3. Stato, democrazia e gestione delle paure
È stato soprattutto in Europa e nei suoi ex possedimenti, propaggini, diramazioni
e sedimentazioni d’oltremare (nonché in alcuni altri «paesi sviluppati» che hanno
con l’Europa un rapporto di Wahlverwandschaft, di affinità elettiva, anziché di Verwandschaft, una semplice parentela) che le paure ambientali e le ossessioni per la sicurezza
hanno avuto l’evoluzione più spettacolare in questi ultimi anni.
Sembra un mistero, se lo si guarda senza metterlo in relazione ad altri importanti
orientamenti avvenuti negli «ultimi anni». Dopo tutto, come indica giustamente Robert
Castel nella sua incisiva analisi delle angosce attuali da insicurezza, «viviamo senza
dubbio – perlomeno nei paesi sviluppati – nelle società più sicure finora mai esistite»1. Eppure, contrariamente alle «prove oggettive», siamo proprio «noi», tanto vezzeggiati
e viziati, a sentirci più minacciati, insicuri e spaventati, più inclini al panico
e più interessati a tutto ciò che riguarda l’incolumità e la sicurezza, rispetto alla
maggior parte delle altre società conosciute.
Sigmund Freud ha affrontato direttamente l’enigma delle paure in apparenza ingiustificate
e ha suggerito che la soluzione andrebbe cercata nell’ostinata diffidenza della psiche
umana verso l’arida «logica dei fatti». La sofferenza umana (e perciò anche la paura
di soffrire, l’esemplificazione più fastidiosa e probabilmente più irritante della
sofferenza) nasce dalla «forza soverchiante della natura, la fragilità del nostro
corpo e l’inadeguatezza delle istituzioni che regolano le reciproche relazioni degli
uomini nella famiglia, nello Stato e nella società»2.
Riguardo alle prime due cause indicate da Freud, noi riusciamo, in un modo o nell’altro,
a scendere a patti con i limiti fondamentali a ciò che siamo in grado di fare: sappiamo
che non riusciremo mai a dominare appieno la natura e che non riusciremo a rendere
immortali i nostri corpi mortali, o a sottrarci all’implacabile scorrere del tempo,
e perciò, almeno in questo ambito, siamo pronti ad accontentarci di una «soluzione
di ripiego». La conoscenza dei limiti, tuttavia, può essere tanto stimolante e foriera
di energia quanto deprimente e invalidante: se non possiamo eliminare tutte le sofferenze, possiamo eliminarne alcune e attenuarne altre: vale la pena di provare, e di provarci ripetutamente. E noi ci proviamo, mettendocela
tutta, e in questi tentativi reiterati consumiamo gran parte delle nostre energie
e della nostra attenzione, lasciando poco spazio alla riflessione mesta e alla preoccupazione
che alcuni miglioramenti altrimenti auspicabili rimangano assolutamente fuori portata,
rendendo tutti i tentativi di raggiungerli uno spreco di tempo prezioso.
Le cose cambiano abbastanza, tuttavia, nel caso del terzo tipo di sofferenza, quella
che ha un’origine autenticamente sociale o ritenuta tale. Qualunque cosa fatta da esseri umani può essere rifatta da esseri umani. In questo caso, perciò, non accettiamo nessun limite al rifacimento della realtà;
rifiutiamo la possibilità che possano essere prestabiliti e fissati una volta per
tutte limiti alle nostre iniziative, tali da non poter essere infranti con la dovuta
dose di determinazione e buona volontà: «Non riusciamo a capire perché norme create
da noi stessi non dovrebbero [...] essere una protezione e un vantaggio per ciascuno
di noi». Ogni caso di infelicità socialmente determinata è perciò una sfida, un abuso
e una chiamata alle armi. Se la «protezione realmente disponibile» e i benefici di
cui godiamo non raggiungono l’ideale, se le relazioni non sono ancora di nostro gradimento,
se le norme non sono ciò che dovrebbero (e potrebbero, secondo quanto crediamo) essere,
siamo portati a sospettare quantomeno la presenza di una censurabile mancanza di buona
volontà, ma il più delle volte presupponiamo l’esistenza di qualche macchinazione
ostile, complotti, una congiura, un intento criminale, un nemico alla porta o sotto
il letto, un colpevole con un nome e un indirizzo ancora da scoprire, ancora da assicurare
alla giustizia. Una malizia premeditata, in poche parole.
