il dispiego
delle proprie capacità e risorse – di cui però potrebbero non disporre, e che in un
enorme numero di casi, infatti, non possiedono.
Lord Beveridge – a cui dobbiamo il modello dello “Stato sociale” inglese del dopoguerra,
successivamente preso a modello da diversi Paesi europei – era un liberal, e non un socialista. Egli credeva infatti che la proposta di un’assicurazione contro
tutti i rischi, universale e approvata da tutti, fosse l’inevitabile conseguenza, nonché l’indispensabile complemento, del concetto
liberal di libertà individuale, e condizione necessaria della democrazia liberale. La guerra che Franklin Delano Roosevelt dichiarò “alla paura” si basava su quello
stesso presupposto, così come deve essere stato per il pionieristico studio di Seebohm
Rowntree sulla diffusione e le cause della povertà e del degrado umani. Dopotutto,
la libertà di scelta comporta innumerevoli e incalcolabili rischi di fallimento, che
molti riterrebbero insostenibili, superiori alla loro personale capacità di farvi
fronte. Per la maggior parte degli individui, l’idea liberale di libertà di scelta
è destinata a rimanere un miraggio elusivo e un ozioso vagheggiamento a meno che la
paura della sconfitta venga mitigata da una polizza assicurativa affidabile, emessa
a nome dell’intera comunità e su cui sia possibile contare in caso di sconfitta personale
o di inaspettato tiro del destino.
Se i diritti democratici e le libertà che li accompagnano sono garantiti nella teoria,
ma restano inaccessibili nella realtà, al sentimento di scoraggiamento si aggiunge
immancabilmente l’umiliazione dell’impotenza; dopotutto, la capacità di far fronte
alle sfide che la vita ci presenta, giorno dopo giorno, non è che la palestra all’interno
della quale l’autostima degli individui si rinforza o svanisce. Da uno Stato politico
che non è, e rifiuta di essere, uno Stato sociale non ci si può che aspettare prospettive di salvezza limitate o nulle di fronte all’indolenza
o all’impotenza individuali. In assenza di diritti sociali per tutti, un numero cospicuo e con ogni probabilità crescente di persone si accorgerà che
i loro diritti politici hanno scarsa utilità e non meritano la loro attenzione. Se i diritti politici sono necessari per l’assegnazione dei diritti sociali, i diritti
sociali sono indispensabili per rendere i diritti politici “effettivi”, e mantenerli
in vigore. I due tipi di diritti hanno bisogno l’uno dell’altro per sopravvivere: la loro sopravvivenza
non può che essere il risultato dei loro sforzi congiunti.
Lo Stato sociale è l’incarnazione estrema e moderna dell’idea di comunità: ovvero la reincarnazione istituzionale di quell’idea nella sua versione moderna di “totalità immaginata” – intreccio di dipendenza, dedizione, lealtà, solidarietà e fiducia reciproche.
I diritti sociali sono, per così dire, la manifestazione tangibile ed “empirica” di
quella totalità collettiva immaginata (ovvero, della moderna forma di ekklesìa, la cornice entro la quale le istituzioni democratiche si iscrivono), che collega
la nozione astratta alle realtà quotidiane, ancorando l’immaginazione al terreno fertile
dell’esperienza quotidiana. Questi diritti certificano la veracità e il realismo di
una fiducia reciproca, da persona a persona, e della fiducia in una rete istituzionale
condivisa che sostiene e rafforza la solidarietà collettiva.
Una sessantina di anni fa T.H. Marshall fece confluire il diffuso stato d’animo di
quegli anni in quella che riteneva fosse, e fosse destinata a rimanere, una legge
universale del progresso: dai diritti di proprietà ai diritti politici, e da questi ai diritti sociali. Dal suo punto di vista la libertà politica era una conseguenza inevitabile, benché
alquanto posticipata, della libertà economica, sebbene destinata necessariamente a
propria volta a dar vita ai diritti sociali – il che rende quindi l’esercizio di entrambe
le libertà attuabile e plausibile per tutti. Secondo Marshall, con ogni successivo
allargamento dei diritti politici, l’agorà sarebbe divenuta più inclusiva e avrebbe dato voce a un numero crescente di categorie
di persone rimaste sino a quel momento inascoltate, e ingiustizie e discriminazioni
sarebbero state progressivamente ridotte ed eliminate. Circa un quarto di secolo più
tardi, John Kenneth Galbraith individuò un’altra costante, destinata questa volta
a modificare drasticamente, se non addirittura a confutare in modo chiaro, la prognosi
avanzata da Marshall: mentre l’universalizzazione dei diritti sociali inizia a produrre risultati, i detentori dei diritti politici tendono, in misura sempre maggiore, a servirsi del proprio diritto al voto per sostenere
iniziative individuali – con tutte le conseguenze che questo comporta: l’aumento,
anziché il calo o l’eliminazione, della disuguaglianza nei redditi, negli standard
e nelle prospettive di vita. Galbraith attribuiva tale propensione al radicale cambiamento
dell’umore e della filosofia di vita dell’emergente “maggioranza appagata”. Sentendosi ormai salda in sella e a proprio agio in un mondo di grandi rischi ma
anche di ricche opportunità, questa emergente maggioranza non scorgeva più alcuna
necessità dello “Stato sociale”: un assetto che sempre più spesso equiparava a una
gabbia anziché a una rete di sicurezza, un limite anziché un’opportunità – un’elargizione
superflua, di cui con ogni probabilità loro, gli “appagati”, in grado di fare affidamento
sulle proprie risorse e liberi di girare il mondo, non avrebbero mai avuto bisogno
e di cui difficilmente si sarebbero avvalsi. Dal loro punto di vista, i poveri, legati
e ancorati a terra come sono, non rappresentavano più “un esercito di riservisti del
lavoro”, e il denaro speso per tenerli in buona salute era quindi sprecato. Il diffuso
sostegno, al di là della destra e della sinistra, allo Stato sociale, che T.H. Marshall
considerava la destinazione ultima della “logica storica dei diritti umani”, iniziò
a contrarsi, a sgretolarsi e a dissolversi con un ritmo sempre più accelerato.