Castel giunge ad una conclusione simile, dopo aver scoperto che l’insicurezza moderna
«non sarebbe l’assenza di protezioni, ma piuttosto il loro rovescio: la loro ombra,
proiettata in un universo sociale che si è organizzato attorno a una richiesta senza
fine di protezioni o attorno a una travolgente ricerca di sicurezza»3. L’acuta e inguaribile esperienza dell’insicurezza è un effetto collaterale della
convinzione che la sicurezza assoluta sia raggiungibile, con le giuste capacità e con uno sforzo adeguato («si può fare», «possiamo farcela»).
E così, se viene fuori che non ce la si è fatta, l’insuccesso si può spiegare soltanto con un atto malvagio e malintenzionato.
In questo dramma, un cattivo ci dev’essere.
Possiamo affermare che la varietà moderna di insicurezza è ben caratterizzata dalla
paura della malvagità umana e dei malfattori umani; è permeata dal sospetto verso altri esseri umani e le loro intenzioni, dal rifiuto
di nutrire fiducia nella costanza e nell’affidabilità della compagnia umana, e deriva
in ultima istanza dalla nostra incapacità e/o dalla nostra indisponibilità a rendere
quella compagnia duratura e affidabile, e pertanto degna di fiducia.
Castel attribuisce all’individualismo moderno la responsabilità di questo stato di
cose; suggerisce che la società moderna, avendo sostituito le comunità coese e le
corporazioni che un tempo definivano le norme della protezione e ne monitoravano l’applicazione,
demandando agli individui il compito di provvedere al proprio interesse, alla cura
di sé e alla propria autosufficienza, vive sulle sabbie mobili della contingenza.
In una società del genere, i sentimenti di insicurezza esistenziale e le paure sparse
di pericoli diffusi sono, inevitabilmente, endemici.
Come nella maggior parte delle trasformazioni dell’era moderna, anche in questo caso
l’Europa ha avuto un ruolo pionieristico. L’Europa è stata anche la prima ad affrontare
il fenomeno delle conseguenze impreviste, e di norma malsane, del cambiamento. La
snervante sensazione di insicurezza non sarebbe sorta se non fosse stato per il contemporaneo
prodursi di due orientamenti in Europa, diffondendosi soltanto dopo, e a velocità
variabile, nelle altre parti del globo. Il primo è stato, per seguire la terminologia
di Castel, la «ipervalorizzazione» (survalorisation)4 degli individui liberati dai vincoli imposti dalla fitta rete di legami sociali.
Ma un secondo orientamento è seguito subito dopo: una fragilità e una vulnerabilità
senza precedenti di quegli stessi individui, privati della protezione che veniva concretamente
offerta in passato da quella fitta rete di legami sociali.
Con il primo orientamento, i singoli esseri umani vedevano aprirsi davanti a loro,
eccitanti e seducenti, vasti spazi dove poter sperimentare e praticare le arti nuove
della costituzione e del miglioramento di sé. Ma il secondo orientamento sbarrava
alla maggior parte degli individui l’ingresso in un territorio tanto attraente. Essere
un individuo de jure (per decreto della legge o per il sale del senso di colpa personale sfregato sulla
ferita prodotta dall’impotenza indotta dalla società) non garantiva in nessun modo
l’individualità de facto, e a molti mancavano le risorse per far valere i diritti impliciti nella prima caratteristica
mentre lottavano per la seconda5. Paura dell’inadeguatezza è il nome del male che ne è risultato. Per molti individui de jure, se non per tutti, l’inadeguatezza è stata una dura realtà, non un oscuro presagio:
ma la paura dell’inadeguatezza è diventata un malanno universale, o quasi. Sia che avesse già
sperimentato la realtà autentica dell’inadeguatezza, sia che fino a quel momento fosse
fortunatamente riuscita a tenerla a distanza, la società era destinata a essere costantemente
assillata dallo spettro dell’inadeguatezza.