È improbabile, infatti, che lo Stato assistenziale (sociale) sarebbe mai potuto diventare
una realtà se i proprietari delle fabbriche non avessero ritenuto a un certo punto
che prendersi cura di “un esercito di riservisti del lavoro” (ovvero: mantenere “i
riservisti” in buona salute nel caso fossero stati richiamati al servizio attivo)
rappresentasse un investimento vantaggioso. Così come in passato l’introduzione dello
Stato sociale era stata considerata una questione “al di là della destra e della sinistra”,
oggi sono la riduzione e il graduale smembramento dei principi di quello Stato sociale
a essere considerati una questione “al di là della destra e della sinistra”. Se oggi
lo Stato sociale è insufficientemente finanziato, è compromesso o viene addirittura
smantellato, è perché le fonti del profitto capitalista si sono spostate, o sono state
spostate, dallo sfruttamento del lavoro di fabbrica allo sfruttamento dei consumatori. E, non potendo contare sulle risorse necessarie per reagire alle tentazioni del
mercato consumistico, i poveri per essere utili – dove il termine “utilità” è inteso
nel senso del capitale di consumo – avrebbero bisogno di contante e di un conto di
credito (non il tipo di servizi che lo “Stato assistenziale” fornisce).
Più di qualsiasi altra cosa, lo Stato assistenziale (che, lo ripeto, è preferibile
chiamare “Stato sociale”, così da spostare l’enfasi dall’erogazione di vantaggi materiali
al loro intento originario, quello di formare la comunità) rappresentava un assetto
inventato e promosso precisamente al fine di scongiurare l’attuale spinta verso la
“privatizzazione” (un’abbreviazione per la promozione di modelli essenzialmente individualizzanti
e contrari al senso di comunità, tipici del mercato consumistico e tali da porre gli
individui in competizione tra loro): una spinta che ha portato all’indebolimento e
alla rottura della rete di rapporti umani, così minando le basi sociali della solidarietà
umana. La “privatizzazione” trasferisce il difficile compito di contrastare e (auspicabilmente)
risolvere i problemi di natura sociale sulle spalle dei singoli uomini e donne, che, nella maggior parte dei casi, non hanno mezzi sufficienti per
affrontarli; lo “Stato sociale” tende invece a unire i propri membri nel tentativo
di proteggere ciascuno di loro dalla spietata e moralmente devastante “guerra di tutti
contro tutti”.
Uno Stato si dice “sociale” quando promuove il principio di un’assicurazione collettiva
e sottoscritta dalla comunità contro le disgrazie individuali e le loro conseguenze.
È quel principio (dichiarato, attivato e dal funzionamento garantito) che innalza
una “società immaginata” al livello di “autentica totalità”: una comunità tangibile,
sentita e vissuta, che (per usare le definizioni di John Dunn) sostituisce l’“ordine
dell’egoismo” – che genera diffidenza e sospetto – con “l’ordine dell’uguaglianza”,
che ispira fiducia e solidarietà. Si tratta dello stesso principio che rende democratico
il corpo politico e innalza i membri della società al rango di cittadini, rendendoli soci, oltre che azionisti del sistema; beneficiari, ma anche attori responsabili della creazione e dell’equa ripartizione dei suoi vantaggi. In breve,
diventano cittadini definiti e mossi dal vivo interesse nei confronti del benessere
e della responsabilità comuni: una rete di istituzioni pubbliche fidata per assicurare
la solidità e l’affidabilità della “polizza di assicurazione collettiva” rilasciata
dallo Stato. L’applicazione di quel principio può proteggere (e spesso lo fa) uomini
e donne dalla triplice sventura del silenzio, dell’esclusione e dell’umiliazione. E, aspetto più importante, può diventare (e in gran parte diventa) una prolifica
fonte di solidarietà sociale capace di trasformare la “società” in un valore comune
e collettivo.
Attualmente, tuttavia, noi (e con “noi” intendo i Paesi che si sono “sviluppati” per
loro stessa iniziativa, ma anche quelli attualmente “in via di sviluppo” sotto l’orchestrata
pressione dei mercati globali, del Fondo monetario internazionale e della Banca Mondiale)
sembriamo diretti nella direzione opposta, in cui le “totalità”, le società e le comunità
reali o immaginate sono sempre più “assenti”. L’ambito dell’autonomia individuale
si va espandendo, ma al tempo stesso si va gravando delle funzioni un tempo considerate
di responsabilità dello Stato e oggi scaricate (“sussidiarizzate”) sulle spalle dei
singoli individui. Gli Stati sottoscrivono la polizza di assicurazione collettiva
a malincuore, con riserve sempre maggiori, e lasciano che il benessere sia raggiunto
e si consolidi attraverso iniziative individuali.
Oggi non c’è un granché, dunque, che spinga le persone a frequentare l’agorà – e ancor meno che le invogli a lasciarsi coinvolgere dalle sue dinamiche. Agli individui,
sempre più abbandonati alle proprie risorse e al proprio ingegno, viene chiesto di
trovare soluzioni individuali a problemi generati dalla società, puntando sulle proprie
capacità personali. Una simile aspettativa pone gli individui in competizione tra
loro, e fa sì che la solidarietà collettiva (a meno che non si presenti sotto forma
di coalizioni temporanee, basate sulla convenienza, ovvero di legami umani stretti
e sciolti su richiesta e con l’indicazione “senza obblighi o limitazioni”) sia avvertita
per lo più come irrilevante, se non addirittura controproducente. A meno di non essere
mitigata dall’intervento delle istituzioni, questa “individualizzazione per decreto”
rende ineluttabile la differenziazione e la polarizzazione delle opportunità individuali.
Anzi: fa sì che la polarizzazione delle prospettive e delle opportunità diventi un processo che si alimenta e si accelera
da sé. Gli effetti di una simile tendenza erano già facilmente prevedibili in passato
e oggi possono essere toccati con mano. In Gran Bretagna, ad esempio, il reddito del
più ricco 1 per cento della nazione è raddoppiato dal 1982, passando dal 6,5 al 13
per cento del reddito complessivo nazionale, mentre la paga dei direttori generali
delle società comprese nell’indice di borsa Ftse 100 – che fino al 1980 superavano
di venti volte lo stipendio medio – oggi (sino alla recente stretta creditizia, e
oltre) lo superano di ben 133 volte.
Ma non finisce qui. Grazie alla rete delle “autostrade dell’informazione”, in rapida
crescita per estensione e capillarità, ogni singolo individuo – uomo o donna, adulto
o bambino, ricco o povero – è invitato, tentato e indotto (o meglio: costretto) a
mettere a confronto il proprio destino individuale con quello di tutti gli altri individui, e in particolare con il consumo eccessivo praticato dagli idoli pubblici
(i personaggi famosi costantemente sotto i riflettori, sugli schermi televisivi o
sulle prime pagine dei giornali scandalistici e delle riviste patinate), e a misurare
i valori che rendono la vita degna di essere vissuta in base all’opulenza da questi
ostentata. Così, mentre le prospettive realistiche di una vita soddisfacente continuano
a divergere drasticamente, gli standard sognati e gli emblemi vagheggiati di una “vita
felice” tendono a convergere: la molla che guida la nostra condotta non è più il desiderio
più o meno realistico di “tenere il passo con gli altri”, bensì l’idea esasperante
e vaga di “tenere il passo con i personaggi famosi” e portarci allo stesso livello
delle supermodelle, dei giocatori di calcio della Serie A, dei cantanti delle dieci
canzoni più vendute. Una miscela realmente tossica, prodotta, come suggerisce Oliver
James, dall’accumulo di “aspirazioni irrealistiche e speranze di riuscire a soddisfarle”;
eppure ampie fasce della popolazione britannica ritengono di “poter diventare ricche
e famose” e sono convinte che “chiunque possa diventare Alan Sugar o Bill Gates, nonostante
il fatto che dagli anni Settanta a oggi le probabilità che ciò possa accadere siano
di fatto diminuite”.