Fin dall’inizio, perciò, lo Stato moderno si è trovato di fronte al temibile compito
di gestire la paura. Ha dovuto tessere una rete protettiva dal nulla, in sostituzione di quella fatta
a pezzi dalla rivoluzione moderna, andando avanti a ripararla man mano che la modernizzazione
senza sosta promossa da quello stesso Stato continuava a tenderla oltre i suoi limiti,
rendendola fragile. Contrariamente all’opinione diffusa, il nucleo centrale dello
«Stato sociale», conseguenza inevitabile dello sviluppo dello Stato moderno, era la
protezione (l’assicurazione collettiva contro le disgrazie individuali) e non la ridistribuzione della ricchezza. Per persone sprovviste di capitale economico, culturale o sociale (di fatto, tutti
beni, tranne la capacità lavorativa, che nessuno poteva mettere in campo con le sole
proprie forze) la protezione poteva essere collettiva o non essere affatto6.
A differenza delle reti protettive sociali del passato premoderno, quelle concepite
e amministrate dallo Stato o erano costruite deliberatamente e in base a un progetto,
oppure si evolvevano spinte dal loro stesso slancio partendo dagli altri sforzi di
costruzione su vasta scala che hanno caratterizzato la fase «solida» della modernità.
Le istituzioni e le prestazioni assistenziali (chiamate a volte «salari sociali»),
la sanità gestita o assistita dallo Stato, la scuola e la casa, oltre alle leggi sul
lavoro che descrivevano in dettaglio i diritti e i doveri reciproci di tutte le parti
nei contratti di compravendita della forza-lavoro, e per lo stesso motivo proteggevano
il benessere e i diritti acquisiti dei dipendenti, sono esempi della prima categoria.
L’esempio principale della seconda categoria era la solidarietà operaia, sindacale
e professionale che mise radici e fiorì «naturalmente» nell’ambiente relativamente
stabile della «fabbrica fordista», esemplificazione dello scenario di modernità solida
in cui si stagliavano la maggior parte degli individui «privi di altro capitale».
Nella «fabbrica fordista» l’impegno con la controparte nei rapporti capitale-lavoro
era reciproco e a lungo termine, e ciò rendeva entrambe le parti dipendenti l’una
dall’altra, ma al tempo stesso le metteva nelle condizioni di pensare e fare progetti
per il futuro, di impegnare il futuro e di investire nel futuro. Per questa ragione
la «fabbrica fordista» era un luogo di aspri conflitti, che esplodevano a volte in
aperta ostilità (quando la prospettiva di un impegno a lungo termine e la reciproca
dipendenza di tutte le parti in causa rendeva uno scontro frontale un investimento
ragionevole e un sacrificio che avrebbe dato i suoi frutti), ma che fermentavano e
si acuivano continuamente anche se erano celati alla vista. Eppure quello stesso tipo
di fabbrica era anche un riparo sicuro, da cui guardare nel futuro con fiducia e che
di conseguenza permetteva di contrattare, scendere a compromessi e ricercare una modalità
consensuale di coabitazione. Con i suoi percorsi di carriera chiaramente definiti,
le sue routine faticose ma confortevolmente stabili, il ritmo lento dei cambiamenti
nella composizione delle squadre di lavoro, le qualifiche professionali che una volta
acquisite continuavano a essere utili per molto tempo (il che significava che l’esperienza
di lavoro accumulata era giudicata preziosa), gli imprevisti del mercato del lavoro
potevano essere tenuti a bada, l’incertezza poteva essere attenuata se non eliminata
del tutto, e le paure potevano essere relegate nel regno marginale dei «colpi del
destino» e degli «incidenti fatali», invece di saturare il corso della vita quotidiana.
Soprattutto, tutti coloro – e non erano pochi – i quali erano privi di qualsiasi capitale
tranne la loro capacità di lavorare per altri potevano contare sulla collettività.
La solidarietà trasformava la loro capacità lavorativa in un sostituto del capitale,
e in un tipo di capitale che si sperava, non a torto, potesse bilanciare la forza
combinata di tutti gli altri capitali.