Lo Stato oggi è sempre meno capace e disposto a garantire ai propri cittadini la sicurezza
esistenziale (“la libertà dalla paura”, per usare una celebre frase di Franklin Delano
Roosevelt, il quale si diceva “fermamente convinto” che “l’unica cosa di cui dobbiamo
avere paura è la paura stessa”). Il compito di conquistare la sicurezza esistenziale
– ovvero di conseguire e di mantenere una posizione decorosa e dignitosa all’interno
della società eliminando il rischio di esserne espulsi – oggi è sempre più spesso
lasciato alle capacità e alle risorse dei singoli individui, e questo significa farsi
carico di rischi enormi e patire la straziante incertezza che simili compiti inevitabilmente
implicano. La paura che la democrazia e la sua risultante, lo Stato sociale, promettevano
di debellare si è ripresentata, in forma ancora più acuta. La maggior parte di noi,
dai primi agli ultimi, teme oggi la minaccia, per quanto indistinta e vaga, di vedersi
escluso, di non essere all’altezza delle sfide e di essere ignorato, privato della
dignità e umiliato.
La politica e il mercato sono impazienti di trarre vantaggio dai diffusi e vaghi timori
che saturano la società contemporanea. I commercianti di servizi e beni di consumo
pubblicizzano i propri prodotti come rimedi infallibili contro l’abominevole sensazione
d’incertezza e contro minacce velate. I movimenti e i politici populisti assumono
il ruolo abbandonato dallo Stato sociale (sempre più debole e ormai sul punto di dissolversi)
e anche, in gran parte, da ciò che è rimasto della vecchia sinistra socio-democratica.
Nella dura opposizione allo Stato sociale, il loro interesse, però, è di espandere – anziché ridurre – il volume di quelle paure. Ed espandere, in particolare, le paure di un certo tipo
di pericoli ai quali, stando a ciò che mostra la televisione, sono intenti a resistere
valorosamente, battendosi a difesa della nazione. Il problema è che le minacce che
i media ci sottopongono con veemenza, ostentazione e insistenza crescenti ben di rado
rappresentano i pericoli che sono all’origine dell’ansia e delle paure popolari. Per
quanto lo Stato possa opporsi con successo alle minacce che troviamo reclamizzate,
le autentiche fonti dell’ansia, di quell’ossessionante incertezza che ci circonda
e dell’insicurezza sociale – cause primarie della paura propria del moderno stile
di vita capitalista – rimangono intatte. O, tutt’al più, vengono rafforzate.
Per quanto riguarda la maggioranza dell’elettorato, i leader politici in carica o
aspiranti tali vengono giudicati in base alla severità con cui dimostrano di affrontare
la “corsa verso la sicurezza”. I politici tentano di superarsi l’un l’altro a colpi
di promesse, dichiarandosi pronti a punire duramente i responsabili, veri o presunti,
dell’insicurezza, ma solo quelli a portata di mano, che possono essere combattuti
e sconfitti, o che quanto meno appaiono debellabili e possono essere presentati come
tali. Partiti come Forza Italia o la Lega Nord possono vincere le elezioni con la
promessa di proteggere gli operosi lombardi ed evitare che siano defraudati dai calabresi
nullafacenti, e di difendere gli uni e gli altri da quei nuovi arrivati che giungono
da terre straniere e risvegliano in loro l’incertezza e il sentimento di incurabile
fragilità della loro stessa posizione; di difendere ciascun elettore da mendicanti
importuni, molestatori, malintenzionati, rapinatori, ladri d’auto e, naturalmente,
dagli zingari. Il problema è che le minacce più formidabili a un’esistenza decorosa
e alla dignità umana – e quindi alla vita democratica – riemergeranno immutate da
tutto ciò.
Tuttavia, i rischi a cui le democrazie contemporanee sono esposte sono solo in parte dovuti al modo in cui i governi statali tentano disperatamente di legittimare il
proprio diritto a governare e ad esigere disciplina mostrando i muscoli e la determinazione
a essere fermi di fronte alle infinite minacce (vere o presunte) che si presentano
ai cittadini – anziché tutelando, come accadeva in passato, l’utilità sociale e il
rispetto della posizione dei cittadini all’interno della società e risparmiando loro
l’esclusione, la privazione della dignità e l’umiliazione. Dico “in parte”, perché
il secondo fattore di rischio della democrazia è quello che potremmo definire “affaticamento
da libertà”, osservabile nel torpore con cui la maggior parte di noi accetta la progressiva
limitazione delle proprie libertà conquistate a caro prezzo, il diritto alla privacy, il diritto a ricevere un giusto processo e ad essere considerati innocenti sino
a prova contraria. Laurent Bonelli ha coniato di recente il termine “liberticida”
per descrivere la miscela che scaturisce dall’incontro delle nuove e improbabili mire
dello Stato con l’esitazione e l’indifferenza dei cittadini.
Tempo fa la televisione ha mostrato migliaia di passeggeri costretti a rimanere a
terra a causa dell’ennesimo caso di “panico da terrorismo”: i voli erano stati cancellati
dopo l’annuncio della scoperta degli “indescrivibili pericoli” di una “bomba liquida”
e di una congiura mondiale volta a far esplodere gli aerei in volo. Quelle migliaia
di passeggeri lasciati a terra a causa delle cancellazioni dovettero rinunciare alle
vacanze, a importanti incontri di lavoro, a riunioni di famiglia... Eppure non hanno
protestato! Assolutamente no... Né hanno avuto da ridire per essere stati annusati
da capo a piedi dai cani, obbligati a code infinite per i controlli di sicurezza,
costretti a perquisizioni che in circostanze normali avrebbero considerato inammissibili
e lesive della propria dignità. Questi passeggeri, al contrario, sembravano estasiati
e raggianti di gratitudine: “Non ci siamo mai sentiti tanto sicuri come adesso”, continuavano
a ripetere. “Siamo molto grati alle autorità che vigilano e prendono tanto a cuore
la nostra sicurezza!”.
All’estremità opposta di questa tendenza troviamo persone che vengono tenute prigioniere
per tanti anni senza alcuna accusa nei campi di Guantánamo, Abu Ghraib e forse in
decine di altri, tenuti segreti e per questo ancora più sinistri e disumani. Ciò che
siamo venuti a saperne ha causato qualche occasionale mormorio di protesta, ma certo
non rimostranze pubbliche o ancor meno una reazione adeguata. Noi, la “maggioranza
democratica”, ci consoliamo pensando che tutte queste violazioni dei diritti umani
sono mirate a “loro”, non a “noi” – appartenenti a una specie umana diversa (“detto
tra noi, ma dovremmo definirla umana?!”)–, e che quello sdegno non riguarda noi, persone
rispettabili. Abbiamo opportunamente dimenticato la triste lezione appresa da Martin
Niemöller, il pastore luterano vittima della persecuzione nazista. Per prima cosa
portarono via i comunisti, e io rimasi in silenzio perché non ero un comunista. Poi
se la presero con i sindacalisti, e io che non ero un sindacalista non dissi nulla.
Poi fu il turno degli ebrei, ma non ero ebreo... E dei cattolici, ma non ero cattolico...
Poi vennero per me, e a quel punto non c’era rimasto nessuno che potesse prendere
le difese di qualcun altro.
In un mondo di incertezze, la sicurezza è lo scopo del gioco: ne è l’intento principale
e l’obiettivo ultimo. Un valore alla luce del quale tutti gli altri – di fatto, se
non in teoria – appaiono insignificanti e da questo scalzati dalla nostra vista e
dalla nostra attenzione, compresi quelli cari a “noi”, e che sospettiamo siano invisi
a “loro”, e per questo considerati il motivo principale all’origine del loro desiderio
di farci del male, nonché del nostro dovere di sconfiggerli e punirli. In un mondo
insicuro come il nostro, la libertà personale di parola e di azione, il diritto alla
privacy, l’accesso alla verità – tutte cose che un tempo associavamo alla democrazia e in
nome delle quali ancora oggi siamo pronti a imbracciare le armi – devono essere ridotti
o sospesi. O, per lo meno, questo è ciò che viene sostenuto dalla versione ufficiale
e confermato dalla consuetudine ufficiale.
La verità – che possiamo trascurare solo a rischio della democrazia – è che tuttavia
non è possibile difendere efficacemente le nostre libertà in casa nostra se ci isoliamo
dal resto del mondo interessandoci esclusivamente a ciò che ci riguarda.
La suddivisione in classi è soltanto una delle forme storiche di disuguaglianza, e
lo Stato nazionale soltanto una delle sue cornici storiche. Per questo la “fine della
società nazionale basata sulle classi” (ammesso che l’era della “società nazionale
basata sulle classi” sia davvero finita, cosa che rimane opinabile) non annuncia “la
fine della disuguaglianza sociale”. Occorre estendere il concetto di disuguaglianza
al di là del fuorviante e angusto ambito del reddito pro capite, fino a comprendere
la fatale e reciproca attrazione tra povertà, vulnerabilità sociale, corruzione, l’assommarsi
dei pericoli, l’umiliazione e la negazione della dignità: fattori che plasmano modi
di pensare e guidano e integrano (o, più correttamente in questo caso, disintegrano) i gruppi. Fattori che nell’era dell’informazione globalizzata aumentano
rapidamente, assumendo una rilevanza sempre maggiore.