Thomas Humphrey Marshall è diventato famoso ed è ricordato per aver tentato, subito
dopo l’istituzione del welfare State britannico nel dopoguerra attraverso l’approvazione parlamentare di una serie di
leggi, di ricostruire la logica che guidava il graduale evolversi del significato
dei diritti individuali. Secondo il suo resoconto7, il lungo processo ebbe inizio dal sogno di sicurezza personale, seguito da una lunga
lotta contro il potere arbitrario di re e principi. Ciò che per i re e per i principi
era il diritto divino di proclamare e di revocare le norme a loro piacimento, e quindi
in ultima istanza di seguire il proprio estro e i propri capricci, per i sudditi significava
una vita vissuta alla mercé di una benevolenza reale non molto diversa dalle stravaganze
del destino: una vita di incertezza continua e insanabile, in balia dei misteriosi
spostamenti dei favori del sovrano. Era difficile entrare nelle grazie del re o della
regina, ed era ancor più difficile restarci: i sovrani cambiavano facilmente idea,
ed era impossibile assicurarsi per sempre i loro favori. Questa incertezza si traduceva
in un’umiliante sensazione di impotenza, cui fu posto rimedio solo quando la condotta
dei regnanti venne resa prevedibile assoggettandoli a norme legali che neanche loro
avevano la facoltà o la forza di modificare o di sospendere a loro arbitrio, senza
il consenso dei sudditi interessati. In altre parole, la sicurezza personale poté
essere ottenuta soltanto attraverso l’introduzione di regole che vincolavano tutti gli attori in gioco. Il valore universale delle norme non trasformava tutti in vincenti:
come prima, c’erano giocatori fortunati e sfortunati, vincitori e perdenti. Ma almeno
le regole del gioco erano rese esplicite, si potevano imparare e non sarebbero state
cambiate arbitrariamente a gioco ancora in corso; e i vincitori non avrebbero dovuto
temere lo sguardo ostile del re, perché i frutti della vittoria erano loro per sempre,
e potevano goderseli, come proprietà inalienabile.
La lotta per i diritti personali, si può dire, era animata dal desiderio di chi era
già fortunato (o sperava di vincere la prossima volta) di conservare i doni della
buona sorte senza bisogno di dover ricorrere a sforzi costosi, disagevoli ma soprattutto
inaffidabili e inutili per entrare nelle grazie del sovrano e conservarne i favori.
La richiesta di diritti politici, cioè di poter svolgere un ruolo sostanziale nella formazione delle leggi, secondo
Marshall era stata la rivendicazione successiva, il passo logico dopo la conquista
dei diritti personali e la necessità di difenderli; ma si può concludere, da quanto è stato appena detto,
che questi due tipi di diritti potevano essere rivendicati, conquistati e consolidati
soltanto congiuntamente: difficile ottenerli e goderne separatamente. Tra questi due tipi di diritti sembra
esistere una dipendenza circolare, un rapporto simile a quello esistente tra l’uovo
e la gallina. L’incolumità personale e la sicurezza delle proprietà sono condizioni
indispensabili per mettere in grado di lottare con efficacia per il diritto alla partecipazione
politica, ma per dare basi solide e ragionevolmente durevoli a questi diritti è necessario
che siano i beneficiari a decidere la forma delle leggi vincolanti che questi diritti
regolano.
Si può essere sicuri dei propri diritti personali soltanto se si possiede la facoltà
di esercitare i diritti politici e si è in grado di far pesare questa facoltà nel
processo di elaborazione delle leggi; e se il patrimonio (economico e sociale) controllato
personalmente e protetto dai diritti personali non è sufficientemente consistente
da meritare l’attenzione delle autorità costituite, allora le possibilità di incidere
sul processo di elaborazione delle leggi si fanno a dir poco evanescenti. Come era
già ovvio per Marshall, ma aveva bisogno di essere ribadito con forza, alla luce delle
ultime tendenze politiche, da Paolo Flores d’Arcais, «la povertà (vecchia e nuova)
genera disperazione e sottomissione, assorbe tutte le energie nella lotta per la sopravvivenza,
e mette la volontà alla mercé di vuote promesse e inganni insidiosi»8. Gli intrecci e le interazioni tra diritti personali e diritti politici riguardano
i prepotenti: i ricchi, non i poveri, quelli che «sono già sicuri, se solo li si lascia in pace», non quelli «che hanno bisogno di assistenza esterna
per diventare sicuri». Il diritto di voto (e quindi, indirettamente e almeno in teoria, il diritto a influenzare
la composizione dei governanti e la forma delle regole a cui devono attenersi i governati)
potrà essere esercitato significativamente soltanto da quelli «che possiedono risorse
economiche e culturali sufficienti» per essere «al sicuro dalla servitù volontaria
o involontaria che taglia alla radice qualsiasi possibile autonomia di scelta (e/o
di delega a scegliere)».