Credo che alla base dell’attuale “globalizzazione della disuguaglianza” vi sia il
riproporsi, benché questa volta su scala planetaria, del processo che Max Weber osservò
alle origini del capitalismo moderno e che definì come “separazione tra impresa ed
economia domestica”: in altre parole, l’emancipazione degli interessi commerciali
da tutte le istituzioni socio-culturali ancora esistenti e dedite, per ispirazione
etica, alla supervisione e al controllo (che in passato si concentravano nella casa/bottega
a conduzione familiare e, tramite questa, nella comunità locale) – e di conseguenza
l’immunizzazione degli obiettivi commerciali contro qualsiasi valore che non sia quello
della massimizzazione del profitto. Col beneficio del senno di poi, possiamo considerare
le deroghe attuali come una replica ampliata del suo processo iniziale, risalente
a due secoli fa. Queste deroghe hanno prodotto i medesimi frutti: la rapida diffusione
della sofferenza (sotto forma di povertà, disgregazione delle famiglie e delle comunità,
lo scemare e l’indebolirsi dei legami umani, ormai ridotti al “nesso monetario” di
Thomas Carlyle) e l’emergere di una nuova “terra di nessuno” (una sorta di quel “Far
West selvaggio” che sarà poi ricreato negli studios hollywoodiani) libera dai vincoli delle leggi e dai controlli amministrativi, e visitata
solo sporadicamente da giudici itineranti.
Per farla breve: all’originaria secessione degli interessi commerciali ha fatto seguito
una lunga, frenetica, ardua lotta ingaggiata dallo Stato emergente per invadere, sottomettere,
colonizzare e infine “regolare normativamente” quella terra priva di regole e gettare
le basi istituzionali della “comunità immaginata” (ribattezzata “nazione”), che avrebbe
dovuto farsi carico di tutte le funzioni vitali un tempo svolte dalle famiglie, dalle
parrocchie, dalle corporazioni di artigiani e da altre istituzioni che imponevano
alle attività commerciali i medesimi valori della comunità, che però oggi sfuggono
alla debole presa delle comunità locali, spogliate del proprio potere esecutivo. Oggi
assistiamo alla fase 2 della secessione commerciale: questa volta il ruolo di “famiglia”
e di “baluardo del campanilismo” viene assegnato allo Stato nazionale, che diventa oggetto di disapprovazione e di biasimo ed è accusato di essere un immotivato
retaggio del passato, un ostacolo alla modernizzazione e all’economia.
L’essenza della seconda secessione, così come l’essenza della secessione originaria,
sta nel divorzio tra potere e politica. Nel corso della sua lotta per limitare i danni sociali e culturali causati dalla
prima secessione (che culminò nel “trentennio glorioso” successivo alla Seconda guerra
mondiale), l’emergente Stato moderno riuscì a sviluppare all’interno dell’unione territoriale tra nazione e Stato istituzioni politiche e di governance a misura della postulata fusione tra potere (Macht, Herrschaft) e politica. Oggi il matrimonio tra potere e politica (o piuttosto la loro convivenza
all’interno dello Stato nazionale) sta sfociando in una separazione che sfiora il
divorzio, in cui il potere in parte evapora verso l’alto, nel cyberspazio, in parte
confluisce nei mercati, attivamente e inflessibilmente apolitici, e in parte viene
“addossato” (coercitivamente, “per legge”) agli individui da poco “affrancati” (anch’essi
coercitivamente) e al loro modo di gestire l’esistenza. I risultati della seconda
secessione sono molto simili a quelli prodotti dalla prima, ma si manifestano su una
scala incomparabilmente più imponente. Questa volta però all’orizzonte non si scorge
nulla di paragonabile al postulato “Stato nazionale sovrano”, che sia cioè in grado
(almeno nelle intenzioni) di escogitare (e ancor meno di implementare) soluzioni capaci
di lenire gli effetti sinora esclusivamente negativi della globalizzazione (che è
distruttiva, annienta le istituzioni ed erode le strutture) e di radunare le forze
ormai impazzite per sottoporle a un controllo di ispirazione etica, da esercitare
attraverso la politica. Almeno fino ad oggi... Al momento il potere è svincolato dalla
politica, e la politica è priva di potere. Il potere è già globale, mentre la politica rimane pateticamente locale. Gli Stati
nazionali territoriali sono dei presidi di ordine pubblico a livello locale, ma anche
dei ricettacoli, degli impianti per la raccolta e lo smaltimento dei rischi e dei
problemi che si producono a livello globale.
Esistono dei validi motivi per supporre che in un pianeta globalizzato, in cui le
difficoltà di ciascun individuo, ovunque esso si trovi, contribuiscono a determinare
le difficoltà di tutti gli altri – da cui a loro volta sono determinate –, non sia
più possibile riuscire a tutelare e proteggere la democrazia “separatamente”: in un
solo Paese, o in alcuni Paesi prescelti, come nel caso dell’Unione Europea. Il destino
della libertà e della democrazia in ciascuna terra si decide e si attua sulla scena
globale, e lì solo può essere difeso con realistiche possibilità di successo duraturo.