Non stupisce che per tanto tempo i promotori della soluzione elettorale al dilemma
di come garantire i diritti personali tramite l’esercizio di quelli politici «volessero
limitare il suffragio in base alla ricchezza e al livello d’istruzione». Sembrava
ovvio all’epoca che potessero godere della «piena libertà» (cioè del diritto di partecipare
al processo di elaborazione delle leggi) solamente coloro che avevano la piena «proprietà
della propria persona»9, cioè quegli individui la cui libertà personale non era menomata da signori feudali
o datori di lavoro fondamentali per la loro sussistenza. Per oltre un secolo dopo
l’invenzione e l’accettazione, convinta o rassegnata, del progetto della rappresentanza
politica, l’estensione del suffragio universale a chiunque non facesse parte degli
«abbienti» fu ostacolata con le unghie e con i denti dai promotori e dai sostenitori
del progetto stesso. La prospettiva di un suffragio più esteso era considerata, non
del tutto a torto, non come il trionfo della democrazia, ma come un’aggressione contro
di essa (il presupposto tacito che rendeva più accanita quella resistenza era probabilmente
il presagio che i «non abbienti» non avrebbero usato il dono della partecipazione
politica per difendere la sicurezza delle proprietà e lo status sociale, quei diritti
personali sui quali non avevano interessi da difendere).
Volendo seguire la sequenza logico-storica dei diritti illustrata da Marshall, possiamo
dire che fino alla fase dei diritti politici (inclusa), la democrazia è stata un’avventura
selettiva e rigorosamente limitata; l’aspirazione del demos (il popolo) della parola «democrazia» a detenere il kratos (il potere) sul processo di creazione e modifica delle leggi era un concetto che
in quella fase rimaneva ristretto a pochi privilegiati, ed escludeva, non solo nella
pratica ma anche nella lettera della legge, una vasta maggioranza di persone che le
leggi elaborate tramite un processo politico miravano a vincolare.
Come ci ha ricordato di recente John R. Searle, l’inventario dei God given, i diritti inalienabili «concessi da Dio» e stilati dai padri fondatori della democrazia
americana, «non comprendeva l’uguaglianza di diritti per le donne – neppure il diritto
al voto o alla proprietà – e non comprendeva l’abolizione della schiavitù»10. E Searle non considera questa qualità della democrazia (l’essere un privilegio da
concedere con prudenza e parsimonia) una caratteristica temporanea, passeggera e ormai
tramontata. Per esempio, «ci saranno sempre opinioni che moltissima gente, per non
dire la maggioranza, trova rivoltanti», e di conseguenza è improbabile che possa essere
garantita in modo completo e autenticamente universale quella libertà di parola che
i diritti politici dovrebbero assicurare a tutti i cittadini. Ma bisognerebbe aggiungere
un attributo ancora più fondamentale: se i diritti politici possono essere usati per
difendere e consolidare le libertà personali basate sul potere economico, difficilmente
essi garantiranno le libertà personali a chi è privo di proprietà, a chi non ha nessun titolo ad aspirare a quelle risorse senza le quali la libertà
personale non può essere né conquistata né di fatto goduta.
Ci si trova allora in una sorta di circolo vizioso: un gran numero di persone possiedono
poco o niente che valga la pena di essere difeso con accanimento, e perciò, agli occhi
degli abbienti, non hanno bisogno di quei diritti politici ritenuti funzionali a tale
scopo, e non è quindi il caso di riconoscere loro questi diritti. Ma dal momento che
queste persone non sono ammesse, per la suddetta ragione, nell’esclusivo club degli
elettori (e durante tutta la storia della democrazia moderna ci sono state forze potenti
che hanno lottato per rendere permanente questo divieto di ammissione), avranno scarse
possibilità di assicurarsi le risorse materiali e culturali che le farebbero diventare
degne di ricevere in premio i diritti politici. Lasciata alla propria logica di sviluppo,
la «democrazia» potrebbe rimanere non solo nella pratica, ma anche formalmente ed
esplicitamente, un affare essenzialmente d’élite. Ma, come Paolo Flores d’Arcais osserva
giustamente, due, non di più, erano le soluzioni possibili a tale dilemma: «o limitare
di fatto il suffragio a coloro che già possedevano queste risorse, oppure ‘rivoluzionare’
progressivamente la società in modo tale da trasformare quei privilegi – ricchezza
e cultura – in diritti garantiti per tutti».