Nessun Paese, per quanto intraprendente, ben armato, risoluto e intransigente, può
più permettersi di difendere con le sole proprie forze alcuni valori in patria e al
tempo stesso voltare le spalle ai sogni e ai desideri di chi vive al di fuori dei
suoi confini. Tuttavia sembra proprio questo che noi, europei e americani, facciamo
quando ci teniamo strette le nostre ricchezze e le moltiplichiamo a scapito dei poveri
che vivono al di fuori delle nostre frontiere.
Qualche esempio dovrebbe bastare: se quarant’anni fa il reddito del più ricco 5 per
cento della popolazione mondiale era trenta volte superiore rispetto a quello del
più povero 5 per cento, quindici anni fa lo era sessanta volte e nel 2002 ben centoquattordici
volte.
Come indicato da Jacques Attali in La voie humaine, la metà degli scambi commerciali mondiali e più della metà degli investimenti globali
arricchiscono solo ventidue Paesi, in cui vive un mero 14 per cento della popolazione
mondiale, mentre i quarantanove Paesi più poveri, che ospitano l’11 per cento della
popolazione mondiale, si sostengono con una percentuale pari allo 0,5 per cento del
prodotto complessivo globale, una cifra che corrisponde più o meno al reddito complessivo
dei tre uomini più ricchi del pianeta. Il 90 per cento della ricchezza complessiva
del pianeta rimane nelle mani di appena l’1 per cento della popolazione mondiale.
Mentre ogni anno la Tanzania suddivide i suoi 2,2 miliardi di dollari di entrate tra
25 milioni di abitanti, la banca Goldman Sachs ne guadagna 2,6 miliardi, che ripartisce
tra i suoi 161 soci azionisti.
E se ogni anno Europa e Stati Uniti spendono 17 miliardi di dollari in mangimi per
animali, secondo alcuni esperti ne potrebbero bastare 19 per risolvere il problema
della fame nel mondo. Come faceva notare Joseph Stiglitz ai ministri del Commercio
che si preparavano a incontrarsi in Messico per un summit, il sussidio che l’Europa versa per ogni bovino “corrisponde ai due dollari al giorno
con cui miliardi di esseri umani sopravvivono a stento nella povertà” e i sussidi
di 4 miliardi di dollari per il cotone americano versati a 25.000 coltivatori benestanti
“costringono alla miseria 10 milioni di coltivatori africani, annullando di fatto
l’esiguo contributo che gli Stati Uniti erogano ad alcuni di quegli stessi Paesi”.
Di tanto in tanto si sentono l’Europa e l’America accusarsi reciprocamente di “pratiche
agricole scorrette”, ma Stiglitz osserva che “nessuno dei due Paesi sembra disposto
a fare concessioni significative” – quando solo una “concessione significativa” potrebbe
convincere gli altri Paesi a non considerare più la spudorata esibizione di “bruta
supremazia economica da parte degli Stati Uniti e dell’Europa” nient’altro che un
tentativo di difendere i privilegi dei privilegiati, proteggere le ricchezze dei ricchi
e assecondare i loro interessi. Il che, dal loro punto di vista, si riduce all’accumulo
di ricchezze sempre maggiori.
Se si vogliono elevare e reindirizzare i tratti principali della solidarietà umana
(come il sentimento di reciproca appartenenza, la responsabilità condivisa verso un
futuro comune, la volontà di prendersi cura del benessere del prossimo e di trovare
soluzioni amichevoli e durature agli occasionali, ma accesi, scontri di interessi)
a un livello che vada oltre quello dello Stato nazionale, è necessario creare un quadro
istituzionale all’interno del quale si possono formare opinioni e costruire volontà. L’Unione Europea
mira, per quanto lentamente e con titubanza, a realizzare un quadro istituzionale
sia pure in forma rudimentale o embrionale, incontrando sul suo cammino come principali
ostacoli gli Stati nazionali esistenti e la loro riluttanza a separarsi da ciò che
resta della loro sovranità, un tempo incontrastata. È difficile tracciare con certezza
la direzione da prendere (e ancor più difficile predirne le svolte future), che si
annuncia oltretutto priva di garanzie, azzardata e imprudente.
Riteniamo, immaginiamo, sospettiamo di sapere ciò che occorrerebbe fare, ma non possiamo
sapere in che forma o modo alla fine sarà fatto. Tuttavia, possiamo essere ragionevolmente
certi che il risultato definitivo sarà diverso da ciò che già conosciamo. Sarà – dovrà
essere – diverso da tutti i risultati a cui siamo stati abituati in passato, nell’epoca
in cui il senso di identità nazionale si andava consolidando e gli Stati nazionali
iniziavano ad affermarsi. È difficile che le cose possano andare altrimenti, dato
che tutte le istituzioni politiche attualmente a nostra disposizione sono state create
a misura della sovranità territoriale dello Stato nazionale e resistono al tentativo di essere estese a livello sovranazionale,
planetario, e le istituzioni politiche al servizio dell’auto-costituzione della comunità
umana planetaria non saranno – non potranno essere – “le stesse, solo più grandi”.