Fu a questa seconda soluzione che si ispirò il modello di welfare state di Lord Beveridge, l’incarnazione più completa dell’idea di diritti sociali di T.H. Marshall, quel terzo passo nella catena dei diritti senza il quale il progetto
democratico è destinato a fermarsi prima di arrivare a conclusione. «Un energico programma
di assistenza», come riassume la sua tesi Flores d’Arcais, più di mezzo secolo dopo
Beveridge, «doveva essere parte integrante, e costituzionalmente tutelata, di ogni progetto democratico». Senza diritti politici, la gente non può
essere sicura dei propri diritti personali; ma senza diritti sociali, i diritti politici rimarranno un sogno irraggiungibile, un’inutile finzione o uno scherzo crudele per
i tantissimi a cui, formalmente, la legge concede tali diritti. Se i diritti sociali
non sono garantiti, i poveri e i pigri non potranno esercitare i diritti politici
di cui formalmente godono. E allora i poveri avranno titolo soltanto a ciò che i governi
riterranno necessario concedere, e nella misura in cui sarà ritenuto accettabile da
coloro che hanno l’autentica forza politica necessaria per conquistare e mantenere
il potere. Finché rimarranno privi di risorse, i poveri potranno sperare al massimo
di essere destinatari di trasferimenti, non oggetto di diritti.
Lord Beveridge aveva ragione di credere che la sua visione di un sistema di protezione
esteso a tutti, garantito dalla collettività, fosse al tempo stesso la conseguenza
inevitabile dell’idea liberale e la condizione indispensabile per una democrazia liberale
pienamente sviluppata. Anche la dichiarazione di guerra alla paura pronunciata da
Franklin Delano Roosevelt si basava su un assunto analogo.
La libertà di scelta va di pari passo con infiniti e innumerevoli rischi di insuccesso;
molte persone possono considerare tali rischi insopportabili, scoprendo o sospettando
che siano superiori alla loro personale capacità di affrontarli. Per la maggior parte
delle persone, la libertà di scelta rimarrà un fantasma sfuggente e un sogno ozioso,
a meno che la paura della sconfitta non venga attenuata da una polizza assicurativa
sottoscritta a nome della comunità, una polizza di cui fidarsi e su cui fare affidamento
in caso di disgrazia. Finché questa libertà rimarrà un fantasma, il dolore della disperazione
sarà sormontato dall’umiliazione della sventura; d’altronde, la capacità, messa quotidianamente
alla prova, di affrontare le sfide della vita, è quella stessa officina dove viene
forgiata la fiducia in se stessi.
Senza un’assicurazione garantita dalla collettività, i poveri e i pigri (e più in
generale i deboli in bilico sulla soglia dell’esclusione) non hanno alcuno stimolo
che li spinga a impegnarsi politicamente, e certamente neanche a partecipare al gioco
democratico delle elezioni. È improbabile che arrivi qualche salvezza da uno Stato
politico che non sia anche, e che rifiuti di diventare, uno Stato sociale. Senza diritti
sociali per tutti, un gran numero di persone – e un numero destinato a crescere –
troveranno i loro diritti politici inutili e non meritevoli di considerazione. Se
i diritti politici sono necessari per instaurare i diritti sociali, i diritti sociali sono indispensabili per mantenere in funzione i diritti politici. Ognuno dei due ha bisogno dell’altro per sopravvivere, e possono sopravvivere solo
se vengono ottenuti congiuntamente.
La storia dimostra che a ogni estensione del suffragio le società hanno fatto un passo
avanti verso uno Stato sociale generalizzato, «completo», anche se quella destinazione
finale non era inizialmente prevista e ha avuto bisogno di molti anni e numerose leggi,
aspramente contestate ma sempre più ambiziose, perché i suoi contorni diventassero
visibili. A mano a mano che aumentava il numero di categorie della popolazione a cui
venivano concessi i diritti elettorali, l’«elettore medio», quello sulla cui soddisfazione
i partiti politici dovevano puntare per poter vincere, si spostava costantemente verso
i settori relativamente più poveri della compagine sociale. Ad un certo punto, inevitabilmente
anche se piuttosto inaspettatamente, si verificò una svolta decisiva: venne varcata
la linea che separava coloro che cercavano i diritti politici per essere sicuri che
i diritti personali di cui già godevano non venissero soppressi o alterati, da coloro che avevano bisogno dei diritti politici
per ottenere i diritti personali che non avevano ancora, e che, se avessero ottenuto i diritti
personali (o anche politici) senza ottenere anche i diritti sociali, li avrebbero trovati inutilizzabili.