Se avesse avuto la possibilità di assistere a una seduta del parlamento di Londra,
Parigi o Washington, Aristotele ne avrebbe forse approvato le norme procedurali, riconoscendo
i vantaggi che il parlamento offre al popolo a cui le sue decisioni sono destinate,
ma avrebbe provato una certa perplessità nel venire a sapere di trovarsi di fronte
a una “democrazia in azione”. Non è così che Aristotele, che coniò quel termine, immaginava una “polis democratica”.
Possiamo certo intuire che il passaggio da agenzie e strumenti esecutivi internazionali a istituzioni universali – che si estendono al globo, al pianeta, all’umanità – deve essere, e sarà, un cambiamento
qualitativo e non semplicemente quantitativo nella storia della democrazia. Possiamo quindi domandarci, con un certo grado di
preoccupazione, se gli organismi di “politica internazionale” attualmente disponibili
possano soddisfare le modalità del sistema globale che sta emergendo, o anzi fungere
loro da incubatrice. Pensiamo ad esempio alle Nazioni Unite, tra i cui compiti, fin
dalla fondazione, c’è quello di vigilare e difendere l’indivisa e inviolabile sovranità
dello Stato sul proprio territorio. È possibile che il potere vincolante di leggi planetarie dipenda dagli accordi (considerati revocabili!) che obbligano i membri sovrani della
“comunità internazionale” ad attenervisi?
Nella sua fase iniziale, la modernità ha innalzato il livello dell’integrazione tra
gli esseri umani al livello delle nazioni. Prima di completare la propria opera, la modernità dovrà compiere uno sforzo ulteriore,
ancora più eroico: innalzare tale integrazione umana al livello dell’umanità, sino a comprendere l’intera popolazione del pianeta. Un compito che, per quanto
arduo e spinoso, si presenta come tassativo e urgente, e che in un pianeta caratterizzato
dall’interdipendenza universale rappresenta – letteralmente – una questione di vita
(condivisa) o morte (comune). Una delle condizioni fondamentali affinché tale compito
possa essere intrapreso ed espletato seriamente è la creazione di un equivalente globale (non una replica, né una copia ampliata) dello Stato sociale che ha suggellato e
coronato la fase precedente della storia moderna – quella che aveva visto l’integrazione
delle comunità e delle tribù in Stati nazionali. A un certo punto, quindi, sarà indispensabile che riemerga il nucleo essenziale
dell’“utopia attiva” socialista: il principio di responsabilità e di assicurazione
collettive contro sofferenze e avversità; questa volta però su scala globale, dal
momento che dovrà avere come proprio oggetto l’umanità intera.
La globalizzazione dei capitali e del commercio delle materie prime ha raggiunto ormai
un livello tale che nessun governo è più in grado, da solo con altri, di far quadrare
i conti. E senza i conti in regola è inconcepibile che uno Stato sociale possa riuscire
a eliminare efficacemente la povertà all’interno dei propri confini geografici. È
anche difficile immaginare che i governi possano, da soli coalizzanodosi, imporre
limiti ai consumi e incrementare le tasse locali fino a portarle al livello che l’erogazione
(per non parlare dell’ulteriore espansione) dei servizi sociali richiederebbe. L’esigenza
di intervenire sui mercati è molto sentita, ma siamo sicuri che tale intervento –
ammesso che avrà luogo, e soprattutto che produrrà effetti tangibili – sarà di matrice
statale? L’impressione è che debba essere compito, invece, di iniziative non-governative, indipendenti dallo Stato e forse addirittura critiche nei suoi confronti.
La povertà e la disuguaglianza, e più in generale i disastrosi strascichi e i “danni
collaterali” del laissez-faire globale, non possono essere adeguatamente affrontati a prescindere dal resto del
pianeta, in un solo angolo del globo. Non esiste un modo onorevole in cui uno o più
Stati territoriali potrebbero “dissociarsi” dall’interdipendenza globale dell’umanità.
Lo “Stato sociale” non rappresenta più una via perseguibile: solo un “pianeta sociale” può rilevare le funzioni che gli Stati sociali hanno tentato, con esiti
alterni, di espletare.
Sospetto che a condurci a quel “pianeta sociale” non saranno gli Stati sovrani territoriali,
ma piuttosto delle organizzazioni e associazioni non-governative extraterritoriali
e cosmopolite, capaci di raggiungere direttamente i bisognosi scavalcando i governi
“sovrani” locali, evitandone le interferenze.
[Sono grato per aver avuto la possibilità di trarre parte del materiale per questo
saggio dal mio articolo Ot agory k rynku – i kuda potom?, in «Svobodnaja Mysl’», 8 (2008)]