A quel punto, la posta del gioco politico subì un cambiamento paragonabile a un vero
e proprio spartiacque. Dal compito di adattare le istituzioni e le procedure politiche alle realtà sociali già esistenti, la democrazia
moderna passò al compito di impiegare le istituzioni e le procedure politiche a riformare le realtà sociali. Si spostò, in altre parole, dal compito di conservare l’equilibrio delle forze sociali a quello di cambiarlo. Paradossalmente, si trovò ad affrontare l’impresa di invertire la sequenza fino
ad allora seguita; il superamento di questa soglia si tradusse in un compito sconosciuto
e fino ad allora mai affrontato: utilizzare i diritti politici per creare e garantire i diritti personali, invece di limitarsi a confermarli e a formalizzarli. Invece di crescere a partire da una «società civile» già formata
e desiderosa di procurarsi uno scudo politico, l’entità statale nella sua nuova forma
di «Stato sociale» affrontava il compito di gettare le fondamenta della società civile
o di estenderle per accogliere quelle parti della società dove fino a quel momento
era stato assente.
Le paure specificamente moderne sono nate durante la prima ondata di deregolamentazione-più-individualizzazione,
nel momento in cui le affinità interumane e i legami di vicinato, saldamente tenuti
insieme dai nodi comunitari o corporativi, in apparenza eterni ma che comunque sopravvivevano
da tempo immemorabile, si sono allentati o spezzati. La modalità di gestione della
paura tipica della modernità solida tendeva a sostituire i legami «naturali» danneggiati
in modo irreparabile con i loro equivalenti artificiali sotto forma di associazioni,
sindacati e collettività part-time ma quasi permanenti tenute assieme da interessi
condivisi e da routine quotidiane; la solidarietà doveva affermarsi a partire dall’appartenenza, in quanto principale scudo contro un destino sempre più dominato dal caso.
La scomparsa della solidarietà ha segnato la fine di quella modalità di gestione della
paura tipica della modernità solida. Ora tocca alle protezioni moderne, artificiali,
amministrate, a essere allentate, smantellate o comunque distrutte. L’Europa, la prima
ad essersi sottoposta alla revisione generale tipica della modernità e la prima a
percorrere l’intero spettro delle sue conseguenze, ora sta attraversando, proprio
come gli Stati Uniti, la «fase due della deregolamentazione-più-individualizzazione»,
anche se questa volta non lo fa per sua scelta, ma soccombendo alla pressione di forze
globali che non può più controllare o sperare di tenere a freno.
A questa seconda deregulation, tuttavia, non hanno fatto seguito nuove forme societarie di gestione della paura;
il compito di far fronte alle paure derivanti dalle nuove incertezze è stato, come
le paure medesime, deregolamentato e «sussidiarizzato», cioè lasciato alle iniziative
e agli sforzi locali, e in larga misura privatizzato, trasferito in gran parte alla
sfera della «politica della vita», cioè lasciato nel suo complesso alla cura, all’ingegno
e all’astuzia degli individui, e ai mercati, risolutamente ostili ed efficacemente
impegnati a opporsi a tutte le forme di interferenza, e ancor più di controllo, da
parte del pubblico (ossia, della politica).
Quando la competizione prende il posto della solidarietà, gli individui si ritrovano
abbandonati alle proprie risorse, penosamente esigue e palesemente inadeguate. La
dissipazione e la decomposizione dei legami collettivi li ha resi, senza chiedere
il loro consenso, individui de jure, anche se ciò che imparano dalle loro scelte di vita è che praticamente tutto, nella
situazione odierna, concorre a impedire loro di raggiungere l’agognato modello di
individui de facto. Un divario enorme (e da quello che possiamo vedere sempre più largo) separa la quantità
e la qualità delle risorse necessarie per riuscire a produrre una sicurezza «fai-da-te»
ma garantita, affidabile e un’autentica libertà dalla paura, dall’insieme dei materiali,
degli strumenti e delle capacità che la maggior parte degli individui può ragionevolmente
sperare di acquisire e mantenere.
Robert Castel segnala il ritorno delle classi pericolose11. Ma è il caso di osservare che le somiglianze tra il primo e il secondo avvento di
queste classi sono tutt’al più parziali.
Le «classi pericolose» originali erano formate da surplus di popolazione temporaneamente
esclusi e non ancora reintegrati, che l’accelerazione del progresso economico aveva
privato di una «funzione utile», mentre la sempre più rapida polverizzazione delle
reti di legami li aveva privati di protezione; ma si sperava, col tempo, di poterle
reintegrare, cancellando il loro risentimento e accettando le loro pretese di partecipare
all’«ordine sociale». Le nuove «classi pericolose», invece, sono quei gruppi sociali
comunemente ritenuti inadatti a essere reintegrati e dichiarati inassimilabili, in quanto non si può concepire
nessuna funzione utile da far loro svolgere dopo la «riabilitazione». Non sono soltanto
classi in eccesso, ma anche superflue, escluse in via permanente, uno dei pochi casi di «permanenza» non solo consentiti, ma anche attivamente incoraggiati
dalla modernità liquida. L’esclusione oggi non è percepita come l’esito di una cattiva
sorte momentanea e rimediabile, trasuda un’aria di sentenza inappellabile. Sempre
più spesso, oggi, l’esclusione tende a essere una strada a senso unico (e a essere
percepita come tale). Una volta bruciati, i ponti molto difficilmente verranno ricostruiti.
È l’irrevocabilità della loro esclusione e le scarse possibilità di ricorrere in appello contro la sentenza
che trasformano gli esclusi contemporanei in «classi pericolose».
L’irrevocabilità dell’esclusione è una conseguenza diretta, anche se imprevista, della
decomposizione dello Stato sociale in quanto ragnatela di istituzioni consolidate,
ma forse in modo ancor più significativo in quanto ideale e progetto mediante cui
giudicare la realtà e incitare all’azione. Il degrado dell’ideale e il deperimento
e il declino del progetto preannunciano d’altronde la scomparsa delle opportunità
di redenzione e la revoca del diritto di appello, e di conseguenza anche il graduale
dileguamento della speranza e l’affievolimento della volontà di resistere. Non avere
un posto di lavoro viene sempre più percepito come uno stato di «esubero» (essere
scartati, etichettati con il marchio di superflui, inutili, non impiegabili e condannati
a rimanere «economicamente inattivi») invece che come una condizione di «disoccupazione» (con il termine che indica un allontanamento dalla norma, che è quella
dell’«essere occupato», un disturbo temporaneo che può e deve essere curato). Essere senza lavoro significa
poter essere smaltiti, forse essere già smaltiti una volta per tutte, assegnati agli
scarti del «progresso economico», quel cambiamento che si riduce in ultima istanza
nel fare lo stesso lavoro e nell’ottenere gli stessi risultati economici ma con meno
personale e con «costi del lavoro» più bassi di prima.
Soltanto una linea sottile separa oggi i disoccupati, in modo particolare i disoccupati
di lungo periodo, dal buco nero della «sottoclasse»: uomini e donne che non rientrano
in nessuna suddivisione sociale legittima, individui lasciati fuori dalle classi e
che non possiedono nessuna delle funzioni riconosciute, approvate, utili e indispensabili
svolte dai membri «normali» della società; persone il cui apporto alla vita della
società è nullo, delle quali la società potrebbe fare a meno e dalle quali guadagnerebbe
sbarazzandosene.
Non meno tenue è la linea che separa i «superflui» dai criminali: la «sottoclasse»
e i «criminali» non sono altro che due sottocategorie degli esclusi, dei «socialmente
inadatti» o addirittura degli «elementi antisociali», diversi gli uni dagli altri
più per la classificazione sociale e per il trattamento ricevuto che per l’atteggiamento
e la condotta. Proprio come le persone senza lavoro, i criminali (cioè quelli messi
in prigione, incriminati e in attesa di giudizio, sotto il controllo della polizia,
o semplicemente schedati dalla polizia) non sono più visti come esclusi momentaneamente
dalla vita sociale normale e destinati a essere «ri-educati», «riabilitati» e «restituiti
alla comunità» alla prima occasione, ma come individui emarginati in via permanente,
inadatti a essere «riciclati socialmente» e destinati a rimanere a lungo lontano dai
guai, separati dalla comunità dei cittadini rispettosi della legge.